«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
«La dolcezza rappresenta una disposizione del carattere volta a configurare in maniera eccellente la propria umanità, nei rapporti con gli altri uomini e con la natura, per favorire la realizzazione di una vita felice».
L. G.
Quarta di copertina
La dolcezza è una virtù fondamentale che rende migliori le relazioni umane, e mai come in questo periodo di grandi incertezze se ne sente il bisogno. Questo saggio di Luca Grecchi analizza dapprima, alla luce della filosofia greca classica, alcuni dei contenuti essenziali per la comprensione della dolcezza, come la verità, il bene, la virtù. In un secondo momento, descrive le principali strutture etiche affini alla dolcezza, ma che dalla stessa si differenziano, costituendone talvolta semplicemente delle componenti: la gentilezza, la tenerezza, l’umiltà, la misericordia, la gratuità, la forza, la semplicità e la finezza. Di queste qualità, che il nostro tempo spesso altera, la dolcezza costituisce il coronamento e la compiuta realizzazione.
Luca Grecchi (Codogno, 1972) insegna per le cattedre di Filosofia Morale e di Storia della Filosofia dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Fra i suoi libri più recenti, Leggere i Presocratici(2020) e tre volumi della collana «Questioni di filosofia antica» delle Edizioni Unicopli, ossia Natura, Uomo e Ricchezza (rispettivamente 2018, 2019 e 2021). Ha scritto inoltre Conoscenza della felicità(Petite Plaisance, 2005).
Pagine 170 – Euro 17,00
Indice
Introduzione di Silvia Vegetti Finzi
PRIMO CAPITOLO: Per introdurre il discorso
La dolcezza come virtù
L’uomo: un ente da definire
Il bene: un concetto da definire
Il rispetto e la cura come relazioni costitutive del bene
«Il compiuto riconoscimento di ciò che siamo, è sempre preceduto dal sofferto confronto con l’altro, avvertito insieme fuori di noi e in noi, per effetto di quella sorta di compartecipazione, anteriore alla definizione dell’individuo, di cui la tragedia è espressione»..
M. Zambrano, El hombre y lo divino, F.C.E., México 1995. In versione italiana: L’uomo e il divino, intr. di V. Vitiello, Lavoro, Roma 2001, p. 247.
Günther Anders e il male di vivere. Quando la libertà si muta in delirio d’onnipotenza, in odio contro ogni limite
Se dovessimo cercare il fondamento della nostra epoca non potremmo che constatare che il male è il suo fondamento. La libertà si è tramutata in male, sta divorando se stessa. L’anarchia individualista e la menzogna dominano, sono la struttura che tutto muove. Si assiste al consolidarsi di personalità che trasformano il loro desiderio in legge universale, il corpo pulsionale è oggetto di un’idolatria socialmente accettata ed esaltata. Il limite è vilipeso, il logos è negato, ogni discussione sul male di vivere è portata all’interno di argomentazioni in cui si rileva che il “male” è ineluttabile, quindi è inemendabile. Non resta che adattarsi e sopravvivere alla violenza quotidiana, non resta che negare se stessi per conformarsi al male nella nuova forma di male di massa. Il nuovo totalitarismo – con i suoi dispositivi perennemente in azione – plasma i popoli, li rende laboratori dove saggiare la potenza dei nuovi mezzi di manipolazione e formazione di una nuova antropologia del negativo come normalità. Il soggetto non osa porre il problema del bene e del male, ma semplicemente è parte di un’immensa zona grigia dove l’esperienza dell’identità è costruita in “laboratorio”, il cui scopo è occupare “spazio vitale e consumare “il mondo” da cui ci si ritrae. La libertà diviene cambiamento continuo, il progresso che coincide con la libertà è consumo di ogni forma di vita; il cannibalismo libertario è la verità dell’Occidente. Günther Anders ha tematizzato il male, ha tentato di razionalizzarlo, ha mostrato che il “male” è insediato nella libertà, la quale consente agli esseri umani di fuggire la contingenza, in cui sono inchiodati per diventare “creatore” di mondi:
«L’uomo fa esperienza di sé come qualcosa di contingente, come qualunque, come “proprio io” (che non si è scelto); come uomo che è precisamente così come è (per quanto possa essere tutt’altro); come proveniente da un’origine di cui non risponde e con la quale deve tuttavia identificarsi; come “qui” e come “ora”. Questo paradosso fondamentale dell’appartenenza reciproca della libertà e della contingenza, questo paradosso che è un’impostura, il dono fatale della libertà, si chiarisce come segue. Essere libero significa: essere straniero; non essere legato a niente di preciso, non essere tagliato per niente di preciso; trovarsi nell’orizzonte del qualunque; in una postura tale per cui il qualunque può anche essere incontrato in altri qualunque. Nel qualunque, che posso trovare grazie alla mia libertà, è anche il mio proprio io che incontro; questo, pur appartenendo al mondo, è straniero a se stesso. Incontrato come contingente, l’io è per così dire vittima della propria libertà. Ecco perché il termine “contingente” deve indicare questi due caratteri: “la non costituzione di sé” dell’io e la sua “esistenza in quanto tale”. Questo vale per tutto ciò che segue».[1]
Straniero al mondo ed a se stesso, il rischio che la libertà si muti in delirio d’onnipotenza, in odio contro ogni limite pregresso è il gravoso problema etico ed ontologico che l’essere umano deve vivere e risolvere. Se il male alligna nella forma parossistica e nichilistica dell’io ipertrofico e consumante, è nella struttura economica che bisogna individuare la causa efficiente che perverte la libertà in tracotanza, in dispersione della soggettività nel ritmo frenetico e funebre del ciclo consumo e distruzione. Il male si espande, trova in ogni soggetto il punto ottico che si spazializza per occupare ogni tempo ed ambiente in frenetica attività di produzione-creazione che prontamente e velocemente deve annichilire.
Vergogna L’io rifiuta il limite, ogni limitazione è vissuta con vergogna, come negazione della libertà che abita l’essere umano, che lo struttura ontologicamente. Per fuggire alla vergogna dell’origine che rammenta all’essere umano che non è un creatore assoluto, è necessario affermare la libertà che annichilisce, che crea mondi per distruggerli. La creatura compensa la vergogna della contingenza con la distruzione, diventando homo faber, fino a produrre mezzi e ordigni che non controlla e di cui resta vittima. Lo sviluppo tecnologico, il dominio delle merci che dominano come zombie sugli esseri umani che li hanno prodotti e creati è l’esito della libertà patologica dell’essere umano. La libertà e la non identificazione divengono il percorso che porta alla distruzione, a produrre strumenti che potrebbero cancellare l’essere umano, ed a fondare un mondo “senza l’essere umano”. L’essere umano nell’opera giovanile Patologia della libertà del filosofo è destinato alla distruzione, ad annichilire i mondi che pone, per vivere l’ebbrezza del creatore, ma svelandosi impotente, poiché la creazione non è che annichilimento della vita. L’annichilimento di ogni forma-mondo permette di “curare” la vergogna distruggendo, non più “pastore dell’essere”, ma “pastore dei consumi distruttivi”, così si svela il fondo nichilistico e minaccioso della libertà umana. La libertà diviene la tragica terapia di un essere fragile, all’incapacità di accettare la contingenza, ma che ambisce all’onnipotenza:
«All’origine la vergogna non è vergogna di aver fatto questo o quello, anche se questa forma di vergogna già significa che io non mi identifico con qualcosa che viene da me, la mia azione, e con la quale tuttavia dovrei, nel senso che vi sono costretto, identificarmi. Proprio il fatto di essere capace di questa particolare vergogna morale richiede come condizione formale che io sia identico e, insieme, non identico con me stesso; il fatto che io non possa uscire dalla mia pelle e al tempo stesso possa considerarla tale; che incontri me stesso nella libertà dell’esperienza di me – ma in quanto non-libero. La vergogna non nasce da questa incongruenza, ma è quest’ultima ad essere già vergogna. Nella vergogna l’io vuole liberarsi, nella misura in cui si sente esposto a se stesso in maniera definitiva e irrevocabile, ma, ovunque si nasconda, esso rimane nell’impasse, resta alla mercé dell’irrevocabile, dunque di se stesso. E tuttavia l’uomo fa così una scoperta: proprio esperendosi come non posto da sé, per la prima volta sente di provenire da qualcosa che non è lui; per la prima volta avverte il passato, ma non quello che di solito chiamiamo il “passato”: non il proprio passato familiare, storico, ma il passato totalmente estraneo, irrevocabile, trascendente; quello dell’origine. L’uomo avverte il mondo da cui proviene ma al quale non appartiene più come io. Così, la vergogna è soprattutto vergogna dell’origine. Pensiamo ai primi esempi biblici della vergogna: alla coincidenza della vergogna e della caduta, e all’esempio dei figli di Noè che, “girando la faccia per la vergogna”, coprono le nudità di loro padre».[2]
La spinta alla libertà distruttiva, alla compensazione per la vergogna del limite e della gettatezza non necessariamente deve portare alla distruzione, alla bomba atomica come descritto da Günther Anders, le possibilità con cui la libertà si può concretizzare sono plurali: la libertà come delirio d’onnipotenza, come fuga dalla vergogna è il modello pervasivo del capitalismo assoluto non iscritto nella natura umana. La libertà può umanizzare, se vive il limite con il logos e come soglia in cui incontrare l’alterità, e identificarsi in essa, la libertà è distruzione, se è orientata alla creazione aggressiva, a divorare il mondo, perché il limite è vissuto con vergogna. Senza la soglia del limite si entra nella violenza, nell’io che usa se stesso come alabarda per abbattere ogni ostacolo allo scopo di dimostrare di essere creatore e non creatura.
Solitudine ed eternità Per eternizzarsi l’essere umano deve trascendere la contingenza temporale, in cui è prigioniero, con l’eternità deve superare lo spazio ed il tempo e proiettarsi verso un infinito frustrante, perché resta creatura ed ogni tentativo di elevarsi a divinità ricade su di lui nella forma della vergogna, del limite da cui si fugge e che puntualmente riappare nella rappresentazione e nella realtà effettuale. Tale condizione potrebbe essere letta in modo differente rispetto al filosofo de L’uomo è antiquato, ovvero l’essere umano è tale, perché consapevole del limite, ed ogni abbattimento dello stesso non è che negazione della sua natura e dunque “tragedia collettiva”:
«Così, l’uomo vuole essere ora e sempre. Tenta, cioè, di immortalarsi nel tempo, così come si affannava a glorificarsi nello spazio; tenta di negare ulteriormente la contingenza dell’ora al quale si è trovato abbandonato. E si sforza di costruire il suo essere autentico sotto la forma di una statua permanente, nella Memoria e nella Fama, rispetto alla quale la sua forma attuale e incompleta è come il fenomeno in relazione all’Idea. Di questa statua gloriosa egli non è che la copia infedele e temporale; ed ecco il paradosso: più la sua gloria aumenta, meno “lui stesso” sembra avere a che fare con la sua statua; questa ha usurpato il suo nome; ed è tale statua che raccoglierà la gloria al posto dell’uomo, molto a lungo, anche dopo la morte; schiacciato e abbattuto, eccolo invidioso del suo grande nome».[3]
L’essere umano con relazioni emotive soddisfacenti, che conosce se stesso e vive la profondità della sua indole si radica nel presente per avere cura del futuro, se tale condizione manca, se il presente è solo un immenso vuoto senza legami, fugge dalla solitudine accarezzando sogni di eternità che compensino la solitudine e lo squallore dello sradicamento da sé e dalle alterità.
L’animale non umano Per comprendere l’essere umano lo sguardo teoretico di Günther Anders ha analizzato gli animali non umani, essi non sono liberi, le loro risposte sono precostituite e sono parte integrante dell’ambiente. Gli animali non hanno mondo, perché non hanno rappresentazioni. Dal contrasto fenomenologico tra l’essere umano e gli animali non umani il filosofo trae elementi per definire il fondamento ontologico dell’essere umano:
«Ma la materia a priori dell’animale gioca allo stesso tempo il ruolo di sbarramento. Infatti, l’animale non raggiunge e non trova altro che ciò di cui porta in sé il messaggio. Le sue percezioni non vanno al di là del contenuto già anticipato. La forza dei legami che lo vincolano a un mondo determinato, tradotta nella prescienza pre-sperimentale che ne ha, gli impedisce di rompere liberamente i suoi vincoli. A dirla tutta, l’animale non apprende nulla di veramente nuovo. È preso nella rete di legami che lo ricollegano al mondo, è schiavo delle sue anticipazioni. Tutto ciò che gli resta estraneo sfugge totalmente alla sua presa (come attestano incontestabilmente gli esperimenti di psicologia animale) o lo spiazza come la sorpresa di una materia refrattaria all’elaborazione e che non costituisce esattamente il suo mondo».[4]
La condizione umana è apparentemente opposta alla condizione animale, in quanto l’essere umano crea mondi, ma la libertà lo spinge a distruggere i mondi che crea fino a minacciare la vita nella sua totalità. La libertà patologica rende l’umanità “forma di vita” qualitativamente peggiore dell’animale non umano per la sua capacità annichilente.
Pessimismo L’analisi di Günther Anders pone il problema della libertà e della sua qualità e specialmente della struttura ontologica dell’essere umano, ma rischia di eternizzare il presente con la tecnocrazia, di indurre a negare la prassi, poiché la constatazione della potenza distruttiva che si annida nell’essere dell’umanità, non può che condurre al pessimismo più paralizzante. Necessitiamo di riportare la condizione umana attuale al sistema che lo abita e lo muove per poter comprendere che ciò che si constata e verifica nel quotidiano e nelle cronache non è che il riflesso della funerea quantificazione della vita all’interno della società dello spettacolo. Senza la deduzione sociale delle categorie, vi è il “rischio” di cadere nella trappola dell’astratto, ovvero si ipostatizza il presente, come Hobbes ha trasformato le sanguinarie lotte di religione, non in un caso storico, ma in natura umana perennemente in lotta. La deduzione sociale delle categorie ed il materialismo sono categorie interpretative senza le quali il presente rischia non solo di eternizzarsi, ma specialmente si paralizza ogni critica implicante la prassi. Abbiamo bisogno di strutture concettuali per capire il presente, mentre il sistema ci inonda di tecnologie per renderci dipendenti e sempre più simili ad esse nelle procedure di ragionamento.
Ogni epoca svela la natura umana nelle sue potenzialità, innanzi a noi vi è la possibilità della scelta etica e filosofica, senza le quali non siamo che “enti” consegnati ad un infausto destino. La natura umana è libera, perché generica (Gattungswesen), ma tale libertà si può vivere nella fuga dell’onnipotenza, o può essere oggetto del limite che la determina nella relazione. Non vi può essere libertà che nella relazione, poiché solo essa consente di conoscere e conoscersi, ogni rifugio nel sogno distopico dell’onnipotenza non è che patologia socialmente indotta, di cui constatiamo gli effetti a livello antropologico ed ambientale al limite dell’irreversibile, e che ci invocano ad una metafisica umanistica. Senza tale postura non vi è futuro, ma solo l’annientamento di ogni umanità, per poter scuotere le coscienze intorbidite è necessario mostrare che l’essere umano come lo constatiamo “oggi” non è tutto, ma una delle sue possibilità più perniciose, che invocano una trasformazione dell’assetto socio-economico, perché l’umanità può essere molto di più che un distopico incubo della ragione. L’immaginazione ampliata come nuova capacità teoretica pensata dal filosofo per abbandonare gli effetti funesti della tecnocrazia non può bastare per trascendere le distruttività del presente. Senza una pubblica razionalità che sveli e riveli la verità del presente e la sua ideologia si resta prigionieri all’interno dell’onnipotenza. L’immaginazione descritta da Günther Anders è organica all’onnipotenza, è l’altro volto di un’impossibile fuga dal presente per rifondare il presente. La scommessa sul futuro si regge in modo fondamentale sugli uomini e le donne di cultura che, malgrado i tempi terribili attuali continuano ad impegnarsi perché la barbarie non sia definitiva. Le contraddizioni sempre più macroscopiche possono farci ipotizzare che esse nel corso dei tempi attuali mostreranno i loro effetti insanabili e dialettici, pertanto le idee e le resistenze disseminate potranno ritrovare il loro senso.
Salvatore Bravo
[1] Günther Anders, Patologia della libertà. Saggio sulla non-identificazione, Orthotes, Napoli-Salerno 2015, pag. 40.
Marino Gentile Il problema della filosofia moderna
Nonostante sia riconosciuto come il maggiore esponente della “scuola padovana di filosofia”, Marino Gentile (1906-1991), che proprio nell’Ateneo patavino insegnò per oltre vent’anni, formando una generazione di studiosi di notevole vaglia, non è molto noto. In realtà, egli è stato una delle menti più acute nel panorama del pensiero italiano novecentesco, e davvero paradigmatico appare il suo percorso speculativo che, dopo aver preso le mosse dall’attualismo di Giovanni Gentile, si indirizzò, sulla scia dell’insegnamento di Armando Carlini, nella direzione della metafisica di ispirazione cristiana. In questo contesto si situano gli importanti studi storiografici che Gentile condusse al fine di comprendere a fondo il cammino compiuto dalla filosofia occidentale dall’antichità ai nostri giorni. Tra i lavori da lui dedicati al confronto con la speculazione del passato spicca Il problema della filosofia moderna, pubblicato per la prima volta precisamente settant’ anni fa, nel 1950. Due sono le grandi questioni affrontate dall’autore in questo libro: la prima concerne la possibilità o meno di reperire nel pensiero moderno una sostanziale unità dottrinale; la seconda riguarda la valutazione dell’indole critica che lo caratterizzerebbe. Gentile sintetizza le sue risposte ai problemi sopra accennati affermando che “l’unità del pensiero moderno si debba ritrovare nell’accoglimento, più o meno coerente, del matematismo e che l’intento della ricerca critica si sia venuto componendo con esso, avendone a volte stimolo e sostegno, ma più spesso limite e arresto”. Gentile, dunque, concorda con coloro che hanno individuato la cifra principale della filosofia moderna nel primato attribuito alla conoscenza matematica ai fini della comprensione e del dominio della realtà. Ha scritto Enrico Berti, allievo del nostro autore e a lungo docente nell’Università di Padova: “Il Gentile andava sviluppando anche una sua interpretazione della filosofia moderna come caratterizzata dall’intento pratico di realizzare il dominio dell’uomo sulla natura (quello che F. Bacone chiamava il regnum hominis) per mezzo di una concezione meccanicistica della natura stessa, fondata su una concezione matematistica della conoscenza. Tale interpretazione, annunciata nei volumi su Umanesimo e tecnica (Milano 1943) e Bacone (Brescia 1945), trovò la sua espressione più completa nel volume Il problema della filosofia moderna (ibid. 1950), dove il Gentile pervenne a risultati convergenti con quelli, allora sconosciuti, di E. Husserl e dell’ultimo M. Heidegger, nonché di M. Horkheimer e di altri critici della filosofia moderna, che avevano individuato nel pragmatismo e nel matematicismo il limite della criticità di quest’ultima”. Secondo Gentile, dunque, il primato della matematica esaltato dalla modernità ha precluso a essa di portare sino in fondo l’istanza critica che starebbe alla sua base, dando luogo a una sorta di cortocircuito speculativo che ha condizionato a fondo i successivi sviluppi del pensiero.
Maurizio Schoepflin,Il problema della filosofia moderna secondo Marino Gentile, “Il Foglio” del 23.9.2020.
Regno dell’uomo, matematismo e meccanicismo (Galilei, Bacone e Cartesio)
Il disegno umanistico del «regnum hominis» / La caratteristica della concezione moderna del «regnum hominis» / Il matematismo del Galilei / Regno dell’uomo e meccanicismo nel pensiero di F. Bacone / L’atteggiamento di Bacone verso la matematica / R. Descartes come fondatore della filosofia moderna / Regno dell’uomo e meccanicismo nel pensiero cartesiano / La funzione del matematismo nel sistema cartesiano / La matematica e il dubbio universale / I due centri di certezza nel sistema cartesiano / Matematismo e meccanicismo / Le aporie del cartesianesimo.
Le difficoltà del matematismo. Il problema della «res extensa». Cartesio e Spinoza
Le condizioni per un cartesianesimo integrale / Sua incompatibilità con il concetto di anima-forma / Risoluzione del cartesianesimo nello spinozismo / Spinoza e Cartesio /Le caratteristiche del razionalismo spinoziano / Il matematismo nel pensiero spinoziano / Matematismo e meccanicismo / Occasionalismo e pascalismo.
Esteriorità e interiorità nella conoscenza (Locke e Leibniz)
Gli elementi della «modernità» nel pensiero del Locke: «regnum hominis» e meccanicismo / Come nel pensiero del Locke vi sia presente anche il matematismo / Il rapporto del Locke con la distinzione fra qualità primarie e qualità secondarie / Conseguente critica del concetto di sostanza da parte del Locke / Inadeguatezza del nominalismo tradizionale alla critica del Locke / Il matematismo come limite dommatico della ricerca lockiana / Il dualismo d’interiorità ed esteriorità / Leibniz e la sua ripresa al matematismo antico / Matematismo antico e matematismo moderno / La polemica vichiana e la prevalenza del matematismo nella cultura illuministica.
Il superamento kantiano del matematismo e i suoi limiti
La filosofia kantiana come ricerca assoluta / Condizioni della ricerca e funzione esercitata in essa dalla matematica e dalla meccanica / Raporto della dottrina dell’Io trascendentale con la funzione esercitata nella ricerca dalla matematica e dalla meccanica / Dall’estetica e dall’analitica alla dialettica / Il matematismo e le aporie della dialettica / Il matematismo come limite della ricerca kantiana.
Ha scritto Martin Heidegger: «Ogni grande cosa può avere solo un grande inizio. Il suo inizio è sempre la cosa più grande… Tale è la filosofia dei Greci». Si tratta di un’affermazione difficilmente contestabile, in quanto ben pochi saranno disposti a negare che l’eccezionale stagione del pensiero ellenico abbia prodotto risultati pressoché insuperabili. Ora, quello che Heidegger ha sostenuto a proposito della filosofia greca, vale anche per i suoi inizi, che sono stati essi stessi grandiosi. Non v’è dubbio che l’acme del pensiero classico sia rappresentata da Platone e Aristotele, ma è altrettanto certo che senza il formidabile contributo dei pensatori che li precedettero la loro produzione non sarebbe apprezzabile in tutto il suo valore. Dunque, l’inizio dell’inizio, ovvero i primi passi della filosofia greca, riveste un’importanza fondamentale, oltre che un fascino straordinario. Coloro che hanno scritto le primissime pagine del sapere sono comunemente definiti “presocratici”, e proprio a loro ha dedicato un volume interessante e ben articolato Luca Grecchi (Leggere i Presocratici, Scholé, pagine 262, euro 22). Il libro si apre con una serie di considerazioni preliminari, nelle quali l’autore affronta questioni riguardanti la loro identità, la loro collocazione storica e teoretica, la bibliografia che li riguarda e, infine, le varie interpretazioni che di essi sono state proposte. Sino a oggi, annota Grecchi, le diverse letture che del pensiero presocratico sono state date, sono riconducibili a tre grandi filoni: quello scientifico-naturalistico, che vede la natura al centro, quello mistico aurorale, incentrato sul divino, e quello politico-umanistico, che fa perno sull’uomo. Secondo l’autore, sarebbe errato assolutizzare una di queste interpretazioni, le quali, invece, vanno poste fra loro «in maniera aperta ed includente, non chiusa ed escludente». Soltanto così sarà possibile avvicinarsi a una retta comprensione del composito universo presocratico, a cui si deve anche l’indicazione delle tre linee principali lungo le quali si muoverà tutta la filosofia posteriore, linee che, a giudizio di Grecchi, definiscono quello filosofico come «un sapere che si rivolge all’intero, coordinandone le varie parti; un sapere dialettico, ossia caratterizzato da argomentazioni e contro-argomentazioni; un sapere onto-assiologicamente orientato, assumente come fondamento di senso e valore l’uomo». Una bella introduzione di Maurizio Migliori, un lessico essenziale dei termini greci utilizzati e una corposa bibliografia arricchiscono il libro: utile strumento per studiare gli albori dell’affascinante cammino della filosofia occidentale.
Maurizio Schoepflin, Presocratici: e fu l’aurora, «Avvenire», 06-02-2021, p. 20
La pandemia ha mutato le modalità di relazione, di insegnamento, di lavoro, di consumo. Si offre in queste pagine una riflessione critica a più voci con i contributi di: Alessandro Dignös, Introduzione / Fernanda Mazzoli, La scuola ai tempi del Covid:prove generali di colonizzazione digitale/ Arianna Fermani, Esperienze di didattica universitaria, tra luoghi non-luoghi, alla ricerca di una “virtuosità del virtuale”/ Claudio Lucchini, La didattica della mercee le esigenze della libera individualità/Michele Di Febo, Università e lezioni a distanza:minaccia o opportunità?/ Alberto Giovanni Biuso, Epidemie barbariche / Salvatore A. Bravo, Didatticismo e Covid-19.La pandemia ha soltanto acceleratoun processo già in atto da anni/Alessandra Filannino Indelicato, Ermeneutica della distanza.Contributi di filosofia del tragicosull’ospitalità inquietante / Giulia Angelini, L’isola di Filottete/ Franco Toscani, Un pianeta malato. Umanità e socialità nel tempo della pandemia / Marco Guastavigna, A distanza,ma dal pensiero e dalle pratiche mainstream / Lorenzo Dorato, Le lezioni economiche della pandemia/ Fernanda Mazzoli– Giancarlo Paciello, La trappola della rete:una lettura dell’indagine di Renato Curciosulla realtà virtuale, o meglio, sulla specificità del capitalismo attuale.
Il sistema dominante non ha creato il virus, né ha favorito la sua diffusione: esso si è “limitato” a trarre cinicamente profitto da un’epidemia di cui nessuno può dirsi artefice, proponendo come rimedio ciò che, per sua natura, è funzionale al proprio “benessere” anziché a quello dell’uomo e della comunità. Le diverse misure poste in essere nel 2020 non fanno che accelerare processi e tendenze in atto dagli ultimi decenni del Novecento, ragione per cui molti tra coloro che studiano la società e le sue strutture vedono nelle nuove modalità e nelle nuove pratiche di vita «fenomeni» tutt’altro che imprevedibili. Il presente numero di Koinè vuole costituire un invito a ripensare il nostro tempo, ponendosi come un vero e proprio esercizio di defatalizzazione di quanto, nel filtro del pensiero mainstream, appare “normale”, “destinale”, “irreversibile”. Solo distinguendo ciò che è ontologicamente “inevitabile” da ciò che, invece, si presenta come tale, è possibile riaprire lo spazio ad una critica trasformatrice che ponga le basi per una nuova progettualità umana. In tal senso, il presente invito a ripensare l’attuale è, al contempo, un’esortazione a ripensare ciò che trascende la semplice presenza: l’uomo. È solo a partire dalla comprensione della sua essenza che è infatti possibile individuare dei nuovi modi di vivere che siano veramente conformi ai suoi bisogni e alle sue aspirazioni, mostrando, in tal modo, quale sia il modello di società a cui tendere affinché costui possa autenticamente “fiorire” e realizzarsi.
Questo volume cerca di colmare un vuoto, almeno nella letteratura specialistica in lingua italiana. Mancava infatti, ad oggi, un volume complessivo sul tema della ricchezza nella filosofia antica, negli oltre dieci secoli del suo sviluppo. Il concetto che dà il titolo al volume, ossia appunto Ricchezza, possiede una pluralità di determinazioni. Esso, infatti, non si presenta con riferimento solo ai contenuti materiali, ma anche ai contenuti spirituali, sicché deve essere analizzato con un approccio poliedrico, come del resto pressoché tutti i concetti principali della filosofia antica. Per questo motivo, pur essendo la filosofia la bussola che orienterà la nostra esplorazione, come nel precedente volume sull’Uomo3 dovremo fare spesso riferimento anche alla cultura letteraria, ed in alcuni casi alla cultura scientifica. La partizione fra filosofia, letteratura e scienza era del resto, come noto, assai meno marcata nel pensiero antico rispetto a oggi. Molte tematiche, che nell’attuale mondo universitario si studiano in Corsi di laurea e Dipartimenti differenti, erano infatti affrontate, nelle opere dei Greci e dei Latini, in maniera unitaria. Questo in quanto l’approccio filosofico, per sua essenza generale, era molto più presente nel mondo antico rispetto al mondo moderno, in cui è più presente invece l’approccio scientifico, per sua essenza particolare. Per quanto concerne specificamente la ricchezza materiale, dunque in certa misura l’economia, va aggiunto che questa tematica era nel pensiero antico incorporata nella più generale tematica sociale, sicché non risulta analizzabile come un campo autonomo. La nascita della economia come scienza specialistica avvenne solo, come noto, parecchi secoli più tardi. Un primo punto da mettere a fuoco, in questa introduzione, è che la ricchezza, per gli antichi, è costituita da tutto ciò che ha valore, ossia da tutto ciò che ha importanza per la vita. Dato che l’uomo, per il pensiero antico, si costituisce generalmente come una unità psicofisica, ossia come un composto di corpo e anima, la ricchezza non si presenta solo come di natura materiale, ma anzi soprattutto – per il maggiore valore attribuito generalmente, da tale pensiero, all’anima rispetto al corpo – come di natura spirituale. In effetti, come mostrano in maniera emblematica gli studi di medicina antica, che pure dovrebbero occuparsi principalmente del corpo, la componente spirituale, o meglio psichica (dell’anima, psyche), risulta determinante per far sì che un determinato bene materiale (chrema) possa porsi come una effettiva ricchezza, ossia appuntocome un bene…
«La cultura, come l’amore, non ha il potere di costringerre. Non offre garanzie. Ciò nonostante, l’unica possibilità di conquistare e difendere la nostra dignità di uomini ce la offrono proprio la cultura e una educazione libera». Rob Riemen
“I valori umanistici classici implicano una fondamentale fiducia nel potere, sempre imperfetto ma costantemente corroborato, dello spirito umano” afferma George Steiner. Portavoci, spesso incarnazioni di questi valori furono grandi figure come Socrate, Baruch Spinoza, Walt Whitman, Thomas Mann e Leone Ginzburg. La consapevolezza di vivere un’epoca di crisi, segnata dalla guerra o dall’abbrutimento, ma soprattutto la strenua volontà di opporsi alle derive del loro tempo ne accomuna il lascito umano e intellettuale: la determinazione a non perdere di vista la destinazione morale dell’essere umano, anche nelle tenebre della storia, anche nel fondo di un carcere. In “La nobiltà di spirito” Rob Riemen si sforza di mettere in salvo il messaggio di queste grandi figure “inattuali” per legarle al nostro travagliato presente, ricostruendo una genealogia spirituale che va dall’Atene di Pericle all’Europa dei totalitarismi. Ripercorre una catena di esistenze esemplari spese alla ricerca di una libertà che non sia arbitrio, ma aspirazione a una vita giusta; di una saggezza che non sia erudizione, ma inseguimento dell’assoluto pur nell’imperfezione della conditio humana; di un coraggio che non sia vanagloria, ma forza di lottare per gli ideali intramontabili dell’umanesimo occidentale. (Prefazione di George Steiner)
«La scienza sta già diventando un idolo, un mito. Si comincia a confondere insieme scienza e felicità, progresso materiale e progresso morale; a credere che la scienza prenderà il posto della filosofia, della religione, e che basterà a soddisfare tutte le esigenze dello spirito umano.».
Paul Hazard, [La Crise de la conscience européenne : 1680-1715 (1935)] La crisi della coscienza europea, 2 voll., II, il Saggiatore, Milano 1968, p. 398.
De un modo cordial y bien articulado, Luca Grecchi expone en la introducción algunos de los muchos méritos de Maurizio Migliori y de sus opciones interpretativas a la hora de hacer historia de la filosofía y, en concreto, sobre el modo de estudiar a Platón, al mismo tiempo que ofrece, con sencillez estimulante, un punto que lo distancia de Migliori acerca del modo de encuadrar el proyecto utópico de Platón (pp. 14-15). El volumen recoge 12 trabajos publicados anteriormente en los que Maurizio Migliori, conocido estudioso de Platón y profesor durante años en la Universidad de Macerata (Italia), profundiza en algunos argumentos de la filosofía antigua y, sobre todo, en el pensamiento platónico. Los tres primeros capítulos (no están numerados así, pues aparecen simplemente como trabajos autónomos) están dedicados a figuras importantes del mundo antiguo: a Heráclito, con su compleja teoría en la que conviven las oposiciones entre unidad y multiplicidad, quietud y devenir; a Gorgias, presentado como un sofista importante para entender a Platón; y al movimiento sofístico en su conjunto, para mostrar sus nexos con el eleatismo y para dar relieve a la presencia de Protágoras y de Gorgias en Platón. Con el cuarto capítulo entramos a un tema importante y fuente de un interesante debate en los últimos años: el método para escribir escogido por Platón y la intencionalidad de tal método. Para Migliori, en vez de dejar a un lado posibles incongruencias o saltos incomprensibles en los Diálogos, habría que fijarse precisamente en esos puntos extraños del texto para ir más a fondo en la filosofía platónica (p. 99). A través de ejemplos tomados de varios Diálogos, el Autor señala que el sentido de la escritura platónica radica en estimular filosóficamente al lector, en invitarlo a caminar en la búsqueda de buenos razonamientos (p. 115). El Fedro, que suscita un continuo interés entre los estudiosos, es el centro de atención del capítulo quinto. Migliori no solo presenta el conjunto y las partes de esta obra, sino que busca evidenciar cómo este diálogo platónico tiene como punto central el alma y las relaciones entre el hombre y Dios (pp. 172-181). Ha suscitado diversas discusiones el tema de la unidad (o falta de unidad) de la República, en concreto respecto de la transición entre los libros IX y X. Al argumento está dedicado el capítulo sexto, que resume al inicio la tesis de una reciente publicación a cargo de Mario Vegetti, autor que negaba tal unidad (como lo han hecho otros estudiosos). Migliori no comparte esa interpretación por motivos que expone a lo largo de ese capítulo (cf. sobre todo pp. 185, 189-192). Además, ilustra una interesante interpretación de los tres niveles de realidades (ideas, objetos particulares que incluyen objetos artificiales, imitaciones) que aparecen en el libro X de la República y que describen en cierto modo la relación entre el Demiurgo (Dios) y las ideas (cf. especialmente pp. 220-225). El capítulo séptimo trata de la dialéctica platónica, relacionada con la doctrina de los principios, a partir de una serie de análisis centrados en dos importantes diálogos: el Parménides y el Filebo. Desde sus numerosos estudios sobre el tema, Migliori explica el sentido de la búsqueda platónica, en la que los problemas y aporías ocupan un lugar insustituible (pp. 276-278). El siguiente capítulo continúa el estudio del Filebo, además de otros diálogos (sobre todo Protágoras, Leyes, Político y Parménides), para profundizar en el tema de la medida y su técnica propia, la metrética, que ocupa un lugar importante en la filosofía gracias a las semejanzas que tiene con lo que Aristóteles elaborará sobre la justa medida. Con el capítulo noveno el lector encuentra una ayuda para comprender mejor la relación entre cuidado del alma, cuidado del hombre y cuidado de la sociedad según el pensamiento platónico (p. 406). Migliori sintetiza la doctrina sobre el alma y la prioridad de esta respecto del cuerpo, sin que ello implique un desprecio total de la dimensión corporal en el hombre. De allí se desprende la propuesta de trabajar en el autodominio y en el cuidado del alma, que aparece ya en la Apología y que reaparece en otros Diálogos, llegando hasta las Leyes (cf. especialmente pp. 411-426). Este capítulo es especialmente ilustrativo de temáticas constantes en el pensamiento de Platón, como la propuesta del carácter educativo de las leyes (pp. 447-449); o el nexo (problemático pero que debe ser encontrado) entre vida virtuosa y felicidad (pp. 461-468); o la apertura a la vida más allá de la muerte, a la escatología como horizonte necesario para la comprensión del sentido y de la finalidad de la aceptación de la justicia como criterio para el propio actuar (pp. 468-471). El tema de la amistad (philía), con sus diversos matices, ocupa la atención del capítulo décimo. Tras una breve descripción de los diversos significados que tiene el término en Platón (pp. 475-477), el Autor subraya la dimensión política y educativa que puede darse a la amistad (pp. 477-482), para luego fijarse en dos diálogos más concretos, el Critón y el Lisis, con algunas breves relaciones con lo que también se dice sobre la philía en las Leyes. El capítulo concluye comparando los planteamientos diferentes pero no totalmente incompatibles de Platón y de Aristóteles sobre el argumento. Va más allá de la filosofía antigua el capítulo undécimo, que analiza el paradigma griego de afrontar el tema de la inmortalidad, y luego el paradigma bíblico centrado en la resurrección de los muertos. Migliori presenta al inicio las ideas sobre la muerte y el alma en el antiguo mundo griego, en Platón y en Aristóteles. A continuación, hace un rápido resumen de lo que la Biblia y la cultura hebraica pensaban sobre la unidad del hombre, sobre la vida tras la muerte, sobre el pecado y sobra la resurrección. Con los datos expuestos, puede destacar las diferencias profundas entre la visión griega y la bíblica sobre el hombre y sobre el más allá, con la ayuda (no exenta de dificultades) de algunas tesis de O. Culmann (pp. 529-531). El último capítulo podría considerarse como una especie de síntesis de la propuesta interpretativa de Migliori, al poner como centro de atención la conveniencia de un acercamiento multifocal a la hora de interpretar el pensamiento platónico y el aristotélico. El Autor considera que el modelo evolutivo, que tanta difusión tuvo durante el siglo XX, no ha sido capaz de explicar adecuadamente los textos de los grandes autores del mundo griego, y por eso propone, sobre todo a la hora de interpretar a Platón y a Aristóteles, un acercamiento multifocal (multifocal approach), respetuoso sea de la complejidad de los textos, sea del mismo planteamiento que el fundador de la Academia expone en algunos Diálogos (cf. especialmente pp. 555-559). Al final se ofrece un índice de nombres y, tras el índice, un elenco de obras de Maurizio Migliori. Falta una sección que refleje en su conjunto la bibliografía citada en el volumen. Como parte de un largo camino de investigaciones sobre Platón y sobre otros argumentos de la filosofía griega, esta publicación sirve para profundizar en temas fundamentales de la reflexión humana que, desde las primeras etapas del pensamiento racional, siguen siendo objeto de interés al ofrecernos caminos para conseguir un mayor acercamiento a la verdad.
Fernando Pascual, L.C.
Fernando Pascual, Professore Ordinario della Facoltá di Filosofia, Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, Roma.
This website uses cookies to improve your experience. We'll assume you're ok with this, but you can opt-out if you wish.AcceptRead More
Privacy & Cookies Policy
Privacy Overview
This website uses cookies to improve your experience while you navigate through the website. Out of these, the cookies that are categorized as necessary are stored on your browser as they are essential for the working of basic functionalities of the website. We also use third-party cookies that help us analyze and understand how you use this website. These cookies will be stored in your browser only with your consent. You also have the option to opt-out of these cookies. But opting out of some of these cookies may affect your browsing experience.
Necessary cookies are absolutely essential for the website to function properly. This category only includes cookies that ensures basic functionalities and security features of the website. These cookies do not store any personal information.
Any cookies that may not be particularly necessary for the website to function and is used specifically to collect user personal data via analytics, ads, other embedded contents are termed as non-necessary cookies. It is mandatory to procure user consent prior to running these cookies on your website.