G. W. F. Hegel (1770-1831) – Riconoscere la ragione come la rosa nella croce del presente. Tale riconoscimento razionale è la riconciliazione con la realtà che la filosofia consente a coloro che hanno avvertito l’interna esigenza di comprendere e di mantenere la libertà soggettiva in ciò che è sostanziale.

Hegel 010

cop, Lineamenti di filosofia del diritto 1

«Riconoscere la ragione come la rosa, nella croce del presente, e quindi godere di questa – tale riconoscimento razionale è la riconciliazione con la realtà, che la filosofia consente a quelli, i quali hanno avvertito, una volta, l’interna esigenza di comprendere e di mantenere, appunto, la libertà soggettiva in ciò che è sostanziale, e al modo stesso, di stare nella libertà soggettiva, non come in qualcosa di individuale e di accidentale, ma in qualcosa che è in sè e per sé. Questo, anche, costituisce il significato concreto di quel che sopra è stato designato astrattamente come unità di forma e di contenuto: poiché la forma, nella sua più concreta significazione, è la ragione, quale conoscenza che intende, e il contenuto è la ragione, quale essenza sostanziale della realtà etica, come della realtà naturale; l’identità cosciente delle due è l’idea filosofica».

Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Prefazione a Lineamenti di filosofia del diritto. Diritto naturale e scienza dello Stato in compendio, Laterza, Bari-Roma 1979, p. 19.


Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) – Nulla di grande si realizza nel mondo senza passione
Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) – Il soffrire dell’uomo che non ha riflessione sul proprio destino è senza volontà, poiché egli onora il negativo, i limiti, solo nella forma della loro esistenza giuridica e autoritaria come insormontabili, e prende le proprie determinatezze e le loro contraddizioni come assolute.
Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) – L’amore esclude ogni opposizione, non è nulla di limitante, nulla di limitato, nulla di finito. Nell’amore si trova la vita stessa. Negli amanti non vi è materia, essi sono un tutto vivente. L’amore si sdegna di ciò che è ancora separato. Un animo puro non si vergogna dell’amore, ma si vergogna che esso sia incompleto. L’amore è più forte della paura. L’amore acquista questa ricchezza di vita nello scambiare tutti i pensieri.
Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) – La filosofia non è sonnambulismo, ma piuttosto la più vigile coscienza. Attingere il proprio fine e la propria missione non dal consacrato corso delle cose esistenti.
Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) – Il quieto accontentarsi del reale si trasformi nel coraggio per qualche cosa di diverso.

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Georges Sorel (1847-1922) – La filosofia non è che un riconoscimento degli abissi entro i quali si svolge il sentiero che la gente volgare segue con la serenità dei sonnambuli. Nell’anima di ogni uomo vi è un fuoco metafisico che riposa nascosto sotto la cenere. L’evocatore è colui che rimuove le ceneri e fa sprigionare la fiamma.

Georges Sorel 001
Sorel_Scritti politici

Scritti politici

«[…] la filosofia non è che un riconoscimento degli abissi entro i quali si svolge il sentiero che la gente volgare segue con la serenità dei sonnambuli. La mia ambizione è di poter qualche volta risvegliare delle vocazioni. C’è probabilmente nell’anima di ogni uomo un fuoco metafisico che riposa nascosto sotto la cenere e che tanto più minaccia di estinguersi quanto più lo spirito ha ciecamente ricevuto una dose maggiore di dottrine bell’e fatte; l’evocatore è colui che rimuove le ceneri e fa sprigionare la fiamma. Non credo di vantarmi senza ragione dicendo che qualche volta sono riuscito a provocare presso i miei lettori lo spirito d’invenzione; ora, è soprattutto lo spirito d’invenzione che bisognerebbe suscitare nel mondo. Ottenere un tale risultato vale assai più che accogliere l’approvazione banale di coloro che sono ripetitori di formule o che riducono il loro pensiero al servizio delle dispute di scuola».

Georges Sorel, Lettera a Daniel Halévy, del 15 luglio 1907: in Georges Sorel, Scritti politici. Riflessioni sulla violenza. Le illusioni del progresso. La decomposizione del marxismo, Utet, Torino 2006.



Copertina Da Capo senza fine

Alessandro Monchietto

Da capo senza fine. Il marxismo anomalo di Georges Sorel

Presentazione di Vittorio Morfino

indicepresentazioneautoresintesi

La funzione fondamentale di un’immagine del mondo è quella di costituire l’orizzonte ultimo – irraggiungibile, ma allo stesso tempo inaggirabile – rispetto al quale si definisce ogni condotta pratica. È l’immaginario di volta in volta adottato a definire i limiti e i confini di ciò che rientra nel nostro potere d’azione, di ciò che si può modificare e di ciò che, invece, è percepito come semplicemente fatale.

Uno dei filosofi che più fecondamente seppe dedicare il proprio itinerario intellettuale all’analisi di tale plesso tematico fu Georges Sorel. Elaborando la nozione di mito, Sorel intendeva creare uno strumento in grado di «legare» una comunità, per quanto minoritaria, fornendo a essa identità e coesione. A suo dire la macchina mitologica doveva produrre un «senso comune» – quel sentire che non deve essere identificato con la capacità che tutti gli uomini possiedono, ma con il senso che fonda la comunità – il quale fosse in grado di orientare (in modo quasi irriflesso) la prassi politica delle classi dominate.

Sorel fu uno dei pochissimi pensatori marxisti che cercarono di disgiungere il principio del progresso da quello dell’emancipazione; a partire da tali suggestioni soreliane il saggio mira a sviluppare la tesi secondo cui il principio ideologico del progresso e il principio filosofico dell’emancipazione debbano essere non solo distinti, ma separati, evidenziando la necessità di abbandonare il primo senza rinunciare a una prospettiva emancipativa.

 

 

Presentazione

                                        di   Vittorio Morfino

In un passaggio del Quaderno 4 Gramsci scrive a proposito di Sorel:

occorre ristudiare Sorel, per cogliere, al di sotto delle incrostazioni parassitarie deposte sul suo pensiero dagli ammiratori dilettanti e intellettuali, ciò che vi è di più essenziale e permanente1.

Gramsci scrive queste righe agli inizi degli anni Trenta. Tra le incrostazioni parassitarie che sono state ‘deposte’ sul pensiero di Sorel forse la più importante è quella di Mussolini che ne ha fatto un pensatore proto-fascista, mossa che deve aver pesato come una pietra tombale se Althusser in una lettera scritta a Franca Madonia a metà degli anni Sessanta può aver scritto che «chez nous on connait seulement de Sorel qu’il a inspiré Mussolini»2.

Di un tipo di lettura di questo genere è di nuovo Gramsci a fornirci una critica estremamente chiara:

Nella «Critica Fascista» del 15 settembre 1933 Gustavo Glaesser riassume il recente libro di Michael Freund (Georges Sorel. Der revolutionäre Konservatismus, Klostermann Verlag, Francoforte am Main, 1932) che mostra quale scempio possa fare un ideologo tedesco di un uomo come Sorel. È da notare che, se pure Sorel possa, per la varietà e incoerenza dei suoi punti di vista, essere impiegato a giustificare i più disparati atteggiamenti pratici, tuttavia è innegabile nel Sorel un punto fondamentale e costante, il suo radicale «liberalismo» (o teoria della spontaneità) che impedisce ogni conseguenza conservatrice delle sue opinioni3.

Dello spontaneismo di Sorel Gramsci fece una precisa e misurata critica4, nulla a che vedere con le condanne generiche e senza appello di Lukács nella Distruzione della ragione e di Sartre nella prefazione ai Dannati della terra di Frantz Fanon: irrazionalismo e apologia della violenza, di nuovo: protofascismo!

Il libro di Alessandro Monchietto ci permette di andare al di là di questi pregiudizi, fornendoci una chiara e dettagliata ricostruzione del pensiero di questo autore la cui importanza è innegabile per la storia del marxismo a cavallo del Novecento. Tuttavia, la ricostruzione storica del contesto e delle relazioni culturali e politiche è accompagnata dallo sforzo teorico di mettere in luce gli elementi fondamentali che conferiscono coerenza ad un pensiero che si presenta ad un primo sguardo come frammentario e ondivago.

Monchietto ci propone la seguente periodizzazione:

il periodo del socialismo ortodosso che va dal 1893 al 1897;

il periodo del revisionismo dal 1898 al 1903;

quello più conosciuto, il cui centro sonole Riflessioni sulla violenza, dal 1904 al 1919;

infine gli ultimi anni, 1919-1922.

Questo percorso, osservato da lontano, presenta continuità e discontinuità: il merito di Monchietto è quello di andare oltre questi piatti schematismi per mostrarci la complessità del pensiero di Sorel, mettendo in rilievo come alcuni centri di interesse acquistino peso e colorazione differente nei diversi periodi. Così il rilievo dato ai fattori sovrastrutturali, l’interesse per il cristianesimo primitivo come modello di una rivoluzione totale, la separazione tra le classi ed il proletariato concepito come forza giuridica e morale nuova, la fondazione psicologica degli eventi sociali, costituiscono, come suggerisce Monchietto, temi che accompagnano l’intero percorso di Sorel, e tuttavia entrano ogni volta in modo originale nella sua strategia. Stesso discorso può essere fatto per le fonti, Marx fra tutte, ma anche Vico e Bergson, verso cui Sorel evidenzia un rapporto di estrema libertà: esse sono usate, giocate l’una sull’altra, talvolta l’una contro l’altra, tuttavia sempre al servizio del proprio cammino di pensiero e mai come autorità o garanzia.

Monchietto sottolinea come il primo periodo sia dominato da un interesse scientifico per il marxismo in cui ha un ruolo fondamentale la polemica antipositivistica: Sorel rifiuta ogni piatto determinismo che traduca in schemi puramente meccanicistici la realtà storico-sociale, per pensare il materialismo storico come una teoria materialista della sociologia. La realtà sociale non deve essere concepita come sistema impersonale, ma come ambiente artificiale trasformato dall’homo faber in quanto lavoratore sociale. Se Durkheim pensa l’ambiente come persona nazionale pietrificandone di fatto la realtà, il marxismo, attraverso il concetto di lotta di classe, introduce nell’ambiente il movimento.

Il marxismo diviene allora scienza di un cambiamento sociale non governato da un telos, da un fatale progresso determinato dalla struttura economica, ma scienza del campo d’azione di uno scontro di classe che non si svolge solo sul terreno economico, ma, certo a partire da esso, su quello giuridico: la lotta di classe è lotta di diritto contro diritto, lotta per la conquista di diritti della classe operaia, conquista a cui è legata la questione fondamentale dell’educazione delle masse come preparazione di un ordine nuovo in cui il proletariato sappia ergere il proprio interesse a interesse pubblico: questa educazione non nasce da idee astratte imposte alle masse, ma deve avere per base le stesse abitudini di fabbrica, dando luogo ad associazioni operaie che si sottraggono ad una mera finalità materiale o di resistenza. Si tratta, attraverso i sindacati, di creare una nuova visione del mondo radicalmente separata da quella borghese, coltivando i sentimenti di giustizia nelle masse operaie.

Dentro questo quadro Sorel pensa il socialismo in termini gradualistici, come sostituzione progressiva di una forma giuridica ad un’altra, e, attraverso questa, di un mondo di valori ad un altro: la rivoluzione sociale è pensata in questo periodo come lenta e profonda trasformazione dei costumi dal basso, in antitesi tanto con il determinismo socialista che la pensa in termini meccanici, quanto con l’astratto utopismo che la vuole imporre dall’alto, quanto con il giacobinismo che vuole imporre l’astratta virtù contro i costumi storici. Le istituzioni proletarie agiscono dal basso, lo sciopero crea una libera solidarietà che crea un nuovo diritto, una nuova morale e, con ciò, nuovi rapporti di produzione. Da qui nasce il rifiuto soreliano di ogni gerarchia, l’affermazione della superiorità delle istituzioni proletarie su quelle borghesi, la preferenza accordata alle Trade unions inglesi, che subordinano la politica alle istituzioni del proletariato, rispetto alla socialdemocrazia tedesca, in cui invece il socialismo avanza attraverso l’istituzione parlamentare. È in questo quadro che emerge nel pensiero di Sorel il concetto di scissione accompagnato dal riferimento storico al cristianesimo primitivo e al suo atteggiamento catacombale.

Su questi temi e problemi si inserisce l’interesse per Vico da cui Sorel trae gli strumenti concettuali per leggere in modo nuovo Marx. Si tratta di un Vico pensato in modo estremamente libero, un Vico di cui è lasciato cadere l’aspetto provvidenzialistico, la storia ideale eterna, per accentuare, nel quadro del materialismo storico, le determinazioni culturali delle classi sociali: il socialismo non può nascere dall’esclusiva evoluzione delle forze produttive, ma dall’evoluzione psicologica delle classi lavoratrici. E qui Sorel sottolinea un limite della riflessione vichiana che ha pensato l’evoluzione della coscienza secondo un piano unico, mentre in realtà le evoluzioni si producono in tutte le epoche e sono mescolate nella società nel modo più confuso, cosicché questa non è pensabile come blocco omogeneo, ma come ‘viluppo’ e ‘incrocio’: su questi complessi intrecci agiscono le condizioni economiche e i rapporti sociali, favorendo certi sviluppi piuttosto che altri. Ma in Vico Sorel trova anche altri temi che rafforzano e arricchiscono il percorso precedente: la valorizzazione della consuetudine (che viene dal basso) contro la legge (imposta dall’alto), la riconduzione delle leggi di evoluzione del diritto a quelle di evoluzione del linguaggio, l’importanza dell’aspetto prelogico, emozionale, fantastico nell’organizzazione sociale. Con questi nuovi strumenti Sorel si scaglia contro l’ortodossia marxista e il suo fatalismo economico-rivoluzionario, nel tentativo di separare da questo l’autentico pensiero di Marx: il marxismo infatti non può essere una filosofia della storia, non può predire il corso della storia deducendolo logicamente.

Tuttavia, questo tentativo di salvare Marx dal marxismo ortodosso, lascia spazio, nella periodizzazione di Monchietto, ad una revisione del pensiero di Marx operata sulla scorta di Bernstein. Si tratta di rinunciare allora ad ogni determinismo economico, dominante nel marxismo francese e non solo, che conduce ad una concezione catastrofista della storia. Il fatalismo marxista nasce secondo Sorel da una falsa ipotesi di carattere scientifico, da una storia pensata per stadi di sviluppo: la necessità del futuro non è per Sorel che la falsa veste scientifica dell’utopia. Da qui l’attacco al materialismo dialettico come falsificazione in senso deterministico del marxismo, e da qui la critica a Engels, Kautsky e Plekhanov i quali hanno trasformato in leggi storiche quelle che in Marx erano indicazioni per l’azione: il rifiuto della rivoluzione come colpo di mano di pochi. La storia per Sorel non può essere dedotta logicamente perché essa è il campo d’azione della libertà e del caso (hazard), perché le rivoluzioni, le accumulazioni di fatti decisivi, i grandi uomini, si sottraggono ad ogni visione deterministica, perché l’emergenza di fasi nuove non si può prevedere, perché, ancora, «il concatenarsi di potenti fattori produce risultati di nuovo genere»5.

In questa fase è interessante il rapporto che Sorel instaura con Hegel: da una parte egli rifiuta in modo radicale l’idea di Weltgeschichte come giudizio universale intramondano, le cui epoche non sono che tappe preparatorie al fine ultimo, al regno della libertà (di cui Marx non avrebbe fatto altro che fornire la versione materialista), dall’altro riprende il concetto di società civile come intreccio dell’elemento economico, giuridico e politico, in cui le contraddizioni non sono semplici antagonismi passivi, ma condizioni attive (spirituali, giuridiche, politiche), attraverso cui è possibile costruire una concezione del socialismo come ‘integrale visione della storia’ non guidata da forze impersonali, ma da forze collettive operanti.

Attraverso la ricostruzione di questo percorso Monchietto giunge all’esposizione del Sorel più noto, quello delle Riflessioni sulla violenza. Il rifiuto della concezione unilineare del tempo storico e dell’idea di progresso, il rifiuto delle leggi della storia conseguono dalla singolare mossa soreliana di giocare Vico (il suo Vico) contro Hegel (e il marxismo che da Hegel non ha saputo liberarsi): la storia è il campo d’azione del caso, della contingenza e dei conflitti, la storia è rinascita e decadenza, la dialettica che l’attraversa deve comprendere il movimento, ma anche l’arresto. Di qui il recupero del concetto di catastrofe non come verità ultima dello sviluppo economico, ma come mito sociale; di qui tutta una serie di coppie concettuali che risentono profondamente dell’influsso bergsoniano (e delle coppie linguaggio/intuizione e tempo spazializzato/durata): utopia/mito, giacobinismo/sciopero generale, socialdemocrazia/sindacalismo, e ovviamente, quella più celebre forza/violenza. E di nuovo il cristianesimo primitivo diviene un importante termine di paragone: così come per il cristianesimo nascente l’evento fondamentale è stata la credenza nella risurrezione, l’evento fondamentale dei tempi moderni è il mito della catastrofe rivoluzionaria che Marx ha fornito al proletariato.

Di questo percorso tracciato da Sorel attraverso i suoi scritti Monchietto ci restituisce con sensibilità storica e teorica la complessità e la profondità. Ma non di semplice ricostruzione si tratta: in realtà non è difficile percepire in tutto lo scritto il tentativo di riattivare un passato rimosso o sconfitto, un passato che possa ridivenire presente, certo, in una forma nuova. E se in questo testo ciò appare tra le righe e ai margini, lasciando il centro alla bella ricostruzione storica del pensiero di Sorel, in un altro testo dell’autore è detto in modo più aperto ed esplicito: tentare di pensare oltre la critica postmoderna di ogni filosofia del tempo unico e del progresso, che Sorel ha anticipato con grande acutezza, una filosofia della storia altra,

costruita non per ‘telos’, non per ‘compimento’, ma costruita per ‘alternative’, succedersi di alternative, succedersi di opportunità e di occasioni che al tempo stesso aprono e chiudono nuove opportunità. Una Geschichtesphilosophie senza una trazione anteriore, senza un’attrazione del fine, ma una filosofia della storia dove ci sia spazio per la contingenza e per un orizzonte di possibilità6.

1 A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 1975, p. 470.

2 L. Althusser, Lettres a Franca, édité par Y. Moulier et F. Matheron, Paris, Stock/Imec, 1998, p. 623.

3 A. Gramsci, Quaderni del carcere, cit., p. 1923.

4 Ivi, pp. 330-332. Altrettanto acuta del resto è la critica dell’antispontaneismo astratto: «Trascurare e peggio disprezzare i movimenti così detti ‘spontanei’, cioè rinunziare a dar loro una direzione consapevole, ad elevarli ad un piano superiore inserendoli nella politica, può avere spesso conseguenze molto serie e gravi. Avviene quasi sempre che a un movimento ‘spontaneo’ delle classi subalterne si accompagna un movimento reazionario della destra della classe dominante, per motivi concomitanti: una crisi economica, per esempio, determina malcontento nelle classi subalterne e movimenti spontanei di massa da una parte, e dall’altra determina complotti dei gruppi reazionari che approfittano dell’indebolimento obbiettivo del governo per tentare dei colpi di Stato. Tra le cause efficienti di questi colpi di Stato è da porre la rinunzia dei gruppi responsabili a dare una direzione consapevole ai moti spontanei e a farli diventare quindi un fattore politico positivo. […] La concezione storico-politica scolastica e accademica, per cui è reale e degno solo quel moto che è consapevole al cento per cento e che anzi è determinato da un piano minutamente tracciato in antecedenza o che corrisponde (ciò che è lo stesso) alla teoria astratta. Ma la realtà è ricca delle combinazioni più bizzarre ed è il teorico che deve in questa bizzarria rintracciare la riprova della sua teoria, «tradurre» in linguaggio teorico gli elementi della vita storica, e non viceversa la realtà presentarsi secondo lo schema astratto. Questo non avverrà mai e quindi questa concezione non è che una espressione di passività» (Ivi, pp. 331-332).

5 Infra, p. 96.

6 A. Monchietto, Per una filosofia della potenzialità ontologica, Pistoia, Petite Plaisance, 2011, p. 45.

INDICE

Presentazione

di Vittorio Morfino

 

Introduzione

Tradizione e rivoluzione

 

Capitolo I

La crisi del codice deterministico

e la genesi psicologica dei fenomeni sociali

1. L’iniziale interesse sociologico

2. Le idee giuridiche nel marxismo

3. La scoperta delle istituzioni proletarie

 

Capitolo II

Fra ortodossia ed eresia marxista

1. Vico e la «dimensione condivisa dell’immaginazione»

2. Necessità e fatalismo nel marxismo

3. «Crisi del marxismo» e revisionismo soreliano

 

Capitolo III

Il lavoro del mito: per una nuova semantica collettiva

1. Progresso e deresponsabilizzazione

2. Il ruolo catartico dell’azione e la moralità della violenza

3. Immaginari sociali e immagini motrici

 

 

Conclusione

Bibliografia

Opere di Sorel

Raccolte di testi e Antologie

Carteggio

Opere su Sorel

Altre opere consultate

 

 

Indice dei nomi e delle opere
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Alessandro Monchietto

Per una filosofia della potenzialità ontologica

indicepresentazioneautoresintesi

1. Ghostbuster
2.  La veste scientifica della speranza
3. L’“infuturamento” della filosofia hegeliana
4. Una fenomenologia della schiavitù:
l’eterno ritorno dell’uguale
5. Una storia spogliata dalla propria forma storica
6. Metamorfosi della storia in destino
7. Marx pensatore della libera individualità?
8. L’«auto-soppressione» del capitalismo
9. Un Marx disinnescato
10. Il rabdomante
11. Ritirarsi nella sfera del lasciar stare
12. Avvenire rinviato per scarsa affluenza di pubblico
13. Una filosofia dell’impotenza
14. Combattere la morta positività del mondo
15. Le illusioni del progresso
16. Variare il coefficiente di inevitabilità:
una filosofia della potenzialità ontologica
17. Conclusione

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Baruch Spinoza (1632-1677) – Agire per virtù è agire sotto la guida della ragione. Tutto ciò che ci sforziamo di fare con la ragione è comprendere. Il sommo bene dell’uomo è comune a tutti, proprio perché ciò si deduce dalla stessa essenza umana.

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Etica

«Agire per virtù è agire sotto la guida della ragione, e tutto ciò che ci sforziamo di fare con la ragione è comprendere, e perciò il sommo bene di coloro che seguono la virtù è […] il bene comune a tutti gli uomini e che da tutti può essere ugualmente posseduto in quanto sono della medesima natura

[…] Se qualcuno, poi, chiede: che cosa accadrebbe se il sommo bene di coloro che seguono la virtù non fosse comune a tutti? Non succederebbe forse che gli uomini i quali vivono sotto la guida della ragione, cioè in quanto concordano per natura sarebbero contrari gli uni agli altri? A costui si deve rispondere che non per accidente, ma dalla natura stessa della ragione nasce il fatto che il sommo bene dell’uomo sia comune a tutti, proprio perché ciò si deduce dalla stessa essenza umana in quanto è definita dalla ragione; e perché l’uomo non potrebbe essere né essere concepito se non avesse il potere di godere di questo sommo bene».

Baruch Spinoza, Etica e Trattato teologico-politico, a cura di Remo Cantoni e Franco Fergnani, Utet, Torino 1972, p. 295.


Baruch Spinoza (1632-1677) – La via che conduce al vero compiacimento dell’animo sembra estremamente difficile, può tuttavia essere trovata. E arduo, in verità, deve essere ciò che tanto raramente si trova. Ma tutte le cose eccellenti sono tanto difficili quanto rare
Baruch Spinoza (1632-1677) – All’uomo niente è più utile dell’uomo. Da questo segue che gli uomini, che siano guidati dalla ragione, cioè quelli che ricercano il proprio utile con la guida della ragione, non bramino per sé niente che non desiderino anche per gli altri, e perciò sono giusti, onesti e fedeli.
Baruch Spinoza (1632-1677) – La Letizia è il passaggio dell’uomo da una minore ad una maggiore perfezione. La Tristezza è l’atto del passare ad una minore perfezione, cioè l’atto dal quale la potenza di agire dell’uomo viene diminuita o ostacolata.
Baruch Spinoza (1632-1677) – Di che cosa sia capace il Corpo, non è stato ancora definito da nessuno. Non sanno di che cosa il Corpo sia capace, e ciò che si possa dedurre dalla sola osservazione della sua propria natura.
Baruch Spinoza (1632-1677) – In quanto concepisce le cose secondo il dettame della ragione, la mente risente egualmente della sua idea tanto se questa sia l’idea di una cosa futura o passata, quanto se sia l’idea di una cosa presente

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George Orwell (1903-1950) – Quando vi muovete, gli occhi vi seguono. IL FRATELLO MAGGIORE VI GUARDA. Si doveva vivere presupponendo che qualsiasi rumore venisse ascoltato e qualsiasi movimento attentamente scrutato.

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Romanzi e saggi

Romanzi e saggi

 

«Era uno di quei ritratti fatti in modo che, quando vi muovete, gli occhi vi seguono. IL FRATELLO MAGGIORE VI GUARDA, diceva la scritta in basso. All’interno dell’appartamento una voce pastosa leggeva un elenco di cifre che avevano qualcosa a che fare con la produzione di ghisa grezza. La voce proveniva da una placca di metallo oblunga, simile ad uno specchio oscurato, incastrata nella parete di destra […] (si chiamava teleschermo)» (pp. 881-882).

«Si doveva vivere presupponendo che qualsiasi rumore […] venisse ascoltato e qualsiasi movimento […] attentamente scrutato» (p. 883).

«L’ideale propagandato […] era qualcosa di immenso, di terribile, di sfolgorante: un mondo di acciaio e di cemento armato, di macchine mostruose e di armi terrificanti, un popolo […] in perfetta unità di intenti, tutti pensando allo stesso modo e tutti urlanti i medesimi slogan […]» (p. 964).

George Orwell, 1984 [1949], in Romanzi e saggi, a cura di Guido Bulla, Mondadori, Milano 2000.


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La rilevazione delle impronte digitali
è prevista per ciascun cittadino di età maggiore o uguale a 12 anni.

 

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Manifesto del Grande Fratello

Manifesto del Grande Fratello, col Grande Fratello ritratto con caratteristiche somatiche comuni sia a Hitler sia a Stalin, tratto dal fumetto 1984 The comic di F. Guimont, 2004

 

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Ippocrate (460-377 a.C.) – La costante uniformità implica indolenza, mentre il mutamento implica sforzi, per il corpo e per l’anima; dalla tranquillità e dall’indolenza riceve impulso la viltà, dalla fatica e dai travagli nascono gli atti di valore.

Ippocrate 001
Arie acque luoghi

Arie acque luoghi

 

«La costante uniformità implica indolenza, mentre il mutamento implica sforzi, per il corpo e per l’anima; dalla tranquillità e dall’indolenza riceve impulso la viltà, dalla fatica e dai travagli nascono gli atti di valore».

Ippocrate, Arie acque luoghi, a cura di Luigi Bottin, Marsilio, Venezia 1986, p. 129). Cfr. anche Ippocrate, Opere, a cura di Mario Vegetti, Utet, Torino 1976.


Ippocrate  – Rido dell’uomo, pieno di stoltezza, […] che con i suoi desideri smisurati si affanna ad avere sempre di più facendo a pezzi la madre terra.


Coperta scritti ippocratici grande

Mario Vegetti

Scritti sulla medicina ippocratica

indicepresentazioneautoresintesi

ISBN 978-88-7588-225-9, 2018, pp. 416, euro 30

I saggi raccolti in questo volume ripercorrono gli ultimi cinquant’anni di ricerca ippocratica. Gli entusiasmi iniziali, ben motivati dalla “scoperta” di un grande territorio del sapere scientifico fino ad allora relativamente inesplorato, dei suoi metodi e della sua efficacia terapeutica, hanno via via ceduto in parte il campo a un più equilibrato atteggiamento critico-storico. Nel suo insieme, una lettura di questi testi può continuare ad offrire un panorama intellettuale utile a comprendere le coordinate metodiche e sociali che hanno consentito la comparsa di uno dei fenomeni più rilevanti dell’antica tradizione scientifica dell’Occidente. I saggi sono disposti in ordine cronologico, ad eccezione delle due introduzioni al volume ippocratico (1964 e 1973) che sono poste al termine per il loro carattere riassuntivo.

Sommario

 

Introduzione

Technai e filosofia nel perì technes pseudoippocratico

Il De Locis in Homine fra Anassagora ed Ippocrate

Teoria ed esperienza nel metodo ippocratico

La medicina ippocratica nella cultura e nella società greca

Nascita dello scienziato

Legge e natura nel De aëre ippocratico

Kompsoi Asklepiades.
La critica di Platone alla medicina nel III libro della Repubblica

Empedocle “medico e sofista”

Saperi terapeutici: medicina e filosofia nell’antichità

Le origini dell’insegnamento medico

Il malato e il suo medico nella medicina antica

Il pensiero ippocratico

La questione ippocratica

Nuovi orizzonti di ricerca

Indice dei nomi


Coperta 301

Mario Vegetti

Scritti sulla medicina galenica

ISBN 978-88-7588-215-0, 2018, pp. 464, Euro 35 .

indicepresentazioneautoresintesi

Il volume raccoglie i principali scritti su Galeno e sul Galenismo composti da Mario Vegetti in circa un cinquantennio di attività. La selezione dei saggi qui pubblicati è stata realizzata dall’Autore negli ultimi mesi della sua vita. A causa della sua morte, avvenuta il giorno 11 marzo 2018, l’Autore non ha potuto rivedere le bozze.

Questo libro, cui l’Autore teneva tanto, ci consente di mantenere vivo il ricordo anche di questa parte della sua opera; ecco dunque il motivo per cui siamo lieti, insieme alla sua famiglia, di offrire ai lettori, soprattutto a quelli più giovani, la presente raccolta. Per la quale, innanzitutto, dobbiamo ringraziare Mario.


Sommario

Nota preliminare di Luca Grecchi

Galenus

Introduzione a Galeno

***

Tradizione e verità. Forme della storiografia filosofico-scientifica
nel De placitis Hippocratis et Platonis di Galeno

***

I nervi dell’anima

***

Enciclopedia ed antienciclopedia: Galeno e Sesto Empirico

***

Galeno e la rifondazione della medicina

***

L’épistémologie d’Érasistrate et la technologie hellénistique

***

La psicopatologia delle passioni nella medicina antica

***

Historiographical strategies in Galen’s physiology
(De usu partium, De naturalibus facultatibus)

***

De caelo in terram. Il Timeo in Galeno
(De placitis Hippocratis et Platonis, Quod animi mores corporis temperamenta sequuntur)

***

Il confronto degli antichi e dei moderni in Galeno

***

Galeno

***

Corpo e anima in Galeno

***

Corpo, temperamenti e personalità in Galeno

***

Galeno, il “divinissimo” Platone e i platonici

***

Fra Platone e Galeno: curare il corpo attraverso l’anima, o l’anima attraverso il corpo?

***

I nuovi testi di Galeno: tra epistemologia e storia della cultura

***

Indice dei nomi



 
Luca Grecchi – Mario Vegetti: un ricordo personale e filosofico
Silvia Fazzo – Grazie Mario Vegetti! Per la lucidità luminosa delle tue intuizioni. Amavi la vita per tutto ciò che ha di più vero. Hai formato una intera generazione di allievi e di allievi degli allievi.

 

logo casa della cultura

ADDIO A MARIO VEGETTI

Ricordano l’amico e il protagonista della Casa della Cultura: Ferruccio Capelli, Mauro Bonazzi, Fulvio Papi, Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri, Salvatore Veca


Ricordo di Mario Vegetti – Rai Filosofia

 Addio a Mario Vegetti, l’utopia di Platone e i suoi chiaroscuri – La Stampa

Mario Vegetti,  filosofo studioso di Platone – Corriere della Sera


Altri libri

di Mario Vegetti

 

 

 

289 ISBN

Mario Vegetti

Il coltello e lo stilo

Animali, schiavi, barbari e donne alle origini della razionalità scientifica

Petite Plaisance, ISBN 978-88-7588-228-0, 2018, pp. 192, Euro 20

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«La stagione culturale cui appartiene Il coltello e lo stilo va certo messa in contesto ma non può venire rimossa né esser soggetta ad alcuna damnatio memoriae; può anzi darsi che essa continui a restarci indispensabile, tanto sul piano intellettuale quanto appunto su quello dell’ethos».

Mario Vegetti

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Premessa alla nuova edizione del 2018

 Il coltello e lo stilo fu pubblicato nella primavera del 1979. Fin dalla sua comparsa, suscitò un vivace interesse, non solo, e non tanto, fra gli specialisti di antichistica, quanto presso un pubblico composito di lettori che frequentavano i territori che allora si chiamavano “cultura critica”: epistemologia, antropologia, psicoanalisi, ed eventualmente movimenti come quello femminista e animalista. Ne uscirono naturalmente diverse interpretazioni del senso e degli intenti del libro (dalla critica irrazionalistica ai fondamenti “violenti” della scienza, a una rivisitazione moderata di Foucault).
Nell’introduzione all’edizione del 1996, riprodotta in questo volume, ho tentato di delineare le coordinate culturali entro le quali Il coltello e lo stilo era stato concepito, e di indicare un punto di vista d’autore sulla collocazione del libro. Ha fatto però bene l’editore a ristampare qui la prima edizione, quella del 1979. Da un lato, questo restituisce ai primi lettori la possibilità di un rinnovato incontro con il testo; dall’altro, e soprattutto, consente a nuovi lettori l’accesso alla forma originale del libro ormai da gran tempo esaurita. Non è immotivato pensare che questa ristampa possa apparire a qualcuno come una riscoperta, e ridestare almeno in parte l’interesse e la discussione così vivaci tanti anni or sono. Se così fosse, potremmo augurare “bentornato” al Coltello e lo stilo.

Mario Vegetti

Febbraio 2018



Quarta di copertina

 

008   Il coltello, makhaira: che incide il corpo dell’animale sull’altare del sacrificio, nella bottega del macellaio, sul tavolo dello scienziato anatomista. La conoscenza dell’animale, ottenuta grazie al coltello anatomico, fonda nella scienza greca al tempo stesso una classificazione, a partire da Aristotele, e una medicina razionale, che culmina in Galeno. La ragione scientifica antica segue il trattato della dissezione anatomica: essa è in grado di classificare le varietà dell’umano – la donna, il barbaro, lo schiavo – con la precisione e la verità di cui l’anatomia è modello. Seguendo il percorso della ragione anatomica, questo libro tenta al tempo stesso di ricostruire un’anatomia della ragione, nei modi della sua genesi e della sua crescita: la traccia di una polarità fra homo sapiens e homo necans, fra il coltello dell’anatomo e lo stilo con cui si scrivono i trattati della scienza. Lo stilo, grapheion – cioè la scrittura, il trattato, la scuola: con questi strumenti e in questi luoghi il sapere della zoologia, dell’anatomia, dell’antropologia si organizza, si accumula, si predispone al commento. Il coltello e lo stilo segnano dunque uno del tragitti lungo i quali si è durevolmente snodata la razionalità scientifica europea.

 

 

Indice

Premessa alla nuova edizione

Introduzione alla seconda edizione

Nota preliminare

Avvertenza

Capitolo I
Animale, vivo o morto
Classificazione e razionalità scientifica

***

Capitolo II
Neutralizzazioni
Verità dell’anatomia, genesi della teoria

***

Capitolo III
Classificare gli uomini
Che cos’è un uomo
Che cos’è un vero uomo
Razze di uomini
Un animale lunare

***



291 ISBN

Mario Vegetti

Tra edipo e Euclide. Forme del sapere antico

ISBN 978-88-7588-227-3, 2018, pp. 208, Euro 20

indicepresentazioneautoresintesi

 

L’Edipo re di Sofocle e gli Elementi di Euclide costituiscono in un certo senso i confini entro i quali si svolge il percorso della razionalità antica. La tragedia del V secolo è anche un conflitto drammatico di saperi: quello profano e indagatore di Edipo, quelli sacri di Apollo e Tiresia, quello critico e sfuggente di Giocasta. All’opposto, il trattato euclideo propone l’idea di una scienza pacificata, senza conflitti e soggettività, tutta affidata al potere della dimostrazione. Tra questi limiti, il libro indaga una costellazione di forme del sapere antico, con i loro valori antropologici: dalle metafore politiche della medicina ippocratica a un oggetto scientificamente disturbante come la scimmia, dal problema del bambino cattivo nell’antropologia stoica alla zoologia immaginaria di Plinio. Il confronto tra l’idealismo di Galeno e la sfida materialistica proposta dalla medicina metodica, e l’indagine sugli stili epistemologici della scienza ellenistica concludono i saggi raccolti nel volume.

 

Sommario

 

Introduzione

Premessa

Avvertenza

La questione dei metodi: una nota preliminare

Forme del sapere nell’Edipo re

Metafora politica e immagine del corpo nella medicina greca

L’animale ridicolo

Passioni e bagni caldi. Il problema del bambino cattivo nell’antropologia stoica

Lo spettacolo della natura. Circo, teatro e potere in Plinio

Modelli di medicina in Galeno

Una sfida materialistica. La polemica di Galeno contro la medicina metodica

La scienza ellenistica: problemi di epistemologia storica

Indice dei nomi

 


Coperta cuore sangre cercello

Paola Manuli – Mario Vegetti

Cuore, sangue e cervello.
Biologia e antropologia nel pensiero antico. In Appendice:
Galeno e l’antropologia platonica.

indicepresentazioneautoresintesi

La questione del ruolo da assegnare nell’organismo al cuore, al sangue e al cervello, e in particolare di stabilire a quale, o quali, di essi tocchi il rango di principio egemone, la signoria nell’organismo stesso, sta al centro di una delle vicende più tormentate della storia della biologia greca. Il suo interesse va oltre quello della genesi di una teoria biologica, l’encefalocentrismo, che pure avrebbe consegnato al sapere occidentale tutta una serie di certezze durevoli e di importanza fondamentale. Questa vicenda è un caso tipico, metodologicamente esemplare delle questioni connesse alla storia della scienza antica, e più in generale alle fasi di gestazione di una teoria scientifica: in essa elementi e vettori exstrascientifici si compongono in un intreccio indissolubile con i “dati” positivi e pilotano la stessa costruzione della teoria.
Qui ogni decisione presa all’interno del discorso biologico circa il “principio” dell’organismo interagisce con le esigenze di una psicologia e di una antropologia le quali, di norma, si costruiscono al di fuori di quel discorso, e in ogni caso rappresentano istanze ideologiche molto più generali, concezioni complessive sull’uomo, sulla società, sul mondo.

Riccardo Chiaradonna – «Cuore, sangue e cervello» è insieme una ricerca sulle teorie mediche antiche e sui loro fondamenti metodologici. ed epistemologici


Coperta scritti con la mano sinistra

Mario Vegetti

Scritti con la mano sinistra

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Questi testi si caratterizzano per la loro coerenza, nei suoi aspetti di insistenza e resistenza. Insistenza, nel senso di continuare tenacemente a porre problemi e domande, senza variare disinvoltamente il punto di vista da cui l’interrogazione viene posta, rifiutando la convinzione secondo la quale sconfitte storiche sono di per sé la prova di errori nella teoria. E resistenza: che significa accettare i mutamenti imposti dalla riflessione e dalle cose stesse su cui ci si interroga, ma invece rifiutare pentitismi compiacenti, cedimenti corrivi alle mode correnti o alle “luci della ribalta”; restare fedeli, insomma, a ciò che di noi hanno fatto la nostra storia intellettuale e morale e la nostra collocazione.
Scritti con la mano sinistra, appunto. Nel doppio senso che si tratta, da un lato, di scritti marginali, parerga, rispetto al mio impegno professionale di studioso della filosofia antica; dall’altro, di scritti che rispecchiano più direttamente la mia collocazione politica, la mia presa di partito (la scelta “da che parte stare”). “A sinistra”, dunque. Una posizione alla quale mi consegnano la mia tradizione familiare, il mio percorso intellettuale e morale, la mia convinzione di un futuro possibile alternativo alla barbarie che attraversa il nostro tempo e ne minaccia l’orizzonte. E la stessa tensione razionale, lo stesso sforzo di comprensione e argomentazione, ispirano e sorvegliano (o almeno dovrebbero sorvegliare) sia il lavoro di ricerca sia la “presa di partito” che coinvolge l’uomo prima che il ricercatore.
Il libro è diviso in tre parti. Nella prima, Tra filosofia e politica, si discutono alcune problematiche filosofiche rilevanti dal punto di vista di interrogazioni che vengono, in senso lato, dalla politica. Nella seconda, Tra politica e filosofia, l’oggetto di indagine sono le prospettive della politica considerate da un punto di vista filosofico. Nella terza, Tra gli antichi e noi, si torna ad una riflessione sulla società e il pensiero dell’antichità dal punto di vista delle prospettive filosofico-politiche delineate.
Grandi interrogativi, dunque, per piccoli scritti, nell’intento di tenere aperto lo spazio dell’incertezza, di riproporre l’urgenza della riflessione, resistendo sia al cedimento di fronte all’omologazione del pensiero, sia alla rassegnazione di fronte all’estrema durezza dell’epoca. Non si tratta di un compito esclusivo del filosofo, e tanto meno dell’antichista, perché esso coinvolge la responsabilità morale e intellettuale di ognuno.


 

Il potere della verità. Saggi platonici

Il potere della verità. Saggi platonici, Carocci, 2018.


Marxismo e società antica, Feltrinelli, 1977

Marxismo e società antica, Feltrinelli

Opere di Ippocrate, UTET

Opere di Ippocrate, UTET

Ippocrate, Antica Medicina, Rusconi, 1998

Ippocrate, Antica Medicina, Rusconi

Introduzione alle culture antiche. Vol 2. Il sapetre degli antichi, Bollati Boringhieri 1992

Introduzione alle culture antiche. Il sapetre degli antichi, Bollati Boringhieri

Introduzione alle culture antiche. Vol. 3. L'esperienza religiosa antica, Bollati Borinchieri 1992

Introduzione alle culture antiche. L’esperienza religiosa antica, Bollati Boringhieri

Le opere psicologiche di Galeno, Bibliopolis

Le opere psicologiche di Galeno, Bibliopolis

Platone, La Repubbluca, Bibliopolis

Platone, La Repubblica, Bibliopolis

La Rapubblica di Platone nella tradizione antica, Bibliopolis

La Rapubblica di Platone nella tradizione antica, Bibliopolis

Galeno, Nuovi scritti autobiografici, Carocci

Galeno, Nuovi scritti autobiografici, Carocci

Dialoghi con gli antichi, Academia

Dialoghi con gli antichi, Academia

Platone, La Repubblica (Libri V-VI-VIII), Radar, 1969

Platone, La Repubblica (Libri V-VI-VIII), Radar

Platone, La repubblica, Rizzoli

Platone, La Repubblica, Rizzoli

Platone, Reoubblica, Libro 11, Lettera XIV. Socrate incontra Marx. Lo straniero di Treviri, Guida 2004

Platone, Reoubblica, Libro 11, Lettera XIV. Socrate incontra Marx. Lo straniero di Treviri, Guida

Platone. Las Repubblica, Laterza 2007

Platone. La Repubblica, Laterza

Tra Edipo e Euclide. Forme del sapere antico, Il Saggiatore

Tra Edipo e Euclide. Forme del sapere antico, Il Saggiatore

Polis e economia nella Grecia antica, Zanichelli

Polis e economia nella Grecia antica, Zanichelli

L'uomo e gli dei, Kindle Edition

L’uomo e gli dei, Kindle Edition

Guida alla lettura della Repubblica di Platone,Laterza, 2007

Guida alla lettura della Repubblica di Platone, Laterza

Quindici lezioni su Platone, Einaudi 2003

Quindici lezioni su Platone, Einaudi

Libertà e democrazia. La lezione degli antichi e la sua attualità, Ed. Casa della Cultura

Libertà e democrazia. La lezione degli antichi e la sua attualità, Ed. Casa della Cultura

Aristotele. Metafisica. Antologia, La Nuova Italia, 2001

Aristotele. Metafisica. Antologia, La Nuova Italia

Incontro con Aristotele. Quindici lezioni, Einaudi 2016

Incontro con Aristotele. Quindici lezioni, Einaudi

L'etica degli antichi, Laterza, 2010

L’etica degli antichi, Laterza

«Un paradigma in cielo». Platone politico da Aristotele al Novecento, Carocci 2016

«Un paradigma in cielo». Platone politico da Aristotele al Novecento, Carocci

Chi comanda nella città. I greci e il potere, Carocci 2017

Chi comanda nella città. I greci e il potere, Carocci

 


MARIO VEGETTI filosofi al potere – YouTube
Mario Vegetti e Mauro Bonazzi “LO SPECCHIO DI ATENE” – YouTube
Mario Vegetti: SAPERE E SAPER AGIRE: sophia e … – YouTube
Mario Vegetti “Festival Filosofia” – YouTube
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Mario Vegetti: “La filosofia e la città greca” FILOSOFIA E … – YouTube
Le domande dei non credenti – YouTube
Mario Ricciardi, Simona Forti e Mario Vegetti “il Novecento … – YouTube

 


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Marcello Cini – C’è ancora bisogno della filosofia per capire il mondo?

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Marcello Cini

C’è ancora bisogno della filosofia per capire il mondo?

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È possibile «collegare e raccordare scienza da una parte e cultura e senso comune dall’altra»?[1] Marino Badiale risponde affermativamente, argomentando che spetta alla filosofia il compito di effettuare questa mediazione attraverso una attività razionale di sintesi e di interpretazione delle idee e dei risultati della scienza. Sintesi significa, in questo contesto, «cogliere gli aspetti concettuali più significativi di una disciplina scientifica: le categorie con le quali essa organizza il suo particolare dominio di oggetti, la metodologia nella quale sintetizza il proprio concreto operare, i valori e gli scopi conoscitivi nei quali riassume il fine della propria ricerca». Interpretazione vuol dire «comprendere il significato culturale e umano di tutto questo, collegando i concetti fondamentali delle varie discipline con le altre dimensioni della cultura e dell’operare umano in una unità comprensibile e sensata». Si tratta, in definitiva, di «capire cosa la scienza stessa ci dice dell’essere umano e del mondo che egli si costruisce».

Questo è, del resto, argomenta Badiale, ciò che ha fatto la filosofia in Occidente, almeno fino a poco tempo fa: i suoi maggiori esponenti si sono posti come fine una comprensione razionale delle varie dimensioni dell’esistenza umana e della loro sintesi in una visione unitaria e armonica. Oggi, tuttavia questo obiettivo sembra diventare sempre più irraggiungibile. Due tendenze divaricanti infatti dominano da un lato la scienza e dall’altro la cultura, tanto nelle sue manifestazioni elitarie come in quelle di massa.

Da parte sua la scienza è sempre più caratterizzata da un processo esponenziale di “specializzazione parcellizzante” che esclude la possibilità di una sintesi filosofica che ne colga gli aspetti concettuali fondamentali, e vanifica dunque la ricerca di un senso complessivo per le sue azioni e i suoi fini. Al tempo stesso infatti, la filosofia, sottoposta allo stesso processo, cancella questo compito dalla sua agenda, mentre le discipline scientifiche sempre più cercano nell’autoreferenzialità della loro pratica la propria legittimazione.

La cultura di massa è a sua volta dominata dal rifiuto di «un aspetto fondamentale della tradizione filosofica occidentale» cioè della «discussione razionale sui grandi temi della vita umana: il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, il modo migliore di organizzare la vita degli esseri umani». Essa si presenta dunque come una forma di irrazionalismo diffuso, come un immane sforzo per non sapere ciò che stiamo facendo (a noi stessi e al nostro mondo).

Il procedere di questi due processi – la specializzazione parcellizzante della scienza e l’espulsione del pensiero critico dalla cultura di massa – porterebbe dunque a concludere che la riflessione filosofica di sintesi e di interpretazione inizialmente proposta è impossibile. Non resterebbe allora altro da fare, secondo Badiale, se non tentare di attestarsi su alcune linee di resistenza, nella scuola soprattutto ma anche in alcuni punti chiave all’interno delle facoltà scientifiche e delle istituzioni della ricerca, nell’attesa che la scienza diventi adulta, capace cioè di «rinunciare al desiderio infantile di onnipotenza» e di «riconoscere la propria funzione, il proprio ruolo, e quindi, contemporaneamente, il proprio valore e i propri limiti».

Dico subito che non mi riconosco interamente in questo discorso, anche se condivido molte delle argomentazioni che lo sorreggono ed alcune delle conseguenze che se ne traggono. È come se mi trovassi di fronte a una figura che, pur essendo composta da molti pezzi che mi sono familiari, finisce, per il diverso ordine con il quale vengono disposti o per l’assenza di altri che secondo me sarebbero necessari, col rappresentare un quadro diverso da quello che appare ai miei occhi.

Fuori di metafora, mi sembra per esempio che l’analisi schematicamente riassunta in precedenza dei due processi che hanno trasformato la scienza e la cultura di massa, pur rappresentandone correttamente alcuni tratti evidenti, non colga appieno la natura della profonda svolta che entrambe queste componenti fondamentali della società contemporanea hanno vissuto negli ultimi decenni del secolo appena finito. In particolare mi sembra che questa analisi parli delle norme metodologiche e dei criteri epistemologici delle diverse discipline scientifiche come se avessero una radice comune in un ideale di scienza che in ultima analisi assume la fisica come modello. Non è un caso, mi sembra, che gli esempi utilizzati abbiano tutti a che fare con questa disciplina e che le discipline della vita e della mente non siano mai nominate.

Non tiene conto, per esempio, del fatto che, via via che si attinge ai livelli più elevati di organizzazione della materia, il consenso degli scienziati sul linguaggio disciplinare considerato appropriato si indebolisce, e si assiste alla moltiplicazione dei linguaggi adottati da gruppi diversi della comunità. Questi linguaggi non sono necessariamente in contraddizione: essi corrispondono a differenti modellizzazioni del dominio fenomenologico e a differenti punti di vista (culturali, epistemoligici, tecnologici) a partire dai quali si costruiscono le categorie concettuali e i metodi pratici utilizzati per analizzare il dominio considerato. In queste discipline sarà dunque sempre più difficile inventare un “esperimento cruciale” capace di decidere chi ha ragione e chi ha torto, perché tutti i modelli sono parziali e unilaterali. Ognuno di essi è al tempo stesso “oggettivo”, perché riproduce alcune proprietà del reale, e “soggettivo” perché il punto di vista è scelto dai gruppi diversi in conflitto fra loro.

Una rappresentazione della scienza che non assuma questa varietà di punti di vista in competizione, secondo me, impedisce a sua volta di individuare la novità e la ricchezza del compito che la filosofia si trova a dover affrontare, rispetto a quello di sintesi e di interpretazione assegnato ad essa nel saggio introduttivo; un compito che del resto appare all’autore stesso impossibile da raggiungere nelle condizioni attuali.

In questo lavoro mi propongo dunque di discutere anzitutto (§ 2) la natura della svolta che ha caratterizzato la scienza nel passaggio dal XX al XXI secolo. Successivamente analizzerò rispettivamente i rapporti fra scienza ed epistemologia, rispettivamente per le discipline della materia inerte (§ 3) e per quelle della materia vivente (§ 4) e pensante (§ 5). Il § 6 è dedicato invece al rapporto fra scienza ed etica. Nelle conclusioni (§ 7) cercherò di argomentare perché sono convinto che la filosofia sia un bisogno insopprimibile della mente umana: come l’Araba Fenice risorge sempre dalle sue ceneri.

[1] Marino Badiale, Problemi tra scienza e cultura, in Koinè [volume collettaneo recante il titolo: Scienza, cultura, filosofia], Periodico culturale, Anno X, nn. 1-2, Gennaio-Giugno 2002, pp. 9-37; pubblicato anche in : http://blog.petiteplaisance.it/?s=marino+Badiale.

[1] Marino Badiale, Problemi tra scienza e cultura, in Koinè [volume collettaneo recante il titolo: Scienza, cultura, filosofia], Periodico culturale, Anno X, nn. 1-2, Gennaio-Giugno 2002, pp. 9-37; pubblicato anche in : http://blog.petiteplaisance.it/?s=marino+Badiale.


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Massimo Bontempelli – Il pregiudizio antimetafisico della scienza contemporanea

Massimo Bontempelli_pregiudizio antimetafisico

 

304 ISBN

Massimo Bontempelli

Il pregiudizio antimetafisico della scienza contemporanea

indicepresentazioneautoresintesi

 

Per comprendere l’ontologia dell’essere sociale al livello della sua compiutezza ontologica, quale sede di una verità fortemente esplicativa e logicamente incontrovertibile, occorrerebbe aver dissipato i tanti equivoci dell’inconsapevolezza filosofica. Un primo equivoco riguarda la nozione filosofica di realtà. Per l’uomo mentalmente immerso nell’universo delle merci, infatti, non è reale se non ciò che appare in una figurazione omogenea a quella della merce, vale a dire in forma sensibilmente percettibile e concretamente utilizzabile. Realtà, da questo punto di vista, non è che un altro nome per l’esistenza empirica. Naturalmente si può dare alle cose i nomi che si desiderano. La denominazione in questione, però, è carica di un’ideologia dell’intrascendibilità del dato, fortemente limitatrice del pensiero, al quale toglie curiosità intellettuale e capacità di comprensione verso le forme ontologiche più alte della semplice esistenza empirica. Non è certo un caso se, nonostante precise indicazioni testuali non equivocabili da chi effettivamente le legga, la celebre formula hegeliana secondo cui ciò che è razionale è reale, e ciò che è reale è razionale, sia stata comunemente intesa come una attribuzione di logicità ai nessi empirici, e come un’attribuzione di necessità concettuale alla storia. Eppure Hegel chiarisce esplicitamente come la realtà che è razionale sia non già quella empirica bensì quella ontologica, e come l’empirico esista frequentemente in forma irrazionale, ovvero ontologicamente irreale. Naturalmente senza comprendere il concetto di realtà elaborato dalla filosofia ontologica non si dispone di una mappa concettuale adatta in cui situare la nozione di libera individualità sociale. La libera individualità sociale costituisce infatti la più razionale espressione della socialità umana, e quindi la forma ontologicamente più reale del genere umano, pur avendo fino ad oggi difettato quasi completamente di esistenza empirica. La forma più matura di mentalità comunista è proprio quella che comprende il difetto dell’attuale esistenza sociale nella sua totale incapacità di dare espressione concreta alla realtà ontologica della libera individualità sociale. Un secondo grave equivoco concerne la metafisica. Essa appare per lo più come l’abusiva sostituzione di spiegazioni basate su principi assoluti trascendenti la concreta esperienza, inverificabili per definizione, ai sobri modelli esplicativi relativi ai dati empirici. In realtà, il termine metafisica si riferisce, più genericamente, a qualsiasi principio esplicativo più interno e profondo rispetto alla superficie empirica delle cose. Farsi scudo degli argomenti adducibili contro la trascendenza per giustificare l’abolizione di ogni metafisica, significa non capire quello che già Vico e Kant avevano mostrato, e cioè che senza principi metafisici risulta inesplicabile la trasformazione storica. Erano forse empirici i principi del puritanesimo che hanno ispirato la trasformazione del sistema politico dell’Inghilterra del Seicento dalla monarchia assoluta a quella costituzionale? O i principi del 1789 che hanno ispirato la rivoluzione francese? Un ulteriore equivoco riguarda la nozione di verità e la sua assolutezza. La mentalità contemporanea è portata a concepire la verità o, aristotelicamente, come adaequatio rei intellectus (declinando questa corrispondenza in senso predittivo e strumentalistico, anziché in senso essenzialista e statico come Aristotele), o, formalisticamente, come coerenza sintattica delle manipolazioni simboliche nelle trasformazioni inferenziali. La nozione di verità viene così ridotta a quella di congettura nel primo caso, e a quella di rigore nel secondo. Intendiamoci: sia le congetture che il rigore sono necessari ai processi conoscitivi. Se però essi non rappresentano momenti integrativi del pensiero veritativo, ma pretendono di esprimere tutta la conoscenza possibile all’uomo, mettendo da parte come un ferro vecchio la nozione più forte e più propria di verità, conducono inevitabilmente al nichilismo. La congettura può essere, infatti, in base alle prove che ha dato di sé come strumento di orientazione nell’esperienza, più o meno affidabile, e, in base ai dati sperimentali di controllo, più o meno corroborata. Ma la sua validità non può per definizione essere ritenuta permanente: essa, in quanto congettura, può sempre trovare un’esperienza che la smentisca. Il rigore, da parte sua, è per definizione contenutisticamente vuoto, e non può giustificare il proprio principio di coerenza. Se dunque si assumono la congettura e il rigore come unici mezzi di ragionamento, si apre nel ragionamento stesso un vuoto, quello della verità, intesa nel suo carattere di permanenza di significato, autoconvalidazione logica, pienezza di contenuto ontologico. La risposta che viene ovvia alla mentalità odierna è che è appunto di questo carattere della verità che si può e si deve fare a meno. Senonché, come ha rivelato Hegel, alla cui dimostrazione rinviamo (cfr. Scienza della logica, vol. II, sez. II, cap. III, e inoltre nella premessa a Sul concetto in generale), sussiste necessariamente una verità di cui non è misura l’esistenza, ma sulla quale anzi è l’esistenza a misurare la sua verità. Non si può cioè fare a meno di un criterio di giudizio la cui verità sia data non da qualche sua forma di correlazione con i dati empirici, ma da una sua intrinseca autoconvalida, e che consenta di valutare come veri o falsi i dati empirici. Non ne fanno a meno, infatti, neppure coloro che questo criterio negano, e riducono la verità a congettura e a rigore. La loro stessa affermazione che la verità sia congettura o rigore non rientra né nella congettura né nel rigore. E la critica negatrice dell’esistenza di una verità permanente, autoconvalidantesi e piena di contenuto ontologico, o presuppone contraddittoriamente la permanenza, l’autoconvalida e la piena realtà dell’economia di mercato, o sfocia, altrettanto contraddittoriamente, in una contestazione che deve autorelativizzarsi. Alla mentalità odierna appare comunque insensata l’idea che qualcosa di esistente possa essere falso. Se esiste, non si dice forse il vero affermandone l’esistenza? Con i fatti, si diceva una volta, non si discute. Eppure, tanto per fare un esempio, uno Stato la cui politica sia interamente determinata da interessi privati è un falso Stato, dato che appartiene al concetto di Stato il carattere di essere un’istituzione pubblica. E la ragione esiste proprio se discute i fatti alla luce della sua razionalità.


Massimo Bontempelli – IL PREGIUDIZIO ANTIMETAFISICO DELLA SCIENZA CONTEMPORANEA
Massimo Bontempelli (1946-2011) – Quale asse culturale per il sistema della scuola italiana?
Massimo Bontempelli – La convergenza del centrosinistra e del centrodestra nella distruzione della scuola italiana.
Massimo Bontempelli – In cammino verso la realtà. La realtà non è la semplice esistenza, ma è l’esistenza che si inscrive nelle condizioni dell’azione reciproca tra gli esseri umani, diventando così sostanza possibile del loro mutuo riconoscimento.
Massimo Bontempelli – Il pensiero nichilista contemporaneo. Lettura critica del libro di Umberto Galimberti « Psiche e tecne».
Massimo Bontempelli (1946-2011) – L’EPILOGO DELLA RAZIONALIZZAZIONE IRRAZIONALE: demente rinuncia alla razionalità degli orizzonti di senso, e perdita della conoscenza del bene e del male. L’universalizzazione delle relazioni tecniche ha plasmato la razionalizzazione irrazionale, razionalità che non ha scopi, che è cioè irrazionale.

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Jean Bricmont – Contro la filosofia della meccanica quantistica.

Jean Bricmont001

303 ISBN

Jean Bricmont

Contro la filosofia della meccanica quantistica

Traduzione dal francese di Fabio Acerbi

indicepresentazioneautoresintesi

 

Quando ho studiato la meccanica quantistica ho imparato che l’oggetto più fondamentale di questa teoria, la funzione d’onda, non descriveva il sistema fisico in esame, bensì la conoscenza che ne avevamo. In ciò risiedevano l’originalità e la stranezza radicale della meccanica quantistica. Ma cosa significava tutto ciò? Di certo, non quello che si poteva credere ingenuamente: non si studiavano certo i processi interni al cervello umano che sono associa ti a ciò che chiamiamo ‘conoscenza’. In fin dei conti, si trattava forse di qualcosa di banale: non possiamo far altro che studiare oggetti o proprietà accessibili alla conoscenza umana; se esistono realtà radicalmente inaccessibili alla nostra percezione o alla nostra conoscenza non le studiamo per definizione. Ma allora, dove stava la novità? Capitava di spingersi più in profondità; si imparava allora che la meccanica quantistica non aveva fatto che giustificare un punto di vista filosofico precedente, risalente almeno a Kant, Hume e Mach e sviluppato dai positivisti moderni.

Strano: ecco una teoria fisica che ci costringe ad adottare una prospettiva filosofica specifica, senza la quale non è possibile comprenderla. Mermin cita una formulazione estremizzata di quest’idea: «La dottrina secondo cui il mondo è fatto di oggetti la cui esistenza è indipendente dalla coscienza umana si trova essere in conflitto con la meccanica quantistica e con fatti sperimentali ben stabiliti». Effettivamente, la scienza suppone tradizionalmente che si possa separare il ‘soggetto’ umano dall’oggetto studiato. Ma la meccanica quantistica aveva imposto una svolta: la filosofia ‘realista’ (a volte completata con la parola ‘metafisica’ o ‘ingenua’) era divenuta non più difendibile. Questa filosofia aveva avuto i suoi momenti di gloria nel XVIII e nel XIX secolo, all’apogeo del materialismo scientifico trionfante. Einstein era ancora legato a quella visione delle cose. È per questa ragione che non aveva mai potuto ammettere la meccanica quantistica. Ma quest’ultima ci era imposta dai fatti. Personalmente, neanch’io mi trovavo disposto ad accettare un tale punto di vista. Mi sembrava che ci fosse qualche cosa di profondamente sbagliato nella posizione positivista, ma per delle ragioni puramente filosofiche, e non vedevo come una teoria scientifica, ed ancor menoi ‘fatti’, potessero cambiare qualcosa in tutta la faccenda. Non solo, vedevo che Einstein, Schrödinger e qualche volta de Broglie avevano sollevato obiezioni all’interpretazione dominante della meccanica quantistica. Ma, mi si diceva, costoro appartenevano ad un’altra generazione, e non avevano mai potuto arrunettere la nuova visione del mondo e della scienza elaborata da Boru, Heisenberg e Pauli. Tuttavia, ogni teoria scientifica essendo destinata a perire, almeno così pare, non potrebbe darsi che un giorno un’altra teoria, più perfezionata, comportasse una revisione delle nostre concezioni filosofiche? Ma anche questa speranza era vana, von Neumann avendo, almeno così sembrava, dimostrato che ogni teoria ‘realista’ sarebbe entrata necessariamente in conflitto con le previsioni sperimentali. I fatti stessi imponevano dunque una visione della scienza radicalmente nuova. Eppure, Schrödinger ed il suo gatto mi sembravano aver messo in rilievo una difficoltà concettuale fondamentale della meccanica quantistica. Mi sembrava si trattasse di un problema ben più importante della tradizionale questione del determinismo, nella quale si volevano rinchiudere i ‘dissidenti’. D’altro canto, non riuscivo bene a vedere quale partito trarre dalle obiezioni di Einstein: con Podolsky e Rosen, egli aveva tentato di mostrare che la meccanica quantistica era manifestamente una descrizione incompleta della realtà. Ma tutti erano d’accordo nel ritenere che Bohr avesse fatto fronte in modo magistrale a queste obiezioni. C’era anche un certo Bohm che, sulle tracce di Louis de Broglie, aveva cercato di proporre un’‘interpretazione’ della meccanica quantistica in termini di ‘variabili nascoste’. Ma anche questo tentativo si era rivelato un fallimento. In più, un certo Bell aveva mostrato in maniera incontrovertibile che ogni tentativo d’interpretazione in termini di ‘variabili nascoste’ doveva, se non voleva contraddire le previsioni della meccanica quantistica, essere non locale, il che era chiaramente inaccettabile.

Non vedendo vie di uscita ai problemi mi sono occupato di altre cose, restando comunque insoddisfatto, come molti della mia generazione. Da qualche anno sembra però essersi risvegliato l’interesse per le questioni relative ai fondamenti della meccanica quantistica. Le differenti versioni di quella che viene chiamata “l’interpretazione di Copenhagen” sembrano raccogliere consensi sempre meno unanimi. Uno degli scopi di questo articolo è quello di spiegare come vi sia un problema effettivo nella meccanica quantistica in quanto teoria fisica. Il problema è sottile e non ha conseguenze pratiche – ma sussiste. Occorre però evitare di attribuire a questo problema un’importanza eccessiva e, in ogni caso, non precipitare nella deriva irrazionalista in cui ci si imbatte talvolta ai margini del dibattito sulla meccanica quantistica. Peraltro, intendo mostrare che il problema è stato storicamente trasfigurato pretendendo che la soluzione risiedesse nell’adozione di uno specifico punto di vista filosofico. Intendo anche spiegare perché un certo numero di idee trasmesseci, come quelle che avevo imparato quando ero studente (sul teorema di Bell, sull’impossibilità di teorie a variabili nascoste), siano erronee.

Comincerò con una breve discussione filosofica sull’opposizione tra realismo e positivismo (sezione 2). Può sembrare strano iniziare con una discussione filosofica. Mi sembra tuttavia indispensabile prendere le mosse da una chiarificazione di queste nozioni, spiegando in particolare ciò che il realismo filosofico non è, a tal punto la confusione su tale questione perverte ogni discussione sui fondamenti della meccanica quantistica. Indicherò poi quale sia esattamente il problema della meccanica quantistica (sezione 3), e cercherò di mostrare che tale problema non è legato ad una posizione filosofica specifica. Non solo, l’idea in base alla quale la soluzione del problema consista nell’adottare una posizione filosofica positivista ha reso difficile la comprensione dell’aspetto più radicalmente nuovo della meccanica quantistica, cioè il suo carattere non locale, messo in evidenza da Einstein, Podolsky, Rosen e da Bell (sezione 4). Infine, indicherò brevemente le soluzioni possibili esistenti (sezione 5). Sebbene nessuna di esse sia interamente soddisfacente, alcune sono molto più interessanti di quanto si affermi correntemente (spesso senza esaminarle in dettaglio), ed occorre certamente studiarle se si vuole arrivare un giorno ad una teoria quantistica totalmente coerente e priva di ambiguità. Devo però sottolineare che pressoché niente di ciò che si trova in quest’articolo è originale (eccetto, come si dice di solito, gli errori). In effetti, i lavori di Bell contengono, anche se spesso in maniera molto stringata, quasi tutto ciò che può essere detto oggi sui problemi della meccanica quantistica. Uno degli obiettivi principali di questo articolo è quello di incoraggiare il lettore a studiare gli scritti di Bell. Per facilitare la lettura dell’articolo ho spostato tutta la parte dell’esposizione che necessita di equazioni nelle appendici da I a III, mentre l’ultima appendice è dedicata ad alcune tracce bibliografiche.


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Valeria Biagi – La Valle Bianca. Appunti per una rilettura del romanzo di Sirio Giannini

281 ISBN

Valeria Biagi

La Valle Bianca

Appunti per una rilettura del romanzo di Sirio Giannini

indicepresentazioneautoresintesi

 

Questo saggio si concentra sul romanzo La Valle Bianca di Sirio Giannini (1925-1960), scrittore e regista originario di Corvaia, piccola frazione di Seravezza, in provincia di Lucca. L’opera, dopo aver vinto il Premio Hemingway nel 1956 ed essere stata pubblicata per la prima volta nel 1958 dalla casa milanese Mondadori, nella prestigiosa collana “La Medusa degli Italiani”, ha avuto una traduzione in tedesco, Das Weiße Tal, per la casa editrice Progress di Düsseldorf nel 1959 e una ristampa a cura dell’editore Boni di Bologna nel 1981.

Il romanzo è ambientato nella Versilia degli anni Cinquanta, in una cava fra le Alpi Apuane, dove quotidianamente i cavatori estraggono il marmo. Proprio in questo contesto di lavoro faticoso, i tre protagonisti, Stefano, Giulio e Alda, condividono la vita di ogni giorno. Nel romanzo, Giannini inserisce sia molti termini tecnici riferiti alle fasi di estrazione del blocco di marmo, alla sua lavorazione e al trasporto a valle, sia molte descrizioni paesaggistiche, che danno respiro alla narrazione. Il personaggio di Alda sarà determinante per il sorprendente e profondo finale del romanzo, che riporta il lettore alla dura realtà, fatta di sacrifici e aspro lavoro, ma anche alla speranza aperta dalle scelte morali più autentiche.

Giannini si è occupato anche di cinema, come si può vedere dal cortometraggio intitolato I cavatori, di cui fu il regista e lo sceneggiatore e con il quale vinse, post mortem, il Premio Fedic e Airone D’oro al Festival di Montecatini Terme nel 1961. Il film gli valse anche una segnalazione al Festival Internazionale di Moulhouse. In sedici minuti, il cortometraggio evidenzia, lasciando in audio i suoni originali, il pesante e pericoloso mestiere del cavatore, lavoro che oggi risulta quasi dimenticato e, per certi versi, sconosciuto alle giovani generazioni.

Sirio Giannini ha vissuto, seppur breve, una vita intensa e piena di soddisfazioni, di premi letterari, ma anche di delusioni e amarezze. Nel corso della sua esistenza, ha intessuto rapporti e legami con alcune importanti personalità della cultura italiana novecentesca come Cesare Zavattini, Elio Vittorini, Marcello Venturi, Arnoldo e Alberto Mondadori, Arrigo Benedetti, Giuseppe De Robertis e altri.

Completamente autodidatta, l’Autore mostrava un talento raro. Purtroppo una grave malformazione al cuore gli limitava gli spostamenti lunghi, ma non gli impediva di scrivere e di lavorare anche nel campo cinematografico, le due sue passioni. Una fatale operazione al cuore lo stroncò il 26 gennaio 1960.

È morto da quasi sessant’anni. Oggi Giannini è conosciuto da pochi studiosi, ma nella sua terra natia, la Versilia, in particolare a Seravezza, la memoria dell’Autore è salda fra gli amici e la gente che lo ha conosciuto. A tal proposito, a Giannini è intitolato un Circolo Culturale, che ha svolto nel tempo una serie di iniziative per ricordarne il lavoro. Da cinque anni è pure intitolato a Giannini un Centro Internazionale di Studi Europei (CISESG), di cui chi scrive qui è attualmente Vice Presidente. Il CISESG è un centro di ricerca, che ha l’intento di svolgere l’azione più opportuna per una sempre maggiore diffusione, in Italia e all’estero, delle opere dello scrittore, oltre a promuovere gli studi sulle letterature di tutto il mondo, con particolare attenzione alla favola ed alla fiaba per gli adulti.


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Daniele Orlandi – Lettera a una madre sul primo amore

Orlandi Daniele 07

286 ISBN

Daniele Orlandi

T. Lettera ad una madre sul primo amore

Disegni di Sara Prebottoni

indicepresentazioneautoresintesi

 

La decisione era stata presa. La richiesta fu talmente accorata che non mi parve responsabile rifiutare né indagare oltre con imbarazzanti domande, del tipo: “Perché proprio a me?”. Una ragione esiste, ovviamente, ma è bene che resti privata.

Ho conosciuto Daniele alle materne e insieme abbiamo frequentato anche le scuole elementari. Avevamo entrambi il nitido ricordo del primissimo giorno, quando, attendendo timorosi e spaesati l’appello per la suddivisione delle classi, ci incontrammo nel cortile lanciandoci in uno di quei goffi abbracci tipici dei bambini. Ora che eravamo capitati nella stessa sezione, avevamo meno paura di abbandonare le mani delle nostre protettive mamme. All’inizio fummo molto uniti (siamo stati due competitivi consumatori di One O One e Kinder Cioccolato davanti a una balia di televisione). Successivamente, com’è naturale, questo legame tese a diluirsi nelle maggiori combinazioni di amicizie di una classe numerosa ma non si annacquò mai del tutto. Se parto da così lontano è anche per testimoniare della grazia di quella bambina che è qui indicata solo con la sua iniziale: per quanto non la conoscessi che di vista, T. era davvero bellissima.

Tuttavia, sebbene io abbia di quel periodo un ricordo felice, le mie memorie degli anni ’80 non raggiungono la precisione quasi patologica dell’amico Ferri (il cognome è fittizio). Lo chiamo amico, in senso lato. Come si evince da queste pagine, la nostra frequentazione era divenuta insieme occasionale e continuativa. In sostanza, il tempo ci avrebbe resi più che conoscenti e un po’ meno che amici. Ma sapevo abbastanza della sua storia familiare. Ricordo che la Pastorella ci ammoniva spesso sulla necessità di non prendere in giro i rispettivi parenti: “Non scherzate con le famiglie altrui, è un comportamento odioso! Daniele, ad esempio, ha il fratellino morto”. Conoscevo la madre, molto meno il padre ed ero al corrente anche dei suoi attacchi di panico, per quanto non così in dettaglio. Inoltre, ci legavano i medesimi studi che rappresentavano la base delle nostre chiacchierate, improvvisando lungo la via, davanti a un caffè o ai “giardinetti” di Via Giovanni Maggi, recensioni di libri amati o odiati, letti o da leggere. Magari chissà, da scrivere…

È il motivo per cui nel testo compaiono molti nomi di autori e di opere: per Ferri non erano soltanto libri ma veri e propri personaggi, avversari, bussole che lo avevano accompagnato fin da piccolo. Per agevolare il lettore, se ne dà notizia in nota esclusivamente laddove mi è parso opportuno. Questo poiché, sebbene il mio nome campeggi in copertina, l’autore di questa storia è in realtà Daniele Ferri di cui raccolsi le confidenze e una moleskine rossa a quadretti durante un tardo pomeriggio autunnale. “Non voglio farlo diventare un romanzo per due ragioni:”, diceva, “perché non ne sarei in grado e perché, come puoi immaginare, non lo è. È una lettera. In un doppio senso, se vuoi… Resta il fatto che come a scuola c’insegnavano che per un punto passano infinte rette, attraverso queste mie righe passa una e una sola lettera. Oltretutto, non sopporterei di figurare quale autore di una storia così sfacciatamente personale. Sarebbe ridicolo. Se proprio ci tieni, fammi tu da prestanome!”. E giù una secca risata ma con gli occhi che non sorridevano, com’era abitudine di Daniele. Finì che la condizione del prezioso regalo appena ricevuto fosse che avrei dovuto distruggerlo. Prima o dopo averlo letto, per lui non faceva differenza. Voleva vivere senza più l’assillo di quelle parole esistenti da qualche parte. Eppure, proprio lui che le aveva scritte per impellenza memorialistica, per terapia, per disperazione o che so io (si scrive per una spessa nube di motivi), non ne sarebbe stato capace. Non lo biasimo. Per un autore consapevole, ogni libro è un figlio destinato al ripudio e un rimorso senza termine. Ferri sapeva bene chi riesce davvero a lasciare dietro sé terra bruciata di solito agisce immediatamente o solo in punto di morte. Per questo la storia della letteratura è ingombra di agende, quaderni, fogli ritrovati per caso in cassetti, bauli, scaffali che il tempo ha custodito a tradimento. “D’accordo, Daniele, così sia”, dissi.

Ma non più tardi di un mese dopo l’impensabile era già accaduto e l’impegno di conservare quel taccuino senza aprirlo sfociò immantinente in una lettura tutta d’un fiato. Se taccio della sorpresa, dei rammarichi e di ogni altro sentimentalismo è perché non aggiungerebbero nulla al progetto di una pubblicazione senza scopo di lucro ma unicamente quale dono ai pochi intimi che, sapevo, avrebbero apprezzato con triste gioia. “Le due donne per cui ho estratto queste pagine dalla cava di marmo della memoria non le leggeranno mai”, scrive Ferri sul finale del libro. Mi rimorde, Daniele, non aver potuto nulla in tal senso. L’editore si disse favorevole, del resto, non temevamo nulla. Daniele stesso ci era venuto in soccorso: se si escludono gli elementi storico-geografici che fanno da cornice ai fatti narrati, questa – come si usa dire – è un’opera di fantasia dove ogni riferimento a persone realmente esistite è da considerarsi puro frutto del caso.

Io, dunque, sono soltanto il curatore di un manoscritto che si presentava datato 16 luglio 2016 e non più aggiornato ma i punti di discontinuità fra i temi trattati, l’incostanza grafica e stilistica, e le alternanze di biro blu e nera denunciavano una stesura rapsodica, bisognosa di assemblaggi, raccordi e fusioni. Finché ho potuto, non ho modificato una virgola del testo originale. Quando con frecce rimandanti al margine, Ferri appunta multiple opzioni lessicali o grammaticali si è proceduto cercando di snellire il più possibile ridondanze e indigeste ripetizioni. Laddove è stato opportuno intervenire per collegare due parti o dirimere un nodo della narrazione, ho fatto del mio meglio per mimare lo stile non invitante dell’autore. Redazionale è anche il sottotitolo: Lettera a una madre sul primo amore. Comprendo che non brilli in originalità ma l’ho scelto in quanto mi sembrava che realizzasse le intenzioni dell’autore: una lettera nella sua doppia accezione di missiva e d’iniziale, oltretutto inserendo quella di Ferri nel novero delle epistole che affollano la letteratura di ogni tempo e paese. Nondimeno confesso che non mi sarebbe affatto dispiaciuto chiamare questo libro Controsaggio sugli attacchi di panico o qualcosa di simile. L’impasto di saggistica e narrativa dello stile usato da Ferri mi ha infatti spesso ricordato l’ibridismo di alcune pagine di Jean Améry, di Primo Levi o di José Saramago, tra gli autori preferiti di Daniele e miei.

Nella tasca interna della moleskine ho rinvenuto un foglio a quadretti contenente un’annotazione autografa di Ferri. Ho ritenuto di riprodurla a mo’ di appendice fotografica in quanto suppongo che Daniele non avesse intenzione di inserirla nell’ambito narrativo eppure è proprio avulsa dal contesto che acquista il suo peso. Questo è stato, dunque, il mio lavoro nell’ultimo anno e mezzo. Se il lettore pensasse ad un’appropriazione indebita, avrebbe in parte ragione. Tuttavia, con i dovuti distinguo, daremmo del ladro a Max Brod che, contrariamente alle ultime volontà dell’amico Franz Kafka, nel 1925 curò l’edizione postuma di Il processo, regalando all’umanità uno dei capolavori della letteratura mondiale?

Vorrei infine aggiungere che se questo volume non fosse stato pubblicato la promessa fatta a T. dal protagonista nelle ultime righe del racconto non potrebbe dirsi del tutto onorata.

Adesso sì.

Questo “taccuino di un vecchio” non fa sconti al lettore. Non si lascia avvicinare facilmente e presuppone una minima conoscenza pregressa dei problemi che affronta. Ferri lo sapeva molto bene e aveva ragione a definirla una “scrittura privata”, come del resto può esserlo una lettera indirizzata a un interlocutore che ci conosce e che quindi avrà gli strumenti per farsene interprete (A quelli che sanno, avrebbe potuto essere una terza dedica all’inizio del volume). Per questo, laddove mi è parso che il testo avesse bisogno di un po’ di respiro ho comunque preferito non intervenire.

Il lavoro è stato lento ma estremamente istruttivo. Durante l’intera trascrizione ho molto ragionato su questioni che conoscevo solo marginalmente. Come il tema dell’agorafobia, ad esempio, le sue molteplici sfumature e complicanze, e della paura contraria ma sorella: la claustrofobia. Più volte mi sono chiesto dove mai l’agorafobico Ferri avesse trovato la forza di resistere nella ressa dei personaggi da lui evocati e come sia potuto accadere che una persona in grado di salire sull’ermetico montacarichi del passato per scendere a -1, -2, -3 e via via fino ai più bui sotterranei del dolore, possa portarsi dietro per così tanto tempo il terrore di prendere un comune ascensore. Resta per me un insopportabile paradosso.

Carissimo Daniele, dolce omonimo compagno, se solo tu avessi avuto nel vivere la vita il dieci per cento della determinazione mostrata nel raccontarla, oggi saresti un uomo risolto ed io non dovrei fare a meno delle nostre casuali e stimolanti passeggiate. Con quest’amarezza insolubile congedo la tua storia e il mio rimpianto.

Questo libro esiste grazie a tutti coloro che ne hanno supportato e sopportato il pigro parto. Concludo quindi ringraziando in particolare Sara Prebottoni, Sante Notarnicola, Carmine Fiorillo, Andrea Grottini, Sara Bolletta, Simone Nebbia, Paola Randazzo, Katia Gibertini e Elio Feliciani. Grazie a Luigi Orlandi, mio padre, che ha accettato di verificare i suoi ricordi sulle mie pressanti domande.

 

DANIELE ORLANDI

Roma, 25 novembre 2017

 


Daniele Orlandi – Costanzo Preve sulla «zona grigia» di Primo Levi
Daniele Orlandi – Nostalgie semiserie di un medievista senza Eco
Daniele Orlandi – Quell’amore di Dino Buzzati
Daniele Orlandi – Attraverso il prisma dostoevskijano, Camilla Migliori ci invita a considerare l’espressione artistica come un mezzo d’elevazione dell’uomo al di sopra dei suoi limiti.
Daniele Orlandi – Il Medioevo di Camilla Migliori. Invito alla lettura di «Un mondo di cronisti, inquisitori, castrati, sante».

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