Antoine de Saint-Exupéry (1900-1944) – AMORE E POSSESSO. L’amore non fa soffrire. Quello che fa soffrire è l’istinto della proprietà, che è il contrario dell’amore

Antoine-DeSaintExupery

L’amore vero non fa soffrire.

Perché esso è puro dono e non si attende nulla in cambio, dunque non può essere deluso. Solo l’amore del possesso e della proprietà fanno soffrire, perché puoi essere danneggiato in quello che possiedi, ma non certamente in quello che doni gratuitamente..

     Non confondere l’amore col delirio del possesso, che causa le sofferenze più atroci. Perché contrariamente a quanto comunemente si pensa, l’amore non fa soffrire. Quello che fa soffrire è l’istinto della proprietà, che è il contrario dell’amore. Perché se amo Dio me ne vado a piedi sulla strada zoppicando per portarlo agli altri uomini. Non riduco Dio in schiavitù. Io mi nutro di tutto ciò che egli concede agli altri. In tal modo si riconosce chi ama veramente dal fatto che egli non può essere danneggiato.

 […] L’amore vero non attende nulla.

L’amore vero e la preghiera vera non attendono nulla in cambio: semplicemente sono aperture sull’infinito, nel dono e nel colloquio..

[…] L’amore vero inizia là dove non attendi più nulla in cambio. E se l’esercizio della preghiera si rivela così importante per insegnare all’uomo  l’amore degli uomini, ciò avviene soprattutto perché essa non ottiene risposta.

 

L’amore interessato è disgustoso

Non è amore la ricerca della preda o la pretesa di essere ascoltati e ricompensati. Nulla ha il potere invece di disonorare o di deludere l’amore vero..

    Il vostro amore è basato sull’odio, poiché fate della donna o dell’uomo i vostri schiavi considerandoli dei beni di cui solo voi dovete godere e cominciate a odiare, come i cani quando girano attorno al truogolo, chiunque adocchia il vostro pasto. Voi chiamate amore questo pasto da egoista. Appena l’amore vi è concesso, di questo dono spontaneo, come nelle false amicizie, fate una servitù e una schiavitù, e dal momento in cui siete amati cominciate a scoprirvi danneggiati e a infliggere agli altri, per meglio asservirli, il triste spettacolo della vostra sofferenza. Voi soffrite veramente ed è proprio questa sofferenza che mi disgusta. Per quale motivo secondo voi dovrei ammirarla? […]

L’amicizia io la riconosco dal fatto che non può essere delusa e riconosco l’amore vero dal fatto che non può essere oltraggiato. Se qualcuno viene a dirti: “Ripudia quella donna perché ti disonora..”, ascoltalo con indulgenza, ma non mutare il tuo comportamento, poiché chi ha il potere di disonorarti? E se qualcuno viene a dirti: “Ripudiala, tanto tutte le tue cure sono inutili..”, ascoltalo con indulgenza, ma non mutare il tuo comportamento, poiché un giorno hai fatto la tua scelta. Se ti possono rubare ciò che ricevi, chi ha il potere di rubarti quello che offri? E se qualcun altro viene a dirti: “Qui hai dei debiti. Qui non ne hai. Qui si riconoscono i tuoi meriti. Qui sono beffeggiati”, tappati le orecchie per non sentire simili calcoli. A tutti costoro dovrai rispondere: “Amarmi significa anzitutto collaborare con me”.

 Amore e collaborazione.

Non bisogna confondere l’amore con la schiavitù del cuore. L’amore che prega è bello, ma l’amore che supplica è degno di un servo. Se il tuo amore urta in qualcosa di assoluto come il dover superare l’impenetrabile muro di un monastero o dell’esilio, allora ringrazia Dio se quella donna ricambia il tuo amore, anche se in apparenza è sorda e cieca. Poiché c’è una lampada accesa per te nel mondo. Non importa se non puoi servirtene. Chi muore nel deserto possiede una casa lontana che lo rende ricco anche se lui muore. Se io plasmo delle anime nobili e scelgo la più perfetta per murarla nel silenzio, nessuno apparentemente riceve qualcosa da lei. Eppure quest’anima nobilita tutto il mio impero. Chiunque passa in lontananza si prostra. E sorgono i segni rivelatori e i miracoli. Perciò se qualcuno ti ama, anche se inutilmente, e tu ricambi il suo amore, allora camminerai nella luce. Perché se esiste la divinità, è grande la preghiera cui risponde soltanto il silenzio. E se il tuo amore è accettato e qualcuno apre le sue braccia, allora prega Dio di salvare questo amore dalla morte, poiché io temo per i cuori appagati.

Antoine de Saint-Exupéry, Cittadella.

Consuelo de Saint ExupéryConsuelo de Saint Exupéry.

Henrik Ibsen (1828-1906) – La paura della lotta è il male del nostro paese. Vogliono delle rivoluzioni particolari, tutte in superficie, d’ordine soltanto politico. Quella che importa è la rivolta dello spirito umano

 

Henrik Ibsen

 

«La mia produzione poetica è il risultato dei miei stati d’animo e delle mie crisi morali. Non ho mai scritto perché avessi trovato, come suoi dirsi, un buon argomento […]». (Lettera di H. Ibsen a B. Biorson del 12 gennaio 1868)

«Noi viviamo delle briciole cadute dalla tavola della rivoluzione del secolo scorso. Questo cibo è stato masticato e rimasticato per troppo tempo. Le idee hanno bisogno di nutrimenti e stimoli nuovi. “Libertà uguaglianza fratellanza” non sono più ciò che erano al tempo della ghigliottina. Gli uomini politici si ostinano a non comprendere; per questo io li odio. Vogliono delle rivoluzioni particolari, tutte in superficie, d’ordine soltanto politico. Sono tutte sciocchezze! Quella che importa è la rivolta dello spirito umano […]». (Lettera di H. Ibsen a G. Brandes del 20 dicembre 1870)

«Per quanto riguarda il problema della libertà, esso per me si riduce ad una questione di parole. Non acconsentirò mai ad identificare la libertà con un certo numero di libertà politiche. In ciò che voi chiamate libertà io vedo solamente “delle” libertà. E quella che io chiamo lotta per la libertà non è che la continua e concreta conquista dell’idea di libertà. Colui che non vede la libertà come un bene ardentemente desiderato e crede di possederla, in verità possiede una cosa senza vita, senz’anima; perché la nozione di libertà ha questo di particolare, che essa si allarga costantemente. Se dunque uno durante la lotta si ferma e proclama di averla conquistata, nello stesso atto avrà dimostrato esattamente di averla perduta […]». (Lettera di H. Ibsen a G. Brandes del 17 febbraio 1871)

«La paura della lotta è il male del nostro paese. Si cede a poco a poco, si abbandona il terreno passo passo. Ecco perché oggi siamo nei guai. E bisognerebbe – mi pare – possedere un gusto sovrumano della rinuncia per non impadronirsi di una simile materia adatta agli epigrammi ed alla commedia satirica». (Lettera di H. Ibsen a J. H. Thoresen del 27 agosto 1872)

Henrik Ibsen

 

Cesare Pavese – Ritorno all’uomo: la carne e il sangue da cui nascono i libri. Una cosa si salva sull’orrorre: l’apertura dell’uomo verso l’uomo

Cesare Pavese

Da anni tendiamo l’orecchio alle nuove parole. Da anni percepiamo i sussulti e i balbettii delle creature nuove e coglianmo in noi stessi e nelle voci soffocate di questo nostro paese come un tepido fiato di nascite. Ma pochi libri italiani ci riuscì di leggere nelle giornate chiassose dell’èra fascista, in quella assurda vita disoccupata e contratta che citoccò condurre allora, e più che libri conoscemmo uomini, conoscemmo la carne e il sangue da cui nascono i libri. Nei nostri sforzi per comprendere e per vivere ci sorressero voci straniere: ciascuno di noi frequentò e amò d’amore la letteratura di un popolo, di una società lontana, e ne parlò, ne tradusse, se ne fece una patria ideale. Tutto ciò in linguaggio fascista si chiamava esterofilia. I più miti ci accusavano di vanità esibizionistica e di fatuo esotismo, i più austeri dicevano che noi cercavamo nei gusti e nei modelli d’oltreoceano e d’oltralpe uno sfogo alla nostra indisciplina sessuale e sociale. Naturalmente non potevano ammettere che noi cercassimo in America, in Russia, in Cina e chi sa dove, un calore umano che l’Italia ufficiale non ci dava. Meno ancora, che cercassimo sempplicemente snoi stessi. Invece fu proprio così.
Laggiù noi cercammo e trovammo noi stessi. Dalle pagine dure e bizzarre di quei romanzi, dalle immagini di quei film venne a noi la prima certezza che il disordine, lo steso violento, l’inquietudine della nostra adolescenza e di tutta la società che ci avvolgeva, potevano risolversi e placarsi in uno stile, in un ordine nuovo, potevano e dovevano trasfigurarsi in una nuova leggenda dell’uomo. Questa leggenda, questa classicità la presentimmo sotto la scorza dura di un costume e di un linguaggio non facili, non sempre accessibili; ma a poco a poco imparammo a cercarla, a supporla, a indovinarla in ogni nostro incontro umano.
Noi adesso sappiamo in che senso ci tocca lavorare. I cenni dispersi che negli anni bui raccoglievamo dalla vove di un amico, da una lettura, da qualche gioia e da molto dolore, si sono ora composti in un chiaro discorso e in una certa promessa. E il discorso è questo, che noi non andremo verso il popolo. Perché già siamo popolo e tutto il resto è inesistente.
Andremo se mai verso l’uomo. Perché questo è l’ostacolo, la crosta da rompere: la solitudine dell’uomo – di noi e degli altri.
La nuova leggenda, il nuovo stile sta tutto qui. E con questo la nostra felicità.
Proporsi di andare verso il popolo è in sostanza confessare una cattiva coscienza. Ora, noi abbiamo molti rimorsi ma non quello di aver mai dimenticato di che carne siamo fatti. Sappiamo che in quello strato sociale che si suole chiamare popolo la risata è più schietta, la sofferenza più viva, la parola più sincera. E di questo teniamo conto. Ma che altro significa ciò se non che nel popolo la solitudine è già vinta – o sulla strada di esser vinta? Allo stesso modo, nei romanzi, nelle poesie e nei film che ci rivelarono a noi stessi in un vicino passato, l’uomo era più schietto, più vivo e più sincero che in tutto quanto si faceva a casa nostra. Ma non per questo noi ci confessiamo inferiori o diversamente costituiti dagli uomini che fanno quei romanzi e quei film. Come per costoto, per noi il compito è scoprire, celebrare l’uomo di là dalla solitudine, di là da tutte le solitudini dell’orgoglio e del senso.
Questi anni di angoscia e di sangue ci hanno insegnato che l’angoscia e il sangue non sono la fine di tutto. Una cosa si salva sull’orrorre, ed è l’apertura dell’uomo verso l’uomo. Di questo siamo ben sicuri perché mai l’uomo è stato meno solo che in questi tempi di solitudine paurosa. Ci furono giorni che bastò lo sgardo, l’ammicco di uno sconosciuto per farci trasalire e trattenerci dal precipizio. Sapevamo e sappiamo che dappertutto, dentro gli occhi più ignari o più torvi, cova una carità, un’innocenza che sta in noi condividere.
Molte barriere, molte stupide muraglie sono cadute in questi giorni. Anche per noi, che già da tempo ubbidivamo all’inconscia supplica di ogni presenza umana, fu uno stupore sentirci investire, sommergere da tanta ricchezza. Davvero l’uomo, in quanto ha di più vivo, si è svelato, e adesso attende che noialtri, cui tocca, sappiamo comprendere e parlare.
Parlare. Le parole sono il nostro mestiere. Lo diciamo senza ombra di timidezza o di ironia. Le parole sono tenere cose, intrattabili e vive, ma fatte per l’uomo e non l’uomo per loro. Sentiamo tutti di vivere in un tempo in cui bisogna riportare le parole alla solida e nuda nettezza di quando l’uomo le creava per servirsene. E ci accade che proprio per questo, perché servono all’uomo, le nuove parole ci commuovano e afferrino come nessuna delle delle voci più pompose del mondo che muore, come una preghiera o un bollettino di guerra.
Il nostro compito è difficile ma vivo. È anche il solo che abbia un senso e una speranza. Sono uomini quelli che attendono le nostre parole, poveri uomini come noialtri quando scordiamo che la vita è comunione. Ci ascolteranno con durezza e con fiducia, pronti a incarnare le parole che diremo. Deluderli sarebbe tradirli, sarebbe tradire anche il nostro passato».
Cesare Pavese, Ritorno all’uomo; articolo pubblicato sul L’Unità di Torino, 20 maggio 1945.
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