Donatella Di Cesare – La veglia è il preludio della filosofia. L’armonia nascosta che governa il cosmo è racchiusa nel lógos. Ma chi vorrà ascoltare il lógos? molti Vivono ripiegati su di sé, come se dormissero, prigionieri della propria privatezza. Eraclito denuncia ciò che impedisce di accedere a quel che è comune, restando nell’isolamento della notte, precludendosi la partecipazione al giorno comune e al mondo comune.

Donatella Di Cesare 01

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«I filosofi sono i sublimi migranti del pensiero»

La veglia è stata sin dall’inizio tema peculiare della filosofia.
Al punto da divenirne la rappresentazione simbolica, la metafora perspicua che la precede, prima ancora che la filosofia abbia un nome. Misterioso sorgere del lume interiore che segna il riaffiorare dalla notte, forza del richiamo, stupore della vita che si desta, ritorno a sé: questo è anzitutto la filosofia.
A sciogliere dal mito il chiarore diurno, innalzandolo a categoria metafisica, è stato Eraclito, detto l’«oscuro», per il suo stile enigmatico e oracolare. Si inaugura così l’avventura del pensiero che, guidato dalla luce del lógos, articola il mondo, che diventa cosmo, dispiegandosi in un superamento ininterrotto del proprio angusto, infimo raggio, verso una sfera sempre più vasta, elevata e comune.
Ben poco si sa della vita di Eraclito. I biografi antichi gli attribuirono stirpe regale. Diogene Laerzio dice che fu «altero quant’altri mai e superbo» (IX, i – A i). Quel suo atteggiamento, quasi sprezzante, era dovuto a un dissidio con i concittadini, ai quali rimproverava l’esilio imposto al suo amico Ermodoro dopo la fallita rivoluzione democratica. Efeso, città della Ionia, al confine tra la costa turca e il mare europeo, non era ancora Atene. Ma le tensioni non mancavano. Eraclito si estraniò, risentito, dalla vita politica, rifiutò la richiesta di dare leggi alla polis, che gli appariva oramai governata da una cattiva Costituzione. Si ritirò nel tempio di Artemide, dove la leggenda vuole che deponesse il suo grande libro suddiviso in tre discorsi: il primo sul tutto, il secondo politico, il terzo teologico. Qualcuno in seguito diede all’opera un titolo ricorrente: Perì phúseos. Quasi che Eraclito avesse scritto un trattato sulla phúsis, sulla natura intesa come principio e sostanza di tutte le cose. A consolidare questa visione, fuorviante e riduttiva, contribuì Aristotele. Esiste, tuttavia, un’antica tradizione, impersonata ancora dallo stoico Diodoto, secondo cui il libro di Eraclito, a parte alcuni esempi, non aveva nulla a che fare con la natura e affrontava invece argomenti politici: perì politeías.

D’altronde non è difficile riconoscere, su uno sfondo numinoso, l’ispirazione politico-tragica del pensiero di Eraclito negli oltre centoventi frammenti che restano della sua opera. A parlare non è tanto l’indagatore del cosmo, quanto il severo guardiano della città, l’interprete del pólemos, quel conflitto, «padre» di tutte le cose, che su tutte regna (B 53). La contesa della pólis viene proiettata sulla realtà per scrutarne a fondo la legge che la governa, per collegare ciò che è apparentemente sparso e molteplice nella sua unità, per cogliere la palíntropos harmoníe, la «discorde armonia» dei contrari (B 51). È la città a offrire il paradigma ermeneutico del mondo.
Percepire in ogni differenza l’uno: questo è il merito di Eraclito, precursore riconosciuto della dialettica. Così ha scritto Hegel: «qui vediamo finalmente terra: non c’è frase di Eraclito che io non abbia accolto nella mia Logica». Occorre tuttavia evitare forzature di prospettiva storica. La concordia degli opposti, quell’enigmatico legame eli cui parla Eraclito, non è l’unità speculativa, ma piuttosto il passaggio repentino per cui l’uno si muta incessantemente nell’altro: vita e morte, giorno e notte, veglia e sonno, estate e inverno, pace e guerra. Erroneamente questa visione è stata irrigidita in una dottrina del divenire perenne, del fluire, quel pánta rheî, di cui non si rinviene traccia nei frammenti di Eraclito, il quale ricorda sì il fiume – in cui «entriamo e non entriamo, siamo e non siamo» (B 49a) – per insistere, però, sull’alternarsi delle acque sempre diverse. Non sorprende che sia in particolare il fuoco, che vive trasformandosi, che muta a seconda dei profumi con cui si mescola, a restituire visivamente la concorde armonia degli opposti.
A questa legge non si sottraggono neppure i nomi che, anzi, portano alla luce le opposizioni. Eraclito inaugura la schiera di quei pensatori che guardano al linguaggio per comprendere la realtà. L’armonia nascosta, che governa il cosmo, è racchiusa nel lógos, secondo cui tutto accade, legge eterna e universale, capace di regolare il divenire, che non è un cieco precipitare, bensì un sapiente trascorrere da un contrario all’altro.
Ma chi vorrà ascoltare il lógos?
[…] Ecco la domanda di Eraclito, che contiene già un monito.
Sordi, assenti, quasi assopiti, preda di flussi onirici e opinioni particolari, lontani da ciò che è saggio, sophón, i mortali si sottraggono all’ascolto. Vivono ripiegati su di sé, come se dormissero, prigionieri della propria privatezza, della loro asfittica meschinità.
Così viene denunciata l’idiozia, che etimologicamente – idiótes deriva da ídios, proprio – in greco rinvia alla proprietà.
Impossibile allora accedere a quel che è comune, koinón.
Eraclito usa la forma ionica xunón che, con un gioco di parole, riconduce a xùn nôi, cioè con il noûs, «con la ragione» (B 114).
Non solo l’intelligenza è comune, ma è sull’intelligenza che si basa ciò che è comune.
Non si tratta di intuizione immediata, bensì di conoscenza ordinatrice del cosmo che si articola e si raccoglie nel lógos.
Idiota è chi rifiuta l’ascolto, chi resta nell’isolamento della notte, precludendosi la partecipazione al giorno comune e al mondo comune.
Così suona la sentenza di Eraclito: «unico e comune è il mondo per coloro che sono desti, mentre nel sonno ciascuno si rinchiude in un mondo suo proprio e particolare» (B 89).

[…] La veglia è il preludio della filosofia.

Il richiamo alla veglia torna incessante nei frammenti. In seguito la filosofia farà sua questa esortazione.
Pensare è aver parte alla vigilanza del lógos che accomuna.
La «saggezza privata», idía phrónesis, è un ossimoro, perché quel che affiora nel singolo, sogni, immagini, opinioni, idee, non è che vuota, morta illusione. Tale è destinata a rimanere, finché non trovi la via della comunanza.
Dunque no, non dormite!
Non lasciatevi andare al sonno dell’idiozia privata!
Così ripete Eraclito rivolto ai più che vivono nel torpore. «Non bisogna agire e parlare come se si stesse dormendo», ingiunge perentorio (B 73).

 

Donatella Di Cesare, Sulla vocazione politica della filosofia, Bollati Boringhieri, Torino 2018, pp. 16-20.

 

 

 

 

Quarta di copertina
È tempo che la filosofia torni alla città. Anzitutto per risvegliarla da quel sonnambulismo che la narcosi di luce del capitale ha provocato. Ma quale margine ha il pensiero nel mondo globalizzato, chiuso in se stesso, incapace di guardare fuori e oltre? Mentre viene richiamata alla sua vocazione politica, la filosofia è spinta a non dimenticare la sua eccentricità, la sua atopia. Nata dalla morte di Socrate, figlia di quella condanna politica, sopravvissuta a salti coraggiosi e rovesci epocali, come nel Novecento, la filosofia rischia di essere ancella non solo della scienza, ma anche di una democrazia svuotata, che la confina a un ruolo normativo. In questo libro, dove traccia le linee del proprio pensiero, tra esistenzialismo radicale e nuovo anarchismo, Donatella Di Cesare riflette sul rientro della filosofia nella pólis, divenuta metropoli globale. Non bastano la critica e il dissenso. Memori della sconfitta, dell’esilio, dell’emigrazione interna, i filosofi tornano per stringere un’alleanza con gli sconfitti, per risvegliarne i sogni.

Donatella Di Cesare


Epicuro (342 a.C. – 270 a.C.) – Né quando uno è giovane esiti a filosofare, né quando è vecchio si stanchi di dedicarsi alla filosofia.

Μήτε νέος τις ὢν μελλέτω φιλοσοφεῖν, μήτε γέρων ὑπάρχων κοπιάτω φιλοσοφῶν. οὔτε γὰρ ἄωρος οὐδείς ἐστιν οὔτε πάρωρος πρὸς τὸ κατὰ ψυχὴν ὑγιαῖνον. ὁ δὲ λέγων ἢ μήπω τοῦ φιλοσοφεῖν ὑπάρχειν ὥραν ἢ παρεληλυθέναι τὴν ὥραν, ὅμοιός ἐστιν τῷ λέγοντι πρὸς εὐδαιμονίαν ἢ μὴ παρεῖναι τὴν ὥραν ἢ μηκέτι εἶναι. ὥστε φιλοσοφητέον καὶ νέῳ καὶ γέροντι, τῷ μὲν ὅπως γηράσκων νεάζῃ τοῖς ἀγαθοῖς διὰ τὴν χάριν τῶν γεγονότων, τῷ δὲ ὅπως νέος ἅμα καὶ παλαιὸς ᾖ διὰ τὴν ἀφοβίαν τῶν μελλόντων· μελετᾶν οὖν χρὴ τὰ ποιοῦντα τὴν εὐδαιμονίαν, εἴπερ παρούσης μὲν αὐτῆς πάντα ἔχομεν, ἀπούσης δὲ πάντα πράττομεν εἰς τὸ ταύτην ἔχειν.

 

Né quando uno è giovane esiti a filosofare, né quando è vecchio si stanchi di dedicarsi alla filosofia. Infatti nessuno è né prematuro né fuori stagione per ciò che rende sani nella mente. Invece colui che dice o che non è ancora presente la stagione del praticare la filosofia o che è passata la stagione è simile a colui che dice che per la felicità o non è arrivata la stagione o non c’è più. Cosicché è necessario che pratichi la filosofia sia il giovane sia il vecchio, questo affinché invecchiando resti giovane per gli aspetti positivi della vita grazie alla soddisfazione delle cose passate, l’altro invece affinché sia giovane e nello stesso tempo vecchio per la mancanza di timore delle cose future; bisogna dunque esercitare le attività che determinano la felicità, se è vero che, quando essa è presente abbiamo tutto, quando invece è assente facciamo tutto allo scopo di averla.

 

Epicuro, Epistola a Meneceo, 122.

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Lettera a Meneceo


Epicuro, busto marmoreo, copia romana dell’originale greco (III secolo-II secolo a.C.), Londra, British Museum.
Epicuro (342 a.C. – 270 a.C.) – Con maggior piacere gode dell’abbondanza chi meno di essa ha bisogno

Salvatore Bravo – Tra “oti” e “dioti”. Una civiltà si giudica dalla pratica della verità con la quale si autofonda. Senza radicamento comunitario non vi è futuro per il singolo come per l’umanità, il bisogno di radicamento è il paradigma che distingue la vita buona dalla non vita.

Simone Weil 034

Salvatore Bravo

Tra “oti” e “dioti”

Una civiltà si giudica dalla pratica della verità con la quale si autofonda, il dioti /propter quid (il perché) deve vivere in tensione con l’oti /quod est (il che). Se tra il perché ed il che non vi è dialettica, ci si trova di fronte a forme di integralismo dogmatico. L’oti descrive il fenomeno, lo rappresenta separato dalla totalità senza intenderne il senso, il telos a cui tende. La descrizione è finalizzata al risultato ed all’utile. Il dioti interpreta in profondità, umanizza e spalanca le porte al vivere comunitario, in quanto coglie con la razionalità la verità, senza la quale non vi è politica, non vi è prassi, non vi è comunità. Se l’oti consente di misurare per usare, la verità è la precondizione per un comune progetto: senza il dioti non vi è umanesimo, ma solo tecnocrazia. La verità è al plurale, essa è nella storia di una comunità e dell’umanità. Il tempo della storia svela le contingenze distinguendole dall’eterno. Altra è l’esattezza che quantifica e consente di prevedere la ripetizione del fenomeno. Senza verità la vita di un essere umano è esposta agli eventi, è determinata dalle strutture di calcolo, è sussunta divenendo ente da misurare per essere controllato come semplice fondo di investimento (il capitale umano).
La verità si rivela nella razionalità dialogica in modo sempre perfettibile e pone l’essere umano in una posizione di attività e di cura verso l’ambiente, in tal maniera il tempo da cronologico (χρόνος-chronos) diviene qualitativo (καιρός-kairos).
Il tempo del kairos è tempo speciale, tempo nel quale gli attimi non si succedono eguali ed anonimi, ma rivelano la verità individuale ed universale senza contrapporle, ma fondendole nel tripudio della vita che si ritrova nel pensiero, che si umanizza nel concetto (Begriff) senza il quale non vi è che la dispersione, l’emorragia degli attimi e delle vite.

Diritti e doveri
Simone Weil distingue i doveri dai diritti, i primi sono necessità oggettivamente presenti nell’essere umano, mentre i diritti dipendono dalle contingenze e dal reciproco riconoscimento degli esseri umani. Senza il dovere il diritto non è che abuso, arbitrio, in quanto il riconoscimento dei doveri è la conditio sine qua non per un’esistenza degna di essere giudicata tale. Non vi è comunità senza il riconoscimento dei bisogni autentici degli esseri umani. Il dovere precede il diritto e continuerebbe ad esistere anche senza il riconoscimento degli esseri umani: è la verità di ciascuno, a cui non si può sfuggire.
Il dovere rispetto alla verità, ai beni collettivi, all’ordine armonico, umanizzano e sono propri dell’essere umano: senza di essi anche la civiltà più avanzata non si distingue dallo stato ferino. Simone Weil riflette con inquietudine, durante la seconda guerra mondiale sul mondo che verrà, un mondo di cui profetizza il trionfo dei diritti sui doveri, uno sbilanciamento che raffigura il concretizzarsi di nuove forme di violenze.
Il dovere di riconoscere i bisogni autentici è sostituito dai diritti contingenti (ed unicamente da questi): si è dinanzi ad un fenomeno di degradazione della natura umana. I soli diritti non possono che degenerare in desideri, in individualismo e dismisura. Il disordine della psiche è così istituzionalizzato, e l’essere umano è consegnato al disordine dei desideri indotti dalla struttura economica e dai poteri tecnocratici. Il diritto deve trovare il suo senso ed il suo limite proficuo nei bisogni della persona:

«Il primo criterio di distinzione dei bisogni dai desideri, dalle fantasie e dai vizi, dei cibi dalle ghiottonerie e dai veleni è che i bisogni sono limitati quanto i cibi corrispondenti. Un avaro non ha mai abbastanza oro, ma per ogni uomo, cui venga dato pane a volontà, verrà il momento della sazietà. Il nutrimento porta alla sazietà. Avviene lo stesso col nutrimento dell’anima. Il secondo criterio, legato al primo, è che i bisogni si dispongono per coppie di contrari e devono combinarsi in un equilibrio. L’uomo ha bisogno di nutrimento, ma anche di un intervallo fra i pasti; ha bisogno di caldo e di fresco, di riposo e di esercizio. Avviene lo stesso per i bisogni dell’anima».[1]

I desideri si connotano per essere illimitati, occupano ogni spazio psichico provocando lo sradicamento da sé e dalla comunità, sono gli alfieri del diritto a tutto, provocano l’isolamento dell’essere umano da sé e dal mondo. Il ripiegamento su se stessi è la forza con cui i poteri tecnocratici conservano il loro potere. Il desiderio si presenta come paradigma di valutazione della vita provocando la perenne rincorsa ai consumi ed alla frustrazione di massa.
I bisogni autentici disegnano un ordito di senso intorno ai diritti socialmente riconosciuti, e specialmente consentono di discernere il bisogno dai desideri, mettendo in moto i processi di disalienazione. La misura disegna l’equilibrio nell’anima e nella comunità.

Verità
Il primo bisogno per un essere umano è la verità, dalla verità verso se stessi, alla verità dell’informazione. Una comunità nazionale che non riconosce il bisogno alla verità recide in ogni essere umano la prima radice che lo tiene in vita e che lo tiene legato agli altri, al proprio tempo, alla propria storia. L’essere umano necessita di molte radici, di piani di verità che si integrano, senza i quali la vita non è che anomia ed è vissuta come priva di valore: è il regno del grigiore delle passioni debilitanti. Se la verità è sostituita dalla menzogna, si diffonde un profondo senso di scoramento e smarrimento, ci si rifugia in mondi paralleli, in oppiacei che se nell’immediato sono di ausilio per sopportare l’insopportabile, sul lungo periodo riducono l’essere umano ad atomo insignificante:

«Il bisogno di verità è il più sacro di tutti. Eppure non se ne parla mai. La lettura fa spavento, quando ci si sia resi conto della quantità e dell’enormità di menzogne materiali, diffuse senza vergogna anche nei libri degli autori più stimati. E così leggiamo come se si bevesse acqua di un pozzo sospetto. Ci sono uomini che lavorano otto ore al giorno e che, di sera, compiono l’enorme sforzo di leggere per istruirsi. Non possono concedersi il lusso di effettuare ricerche e verifiche nelle grandi biblioteche. Al libro che leggono, essi prestano fede. Non abbiamo il diritto di nutrirli di menzogne. Che senso può avere opporre la buona fede degli autori? Essi non lavorano fisicamente otto ore al giorno. La società li nutre perché abbiano tempo e modo per sforzarsi di evitare gli errori. Un addetto agli scambi che abbia provocato un deragliamento troverebbe una pessima accoglienza se volesse scusarsi dicendo di essere stato in buona fede».[2]

Il bisogno di verità non è riconosciuto nell’epoca del totalitarismo capitalista. Ci si sofferma sul diritto ad essere informati della giusta quantificazione, nei migliori dei casi, ma la verità è trattata con aria di sussiego come un limite all’esattezza, all’espansione economica illimitata. E comunque nessuno deve discutere la “verità” dell’espansione economica, il fondamento che la dinamizza. Senza la verità non vi è comunità democratica, perché solo il fine veritativo mediato dalla ragione – e dunque compreso – permette di cambiare rotta, di deviare in modo consapevole da una “verità” che si rivela come contingente e posticcia.
La verità è negata anche a livello personale. Ciascun individuo è portatore di un universo, di un’indole che si determina storicamente: il radicamento in se stessi è la condizione per partecipare e dialogare alla vita comunitaria, lo sradicamento dalla propria verità personale è la necrosi di un essere umano, che si ritrova nella gettatezza distante da sé e da tutti, esposto agli eventi e dunque manipolabile.

L’appartenenza patria
Le radici sono al plurale, il bisogno di radicamento si esplica nella viva tradizione della comunità patria in cui ci si riconosce, di cui si condivide il destino storico e dunque verso la quale ci si responsabilizza. Le radici si nutrono dello spirito, della cultura. Senza tale nutrimento le radici avvizziscono, il soggetto umano non ha la possibilità di formarsi e di pensare in modo divergente. Le radici gemmano, producono nuovi rizomi, se ogni individuo sente il legame non come catena, ma come l’esserci di senso, si riconosce in una storia per riplasmarla nuovamente. Il cosmopolitismo, il relativismo sempre più spinto verso il nichilismo passivo depaupera l’essere umano del suo bisogno di appartenenza, della sua disposizione al dono. Lo si deresponsabilizza in modo da ripiegarlo su se stesso, rendendolo indifferente alla vita altrui. L’indifferenza slega, è il sentimento antipolitico per eccellenza:

«Non è possibile soddisfare l’esigenza di verità di un popolo se a tal fine non si riesce a trovare uomini che amino la verità. Il radicamento è forse il bisogno più importante e più misconosciuto dell’anima umana. È tra i più difficili da definire. Mediante la sua partecipazione reale, attiva e naturale all’esistenza di una collettività che conservi vivi certi tesori del passato e certi presentimenti del futuro, l’essere umano ha una radice. Partecipazione naturale, cioè imposta automaticamente dal luogo, dalla nascita, dalla professione, dall’ambiente. Ad ogni essere umano occorrono radici multiple. Ha bisogno di ricevere quasi tutta la sua vita morale, intellettuale, spirituale tramite gli ambienti cui appartiene naturalmente». [3]

Le radici multiple magnificano l’essere umano, trasformano frustrazioni ed aggressività, le sublimano in attività creatrice. Senza radici multiple la persona è fragile e riempie il suo tempo di merci e desideri. Si limitano, così, le capacità di creare spazio per nuove possibilità concettuali. Il tempo senza radici è colmo di cose, di desideri indotti, è tempo del sistema che si installa nella carne.

Beni collettivi
I beni collettivi rivelano che la persona è per essenza comunitaria. Nel bene collettivo l’essere umano vive in modo concreto l’appartenenza alla storia, alla grande famiglia della comunità patria. Lo spazio comune forma personalità solidali, pronte all’incontro. I beni collettivi sono l’agorà dove la parola è comunicazione. Senza beni pubblici non vi è vita civica, ma solo frammentazione competitiva e narcisistica:

«Un bisogno altrettanto importante è la partecipazione ai beni collettivi, partecipazione che non consiste in una fruizione materiale, ma in un sentimento di proprietà. Si tratta più di uno stato spirituale che di una disposizione giuridica. Là dove esiste veramente una vita civica, ognuno si sente personalmente proprietario dei monumenti pubblici, dei giardini, della magnificenza esibita nelle cerimonie; e così, il lusso che quasi ogni essere umano desidera è concesso persino ai più poveri. Ma non solo lo stato bensì qualsiasi specie di collettività ha il dovere di fornire la soddisfazione di questo bisogno».[4]

Lo sradicamento
La prima forma di sradicamento nel capitalismo avanzato è la precarizzazione del lavoro. Il precario ha un solo pensiero: il denaro. Per il precario non vi è possibilità di radicamento e di buona vita, perché è ossessionato dal denaro, dal timore di non poter soddisfare il minimo vitale, sempre esposto al ricatto della disoccupazione e della facile sostituzione dei lavoratori. Nel precario si consuma la tragedia del capitalismo, ma ne svela, anche, la verità violenta: il fine del capitalismo è lo sfruttamento ed il plusvalore:

«Esiste una condizione sociale – il salariato – completamente e perpetuamente legata al danaro, soprattutto da quando il salario a cottimo costringe ogni operaio ad essere sempre teso mentalmente alla busta paga. La malattia dello sradicamento raggiunge il massimo di gravità proprio in questa condizione sociale. Bernanos ha scritto che i nostri operai, almeno, non sono gente immigrata come quelli del signor Ford. Ma la principale difficoltà sociale del nostro tempo deriva dal fatto che essi, in un certo senso, lo sono. Benché geograficamente non abbiano mutato dimora, sono stati sradicati moralmente, esiliati e poi riammessi di nuovo, quasi per tolleranza, come carne da lavoro. La disoccupazione, beninteso, è uno sradicamento alla seconda potenza. Non si sentono in casa propria né in fabbrica, né nelle loro abitazioni, né nei partiti e sindacati che si dicono fatti per loro, né nei luoghi di divertimento, né nella cultura intellettuale, qualora tentino di assimilarla». [5]

 

Violenza e sradicamento
Lo sradicamento è vettore di violenza, la centuplica: lo sradicato non ha vincoli e pertanto è disponibile ad essere veicolo di sradicamento. Lo sradicato non ha storia, non ha riferimenti etici, si sente gettato al mondo, non se ne sente parte o accolto, per cui l’aggressività è la sua difesa, la rabbia covata a lungo è pronta scaricarsi senza mediazione del logos:

«Da alcuni secoli, gli uomini di razza bianca hanno distrutto dovunque il passato, stupidamente, ciecamente, nelle loro patrie e nelle patrie altrui. Se ciò nonostante c’è stato, per taluni aspetti, un reale progresso nel corso di questo periodo, ciò non è accaduto per merito di questa furia distruttiva, ma suo malgrado, per l’impulso di quel poco di passato che sopravviveva. Il passato distrutto non torna mai più. La distruzione del passato è forse il delitto supremo. Ai giorni nostri, la conservazione di quel poco che resta dovrebbe diventare quasi un’idea fissa. Bisogna arrestare il terribile sradicamento che viene continuamente prodotti dai metodi coloniali europei, persino quando assumono le forme meno crudeli. Bisogna astenersi, dopo la vittoria, dal punire il nemico vinto, perché così lo si sradicherebbe anche di più. Poiché non è possibile né desiderabile sterminarlo, aggravare la sua follia vorrebbe dire essere più pazzi di lui. In qualsiasi innovazione politica, giuridica o tecnica suscettibile di ripercussioni sociali, bisogna anzitutto mettere in programma provvedimenti che consentano agli esseri umani di riavere radici». [6]

L’alternativa alla violenza per lo sradicato è l’indifferenza, la malinconia depressiva dovuta al sentirsi nulla, all’estraneità al mondo. I cosiddetti Neet, giovani che consumano la loro esistenza nell’indifferenza e nella passività, denunciano la disumanità dello sradicamento, il silenzio di un mondo che, mentre offre l’esattezza nega i bisogni primi senza i quali non vi è che il vuoto alienante dei giorni che si susseguono eguali.

Senza radicamento comunitario non vi è futuro per il singolo come per l’umanità, il bisogno di radicamento è il paradigma che distingue la vita buona dalla non vita:

«L’anima umana ha bisogno più d’ogni altra cosa di essere radicata in molteplici ambienti naturali e di comunicare con l’universo per il loro tramite. La patria, gli ambiti definiti dalla lingua, dalla cultura, da un passato storico comuni, la professione, il paese, sono esempi di ambienti naturali. È criminale ciò che ha per effetto di sradicare un essere umano o di impedire che metta radici». [7]

La globalizzazione riduce le radici, le assottiglia, sradica in senso orizzontale e verticale. Non resta che lo spazio ed il tempo da attraversare, da fendere in modo continuo. Si assiste ad una rivoluzione antropologica che vorrebbe negare ogni forma di umanesimo in nome dei soli diritti formali ed individuali. Simone Weil comprese che la fine del conflitto comportava nuovi pericoli e controcorrente pose al centro del suo testo la necessità di praticare i bisogni che permettono all’essere umano la buona vita.

Salvatore Bravo

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[1] Simone Weil, La prima radice, traduzione di Franco Fortini, Mondadori, Milano, p. 6.

[2] Ibidem.

[3] Ibidem, p.21

[4] Ibidem, p. 18

[5] Ibidem, p. 22

[6] Ibidem, p. 25

[7] Simone Weil, Écrits de Londres et dernières lettres, Éditions Gallimard, Paris 1957, p. 83.

Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – È infatti la costituzione dello Stato che forma gli uomini, buoni, se essa è buona, malvagi in caso contrario.

Platone, Menesseno

πολιτεία γὰρ τροφὴ ἀνθρώπων ἐστίν,

καλὴ μὲν ἀγαθῶν,

ἡ δὲ ἐναντία κακῶν […].

 

 

È infatti la costituzione dello Stato che forma gli uomini,

buoni, se essa è buona,

malvagi in caso contrario […].

 

 

Platone, Menesseno, 238 C, in Id. , Tutti gli scritti, a cura di Giovanni Reale, traduzione di Maria Teresa Liminta, Bompiani, Milano 2016, p.1044.


Platone, «Filebo» – Senza possedere né intelletto né memoria né scienza né opinione vera, tu saresti vuoto di ogni elemento di coscienza
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – Coloro che sono privi della conoscenza di ogni cosa che è, e che non hanno nell’anima alcun chiaro modello, non possono rivolgere lo sguardo verso ciò che è più vero e non possono istituire norme relative alle cose belle e giuste e buone.
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – Le relazioni con gli stranieri sono atti di particolare sacralità. Lo straniero si trova ad essere privo di amici e parenti, e quindi è affidato in modo particolare alla solidarietà degli dei e degli uomini. Non c’è colpa peggiore per un uomo che un torto fatto ai supplici
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – Non esiste male maggiore che un uomo possa patire che prendere in odio i ragionamenti. L’odio contro i ragionamenti, e quello contro gli uomini, nascono nella stessa maniera.
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – È questo il momento nella vita che più di ogni altro è degno di essere vissuto da un essere umano: quando contempla il bello in sé. La misura e la proporzione risultano essere dappertutto bellezza e virtù.
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – L’educazione è l’orientamento dell’anima alla virtù. La virtù è il piacere verso ciò che bisogna amare e l’avversione verso ciò che bisogna odiare
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – Non il vivere è da tenere in massimo conto, ma il vivere bene. E il vivere bene è lo stesso che vivere con virtù e con giustizia. Per nessuna ragione si deve commettere ingiustizia.
Platone & Aristotele – Il principio della filosofia non è altro che esser pieni di meraviglia, perché si comincia a filosofare a causa della meraviglia.

Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – Non il vivere è da tenere in massimo conto, ma il vivere bene. E il vivere bene è lo stesso che vivere con virtù e con giustizia. Per nessuna ragione si deve commettere ingiustizia.

Platone, Critone

«Non il vivere è da tenere in massimo conto, ma il vivere bene.
[…] E il vivere bene è lo stesso che vivere con virtù e con giustizia»
(Platone, Critone, 48 B).

***

«Neppure se si subisce ingiustizia si deve rendere ingiustizia,
come, invece, crede la gente,
perché per nessuna ragione si deve commettere ingiustizia.
[…] Il far male agli uomini, infatti, non differisce in nulla dal fare ingiustia»
(Platone, Critone, 49 B-C).

 

Platone, Critone, in Id., Tutti gli scritti, a cura di Giovanni Reale, Bompiani, Milano 2016, VIII ed., p. 59.

Platone, «Filebo» – Senza possedere né intelletto né memoria né scienza né opinione vera, tu saresti vuoto di ogni elemento di coscienza
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – Coloro che sono privi della conoscenza di ogni cosa che è, e che non hanno nell’anima alcun chiaro modello, non possono rivolgere lo sguardo verso ciò che è più vero e non possono istituire norme relative alle cose belle e giuste e buone.
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – Le relazioni con gli stranieri sono atti di particolare sacralità. Lo straniero si trova ad essere privo di amici e parenti, e quindi è affidato in modo particolare alla solidarietà degli dei e degli uomini. Non c’è colpa peggiore per un uomo che un torto fatto ai supplici
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – Non esiste male maggiore che un uomo possa patire che prendere in odio i ragionamenti. L’odio contro i ragionamenti, e quello contro gli uomini, nascono nella stessa maniera.
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – È questo il momento nella vita che più di ogni altro è degno di essere vissuto da un essere umano: quando contempla il bello in sé. La misura e la proporzione risultano essere dappertutto bellezza e virtù.
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – L’educazione è l’orientamento dell’anima alla virtù. La virtù è il piacere verso ciò che bisogna amare e l’avversione verso ciò che bisogna odiare

Gabriel Marcel (1889-1973) – La tecnica si rivela incapace di salvare l’uomo da se stesso, e l’uomo si mostra pronto anche a concludere con il nemico, che porta infondo a sé, le più terribili alleanze. La vita in un mondo regolato sull’idea di funzione è esposta alla disperazione, sbocca nella disperazione, perché in realtà questo mondo è vuoto.

GabrielMarcel 01
Edvard Munch, Melanconia.

Salvatore Bravo

Il postulato della malinconia

 

L’epoca delle passioni tristi ha le sue ragioni. La malinconia esistenziale è stata ontologizzata: essa accade semplicemente. Dinanzi a tale constatazione ideologica è necessario smascherare il misticismo esistenziale-positivistico, il quale ha come fondamento il postulato della malinconia. Il capitalismo assoluto favorisce il diffondersi e l’affermarsi di filosofie da integrare col sistema vigente, che possano valere da sgabello-pseudofondamento per giustificare il clima di umor nero dello stato presente. Scienze e filosofie di tal genere – con l’arretrare della speranza – favoriscono la gabbia d’acciaio del sistema capitale. L’esistenza defraudata, saccheggiata delle sue possibilità di senso e di speranza – ed omologata sull’impersonale – diviene la giustificazione al consumo illimitato e consolatorio. Il capitalismo ha trovato nel ciclo produzione-consumo il balsamo alle passioni tristi, presentandosi come il consolatore degli afflitti, ma in realtà ne è la causa sottesa.
La filosofia dev’essere radicale nella sua critica sociale, nella prassi della consapevolezza. Gabriel Marcel lo è stato. Nella contingenza attuale il pensiero radicale deve includere nell’orizzonte critico filosofi di differente orientamento di pensiero per costruire processi plurali di critica. Gabriel Marcel, nella sua archeologia della tristezza esplicita, coglie lo strato profondo della tristezza e della disperazione: esse sono determinate dalla riduzione dell’essere umano a sola funzione. In tal modo la persona è presa in un vortice siderale di mortificazione ed alienazione, poiché è resa ente inerte che deve sottostare alle leggi del capitalismo alleato con la tecnocrazia e con la psicologia adattiva che rappresentano l’essere umano come un ente fisico che deve sottostare alle sole funzioni di natura fisico-biologica iscritte nel corpo vissuto.
Le funzioni vitali delineano l’essere umano come rispondente ad apparati e movimenti anatomici che devono solo consumare per vivere; le funzioni sociali sono curvate sullo scambio, sulla compravendita ed il plusvalore; la funzione psicologica media l’attività anatomica con le funzioni sociali.
L’io minimo è già in Gabriel Marcel, è l’elemento di congiunzione tra le funzioni vitali e sociali e specialmente il mezzo attraverso il quale il dio capitale si perpetua. Si è in tal modo appendice del sistema, atomo che si muove nello spazio predefinito dal capitale. La prigione è ovunque, nella lingua, nei messaggi che sollecitano risposte stereotipate, nella libertà tradotta nel solo significato mercantile, nella circolazione di idee rispondenti ai “bisogni capitali”:

 

«L’individuo tende ad apparire non solo a se stesso ma anche agli altri come un semplice fascio di funzioni. Per ragioni storiche estremamente profonde e che senza dubbio comprendiamo ancora soltanto in parte, l’individuo è stato sempre più portato a trattare se stesso come un aggregato di funzioni, la gerarchia delle quali gli appare d’altronde problematica, soggetta in ogni caso alle più contraddittorie interpretazioni. Funzioni vitali in primo luogo; è appena sufficiente indicare il ruolo che in questa direzione hanno potuto svolgere da una parte il materialismo storico, dall’altro il freudismo. Funzioni sociali, in secondo luogo: funzione consumatore, funzione produttore, funzione cittadino, ecc. Tra le une e le altre v’è certo teoricamente posto per le funzioni psicologiche. Ma si vede subito che le funzioni propriamente psicologiche tenderanno ad essere sempre più interpretate sia in rapporto alle funzioni vitali, sia in rapporto alle funzioni sociali, la loro autonomia sarà precaria, come sarà contestata la loro specificità».[1]

 

La struttura economica si palesa nella cultura della funzione per poter dominare e riprodursi. Il corpo è funzione del consumo e del produrre, la psiche deve orientarsi all’individualizzazione del piacere, dell’apparire che separa, le funzioni sociali sono orientate alla competizione crematistica. Ogni possibilità altra è censurata mediante la pletora di stimoli e messaggi unidirezionali. L’orizzonte vitale ed esistenziale è così compresso sul presente, sull’immediato, sulla soddisfazione delle funzioni prestabilite, pena la marginalità sociale ed il silenzio dell’escluso.

 

Funzione e disperazione
Un buon osservatore non può non cogliere la disperazione del consumo compulsivo come della solitudine di coloro che sono disfunzionali rispetto alle richieste del mercato. L’essere umano è valutato per le prestazioni tradotte in linguaggio matematico, i mezzi di misurazione sempre più precisi “nanometrici” spingono ad una competizione senza limiti, c’è sempre un record da battere. Come nello sport, l’asticella è spostata sempre in più in alto, sempre più irraggiungibile e tagliente. Si è vincenti, nella società liquida, per un tempo sempre minore, si è esposti alla marginalità con una facilità e una velocità non sempre razionalizzabile. Il pensionato è la punta dell’iceberg della insocievole socievolezza del capitalismo assoluto, è l’immagine percettiva evidente della violenza della riduzione dell’essere umano a funzione la cui durata è ad obsolescenza programmata.
Il pensionato è riammesso tra i vivi solo se può essere parte di un nuovo mercato. Per entrarvi deve imitare e concorrere con il giovanilismo, aggiungendo alla disperazione la frustrazione di un traguardo impossibile e della negazione della propria identità:

 

«Non c’è bisogno di insistere sopra l’impressionante di soffocante tristezza che sale da un mondo così regolato sulla funzione. Mi limiterà qui ad evocare l’immagine penosa del pensionato, o anche quella strettamente connessa delle domeniche cittadine, quando la gente a passeggio dà precisamente la sensazione dei pensionati della vita. In un mondo di tal genere la tolleranza, che si concede al pensionato, ha qualcosa di derisorio e di sinistro. Ma non c’è solo la tristezza di chi guarda questo spettacolo; c’è anche il sordo, intollerabile malessere avvertito da colui che si vede ridotto a vivere come se si confondesse effettivamente con le proprie funzioni; e questo malessere dimostra a sufficienza che esiste un errore o un abuso d’atroce interpretazione, che un ordine sociale sempre più disumano e una filosofia ugualmente disumana (la quale, se ha performato questo ordine, si è in seguito su di esso modellato) hanno nella stessa misura contribuito a radicare nelle intelligenze senza difesa. […] La vita in un mondo regolato sull’idea di funzione è esposta alla disperazione, sbocca nella disperazione, perché in realtà questo mondo è vuoto, perché suona vuoto, se resiste alla disperazione, ciò avviene unicamente nella misura in cui giocano, in seno a tale esistenza e in suo favore, certe forze segrete che essa non ha la capacità di pensare o di riconoscere».[2]

 

L’essere umano resta tale malgrado il vuoto siderale in cui si muove. La resistenza è possibile, in quanto la profondità di ciascuno, il pensiero, ha la possibilità di raccogliersi per concettualizzare. Il pensiero è la forza metafisica che non si lascia cancellare dalla violenza del capitale. La disperazione è il sintomo attraverso il quale si può uscire dalla caverna che imprigiona, indica la presenza di una insoddisfazione metafisica che può essere il percorso che porta all’emancipazione.

 

Il pericolo
La tecnica, malgrado i suoi risultati, non riesce a salvare l’essere umano dalla disperazione, dalla dolorosa constatazione esistenziale che l’essere umano non è una funzione. Dinanzi a tale condizione vi sono opzioni, vie che si possono percorrere: compromesso con la tecnocrazia che diviene complicità, mentre la prassi nelle sue forme plurali riumanizza ciò che la tecnocrazia ha svuotato con il suo dogmatico incedere:

 

«È qui la ragione per cui può sembrare che oggi siamo entrati nell’epoca stesa della disperazione: non abbiamo smesso di credere alla tecnica, cioè di considerare la realtà come un insieme di problemi, e nello stesso tempo il fallimento globale della tecnica è tanto chiaramente visibile quanto lo sono i suoi trionfi parziali. Alla domanda: cosa può l’uomo? Rispondiamo di nuovo: l’uomo può ciò che può la sua tecnica; ma nello stesso tempo dobbiamo riconoscere che questa tecnica si rivela incapace di salvarlo da lui stesso, e l’uomo si mostra pronto anche a concludere con il nemico, che porta infondo a sé, le più terribili alleanze. Abbandonato alla tecnica (“livrè à la technique”), ho detto: cioè nel senso che l’uomo è sempre più incapace di dominarla, o meglio di dominare la propria maestria (“maîtriser sa propre maîtrise”)». [3]

 

Il mito del pastore
Bisogna sottrarsi al mito dell’abbandono e del “pastore”. Non si può che evadere rispetto a tale pericoloso ed insidioso bisogno: la tecnica è il pastore che muove le greggi, le compatta nel sogno della deresponsabilizzazione. La tecnocrazia assolve il compito del pastore che guida con sicurezza i suoi armenti. La prassi non può che iniziare con l’abbandono del mito del pastore che scorre nelle tecnologie, in ogni atto quotidiano. Pertanto la prassi necessita di una cesura, prima ed imprescindibile, rispetto al bisogno di una età dell’oro in cui il pastore guidava ed ogni necessità politica era inesistente e sconosciuta. Si deve dire addio all’archetipo di Crono, divinità che nell’età dell’oro guidava il cosmo senza l’intervento e la responsabilità umana:

 

«STRANIERO: Hai seguito bene il discorso. Quanto alla tua domanda sul fatto che tutto veniva generato spontaneamente per gli uomini non riguarda affatto il ciclo che c’è ora, ma anche questo si verificava in quello anteriore. Allora il dio guidava innanzitutto la stessa rotazione, prendendosene totalmente cura, e cosa che avviene allo stesso modo anche adesso in alcuni luoghi tutte le parti del cosmo venivano ripartite dagli dèi che le governavano: e dei demoni divini come fossero pastori avevano ripartito anche gli animali viventi secondo i generi e i gruppi, e ciascuno bastava in tutto a ciascun gruppo essendo esso stesso pastore, sicché non vi era nessun essere selvatico e nessuno procurava cibo all’altro, e non esisteva affatto guerra né rivolta. Ma vi sarebbe molto altro da dire riguardo a quel che segue a tale assetto dell’universo. Quanto si dice degli uomini e della loro vita in cui tutto si generava spontaneamente, si è detto per questo motivo. Il dio li guidava ed era loro capo, come adesso gli uomini, che sono animali più vicini alla natura divina, portano al pascolo le altre specie a loro inferiori: quando il dio li portava al pascolo non vi erano forme di governo, né acquisti di donne e di figli. Tutti ritornavano in vita dalla terra, e non vi era alcun ricordo delia situazione precedente: questi beni allora mancavano, però avevano abbondanza di frutti dagli alberi e da molta altra vegetazione, senza esser generati mediante l’agricoltura, ma offerti spontaneamente dalla terra. Nudi e senza coperte vivevano trascorrendo la maggior parte del tempo all’aria aperta: le stagioni erano temperate perché non provassero dolore, e avevano confortevoli letti costituiti dall’erba abbondante che cresceva di continuo dalla terra. La vita di cui stai ascoltando il racconto, Socrate, è quella di coloro che vissero al tempo di Crono: questa di adesso, invece, che il discorso indica come del tempo di Zeus, tu stesso la stai sperimentando di persona. Saresti in grado e vorresti giudicare la più felice fra queste due esistenze?». [4]

 

Per trascendere la disperazione si deve affrontare la dialettica, il conflitto con il desiderio regressivo di essere liberi da colpe come da responsabilità. Solo il ritorno del politico e del metafisico possono inaugurare un’esistenza che sia a dimensione di esseri umani e non di semplici enti. La disperazione è l’effetto di un’umanità oggetto di logiche che manipolano per devitalizzare il potenziale creativo e politico della persona e della comunità. Per trascendere la depressione delle passioni tristi è necessario ribaltare la passività in attività, affinché ciò accada bisogna attraversare la caverna mediante un non facile riorientamento gestaltico. Le modalità di tale prassi sono plurime, certamente senza mettere in epochè il consumo per contemplarlo ed ascoltare ciò che cela, tale processo non può iniziare. Le istituzioni dedite alla formazione possono ritrovare il loro senso divenendo luoghi comunitari del logos che emancipa con l’esame critico dei modi di produzione, elaborando, così, processi antiadattivi.

 

Salvatore Bravo

 

[1] Gabriel Marcel, Manifesti metodologici di una filosofia concreta, Minerva italica, 1972, p. 69.

[2] Ibidem, p. 72.

[3] Ibidem, p. 96.

[4] Platone, Politico, Ousia, p. 10.

Gilles Lipovetsky e la società della seduzione. Se il capitalismo immateriale avanza senza limiti, ciò è possibile perché mancano le narrazioni veritative. Se la Filosofia si limita ad una critica sociologica e non propone la verità come centro di un processo rivoluzionario, la sua critica è solo puro parlare senza effetti.

Gilles Lipovetsky 01
Salvatore Bravo

Gilles Lipovetsky e la società della seduzione

Se il capitalismo immateriale avanza senza limiti, ciò è possibile perché mancano le narrazioni veritative. Se la Filosofia si limita ad una critica sociologica e non propone la verità come centro di un processo rivoluzionario, la sua critica è solo puro parlare senza effetti.

Capitalismo immateriale
Il capitalismo si autofeconda mediante un movimento perennemente innovativo. Non solo è capace di adattarsi alle circostanze storiche, ma fagocita i movimenti di emancipazione e di liberazione riducendoli a merce, e abbattendo persino le frontiere che esso stesso ha creato. Siamo dinanzi ad una nuova fase che rende il capitalismo certamente non diverso dalla sua essenza, ma con effetti amplificati dai mezzi utilizzati. Le fasi del capitalismo rivelano, in modo sempre più esponenziale, la sua intrinseca natura: si installa nelle relazioni umane, entra nella vita degli uomini per trasformarla in plusvalore, sostituisce il concetto con la gestualità seduttiva. La fase attuale è “rivoluzionaria”, perché accelera tale automatismo. Il capitalismo immateriale utilizza il digitale e gli algoritmi non solo per produrre, ma per orientare le scelte e la vita dei soggetti sussunti al suo invisibile potere.

L’incanto
L’incanto del capitalismo immateriale è nella narrazione che esso fa di se stesso: promette la pienezza, producendo a ciclo continuo – con sogni di onnipotenza narcisistica – una nuova percezione del tempo incentrata sul bisogno-desiderio. I bisogni-desideri sono l’incanto della speranza mondana, il tempo dura quanto è necessario per desiderare e consumare, il disincanto è subito compensato da un nuovo sogno. È l’eterno ritorno nella prospettiva dell’homo consumericus. La forza dell’incanto del capitalismo immateriale è nel non lasciare tempo al consumatore; non vi devono essere archi temporali vuoti, in cui il pensiero può concettualizzare con profondità, giustapporre i sogni ed i disincanti in modo sempre più veloce consente il radicamento dell’incantatore e lo sradicamento da se stesso, dal logos e dalla comunità del soggetto. L’homo consumericus vive su un palcoscenico il cui copione è stato scritto da altri, ma ha l’illusione di essere l’attore principale dello spettacolo, lo si coinvolge nella rappresentazione del prodotto da vendergli, gli si danno informazioni, lo si porta sui luoghi di produzione, assapora la storia dei prodotti, assiste alla spettacolarizzazione della vendita, l’emozione gradualmente lo distoglie dal logos, la pedina si autopercepisce come il sovrano delle merci tra le merci:

«Il capitalismo contemporaneo è stato definito “capitalismo immateriale”, intendendo con tale espressione il ruolo primordiale che rivestono oggi nell’economia le tecnologie digitali al pari dei servizi, del “capitale umano”, del “capitale di conoscenze”, del “capitale di conoscenze”. Siamo in un’economia immateriale nel senso che le risorse della creazione di valore si basano su fattori immateriali come le conoscenze, le qualità del comportamento, l’innovazione, l’invenzione. Il punto da sottolineare è che più il capitalismo diventa “immateriale” e più si confonde con il capitalismo incantatore. Il che significa che il capitalismo immateriale non designa soltanto un “capitalismo cognitivo” centrato sugli algoritmi, i dati digitali, i saperi astratti e matematizzati, ma anche un sistema che si adopera per stimolare i desideri, le emozioni, i sogni e il cui obiettivo è creare e rinnovare prodotti e servizi che piacciano al consumatore e li colpiscano (racconti, musiche, svaghi, divertimenti, stili, ecc.). Di conseguenza, il capitalismo immateriale è anche, paradossalmente, un capitalismo emotivo ed artistico».[1]

Si deve emozionare per favorire processi di regressione di massa: le piccole emozioni che lo spettacolo della merce offre invitano al sogno ed alla fuga dalla storia. La manipolazione dei significati è tale che la parola cultura – che per tradizione e significato si connota per essere il processo di liberazione dalla superstizione e dalla sudditanza per eccellenza – è associata allo spettacolo. Ogni attività culturale dev’essere economicamente proficua e nel contempo deve emozionare: luci, spettacoli, postazioni mediatiche sono la nuova esca con cui incantare lo spettatore-consumatore. La stimolazione sensoriale in continua ascesa – sempre più intensa negli eventi provoca meraviglia, stupore, inebetimento che prepara all’acquisto. Il pensiero è così sostituito dall’incanto, dalla fugace emozione; si viaggia in ogni parte del globo, si visitano monumenti, per tornare a casa con esperienze sensoriali velocemente sostituite da ulteriori emozioni. Il corpo è diventato il luogo sul quale affluiscono momenti emozionali, i quali non sono oggetto di riflessione, ma di veloce godimento. Il corpo è il luogo della guerra, della conquista, è solo carne da mercato.

Il sogno
Il consumatore coltiva i sogni di grandezza, vive il sogno nella forma del destino personale e privato, può essere parte di una famiglia o di una comunità, ma le vive come estranee, distanti, un limite al suo narcisismo. Si afferma l’astrazione in forme sempre più radicali, la vita reale, il contesto storico, sono cancellati in nome dell’incanto di una promessa che riguarda il soggetto stesso, che – ormai slegato da ogni ambito – vive il delirio regressivo del diritto a tutto e specialmente la possibilità che il “tutto” si realizzi solo per lui. Il ritmo veloce dei bisogni-desideri del consumatore causa uno scollamento sempre più incolmabile tra il principio di piacere ed il principio di realtà. Il capitalismo immateriale fa del popolo una massa di seduttori in posa per uno sguardo, per un licke. La seduzione sterilizza i popoli, i quali – svuotati dalle loro tradizioni culturali, dallo spirito della lingua materna – non hanno nulla da trasmettere alle nuove generazioni. L’irrilevanza è il nuovo paradigma. Non resta che la seduzione con le sue miserie, in cui l’altro è solo un mezzo per soddisfare il proprio narcisismo:

«Una seduzione che non dipende più né dalla politica, né dal sacro, né dall’ideologia, ma da un’offerta concreta, multiforme, continuamente cangiante, che si rivolge all’individuo privato e ai suoi piaceri: alla seduzione-politico-ideologica è subentrata una seduzione privatizzata ed esperienziale centrata sul rapporto con se stesso. Una forza di attrazione sostenuta non dall’immaginario di un futuro migliore per l’umanità, ma dalle promesse di godimenti immediati dell’individuo».[2]

 

La seduzione
Il gioco esiziale della seduzione non esclude nessuno. Il modo di produzione capitalistico si installa ovunque ed in chiunque, per cui la seduzione – ultima frontiera della sussunzione – è trasversale, riempie il vuoto dei concetti. Con il ritrarsi del logos, il vuoto è abitato dalla seduzione, dall’apparire autoidolatra.
Ci troviamo innanzi ad una nuova forma di seduzione: alla relazione duale del gioco della seduzione tradizionale si sostituisce l’atomismo seduttivo, in cui l’altro è l’oggetto che deve confermare il fascino del seduttore. Ai contenuti, alla passione che guida all’ascolto dell’altro subentra la solitudine del piacere privato, alla parola significante subentra il gesto. Anzi il linguaggio è sempre più elementare, deve parlare la fisicità, la posa che mentre proclama la libertà, in realtà desidera sedurre e dominare:

«Meno i politici hanno grandi idee, più si sforzano di acquisire una grande visibilità e sono presi dal panico all’idea di rimanere o diventare sconosciuti. Quando le grandi ambizioni di cambiare il mondo scompaiono, resta la magia della celebrità, poiché permette di provare la giubilazione di farsi vedere, mostrarsi, provare il godimento narcisistico della divinizzazione di sé. Poiché la visibilità sociale modifica la percezione di sé, aumenta il senso del proprio valore, lusinga l’ego e la stima di sé: essa è uno strumento di autoseduzione che intensifica il sentimento di esistere e di essere “importanti».[3]

Il grande seduttore è oggetto della forza che vorrebbe esercitare, la frustrazione e l’alienazione sono parte della sua esperienza, ma la velocità con cui vive e consuma i suoi gesti, i desideri, i bisogni indotti lascia che il malessere muto resti sullo sfondo: si possiede tutto, ma non si vive nulla, il mondo diviene in tal modo un accumulo inaudito di merce e possibilità senza sapore. Il narcisismo seduttivo dell’homo consumericus si ribalta in frigidità sostanziale, la velocità con cui le emozioni si susseguono lasciano il vuoto. Non vi è memoria, non vi è traccia, per cui i piaceri e le emozioni sono sempre più forti e pericolosi, in modo da avere l’illusione di vivere con pienezza:

«Il senso di alienazione di sé rimanda al fatto che viviamo in un mondo di velocità sfrenata il quale ci diventa sempre più estraneo, impenetrabile, insoddisfacente poiché cancella ogni vera appropriazione personale. Possediamo sempre più libri o DVD, ma non ci prendiamo il tempo di “digerirli”; navighiamo rapidamente sulle pagine della rete senza leggere nulla fino in fondo; facciamo zapping su qualunque cosa; guardiamo la televisione per ore senza trarne veramente piacere; non ci prendiamo il tempo di imparare perché questo tempo divora troppo tempo; ci sentiamo impotenti di fronte alla complessità degli oggetti tecnologici i cui modelli cambiano in continuazione».[4]

Pedagogisti dell’edonismo
La pedagogia alimenta la didattica veloce, i saperi minimi, l’offerta formativa, esperienze da vivere e vendere su un mercato del lavoro in perenne metamorfosi e che esige il continuo sacrificio dei suoi lavoratori. Pedagogia complice del sistema, gli economisti sono affiancati da “esperti della didattica”, che invitano a sostituire i contenuti con esperienze didattiche incentrate su obiettivi minimi, perché nulla deve fermare l’incanto dei consumi: il tempo utilizzato per capire è sottratto al consumo, per cui gli appelli degli esperti a non dare troppi compiti, a non traumatizzare debiti (rimandare a settembre nella neolingua dell’economicismo), a non dare compiti per le vacanze, al sabato libero, a posticipare l’inizio delle lezioni, altrimenti il sistema potrebbe incepparsi nel pensiero e nel contenuti. Il liceo classico è sconsigliato, perché astratto, perché il vecchiume delle lingue morte potrebbe disorientare nella scelta universitaria che dev’essere “libera”, ma orientata verso le facoltà produttive, ovvero tecniche. Sono i nuovi oratores che circolano nelle istituzioni per mutarne la natura, per asservirle alle logiche del mercato.
Lipovetscky, dinanzi all’avanzare del nuovo capitalismo immateriale, ritiene che l’unico argine sia la cultura. L’istituzione scolastica deve arginare l’inebetimento con la formazione critica:

«Che cosa modificherà l’ethos consumistico? La riduzione dell’inebetimento di massa passa attraverso una formazione scolastica e artistica di qualità. È su questa che la nostra epoca deve investire affinché le sirene consumistiche rimangano al posto che spetta loro».[5]

 

Ipermodernismo
Lipovetsky si dichiara ipermodernista. Constata la fine delle grandi narrazioni, l’affermarsi del potere seduttivo che tutto pervade, e giudica la formazione il luogo dove tale deriva può essere letta ed arenarsi. Lipovetsky pecca di astrazione. Le istituzioni formative sono interne al sistema, così come i suoi operatori. Se il capitalismo immateriale avanza senza limiti, ciò è possibile perché mancano le narrazioni veritative e con esse il logos. Se la Filosofia ha rinunciato alla verità e si limita ad una critica sociologica che, per quanto acuta, non propone la verità come centro di un processo rivoluzionario, la sua critica è solo puro parlare senza effetti. Naturalmente gli appelli alla formazione non possono che restare tali, o anche essere accolti per colte discussioni-spettacolo. Il teatrino della democrazia formale è sempre in attività.
Un nuovo inizio è sempre possibile, è una scommessa, ma non può che avere l’abbrivio dalla metafisica che deve arginare il relativismo e la cultura dell’irrilevanza che legittima la riduzione a spettacolo di ogni manifestazione culturale e dell’essere umano.
Il pensiero debole non può che essere fonte di conferma dello stato attuale. Bisogna constatare il fallimento del postmodernismo con i suoi alfieri, per rimettere in cammino la storia con la sua verità. Il postmodernismo e l’ipermodernismo descrivono il capitalismo nella sua effettualità, il quotidiano vissuto entro il confine dell’utile, ma restano interni ad essi, perché non escono dalla gabbia del relativismo:

«L’antico principio secondo il quale l’acquisizione del sapere è inscindibile dalla formazione (Bildung) dello spirito, e anche della personalità, cade e cadrà sempre più in disuso. Questo rapporto fra la conoscenza ed i suoi fornitori ed utenti tende e tenderà a rivestire la forma di quello che intercorre fra la merce ed i suoi produttori e consumatori, vale a dire la forma valore. Il sapere viene e verrà prodotto per essere venduto, e viene e verrà consumato per essere valorizzato in un nuovo tipo di produzione: in entrambi i casi, per essere scambiato».[6]

L’oblio della verità e dei perché
L’oblio della verità, la rinuncia ad essa, non permette di uscire dal paradigma dell’utile. Si constatano gli effetti del capitalismo, ma lo si ipostatizza, in quanto ogni progettualità alternativa è annichilita dal vuoto ontologico e metafisico. Pertanto gli appelli rivolti alla formazione ricadono su stessi, non interrompono, né deviano il capitalismo dal suo onnipotente radicarsi. Il postmodernismo si aggira tra le rovine della dialettica marxista, l’impossibilità di prevedere la storia ha portato via con sé ogni metafisica della verità consegnando la filosofia ad un ruolo ancillare rispetto alle scienze ed all’economia. Per uscire dal postmodernismo ed approssimarsi alla verità è necessario, in primis, riattivare la catena dei perché senza i quali la storia è consegnata alla palude del relativismo nella quale il capitalismo immateriale può proliferare, in quanto non incontra alcun limite. La catena dei perché riporta in scena con la filosofia la speranza che mai è scissa dalla verità:

«È necessario dunque “riaprire la catena dei perché”. Prendo a prestito questa espressione del defunto Franco Fortini, che mi onorava della sua stima e della sua amicizia (e che non avrebbe quasi sicuramente condiviso né la lettera né lo spirito di questo saggio). Quando nel 1956 il sinedrio dei gran sacerdoti del comunismo, capitanati dal mediocre contadino ucraino Nikita Krusciov, decise di detronizzare il papa georgiano defunto Giuseppe Stalin, Franco Fortini scrisse che bisognava “riaprire la catena dei perché”, a cominciare ovviamente dai perché fondamentali rimossi, ed aprire un dibattito liberatore fra tutti coloro che praticavano il marxismo, sostenevano il socialismo e credevano nel comunismo».[7]

Senza le grandi domande non vi sono che piccole risposte, pertanto è necessario porre in epochè il relativismo.
Il linguaggio attuale è puramente descrittivo. Si utilizza il registro linguistico positivistico in ogni ambito, si vuole neutralizzare la domanda sostituendola con la descrizione senza spiegazione profonda. Il linguaggio neutro dev’essere smascherato nel suo vacuo spessore ideologico: si presenta come neutro ciò che in realtà non è che espressione degli interessi di parte. Il linguaggio anonimo vorrebbe convincere dell’oggettività delle decisioni politiche per inibire ogni domanda. La lingua inglese, lingua dei vincitori, insidia le patrie, logora le comunità ed erode la domanda filosofica, in quanto non solo sostituisce la creatività della lingua madre, ma specialmente è lingua utilizzata per le sole comunicazioni commerciali e tecniche. Lingue anonime, senza profondità, formano soggetti irrilevanti che credono nel destino degli eventi storici.
I perché fanno fatica ad emergere sotto la cappa della lingua alienata. La sfida è far riemergere, con i perché, un’altra lingua, un altro pensiero che possa leggere la lingua del capitale per trascenderla. Senza verità non vi è radicamento, né progetto: la filosofia senza la verità non è che parte dello sradicamento globale e del meccanicismo economicista.

Doppio furto
È necessaria la critica filosofica forte per mostrare in modo radicale che mentre si proclama la morte delle ideologie, si cela il dato essenziale: il capitalismo immateriale è ideologia che tutto pervade, ma non vuole essere sottoposto al giudizio dei singoli, delle comunità, dei popoli, per rendere il suo trionfo indiscutibile. Senza verità non vi è radicamento, né progetto. La filosofia senza la verità non è che parte dello sradicamento globale e del meccanicismo economicista. Con il capitalismo immateriale si commette un doppio furto: la proprietà e la verità. Ogni concetto di proprietà pubblica, in cui la comunità ritrova se stessa, è stato occultato e criminalizzato in nome dell’utile privato. I monumenti in cui è conservata la memoria dei popoli divengono “petrolio” per il plusvalore, ma specialmente la verità è il furto per eccellenza. E questo furto si perpetua ogni giorno a danno dei popoli. Senza verità non vi è consapevolezza, né politica, ma solo eterno tatticismo, finzione della partecipazione. Senza verità i popoli divengono plebe nel pascolo del capitalismo. L’urgenza, non solo filosofica, è la verità. Essa risorgerà al di fuori degli ambienti accademici. Solo con la verità vi può essere un nuovo inizio.

Salvatore Bravo

[1] Gilles Lipovetsky, Piacere e Colpire. La società della seduzione, Raffaello Cortina Editore, Milano 2019, pp. 217-218.

[2] Ibidem, pp. 218-219.

[3] Ibidem, p. 267.

[4] Ibidem, p. 347.

[5] Ibidem, pp. 387-388.

[6] Jean François Lyotard, La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano 2019, p. 12.

[7] Costanzo Preve, Marx e Nietzsche, Petite Plaisance, Pistoia 2004, p. 5.

Piero Bevilacqua – Cosa è un bosco? Per avere valore, la bellezza ha bisogno di una domanda, direbbero gli economisti, ma una domanda intrinsecamente antieconomica vale a dire una soggettività umana in grado di contemplare disinteressatamente delle forme visibili che si presentano come belle, uniche e irriproducibili.

Piero Bevilacqua 01

Cosa è un bosco?

 

Il bosco, una realtà naturale che ci è familiare, si presta assai bene a una valutazione plurima. Considerato sotto il profilo economico corrente esso non che è un deposito di legname più o meno cospicuo, pagabile a un determinato prezzo. La sua realtà e la sua ‘ricchezza’ si esauriscono nell’equivalente astratto – direbbe Marx – di una definita massa di danaro. Osservato come risorsa, le sue attribuzioni e potenzialità si moltiplicano e soprattutto emergono i beni nascosti e non pagabili di cui è produttore. Il bosco, infatti, com’è noto, soprattutto nella sua collocazione collinare e montana, costituisce un serbatoio naturale di acque perché esso consente la filtrazione e la percolazione delle piogge nel fondo del terreno. Ad esso si affida il meccanismo di formazione delle sorgenti. Altrimenti l’acqua dilava rovinosamente a valle e spesso si perde in mare. E naturalmente assai poco calcolabile appare il compito economico, ma anche sociale, che esso svolge nella difesa del territorio dai processi di erosione, dalle frane e dagli smottamenti da cui sono periodicamente minacciati colture e centri abitati. Più acutamente oggi, di fronte alla scadente qualità dell’aria delle nostre città, ci accorgiamo con diffusa consapevolezza, anche economica, del valore del bosco come produttore di ossigeno. Così come una più avvertita conoscenza ambientalista ci ricorda che quella fitta popolazione di alberi costituisce una nicchia spesso preziosa e insostituibile nella quale si conserva la biodiversità superstite delle società industriali. Quanti animali e specie vegetali vivono, tra gli alberi, a cui non sapremmo assegnare un valore sotto un immediato profilo di economia di mercato?

Il bosco è, inoltre, un equilibratore climatico e influisce sulla vegetazione circostante, così come un tempo, per essere sede di varie specie di uccelli, costituiva una presenza equilibratrice importante nell’agricoltura tradizionale, che non ricorreva alla guerra chimica per difendersi dai parassiti. Un compito che potrà continuare a svolgere nell’agricoltura biologica dei nostri giorni. Infine, il bosco conserva un valore ben noto: può essere un luogo che esprime bellezza e mistero. Beni che naturalmente l’industria turistica utilizza e vende. Ma la cui ricchezza intrinseca tuttavia consiste nel loro non uso, nel loro sfuggire a una utilizzazione strumentale, nel farsi oggetto di contemplazione disinteressata, nell’offrirsi agli uomini come realtà da non violare.

Il valore più alto e unico nell’epoca della produzione industriale di massa tende sempre di più a coincidere con ciò che non può essere riproducibile. E’ un fenomeno già emerso nelle riflessioni sociologiche delle società post-fordiste, che acquista in questo caso un ulteriore e più complesso significato. Per avere valore, la bellezza ha bisogno di una domanda, direbbero gli economisti, ma una domanda intrinsecamente antieconomica vale a dire una soggettività umana in grado di contemplare disinteressatamente delle forme visibili che si presentano come belle, uniche e irriproducibili. La realizzazione dell’economia turistica si regge sull’esistenza di un ambito non economico della realtà naturale e della soggettività umana. Si dovrebbe dunque convenire – anche sulla base di queste rapide considerazioni – che riconsiderare la centralità della natura non porta a impoverire il senso della ricchezza sociale, ma a liberarla del suo rozzo e riduttivo economicismo, a farle acquisire un più vasto e multiforme significato.

Ovviamente – il bosco non è solo natura. E’ anche opera umana. Sono spesso gli uomini che costruiscono o ricostruiscono i boschi, che plasmano il territorio e imprimono, con le proprie mani, linee di bellezza in grado di aggiungere valore ai luoghi. Sotto tale profilo appare ormai evidente, ad esempio, che le campagne oggi non ci appaiono più esclusivamente come sedi di pratiche agricole. Non sono soltanto luoghi nei quali si producono beni alimentari. A tale tradizionale funzione hanno aggiunto quella di essere, molto spesso, per ragioni storiche, una forma del paesaggio agrario: vale a dire una configurazione “naturale” a cui il lavoro umano ha dato, nel corso del tempo, una particolare impronta di bellezza e di grazia. Il paesaggio agrario di tante regioni italiane – l’esempio più noto è quello della Toscana – è diventato una risorsa che offre continuamente il bene vendibile della bellezza: la bellezza di una sintesi originale fra natura e pratiche agricole.

Piero Bevilacqua, Demetra e Clio. Uomini e ambiente nella storia , Donzelli 2001.

 



Margherita Guidacci (1921-1992) – Chi ha veramente a cuore la sapienza, non la ricerchi in questi vani giri, come di chi volesse raccogliere le foglie cadute da una pianta e già disperse dal vento, sperando di rimetterle sul ramo. La sapienza è una pianta che rinasce solo dalla radice, una e molteplice. Chi vuol vederla frondeggiare alla luce discenda nel profondo …

Margherita Guidacci-Eritrea

Sibille.
Seguito da Come ho scritto “Sibille”.

A cura di Ilaria Rabatti.

indicepresentazioneautoresintesi

Chi ha veramente a cuore la sapienza,
non la ricerchi in questi vani giri,
come di chi volesse raccogliere le foglie
cadute da una pianta e già disperse dal vento,
sperando di rimetterle sul ramo.
La sapienza è un pianta che rinasce
solo dalla radice, una e molteplice.
Chi vuol vederla frondeggiare alla luce
discenda nel profondo ...

Eritrea

Non qui, su questo sacro
suolo di Eritre, dove siete venuti
per riscrivere i libri che per impulso vostro
non avreste mai scritto, e che ora il fuoco
vi ha sottratto; non qui, dove in un tempo
lontano io rivelai la prima volta
la sapienza che vi era contenuta;
né a Samo o Delfi o Cuma (più vicina
a voi) da cui li trasse senza intenderli
il vostro re superbo; né in alcuno dei luoghi
che, come specchi successivi, mandarono
lampi arcani, voi troverete mai
quel che cercate. Troverete forse
un mormorio trasognato di vecchi
che storpiano parole già storpiate
dai loro padri: e di quello farete
i vostri nuovi libri, per illudere
il popolo e voi stessi. Ma se uno
ha veramente a cuore la sapienza,
non la ricerchi in questi vani giri,
come di chi volesse raccogliere le foglie
cadute da una pianta e già disperse dal vento,
sperando di rimetterle sul ramo.
La sapienza è un pianta che rinasce
solo dalla radice, una e molteplice.
Chi vuol vederla frondeggiare alla luce
discenda nel profondo, là dove opera il dio,
segua il germoglio nel suo cammino verticale
e avrà del retto desiderio il retto
adempimento: dovunque egli sia
non gli occorre altro viaggio.

M. Guidacci, Sibille. Seguito da Come ho scritto “Sibille”, a cura di Ilaria Rabatti, Petite plaisance, Pistoia 2018, p. 20.


Margherita Guidacci (1921-1992) – Il nostro mondo.
Margherita Guidacci, Margherita Pieracci Harvell – «Specularmente. Lettere, studi, recensioni». A cura di Ilaria Rabatti
Margherita Guidacci (1921-1992) – Voi, guardie e doganieri, perché non chiedete il passaporto al tordo e al colombaccio? Si faccia dunque un bando rigoroso perché ogni uccello resti confinato nel proprio cielo territoriale. Fino a quel giorno anch’io, con tutti gli uomini, rifiuterò le frontiere.
 
Margherita Guidacci (1921-1992) – Chi ha veramente a cuore la sapienza, non la ricerchi in vani giri. La sapienza è una pianta che rinasce solo dalla radice, una e molteplice. Chi vuol vederla frondeggiare alla luce discenda nel profondo.
Margherita Guidacci (1921-1992) – «Sibille». Per tutto il tempo in cui rimasi in compagnia delle Sibille, le sentii sempre come delle presenze oggettive. erano per me delle persone reali, in carne ed ossa.


Salvatore Bravo – Siamo nella rete della globalizzazione della chiacchiera, ma abbiamo l’illusione di essere liberi. La chiacchiera, che è alla portata di tutti, non solo esime dal compito di una comprensione genuina, ma diffonde una comprensione indifferente, per la quale non esiste più nulla di incerto.

Heidegger, la chiacchera 01

Salvatore Bravo

Globalizzazione della chiacchiera

L’impero della chiacchera
La globalizzazione neoliberista non si può ridurre a mera espansione geografica, ad avanzamento bellicoso dell’occidentalizzazione anglosassone. La sua espansione imperiale avviene nell’invisibile, nella mente: le coscienze sono coartate dalla struttura economica, sono curvate all’avanzamento della globalizzazione neoliberista. Il capitalismo attuale è stato definito immateriale, non solo per l’uso del digitale e degli algoritmi, ma anche per il potere di incantare che ha assunto, di suscitare illimitati desideri.
Heidegger, in Essere e Tempo, ha ben interpretato il significato profondo dell’espressione modo di produzione capitalistico, il quale si connota per un movimento anonimo ed autonomo che ingloba le coscienze, le rende irrilevanti (Man). L’ambizione del modo di produzione capitalistico è svilupparsi, in modo meccanico, attraverso le coscienze sussunte all’impianto capitalistico (Gestel). Non a caso il linguaggio comune non solo ha adottato la lingua del vincitore, l’inglese commerciale, ma specialmente sostituisce il concetto (Begriff) con la chiacchiera (Gerede) o con la gestualità seduttiva.
La chiacchiera si diffonde nel discorso come nella scrittura, il nichilismo pervade il quotidiano nella forma della passività che la chiacchiera comporta. L’attività è nella scelta dell’offerta mercantile, sempre più individualizzata. Consumatori attenti ai propri desideri scrutano i prodotti, alla ricerca della merce a loro misura, l’incantatore sibila: «Ce n’è per tutti i gusti». L’individualizzazione estrema depoliticizza, per cui il pubblico è valutato in relazione ai bisogni del cliente-consumatore.
La chiacchiera è orientata al privato, il pubblico è solo un mezzo per esaudire narcisismi illimitati. Heidegger nel paragrafo trentacinque di Essere e Tempo, così descrive l’impero della chiacchiera:

Martin Heidegger, Essere e tempo. L’essenza del fondamento, a cura di Pietro Chiodi, UTET, Torino 1978

«Il sentire e il comprendere sono ormai vincolati anticipatamente a ciò che è detto come tale. La comunicazione non “partecipa” il rapporto originario all’essere dell’ente di cui si discorre […]. Ciò che conta è che si discorra. L’esser-stato-detto, l’enunciato, la parola, si fanno garanti dell’esattezza e della conformità alle cose del discorso e della sua comprensione. E poiché il discorso ha perso, o non ha mai raggiunto, il rapporto originario con l’ente di cui si discorre, ciò che esso partecipa non è l’appropriazione originaria di questo ente, ma la diffusione e la ripetizione del discorso. Ciò-che-è-stato-detto si diffonde in cerchie sempre più larghe e ne trae autorità. Le cose stanno così perché così si dice. La chiacchiera si costituisce in questa diffusione e in questa ripetizione del discorso nelle quali l’incertezza iniziale in fatto di fondamento si aggrava fino a diventare infondatezza. Essa trascende il campo della semplice ripetizione verbale, per invadere quello della scrittura sotto forma di “scrivere pur di scrivere”. In questo caso la ripetizione del discorso non si fonda sul sentito dire, ma trae alimento da ciò che si è letto in modo superficiale. La capacità media di comprensione del lettore non sarà mai in grado di decidere se qualcosa è stato creato e conquistato con originalità o se è frutto di semplice ripetizione. La comprensione media non sentirà mai neppure il bisogno di una distinzione di questo genere, visto che essa comprende già tutto. La totale infondatezza della chiacchiera non è un impedimento per la sua diffusione pubblica, ma un fattore determinante che la favorisce. La chiacchiera è la possibilità di comprendere tutto senza alcuna appropriazione preliminare della cosa da comprendere. La chiacchiera garantisce già in partenza dal pericolo di fallire in questa appropriazione. La chiacchiera, che è alla portata di tutti, non solo esime dal compito di una comprensione genuina, ma diffonde una comprensione indifferente, per la quale non esiste più nulla di incerto».[1]

La chiacchiera è mortifera, le parole scorrono senza dire nulla, è il nichilismo nella forma compiuta, con l’irrilevanza linguistica dei significati: la merce non trova limiti, diviene il fondamento della vita sociale. La nuova rivoluzione copernicana ha al centro la merce, l’essere umano è complementare.
La chiacchiera, con la tracotanza nichilistica che la connota, con la fascinazione del nulla e della libertà dal logos, attacca con la testa d’ariete dell’edonismo ogni linguaggio altro, sostituisce il logos con il flatus vocis della propaganda, della quantità senza qualità.

 

Gli economisti all’assalto del logos
Il concetto è attività pensante soggettiva e comunitaria, capacità di astrarre la verità che si cela e si manifesta nei fenomeni; la chiacchiera è anonima, si parla di tutto per non cambiare nulla, per restare invischiati negli stimoli visivi. La comunità è sostituita dalla comunanza, ovvero dalla giustapposizione di individui che convivono nello stesso spazio, ma senza fondamento comune. Non a caso la comunanza è anche degli animali non umani.

La globalizzazione non si può denominare società dell’immagine, ma società dello stimolo visivo, poiché l’immagine presuppone l’astrazione, la consapevolezza della discrasia tra copia ed autentico, tra vero e falso. Lo stimolo visivo è acefalo, immediato, acquisito nella ripetizione. Ci troviamo dinanzi ad un fenomeno storico nuovo, complesso, anzi potremmo parafrasare Hegel ed affermare che il noto è sconosciuto. Se ci si limita allo stimolo visivo si cade nella caverna, ma se ci si astrae da essa, non è difficile rendersi conto che il messaggio che sottintende lo stimolo visivo è unico: il plusvalore-feticcio dell’Occidente.

Non a caso il feticcio è una metafora di derivazione religiosa utilizzata da Marx. Enrique Dussel, in Le metafore teologiche di Marx (a cura di A. Infranca, Inschibboleth, Roma 2018) ha mostrato che nel percorso di Marx dai compiti svolti alle scuole medie al Capitale, il feticismo è stato il fil rouge della sua opera. Il capitale, come Mammona nel Nuovo Testamento, si è reso autonomo: i creatori sono sudditi del creato, l’ascetismo mondano è realizzato. Senza metafisica, il cui piano logico precede il piano ontologico, la verità storica diventa misteriosa e distante: incombe, come Il Castello di Kafka, sui sudditi. Il modo di produzione capitalistico si è installato nelle coscienze, poiché ogni capacità razionale di mediazione, ogni processualità logica ed ontologica è stata sostituita dal risultato, dalla logica della quantità senza riflessione qualitativa.
In questo contesto la globalizzazione è sovrana, in quanto i sudditi sono stati privati della metafisica. Pur di affermare la logica dell’interesse personale, in nome del valore di scambio, gli economisti, novelli oratores dei potentati, i nuovi intellettuali, si lanciano in ipotesi metafisiche: la natura umana è improntata all’utile, allo scambio. Naturalmente si ipostatizza un dato storico in modo integralista. Ovvero, se l’essere umano non ha altra motivazione al suo agire che l’interesse personale, ogni gesto quotidiano si può decodificare alla luce del solo interesse personale:

«Recentemente, tuttavia, molti economisti si sono dati un progetto ancor più ambizioso. Ciò che l’economia offre, sostengono, non è semplicemente un insieme di intuizioni sulla produzione e sul consumo di beni materiali, ma anche una scienza del comportamento umano. Al centro di questa scienza vi è un’idea semplice ma di vasta portata: in tutte le sfere della vita il comportamento umano può essere spiegato assumendo che le persone decidono cosa fare soppesando i costi e i benefici delle opzioni che hanno di fronte e scegliendo quella che credono dia loro il massimo benessere o la massima utilità».[2]

“Incentivize”, incentivare”

La mano invisibile di Adam Smith è ora mano pesante, reca con sé la forza di gravità, separa, divide, ma non ridistribuisce nulla, anzi si giustifica la concentrazione delle ricchezze e si colpevolizza coloro che non sono all’altezza della natura umana. Le istituzioni sono giudicate per la capacità di astrarre da ciascuno la “naturale” tendenza alla valorizzazione: oscena e scandalosa diventa la motivazione ad agire per passione, per la collettività. Il criterio di giustizia che in Platone, nella Repubblica, era a ciascuno secondo la sua predisposizione, ora diventa a ciascuno secondo la sua rapacità:

«L’economista-tipo vive nell’incrollabile convinzione che l’umanità non sia ancora riuscita a inventarsi un problema che lui non saprebbe facilmente risolvere, se solo gli fosse data piena facoltà di varare un opportuno piano di incentivi. Un piano magari poco democratico, e non avulso da coercizioni, spropositate sanzioni, soppressione delle libertà pubbliche e altro ancora, ma statene pur certi, almeno il problema verrebbe risolto. L’incentivo è come un proiettile, o una piccola leva, o una chiave: un oggetto minuscolo eppure dotato dello strabiliante potere di cambiare la situazione una volta per tutte. Ciò è ben lontano dall’immagine del mercato come di una mano invisibile formulata da Adam Smith. Una volta che gli incentivi diventano “la pietra angolare della vita moderna”, il mercato appare come una mano pesante e manipolatoria. (Ricordate gli incentivi monetari per la sterilizzazione e per i bei voti). “Il grosso degli incentivi non piove dal cielo” osservano Levitt e Dubner. “Qualcuno – un economista o un politico o un genitore – deve inventarseli”. L’uso crescente di incentivi nella vita contemporanea, e il bisogno che hanno alcuni di inventarli deliberatamente, si riflette in un nuovo goffo verbo che è diventato moneta corrente di recente: “incentivize”, incentivare”».

 Si vuole cambiare l’essenza umana comunitaria, per cui si introducono vocaboli che devono orientare verso l’utile personale, nessuno spazio dev’essere lasciato ai valori che conservano il senso del limite o l’agire in modo disinteressato. Non resta che un’umanità schiacciata sotto le rovine dell’utile: un intero pianeta brucia, ma non si vuole affrontare l’ideologia globale che, mentre si espande, distrugge. Ci si limita ad enumerare i successi immediati per tacere le conseguenze globali del nuovo integralismo.

 

Cartelloni cranici
Siamo nella rete, ma abbiamo l’illusione di essere liberi. Il corpo umano, la pelle se lasciata libera dallo spazio pubblicitario è uno spreco, è spazio vuoto, scandalo in quanto non usato dal mercato, ed ecco che la pelle frontale può essere estensione da utilizzare per la pubblicità, con il vantaggio che gli esseri umani camminano e portano ovunque il mercato, lo stimolo visivo è così sempre oggetto di un unico messaggio: comprare!
Si approfitta dell’indigenza come del precariato ontologizzato per usare gli esclusi come mezzi per il business dei vincitori:

 

«Pochi anni più tardi, un’agenzia pubblicitaria di Londra cominciò a vendere spazi pubblicitari sulla fronte delle persone. Diversamente dalla promozione di Casa Sanchez, i tatuaggi erano temporanei, non permanenti. Ma la posizione era più vistosa. L’agenzia reclutò studenti universitari disposti a indossare i loghi commerciali sulla propria fronte per 4,20 sterline (cinque euro circa) all’ora. Un potenziale sponsor elogiò l’idea, sostenendo che le pubblicità sulla fronte erano “un’estensione del cartello pubblicitario ‘sandwich’, solo un po’ più biologico”». [3]

 Esseri umani trasformati in cartelloni cronici, svelano in modo lapalissiano la verità del capitalismo assoluto, ma l’oscurantismo ideologico, la logica della trasformazione di tutto in mezzo impedisce la lettura di tale palese evidenza:

«Altre agenzie pubblicitarie svilupparono varianti della pubblicità sul corpo. Air New Zealand assunse trenta persone in qualità di “cartelloni cranici”.[4] I partecipanti si rasarono le teste e portarono un tatuaggio temporaneo sulla nuca che recitava: “Hai bisogno di cambiare? Corri in Nuova Zelanda”. Il compenso per esporre la pubblicità commerciale cranica per due settimane: un biglietto di andata e ritorno per la Nuova Zelanda (del valore di 1200 dollari) o 777 dollari in contanti (che alludevano simbolicamente al Boeing 777 in uso presso la compagnia aerea)».[5]

Si incentiva la sterilizzazione dei soggetti deboli e dalle vite tormentate. Il tossicodipendente – che si incentiva a sterilizzarsi – è probabile che usi il denaro per la tossicodipendenza. Si circuiscono coloro che non hanno strumenti cognitivi e situazionali per potersi difendere. Se la legge del più forte è la legge di natura, non vi è crimine, anzi i deboli pagano una loro ontologica debolezza, la loro imperfezione rispetto a coloro che incarnano in modo ottimale la “vera” (per il capitale) natura umana:

 

«Chi critica il progetto lo definisce “moralmente riprovevole”, una “mazzetta per la sterilizzazione”, e sostiene che offrire alle tossicodipendenti un incentivo economico per rinunciare alla propria capacità riproduttiva equivalga a una coercizione, specialmente perché il programma si rivolge a donne vulnerabili dei quartieri poveri. Chi critica il programma deplora il fatto che, piuttosto che aiutare le beneficiarie a superare la propria dipendenza, il denaro la sovvenziona. Come afferma un volantino promozionale del programma: “Non lasciare che una gravidanza rovini la tua dipendenza dalla droga”». [6]

 

 

M. J. Sandel, Quello che i soldi non possono comprare. I limiti morali del mercato.

Privatizzazione del potere
La politica perisce sotto i colpi dell’interesse privato, al punto che negli Stati Uniti è possibile pagare un biglietto per assistere alle sedute dl Congresso; in questo modo i potentati politici possono essere informati in diretta delle decisioni politiche ed intervenire per evitare che ne vengano lesi gli interessi:

«Un’obiezione riguarda l’equità: è iniquo che i ricchi lobbisti possano monopolizzare il mercato delle sedute del Congresso, privando i cittadini comuni della possibilità di assistervi. Ma l’accesso iniquo non è l’unico aspetto problematico di tale pratica. Supponiamo che i lobbisti siano tassati quando ingaggiano le società di line-standing e che i ricavi siano utilizzati per servizi di line-standing alla portata dei cittadini comuni. I sussidi potrebbero prendere la forma, per esempio, di buoni convertibili in tariffe scontate delle compagnie di linestanding. Un tale schema potrebbe attenuare l’iniquità del sistema attuale. Rimarrebbe però un’ulteriore obiezione: trasformare l’accesso al Congresso in un prodotto in vendita lo sminuisce e lo degrada. Da un punto di vista economico, consentire il libero accesso alle sedute del Congresso “sottoprezza” il bene, dando origine alle code. L’industria del line-standing rimedia a questa inefficienza stabilendo un prezzo di mercato. Alloca posti nella sala delle sedute a chi è disposto a pagarli di più. Ma questo valuta il bene del governo rappresentativo nel modo sbagliato. Lo si può vedere più chiaramente se ci si chiede in primo luogo perché il Congresso “sottoprezzi” l’ammissione alle proprie deliberazioni. Supponiamo che il Congresso, fortemente intenzionato a ridurre il debito statale, decida di far pagare l’ingresso alle proprie sedute – 1000 dollari, per esempio, per un posto in prima fila all’Appropriations Committee. Molte persone avrebbero da obiettare non soltanto perché far pagare l’ingresso è iniquo nei confronti di quelli che non possono permetterselo, ma anche perché far pagare il pubblico per assistere a una seduta del Congresso è una forma di corruzione» [7].

 La privatizzazione del pubblico comporta la legalizzazione della corruzione, pertanto la cultura della legalità e delle regole vale solo per i non appartenenti al mondo privilegiato del denaro. Di conseguenza il nichilismo, con la corruzione e la valorizzazione del capitale, sono i perversi dis-valori della globalizzazione.

 

Radicalità senza catastrofismo
Nessun dio verrà a salvarci: chiedere ai proprietari dei mezzi di produzione di autoriformarsi è un’ingenuità colpevole. La salvezza verrà dalla base, dalla riflessione sugli esiti esiziali di tale sistema, perché l’essenza umana è logos ed in quanto tale pensiero che calcola limiti e possibilità. I testi di critica al capitalismo circolano, mentre la storia accade, e dunque sono di ausilio a quei processi di consapevolezza comunitaria senza la quale non vi è presente, non vi è speranza, né futuro. Perché ci sia prassi è necessario, in primis, la consapevolezza teoretica che la razionalità attuale non è “naturale” ma è un modello storico e dunque “umano troppo umano”, al quale bisogna opporre il logos come calcolo, limite e giustizia: non vi può essere giustizia senza limite, senza il calcolo che fonda la comunità democratica e discerne l’edonismo dalla buona vita:

«Il calcolo (logos) era impiegato sia nella corrette costruzione della città (poleodomia), sia nel corretto calcolo dei rapporti di potere e di ricchezza, fra i cittadini. La politica era pensata sul modello dell’urbanistica, e viceversa. Prima di essere concepito come parola pubblica e come ragione universale, il logos era concepito come calcolo sociale della giustizia (dike) e delle misura (metron)». [8]

Alla prassi si deve giungere, non vi è prassi senza mediazione, né la prassi può essere un evento improvviso, ma necessita della mediazione del pensiero, della disseminazione della verità. La filosofia, l’eterno tafano, deve aprire all’ontologia della speranza, con la radicalità delle sue diagnosi. Radicalità senza catastrofismo. Quest’ultimo inibisce la prassi e favorisce lo strutturarsi della condizione attuale. Il concetto deve astrarre la verità per condividerla. Ogni analisi profonda rileva le possibilità occultate dall’ideologia dominante. Il catastrofismo chiude i giochi della storia a favore dello stato attuale, mentre il pensiero radicale e veritativo apre alla multilinearità della storia.

Salvatore Bravo

***

[1] Martin Heidegger, Essere e tempo. L’essenza del fondamento, a cura di Pietro Chiodi, UTET, Torino 1978, pp. 270-271.

[2] Michael J. Sandel, Quello che i soldi non possono comprare. I limiti morali del mercato, Feltrinelli, Milano 2015, p. 47.

[3] Ibidem, p. 86.

[4] La compagnia aerea della Nuova Zelanda vuole la tua testa, letteralmente. Il vettore dell’Oceania è alla ricerca di 50 persone calve da usare come “cartelloni cranici” per una campagna pubblicitaria. Ai 50 selezionati verrà tatuato sulla nuca uno spot con un inchiostro che resiste fino a 2 settimane, per far conoscere ai passeggeri il nuovo servizio di check in rapido. «Quale modo migliore di far conoscere i nostri prodotti sulla velocità se non quello di farveli leggere sulla testa della persona che avete davanti in fila al check in?», ha dichiarato entusiasta un responsabile della compagnia.

[5] Michael J. Sandel, Quello che i soldi non possono comprare. I limiti morali del mercato, op. cit., p. 183.

[6] Ibidem, pag. 42.

[7] Ibidem, pp. 33-34.

[8] Costanzo Preve, Marx lettore di Hegel … Hegel lettore di Marx, Petite Plaisance, Pistoia 2009, p. 7.



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