Diego Lanza (1937-2018) – «Il tiranno e il suo pubblico» è il tentativo di definire la genesi, lo sviluppo e la fortuna di una figura ideologica, che sempre meglio si precisa nella letteratura ateniese tra la metà del V e la metà del IV secolo a.C.

Diego Lanza, Il tiranno e il suo pubblico

Diego Lanza

Il tiranno e il suo pubblico

Introduzione di Gherardo Ugolini:
La tirannide come “ideologia” secondo Diego Lanza

ISBN 978–88–7588-303-4, 2020, pp. 400,  Euro 30

indicepresentazioneautoresintesi

La paura del tiranno domina minacciosa la vita della democratica Atene; a dare volto ed espressione al nemico della città, a definirne sempre meglio i caratteri concorrono poeti, storici, oratori, filosofi. Personaggio storico di un recente passato, il tiranno si trasforma nella figura ideologica che finisce con l’assommare in sé ogni forma di devianza dalla norma sociale, che assurge a simbolo del vizio, dell’asocialità, della disumanità. Questo libro non si limita a ripercorrere i momenti della costruzione della figura del tiranno, ma indaga anche le attese sociali che la sua rappresentazione è chiamata a soddisfare. L’esame si estende quindi alla sopravvivenza del mito della tirannide fuori del mondo greco fino ai nostri giorni. Sopravvivenza che, pur nella varietà delle situazioni storiche, rivela il ricorrere di una medesima pratica ideologica: la mistificazione di ogni potere autoritario sotto il segno tutto psicologico del potere individuale, della follia che muove la sete di dominio, di Nerone come di Federico II, di Hitler come di Stalin. Il saggio si sviluppa nel vivace intreccio di diverse esperienze d’indagine, storiche, linguistiche, letterarie, tutte subordinate alla rigorosa definizione dell’organizzazione della cultura (ruolo sociale dei produttori, canali di trasmissione, pubblico) nella città greca.


Diego Lanza (1937-2018) – Di mio padre ricordo l’orgoglio tenace, la fedeltà alle proprie decisioni, l’energia necessaria a una silenziosa coerenza, il disprezzo per il mormorio del senso comune. Mi ha insegnato ad essere come chi amiamo si aspetta che noi siamo, perché non pesare su chi ci ama con le nostre sofferenze è amorosa accortezza.
Diego Lanza (1937-2018) – La disciplina dell’emozione. Un’introduzione alla tragedia greca. Prefazione di Anna Beltrametti
Diego Lanza (1937-2018) – Appassionato filologo e grecista, innovativo nella lettura interdisciplinare dei testi, sempre in tensione etica, morale, filosofica, che ci consegna quale suggello, testimonianza vivificante e forte dono.
Diego Lanza (1937-2018) – «Lo stolto. Di Socrate, Eulenspiegel, Pinocchio e altri trasgressori del senso comune». Prefazione di M. Stella. Postfazione di G. Ugolini.
Diego Lanza (1937-2018) – Euripide porta sulla scena lo spettatore, l’uomo della vita di ogni giorno.
Diego Lanza, Gherardo Ugolini – «Storia della filologia classica». Si è cercato di illustrare tutta la problematicità della filologia, mostrando al contempo quanto lo studio dell’antico abbia sempre interferito con i dibattiti che hanno via via segnato lo svolgersi della cultura europea negli ultimi due secoli.
Diego Lanza (1937-2018) – Il libro di A. Meillet ci offre un’immagine della lingua greca oltremodo ricca, nel costante riferimento a precise condizioni storiche. Il rapporto tra lingua e società si definisce con chiarezza come rapporto tra lingua e civiltà, cultura in senso antropologico.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Giorgio Riolo – Nota introduttiva a Fëodor M. Dostoevskij, «Delitto e castigo».

Fëodor M. Dostoevskij 0x


Giorgio Riolo
NOTA INTRODUTTIVA A FËODOR M. DOSTOEVSKIJ, DELITTO E CASTIGO

 

I.

Una nota iniziale sui classici, soprattutto in relazione ai grandi russi Dostoevskij e Tolstoj. Molti classici sono “inattuali”, troppo inattuali. Al massimo grado questi scrittori e pensatori. Sorti, formati, plasmati in una realtà e in una storia affatto particolare come la Russia. Totalmente aliena rispetto al nostro tempo e alla nostra realtà.
Ma i classici, e in particolare Dostoevskij e Tolstoj, sono per ciò stesso più attuali che mai. Sono attuali perché ci scuotono e ci gettano brutalmente addosso, in faccia in certi casi, la semplice verità. Che il mondo in cui siamo immersi e in cui ci culliamo, beatamente in molti e molte, con le nostre false certezze, sicumere, arroganze, anche ammantato sotto il generale “disincanto” e il generale “postmoderno”, non è l’ultima parola della storia. Non è il migliore dei mondi possibili.
Ci “relativizzano”. Esistono altri mondi e altre storie, non necessariamente migliori, anzi molto peggiori come quelle della Russia di cui adesso parliamo, ma queste relativizzazioni ci fanno crescere, maturare. E la cultura è relazione, relativo, nesso, ponte verso altro. Così come avviene nel potente processo di “decolonizzazione”.
“Decolonizzare la mente”, il potente processo, assieme al potente processo di emancipazione sociale e politica, così propugnato e descritto dal grande Frantz Fanon. Non solo per il colonizzato che vuole, e deve, emanciparsi. Ma soprattutto per il colonizzatore, per noi, eredi delle malefatte del colonialismo. E l’Occidente, anche e soprattutto capitalistico, è irrimediabilmente colonizzatore.
Come può un contesto ormai votato al “disincanto”, al postmoderno, al “non esistono più grandi narrazioni”, al “non esistono più pensieri e valori forti”, se non, sottaciuti, impliciti, i valori forti del consumismo, del narcisismo, dell’individualismo totalizzante, capire il contesto di una Russia dove il mare del popolo russo era costituito da contadini poveri, la quasi totalità analfabeti, dove la religione cristiana, ortodossa o scismatica (i Vecchi Credenti) o di eretici egualitari come i Duchobory (vedremo con Tolstoj) ecc., svolgeva un ruolo fondamentale e dove l’attesa messianica di redenzione, in vario modo, era operante, nel contesto soprattutto di una Chiesa ortodossa ufficiale vero supporto spirituale e materiale dello zarismo?
Dove esisteva il fenomeno, per noi incomprensibile, dei pellegrini, degli sbandati e dei vagabondi (Padre Sergio di Tolstoj è anche questo). Dove la miseria era dominante anche e soprattutto nei contadini emancipati dalla servitù della gleba, dopo il 1861-1863, e inurbati nelle grandi città, Pietroburgo e Mosca in primo luogo, dove l’alcolismo era così diffuso, vera piaga sociale e antropologica, dove la miseria e l’alienazione era grande nella classe dei “decaduti” (impiegati, funzionari dell’enorme apparato burocratico zarista, nobili, intellettuali, artisti ecc.), dove molti studenti erano giovani energici, ardenti di conoscenza e di azione (Herzen e Lavrov e “andare al popolo”, Il divino e l’umano di Tolstoj è anche questo, e Dostoevskij nella sua vita e Raskolnikov…).
Dove infine il dispotismo e l’oscurantismo zarista e la sua polizia non lasciavano spazio a visioni e pratiche “riformistiche” e allora l’attesa di una “rivoluzione” palingenetica si imponeva, era la via obbligata per chi non sopportava più quello stato di cose. Dai primi rivoluzionari, narodniki o populisti russi, al successivo movimento rivoluzionario guidato dai marxisti e “socialdemocratici” di allora.
“Da dove nascono le rivoluzioni?”. La semplice domanda di un grande storico francese a proposito della rivoluzione francese. La domanda di sempre da porre ai “disincantati”, molti a sinistra, il grande esercito degli ex.

 

II.

Nato a Mosca nel 1821, Dostoevskij muore a San Pietroburgo nel 1881. Assieme a Tolstoj, è uno dei grandi della letteratura russa e della letteratura di ogni tempo. Inizia presto a scrivere e a pubblicare (Povera gente, Il sosia, Le notti bianche). Entra da giovane nel circolo dei socialisti fourieristi a San Pietroburgo, attorno a Petraševskij. Arrestato e rinchiuso nel 1849 con i suoi compagni alla Fortezza Pietro e Paolo, subisce il terribile trauma, che aggraverà in seguito le sue crisi di epilessia, della finta esecuzione. Dopo la deportazione in Siberia e l’esperienza e la conoscenza dei carcerati e del popolo russo (Memoria di una casa di morti), compie alcuni viaggi in Europa e riprende l’attività di scrittore.
Nella febbrile produzione letteraria scriverà grandi romanzi come Delitto e castigo, I demoni, L’idiota, Il giocatore, I fratelli Karamazov e splendidi racconti o romanzi brevi come La mite, L’eterno marito, Memorie del sottosuolo ecc. Nel 1881, poco prima della morte, tiene il discorso in onore di Puskin nel centenario della nascita. L’enorme folla alla commemorazione lo acclamerà come uno dei maggiori esponenti della vita e della cultura russe.

 

III.

Non si comprenderanno mai i grandi scrittori russi e in particolare Tolstoj e Dostoevskij se non si conosce il contesto della Russia, si diceva prima. Il contesto significa la sua storia, la società, la sua morfologia sociale, la sua cultura profonda, la cultura dello “alto” e la cultura del “basso” ecc.
La peculiarità dello sviluppo storico della Russia, la sua arretratezza, la presenza dell’autocrazia dispotica zarista e quindi la mancata modernizzazione della stessa nel decisivo secolo XIX, il mancato sviluppo capitalistico, il mancato sviluppo della classe sociale, portatrice di questo sviluppo, la moderna borghesia ecc. fecero sì che l’intellettualità (scrittori, filosofi, critici letterari, studenti) assumesse in Russia una funzione sociale formidabile.
Lo scrittore russo, da Puškin a Cechov, a Gorkij, attraverso i due giganti Tolstoj e Dostoevskij, svolse in Russia un ruolo di guida e di critica sociale e politica totalmente sconosciuto in qualsiasi paese dell’Occidente europeo. Lo scrittore, l’intellettuale di quella Russia si sentono “chiamati” all’impegno in tante forme. E spesso non possono che essere scrittori d’opposizione.
Anton Cechov, in un’occasione, disse che compito del letterato era di far prendere coscienza e di impostare correttamente i problemi. Altri avrebbero dovuto poi attivarsi per risolverli. Tolstoj fu riformatore sociale anche perché, oltre a porre i problemi, li ha voluti affrontare e tentare di risolverli, facendo leva sul mondo contadino russo, a partire dalla sua utopia (in senso positivo) patriarcale contadina. Dostoevskij cercò anch’egli a suo modo di dare delle risposte. Molte sbagliate, anche reazionarie.
Come il fare affidamento non solo al cristianesimo dei Vangeli, come sosteneva Tolstoj, ma anche alla Chiesa istituzionale ortodossa (“l’idea slava”). Essendo il socialismo il suo cruccio costante (una sorta di pentimento e di rivalsa per le sue scelte giovanili nel circolo Petraševskij, con le terribili conseguenze a cui andò incontro). Ma fu soprattutto un eccezionale esploratore, un profeta, per la capacità di porre lucidamente un intero spettro di problemi esistenziali, psicologici, culturali, sociali e politici alle quali le generazione a lui posteriori dovevano, e devono tuttora, dare risposta, cercare di risolvere.
Uno solo, tra i tanti, che molto ci sta a cuore. Con I demoni, soprattutto nelle parole di Šigalëv, Dostoevskij anticipa profeticamente i caratteri dello “assoluto” di cui si sente portatore il cosiddetto rivoluzionario. Quando questi in realtà è il portatore di un terrore verso i propri compagni. Verso i comunisti stessi, non contro i veri nemici, come avvenne tragicamente nello stalinismo. E come avviene in altri contesti e con altre denominazioni, addirittura supposte o sedicenti contrarie, antistaliniste, ma il cui modello, il cui metodo, il cui archetipo è lo stalinismo stesso.
Nella sua enorme produzione letteraria, Dostoevskij intese sempre svolgere, in vario modo, i problemi esistenziali e i problemi politico-filosofici che erano emersi nel corso della sua vita. Dalla sensibilità precoce per il male nel mondo (la lettura del Giobbe della Bibbia), per la violenza, soprattutto sui bambini e sugli innocenti, fino alla religione, ai problemi posti dal cristianesimo-cattolicesimo e il ruolo della figura di Cristo, del Gesù vivente, fino al rapporto della Russia con l’Occidente. Dalla “eterna idea slava” e dalla “anima russa” al fermo convincimento che dal destino della Russia e del suo popolo dipendesse il destino del mondo intero, dell’umanità intera.
Da qui la sua ossessiva lotta contro il socialismo, il progressismo, il nichilismo e il razionalismo-scientismo ottocenteschi. A suo modo di vedere, prodotti “artificiosi” dell’Occidente e non originari, non radicati nel profondo “suolo” russo.
Thomas Mann aveva stabilito un parallelo. Tra Goethe e Schiller e tra Tolstoj e Dostoevskij. Goethe e Tolstoj, figli della “salute” e della natura, Schiller e Dostoevskij, figli della “malattia”, della continua tensione dell’anima e delle contraddizioni che inevitabilmente ne scaturiscono. Solidi esponenti dell’aristocrazia agiata i primi, di origini borghesi ma con tratti plebei i secondi. Anche per le traversie e per le angustie della vita che ebbero a sperimentare. Dostoevskij anche periodi di vera e propria fame.
Mentre Tolstoj è “omerico” e i suoi personaggi sono a loro modo conchiusi, rotondi, completi, Dostoevskij è “drammatico” e i suoi personaggi sono complessi, contraddittori, problematici, ambivalenti, aperti a sviluppi imprevedibili.
Dostoevskij a Majkov “Mi chiamano psicologo, è falso. Io non sono che un realista in senso più alto, cioè descrivo tutti gli abissi dell’anima umana”. “Dovunque e in tutto arrivo al limite estremo, in tutta la mia vita ho sempre oltrepassato il limite”. Il problema del bene e del male e della “polifonia” della natura umana (spesso, nella stessa persona, al contempo l’abiezione, “la nostalgia del fango” e la ricerca del sublime, l’elevatezza morale e spirituale, la mitezza, la generosità). E “romanzo polifonico” è spesso caratterizzato ogni suo romanzo. “Romanzo totale”, romanzo sociale, romanzo filosofico, romanzo psicologico, romanzo politico. Così anche Delitto e castigo. Con in più anche “romanzo poliziesco”.
Dostoevskij nella sua vita, dopo l’esperienza socialista e il trauma della finta esecuzione, scoprì nel cristianesimo ortodosso dei semplici dell’intatto e bambino popolo russo, la via per la salvezza umana. “Se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori dalla verità e se fosse effettivamente vero che la verità non è in Cristo, ebbene io preferirei restare con Cristo piuttosto che con la verità”. Depositaria di tutto ciò è comunque la Chiesa ufficiale ortodossa russa. Altra via sarà indicata da Tolstoj e da qui la sua scomunica da parte della suddetta Chiesa nel 1901.
Dostoevskij nega il socialismo, ma tutto invoca il socialismo, l’emancipazione, una società di liberi ed eguali, la fraternità umana realizzata. Il potente simbolo, l’archetipo, è il discorso dell’eroe positivo Alëša Karamazov alla “pietra” del bambino Iljušečka nel finale de I fratelli Karamazov.
Nel tempo di Dostoevskij e nel nostro tempo. L’eterno problema del rapporto tra individuo e società, tra individuo e comunità. L’eterno problema della dialettica, in Dostoevskij spesso compresenza, del bene e del male. Anche e soprattutto nell’esasperazione di individui così “isolati” nel loro travaglio psichico e morale, nella loro tormentata continua messa a prova della loro anima (“I go to prove my soul” di Robert Browning, non è solo quando noi leggiamo e ci confrontiamo con il mondo dell’opera, del grande romanzo).
Il principe Miškin, Rogozin, Ivan Karamazov, Mitja Karamazov, Stavrogin, Verchovenskij, Kirillov, Rodion Raskolnikov e tutta la genia di personaggi creati dal genio di Dostoevskij, ognuno a suo modo vive questa continua e mai risolta dialettica, nella società e nella comunità degli uomini e delle donne e nello sconfinato spazio interiore, morale e intellettuale.

 

IV.

Nel 1865-1866, dopo l’improvvisa morte del fratello e i debiti per sostenere la famiglia del morto e i debiti per le riviste e le attività editoriali intraprese col fratello stesso. In una fase travagliata della sua vita eppure così creativa, Dostoevskij scrive il grande romanzo pietroburghese. Parigi è la città-mondo per eccellenza ed è il grande teatro nel quale molta parte della produzione letteraria di Balzac, ma anche di Stendhal, Hugo, Flaubert, si dispiega. Così Pietroburgo, città-mondo nella Russia del tempo.
La miseria dei caseggiati, delle stanzucce, delle bettole, dei vicoli di Pietroburgo. La miseria di una umanità così variegata. Il giovane, ex studente di legge ma che ha abbandonato gli studi perché povero, Raskolnikov, memore, forse inconsciamente di tutto ciò, della promessa tipicamente ottocentesca e napoleonica che ogni giovane fornito di grande talento, ma che è povero, non ha mezzi, ha comunque “nello zaino il bastone da maresciallo”, dopo la Rivoluzione per eccellenza, può e deve uscire dalla sua condizione. Erede dei tanti Julien Sorel (Stendhal), Rastignac, Lucien Chardon ecc. (Balzac). E allora una vecchia usuraia può e deve essere derubata e uccisa perché il fine non è semplicemente individualistico, ma allude ad altro.
I duelli e i confronti, anche intellettuali e morali, tra Raskolnikov e Porfirij Petrovič, questo particolarissimo, curioso giudice istruttore, il quale nella sua apparente trascuratezza, comprende e riesce a entrare nel mondo intellettuale e morale del giovane assassino fino a indurlo alla aperta confessione.
L’ex impiegato, ora decaduto e alcolizzato, Marmeladov e la sua famiglia. La pura, generosa, sacrificata Sonja (a suo modo, una Crista, come i tanti Cristi di Dostoevskij, non ultimo il principe Miškin). La quale deve prostituirsi per sostenere la povera sua famiglia e che nell’incontro con Raskolnikov trova un essere umano su cui esercitare la sua purezza, la sua intatta fede, la sua speranza di redenzione. Ed è proprio Sonja che induce il giovane a ravvedersi e a pentirsi e che lo seguirà in Siberia nella deportazione per espiare la pena comminata dopo il processo.
In mezzo ai tanti personaggi del romanzo (Dunja, Lebezjatnikov, Razumichin, Lužin, i Marmeladov ecc.), Svidrigajlov ha una sua parte importante. L’ambivalenza tipicamente dostoevskiana. Gaudente, carnale, libidinoso, pedofilo ecc. Ma anche a suo modo generoso e aiuta i figli di Marmeladov ormai orfani di entrambi i genitori.
“Romanzo polifonico” per eccellenza.

 

BIBLIOGRAFIA MINIMA – FËODOR M. DOSTOEVSKIJ – DELITTO E CASTIGO

Retroterra storico

Storia contemporanea della Russia in un buon manuale di storia per le scuole superiori. Si indica in primo luogo:

Bontempelli-Bruni, Storia e coscienza storica, Trevisini Editore, Milano (in tre volumi, quindi le parti contenute nel terzo, dalla rivoluzione decabrista al populismo russo e ai movimenti rivoluzionari di fine Ottocento e di inizio Novecento).
Una bella monografia sulla storia della Russia è quella di Valentin Gitermann, Storia della Russia, La Nuova Italia.

Monografia e saggi su Dostoevskij

Arnold Hauser, Storia sociale dell’arte, Einaudi (nel vol. IV, le parti dedicate ai russi e a Dostoevskij in particolare nel capitolo “Il romanzo sociale in Inghilterra e in Russia”). Opera classica e da tenersi in casa, ora ristampata.

Fausto Malcovati, Introduzione a Dostoevskij, Laterza

György Lukács, Saggi sul realismo, Einaudi (il capitolo dedicato a Dostoevskij), Michail Bachtin, Dostoevskij, Einaudi.

 

Edizioni italiane del romanzo Delitto e castigo

Nelle edizioni economiche Classici Einaudi Tascabili, Classici Feltrinelli, Bur Rizzoli, Oscar Mondadori e Newton Compton. Consiglio una delle prime due traduzioni menzionate (con relative introduzioni). L’edizione Einaudi Tascabili contiene come introduzione un bellissimo saggio di Leonid Grossmann, uno dei massimi studiosi di Dostoevskij.

Giorgio Riolo


Giorgio Riolo – Leonardo Sciascia e la letteratura come smascheramento del mondo e delle trame del potere

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Olivia Laing – Volevo insinuarmi sotto la superficie dell’universo quotidiano e salire sulla cresta dei sogni. I fiumi racchiudono un mistero che ci attira, si muovono attraverso il tempo e lo spazio, attraversano le civiltà come i fili attraversano le perle, hanno una destinazione e sono metafora specie per coloro che hanno perso la fiducia nella loro meta.

Olivia Laing 01

Il cambio di stagione era inebriante e fu allora che l’idea di percorrere il fiume si impadronì di me. Volevo ripulirmi, in tutti i sensi del termine, e da qualche parte nel profondo di me sentivo che il fiume era il posto giusto per farlo. […]
Quello che mi proponevo era di sondare, scandagliare, trovare un modo per catturare e registrare come si mostrasse una piccola macchia d’Inghilterra in una settimana di mezza estate dell’inizio del XXI secolo. O, almeno, questo è quello che raccontavo alla gente. La verità era meno facile da spiegare. Volevo in qualche modo insinuarmi sotto la superficie dell’universo quotidiano, come quando chi dorme si scrolla di dosso l’aria di tutti i giorni e sale sulla cresta dei sogni.

Un fiume che solca un paesaggio cattura il mondo e lo restituisce raddoppiato: un mondo mutevole e scintillante, più misterioso di quello in cui viviamo abitualmente. I fiumi attraversano le civiltà come i fili attraversano le perle: non mi viene in mente un’epoca che non sia associata al suo rispettivo corso d’acqua. Le terre del Medio Oriente si sono ormai seccate ma un tempo erano rigogliose, alimentate dai fertili Tigri ed Eufrate da cui fiorirono la civiltà sumera e babilonese. Le ricchezze dell’antico Egitto derivavano dal Nilo, che era ritenuto il confine tra la vita e la morte e aveva il suo corrispettivo in cielo, nelle stelle che oggi chiamiamo Via Lattea. La valle dell’Indo, il Fiume Giallo: sono questi i luoghi in cui sono nate le grandi civiltà, alimentate da acque dolci che rompendo gli argini nutrivano la terra. L’arte della scrittura è nata in queste quattro regioni in modo autonomo e non penso sia una coincidenza che l’avvento della parola scritta sia stato alimentato dai corsi d’acqua.

I fiumi racchiudono un mistero che ci attira, perché sorgono da luoghi nascosti e viaggiano per strade che domani forse non seguiranno lo stesso percorso di oggi. A differenza di laghi e mari, i fiumi hanno una destinazione e la certezza del loro tragitto ha qualcosa che li rende molto rilassanti, specie per coloro che hanno perso la fiducia nella loro meta.
[…]
Ma il fiume si muove attraverso il tempo e lo spazio. I fiumi hanno plasmato il mondo in cui viviamo, portano con sé, come diceva Joseph Conrad, «sogni di uomini, semi di confederazioni, germi di imperi». La loro presenza ha sempre attirato gli uomini, e infatti essi trasportano, come fossero rifiuti sparsi, le reliquie del passato. L’Ouse non è un corso d’acqua importante. Si è intersecato solo un paio di volte con le più ampie correnti della storia: quando Virginia Woolf vi annegò nel 1941 e ancora, secoli prima, quando sulle sue sponde si combatté la battaglia di Lewes. Eppure possiamo far risalire il suo rapporto con l’umanità a migliaia di anni prima della nascita di Cristo, quando gli uomini del Neolitico iniziarono ad abbattere le foreste e coltivare le aree lungo il fiume. Le epoche successive lasciarono tracce più palpabili: villaggi sassoni, un castello normanno, fognature del periodo Tudor, chiuse e argini d’epoca georgiana progettati per attenuare gli straripamenti, benché neanche queste elaborate modifiche abbiano impedito all’Ouse di gonfiarsi e inondare completamente la cittadina di Lewes, nei primi anni del nostro millennio.
A volte, sembra che il passato sia molto vicino. In certe sere, quando il sole è calato e il cielo si fa blu, quando i barbagianni fluttuano sull’erba dei prati e una luna stilizzata infrange la linea degli alberi, capita che dalla superficie del fiume si sollevi una nebbia. È allora che la stranezza dell’acqua diventa evidente. La terra custodisce i suoi tesori e ciò che vi è sepolto rimane lì finché non interviene una vanga o un aratro a dissotterrarlo. Il fiume invece è più sfuggente, abbandona i propri averi a casaccio, senza riguardo per la cronologia ferma e terragna tanto cara agli storici. Un volume di storia compilato basandosi sull’acqua è per sua natura rapido e fluido, ricco di vita, una vita sommersa e capace, come avrei scoperto, di tracimare inaspettatamente nel presente.

Olivia Laing, Gita al fiume. Un viaggio sotto la superficie, trad. di F. Mastruzzo e G. Poerio, il Saggiatore, Milano 2020, pp. 18-21.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Fëdor Dostoevskij (1821-1881) – Io penso che tutti debbano amare la vita più di ogni altra cosa al mondo. Raccogliamo molti buoni ricordi, portiamoli nel cuore. Se l’uomo può tenere con sé molti di questi ricordi e serbarli per la vita, è salvo per sempre. Se anche un solo buon ricordo ci accompagnasse sempre, anche quello basterebbe un giorno alla nostra salvezza.

Fëdor Dostoevskij 002
A. Karamazov in un’illustrazione di Il’ja Glazunov del 1982

«Io penso che tutti debbano amare la vita più di ogni altra cosa al mondo».
«Anche più del senso della vita?».
«Proprio così, amarla più della logica, come dici tu, anche più della logica, e solo allora se ne afferrerà anche il senso. Ecco ciò che occupa ormai da tempo i miei pensieri» (p. 242).

«Non siate dunque come tutti; non siatelo, anche se doveste essere il solo» (p. 548).

Alëša Karamazov nel Discorso presso la pietra che chiude il romanzo di Dostoevskij, pronuncia queste parole:
«Sappiate dunque che non esiste niente di più nobile, e forte, e importante, e utile per la vostra vita futura, dei buoni ricordi, soprattutto se appartengono ai primi anni della vostra vita, alla casa dei genitori. Quante volte si parla della vostra educazione! Eppure uno di questi buoni e cari ricordi, portato nel cuore fin dall’infanzia, è forse la migliore delle educazioni. Se l’uomo può tenere con sé molti di questi ricordi e serbarli per la vita, è salvo per sempre. Ma se anche un solo buon ricordo ci accompagnasse sempre, anche quello basterebbe un giorno alla nostra salvezza» (p. 746).

Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, traduzione di Alfredo Polledro, Newton Compton editori, Roma 2010.

Dostoevskij in un ritratto di Il’ja Glazunov del 1962

Fëdor Dostoevskij (1821-1881) – La vita è vita ovunque, la vita è dentro di noi, non al di fuori. Voglio essere un uomo tra gli uomini e rimanerlo per sempre, qualunque disgrazia capiti, senza lamentarsi, non perdersi d’animo – ecco in che cosa consiste la vita, qual è il suo scopo.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Giorgio Agamben – I sogni e i desideri inadempiuti dell’umanità non dormono chiusi in preziosi mausolei, ma stanno confitti come astri viventi nel cielo remotissimo del linguaggio, di cui appena decifriamo le costellazioni. E questo – almeno – non l’abbiamo sognato. Saper afferrare le stelle che come lacrime cadono dal firmamento mai sognato dell’umanità è il compito del comunismo.

Giorgio Agamben 03

«Apparirà, allora, che il mondo possiede da lunghissimo tempo il sogno di una cosa, di cui esso deve solo possedere la coscienza per possederla veramente». Certamente – ma come si possiedono i sogni, dove sono custoditi? Qui non si trana, naturalmente, di realizzare qualcosa – nulla è più noioso di un uomo che abbia realizzato i propri sogni: è l’insulsa buona lena socialdemocratica della pornografia. Ma nemmeno si tratta di custodire intangibili in camere di alabastro, coronati di gelsomini e di rose, ideali che, diventando cose, si sfracellerebbero: è il segreto cinismo del sognatore.
Bazlen diceva: quel che abbiamo sognato, lo abbiamo già avuto. Tanto tempo fa, che nemmeno ce ne ricordiamo. Non in un passato, quindi – non ne possediamo i registri. Piuttosto i sogni e i desideri inadempiuti dell’umanità sono le membra pazienti della resurrezione, sempre in atto di risvegliarsi nell’ultimo giorno. E non dormono chiusi in preziosi mausolei, ma stanno confitti come astri viventi nel cielo remotissimo del linguaggio, di cui appena decifriamo le costellazioni. E questo – almeno – non l’abbiamo sognato. Saper afferrare le stelle che come lacrime cadono dal firmamento mai sognato dell’umanità è il compito del comunismo.

Giorgio Agamben, Idea della prosa, Quodlibet, Macerata 2020, p. 61.



Angelo Magliocco – Il dualismo bìos/zoè e lo stato d’eccezione in Giorgio Agamben.
Salvatore Bravo – La filosofia è nella domanda di chi ha deciso di guardare il dolore del mondo. Responsabilità della filosofia è il riposizionarsi epistemico per mostrare la realtà della caverna e rimettere in azione la storia.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Dante Alighieri (1265-1321) – Io ho il mondo per patria, come i pesci hanno il mare. Movemi desiderio di dare dottrina. La filosofia è somma cosa. Coloro che vivono con intelletto e con ragione sono dotati di una certa divina libertà. Non abuso di alcuna autorità, poiché non sono ricco. Ma ciò significa che sono quel che sono, non grazie alle ricchezze. Ho come maestro il Filosofo che, determinando i principi eterni della morale, ha insegnato che a tutti gli amici bisogna anteporre la verità.

Dante Alighieri 002


Io  ho il mondo per patria, come i pesci hanno il mare.
–––
 Movemi desiderio di dare dottrina.
–––
 La filosofia è somma cosa.
–––
 Coloro che vivono con intelletto e con ragione
 sono dotati di una certa divina libertà.
–––
 Non abuso di alcuna autorità, poiché non sono ricco.
Ma ciò significa che sono quel che sono, non grazie alle ricchezze.
–––

 Ho come maestro il Filosofo che,
 determinando i principi eterni della morale,
 ha insegnato che a tutti gli amici bisogna anteporre la verità.

Movemi desiderio di dare dottrina

«Parlare alcuno di sé medesimo, pare non lecito. E ancora la propria lode e il proprio biasimo è da fuggire, sì come fare falsa testimonianza; però che non è uomo che sia di sé vero e giusto misuratore, tanto la propria carità ne inganna. [Tuttavia] dico che per necessarie cagioni parlare di sé è [talvolta] concesso. E tra le altre necessarie cagioni due sono le più manifeste. L’una è quando senza ragionare di sé grande infamia o pericolo non si può [far] cessare. L’altra è quando, per ragionare di sé, grandissima utilità ne segue altrui per via di dottrina. Movemi timore d’infamia, e movemi desiderio di dare dottrina».

Dante Alighieri, Convivio, I, 2.

La filosofia è somma cosa

«E sì come essere suole che l’uomo va cercando argento e fuori de la ‘ntenzione truova oro, lo quale occulta cagione presenta, non forse sanza divino imperio; io, che cercava di consolarme, trovai non solamente a le mie lagrime rimedio, ma vocabuli d’autori e di scienze e di libri: li quali considerando, giudicava bene che la filosofìa, che era donna di questi autori, di queste scienze e di questi libri, fosse somma cosa. E imaginava lei fatta come una donna gentile, e non la poteva imaginare in atto alcuno se non misericordioso; per che sì volentieri lo senso di vero la mirava, che appena lo potea volgere da quella. E da questo imaginare cominciai ad andare la dov’ella si dimostrava veracemente, cioè nelle scuole de li religiosi e a le disputazioni de li filosofanti. Sì che in picciol tempo, forse di trenta mesi, cominciai tanto a sentire de la sua dolcezza, che lo suo amore cacciava e distruggeva ogni altro pensiero».

Dante Alighieri, Convivio, II, 12.

Io ho il mondo per patria

«Io che ho il mondo per patria, come i pesci hanno il mare, benché abbia bevuto all’Arno prima di mettere i denti e tanto ami Firenze da patire, per amor suo, ingiustamente l’esilio, appoggio le spalle del mio giudizio più alla ragione che al senso».

Dante Alighieri, De Vulgari Eloquentia, I, 6.

Coloro che vivono con intelletto e con ragione sono dotati di una certa divina libertà

«L’ignoranza del volgo non ha nel giudizio alcun discernimento; e come crede che il sole abbia il diametro di un piede, così riguardo ai costumi, è ingannata dalla stessa fallace credulità. Ma a noi cui è concesso di conoscere l’ottimo che è in noi, non conviene seguire le vestigia del gregge, anzi siamo tenuti a correggerne gli errori. Infatti coloro che vivono con intelletto e con ragione, e sono dotati di una certa divina libertà, non sono costretti da nessuna consuetudine; e non è meraviglia, poiché essi non sono diretti dalle leggi, ma piuttosto le leggi da essi».

Dante Alighieri, Ep. XIII, a Cangrande della Scala.

 

Non abuso di alcuna autorità, poiché non sono ricco.
A tutti gli amici bisogna anteporre la verità

«È vero, certo: io sono una delle ultime pecorelle dei pascoli di Cristo; è vero: non abuso di alcuna autorità pastorale, poiché non sono ricco. Ma ciò significa che sono quel che sono, non grazie alle ricchezze, ma per grazia di Dio e amore della sua Casa.
Inoltre ho come maestro il Filosofo che, determinando i principi eterni della morale, ha insegnato che a tutti gli amici bisogna anteporre la verità.
[…] fra tanti che usurpano l’ufficio pastorale, fra tante pecore se non scacciate, per lo meno trascurate ed abbandonate sui pascoli, la mia è l’unica voce pietosa, voce di privato, che si faccia udire ora che la Chiesa è quasi sull’orlo dell’abisso».

Dante Alighieri, Ep. XII, ai cardinali italiani.


 

Dante Alighieri (1265-1321) – Nè si dee chiamare vero filosofo colui che è amico di sapienza per utilitade.
Dante Alighieri (1265-1321) – Io ho il mondo per patria, come i pesci hanno il mare. Movemi desiderio di dare dottrina. La filosofia è somma cosa. Coloro che vivono con intelletto e con ragione sono dotati di una certa divina libertà. Non abuso di alcuna autorità, poiché non sono ricco. Ma ciò significa che sono quel che sono, non grazie alle ricchezze. Ho come maestro il Filosofo che, determinando i principi eterni della morale, ha insegnato che a tutti gli amici bisogna anteporre la verità.
Dante Alighieri (1265-1321) – Spetta agli uomini che sono tratti all’amore della verità trasmettere quella ricchezza che essi stessi hanno ricevuto dall’operosità degli antichi. È ben lontano dal proprio dovere chi, imbevuto di pubbliche dottrine, non si cura di apportare alcunché alla cosa pubblica.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Anne Michaels – Non c’è vera assenza se resta almeno il ricordo dell’assenza. Una voce ci riscuote. Andiamo più vicini, tentiamo di distinguere bene le parole. È questo che fa cominciare o finire l’amore: cominciamo a capire le parole.

Anne Michaels 01

«Non c’è vera assenza se resta almeno il ricordo dell’assenza. […]

Se uno nin ha più la terra ma ha il ricordo della terra
allora uno può sempre disegnare una mappa».

Anne Michaels, In fuga, Giunti, 1998


Una voce ci riscuote
che non riconosciamo.
Andiamo più vicini, tentiamo
di distinguere bene le parole.
È questo che fa cominciare
o finire l’amore: cominciamo
a capire le parole.
Per salvarci doniamo e perdoniamo.

Anne Michaels, Anna, da The Weight of Oranges (1986)


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Fëdor Dostoevskij (1821-1881) – La vita è vita ovunque, la vita è dentro di noi, non al di fuori. Voglio essere un uomo tra gli uomini e rimanerlo per sempre, qualunque disgrazia capiti, senza lamentarsi, non perdersi d’animo – ecco in che cosa consiste la vita, qual è il suo scopo.

Fëdor Dostoevskij 001

«Fratello! Non mi sono scoraggiato né perso d’animo.

La vita è vita ovunque, la vita è dentro di noi, non al di fuori. Intorno a me ci saranno altri uomini, ed essere un uomo tra gli uomini e rimanerlo per sempre, qualunque disgrazia capiti, senza lamentarsi, non perdersi d’animo – ecco in che cosa consiste la vita, qual è il suo scopo. Me ne sono reso conto. Quest’idea si è fatta di carne e sangue. È la verità! Quella testa che creava, si nutriva della vita superiore dell’arte, che ha compreso e si è abituata alle nobili esigenze dello spirito, quella testa ormai si è staccata dalle mie spalle. Ne è rimasto il ricordo e le immagini create, ma rimaste ancora senza forma. Lasceranno cicatrici, è vero! Però in me è rimasto il cuore, e quella carne e quel sangue che ancora possono amare, soffrire, desiderare e ricordare, e in fondo anche questa è vita! On voi! le soleil!».

Lettera di Fëdor Dostoevskij  al fratello M.M. Dostoevskij, 22 dicembre 1849, San Pietroburgo, fortezza di Pietro e Paolo, in  Fëdor Dostoevskij, Lettere, a cura di Alice Farina, traduzione di Giulia De Florio, Alice Farina e Elena Freda Piredda, il Saggiatore, Roma 2020.


Quarta di copertina

Fëdor Dostoevskij è uno dei più grandi scrittori di ogni tempo. Le sue opere sono annoverate tra i capolavori della letteratura di ogni epoca e luogo e, ancora oggi, nutrono lettori di tutto il mondo. Sono romanzi totali, monumenti letterari che contengono un sapere universale e manifestano la complessità della nostra esistenza travalicando confini e generazioni. Così le Lettere che Dostoevskij ha affidato alle mani dei suoi familiari, dei suoi amori, dei suoi sodali costituiscono, come scrive Alice Farina nell’introduzione, «il romanzo di una vita», «un’opera letteraria parallela all’opera, ma anche sorgente viva per l’opera stessa». E difatti sembrano traboccare di materiale romanzesco: l’arresto per aver frequentato un circolo di socialisti utopici, la condanna a morte, la grazia ottenuta pochi minuti prima di salire al patibolo; il confino in Siberia e la persecuzione della malattia; la continua e strenua battaglia per migliorare la propria condizione economica senza sacrificare nulla della propria arte. Ma questo materiale è qui innestato all’interno di una vita, la quale non può che diventare a sua volta sorgente creativa, in un continuo gioco di vasi comunicanti.Per buona parte inedite in Italia, queste pagine testimoniano poi gli scatti e le evoluzioni del pensiero di Dostoevskij, permettendoci di osservarne da vicino i movimenti interiori, come quando nel 1839, a soli diciotto anni, dichiara con orgoglio al fratello di voler dedicare la propria vita a svelare il mistero dell’essere umano. Le Lettere qui raccolte – ora interamente ritradotte, a comporre l’epistolario di Dostoevskij più completo mai pubblicato in Italia – raccontano questa missione; tracciano le linee di un’autobiografia intima e coinvolgente e rivelano una personalità infuocata, dedita alla letteratura fino allo stremo delle forze; offrono un nuovo sguardo sul suo percorso intellettuale e sulla genesi di opere che hanno cambiato per sempre la letteratura, sollevando interrogativi che ancora reclamano risposte. Sono la lente d’ingrandimento sulla vita di uno scrittore che ha esplorato gli abissi della condizione umana e ne è uscito più vivo che mai.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Antonio Fiocco – Sul racconto «Di argini e strade» di Fernanda Mazzoli.

Fernanda Mazzoli - Recensione «Di artini e strade»

Fernanda Mazzoli, Di argini e strade. Un racconto di pianura, Petite Plaisance, Pistoia 2020.

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Antonio Fiocco

Sul racconto Di argini e strade di Fernanda Mazzoli

Ben prima di qualsiasi commento estetico o contenutistico, di un’opera di narrativa è condicio sine qua non il coinvolgimento emotivo di chi legge. E questo si tratti di un romanzo di Salgari o di Dumas in un’età, ahimè, trascorsa, o, ben più tardi, di una raffinata divagazione proustiana sulla facciata di un duomo medievale o sulle acque di Venezia. Questo effetto di partecipazione Fernanda Mazzoli lo ottiene con naturalezza. Personalmente, indotto dalla triste condizione del mondo attuale a cercare da decenni risposte nella filosofia, la lettura del racconto di Fernanda mi fa riscoprire una dimensione simbolica che credevo dimenticata, ma evidentemente latente e che mi accorgo essere assolutamente complementare a quella, necessariamente più fredda e cerebrale, che pertiene al grande pensiero filosofico. Infatti, come si può realmente desiderare la salvezza del mondo se non se ne sente un fascino irriducibile a ogni lucido ragionamento? E tuttavia riaffiorano reminiscenze di storia del pensiero. Nel racconto il narratore è un condannato a morte e questa condizione tende all’estremo le sue corde interiori, così come pretesero gli intellettuali tedeschi durante la Grande Guerra, preconizzando un muto contatto con la morte, e di ciò è da salvare il concetto, tralasciando le contingenti ragioni ideologiche di contrapposizione a una immaginaria “superficialità francese”. Fernanda racconta, racconta, sempre attenta a un impressionismo di immagini fuso con continue annotazioni psicologiche, indicative di una vita interiore ormai rara, e solo chi la possiede può realmente provare rivolta per la piega presa dal mondo sociale attuale. E infatti, per es., c’è uno stridente contrasto fra questa ricchezza e quanto, dopo una giornata di lavoro alienato, ci si illude di trovare accendendo la televisione e venendone “ripagati” con spot e miserevole ideologia consumistica in monotona salsa, un debordiano simulacro compensatorio di una vita negata. Per l’atmosfera sognante del racconto non trovo veri paragoni con autori famosi. Trovo forse una eco semplicemente nell’equilibrio fra i particolari realistici e la vicenda arcana, densa di un fascino misterioso, che genera spaesamento, nel Moby Dick di Melville. Ecco, forse, il mistero che circonda la muta ragazza del racconto, che simboleggia forse la vita, forse la morte, forse entrambe, può essere lo stesso dell’adolescente che incarna una pienezza irraggiungibile e confonde ogni certezza nel maturo musicista di La morte a Venezia nella sontuosa trasposizione cinematografica di Luchino Visconti del romanzo di Thomas Mann, e gli fa un arcano cenno al momento della morte, un istante supremo in cui tutto si fa chiaro.

Altro aspetto che emerge, o almeno questo è quanto viene evocato nello scrivente, è l’attenzione per un mondo rurale-artigianale che, per quanto scomparso solo da pochi decenni, ormai appare lontanissimo. Chi scrive rammenta da parte dei suoi genitori così tanti ricordi del paese originario del Polesine dai quali si sarebbe potuta ricavare una nuova sterminata “ricerca del tempo perduto” – e questo vale per ogni angolo della vecchia Italia rurale – e rimpiange amaramente di avere ascoltato distrattamente quei racconti, con la sufficienza di chi già si sentiva scioccamente appartenente a un mondo più moderno e superiore. Un tempo quasi ogni persona aveva un soprannome che ne segnava una precisa personalità sociale e psicologica e in ogni caso era individuato per qualcosa di unico e irripetibile. Oggi tutto questo, nell’era della omologazione totale, nell’epoca del “sì” heideggeriano, sembra quasi non essere mai esistito. Ma è un grande pregio della narrazione di Fernanda averci ricordato “come eravamo”, o, meglio, che “qualcosa eravamo”, anziché essere strumenti passivi, sussunti a un rapporto sociale anonimo e impersonale, come in realtà rischiamo pericolosamente e inesorabilmente di avviarci a ridurci ora. Doveroso anche un altro tipo di annotazione, apparentemente non in linea con l’atmosfera senza tempo che aleggia nel racconto. Certo, si potrebbe sempre fare un parallelo fra la tirannide del XX secolo e quella del XV, nonché, ahimè, di tutti secoli, ma sarebbe una operazione troppo facile e innocua. Purtroppo si vive ormai in una situazione storica nella quale, dopo alcuni decenni di un antifascismo di maniera dettato esclusivamente da opportunità politiche e che non aveva mai fatto veramente i conti con un passato criminale, si è osato parlare affettuosamente di “ragazzi di Salò”, equiparando i militi delle brigate nere con i combattenti della Resistenza. E per di più era solo una camera di compensazione per giungere, come ormai traspare da molti inquietanti segnali, a un triste rovesciamento di ruoli, funzionale al crollo della razionalità conseguente all’adeguamento del Capitale al suo concetto e indipendente perfino dai miseri scopi contingenti dei protagonisti empirici di tanta bassezza. Ebbene, attraverso la figura del narratore, un giovane partigiano condannato a morte assieme a tanti compagni, Fernanda Mazzoli a sua volta “osa” ristabilire un giusto criterio di giudizio. Forse, di fronte alla montante marea avversa, questa isola di verità non avrà una approvazione immediata, forse sarà semplicemente un gesto di testimonianza, ma la testimonianza comunque attesta che quanto portò tanti giovani a sacrificare la loro vita, finché esisterà un “Uomo” adeguato al suo concetto, non potrà estinguersi, nonostante oblio e menzogne. Con le parole di Massimo Bontempelli, «[…] un testo […] ha già un significato metaindividuale per il suo scrivente già nel momento in cui lo scrive, prima ancora che abbia raggiunto anche un solo destinatario esterno».

Antonio Fiocco

6 ottobre 2020

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Sachiko Kashiwaba – I libri più sono vecchi e più hanno fascino. I libri hanno il potere di attirare le persone e influenzare le loro scelte. Sta in questo il loro fascino.

Sachiko Kashiwaba 01

– Sono tutti libri antichi? – chiese Rina.
– Sì, tutti i libri del mio negozio sono antichi. Più sono vecchi e più hanno fascino.
– …fascino?
– Esatto! I libri hanno il potere di attirare le persone e influenzare le loro scelte. Sta in questo il loro fascino.
– Quando sono entrata ho sentito un odore simile a quello che c’è nelle biblioteche – disse Rina.
– Ma certo: i libri si impregnano anche dell’odore delle persone che li hanno letti. E a me interessa solo questo tipo di libri – sorrise Naata.

Sachiko Kashiwaba, La città incantata al di là delle nebbie, trad. dall’inglese di Marta Fogato, Kappa Edizioni, Bologna 2011, pp.32-33.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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