Mario Vegetti e Francesco Ademollo – Incontro con Aristotele: la potenza del suo pensiero è ancora in grado di parlarci.

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Incontro con Aristotele

Giulio Einaudi Editore

Mario Vegetti e Francesco Ademollo,
Incontro con Aristotele. Quindici lezioni, Einaudi, 2016.

 

«Aristotele era certamente un pensatore sistematico, ma non nel senso che il suo intento principale fosse quello di produrre una compagine teorica totalizzante, chiusa e definitiva: si trattava piuttosto – secondo la definitizione di Ingemar Düring – di un filosofo Problemsystematiker, cioè impoegnato nello sforzo metodico di affrontare e risolvere i problemi posti dalla comprensione del mondo naturale e umano, e dalla costruzione dei relartivi saperi. Rispetto a questo lavoro sulle questioni della conoscenza, il sistema costituiva semmai un orizzonte tendenziale di unificazione. Ma è segno della grandezza intellettuale del filosofo il fatto che egli non trucchi mai le sue carte: i problemi irrisolti, o risolti solo in modo provvisorio e non del tutto soddisfacente, l’esigenza di ulteriori ricerche e precisazioni, vengono da lui spesso segnalati. […] La potenza del suo pensiero è ancora in grado di parlarci […]».

 

 

 

Mario Vegetti e Francesco Ademollo, Incontro con Aristotele. Quindici lezioni, Einaudi, 2016, pp. VIII, IX.

Risvolto di copertina

Aristotele è stato il maggiore testimone di quell'appassionato desiderio di conoscenza che egli, nelle prime righe della Metafisica, riconosce come una tensione comune a tutti gli uomini, come un segno precipuo della loro umanità. Di fronte al suo immenso sforzo di soddisfare questo desiderio, per sé e per la tradizione cui apparteniamo, è difficile non provare quell'emozione che accompagna sempre l'incontro con le grandi esperienze dell'intelligenza umana, e, nel nostro caso, con l'imponenza di un'impresa del pensiero che si stenta a concepire come dovuta al lavoro di un solo uomo. Questo libro si propone di introdurre il lettore nel laboratorio intellettuale in cui questa impresa è stata realizzata. Il suo scopo è di condurre a una comprensione critica dell'edificio di pensiero costruito da Aristotele, nella sua complessità, nel suo senso d'insieme, e anche nelle questioni che esso lascia aperte. «Incontrare Aristotele» significa dunque disporsi a un ascolto non pregiudicato e non «scolastico» della sua lezione: una lezione che è ancora in grado di parlarci e di suscitare consenso o dissenso, di non lasciarci indifferenti di fronte a quello che è stato uno dei maggiori sforzi filosofici di comprensione del mondo che la nostra tradizione ci abbia trasmesso.

 

 

Immagine in evidenza:
Rembrandt Harmenszoon Van Rijn, Aristotele che contempla il busto di Omero.


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Bruno Bettelheim (1903-1990) – Una lettura della fiaba «I tre porcellini». Non dobbiamo ingannare noi stessi: la lotta sarà lunga e difficile, e inciderà su tutte le nostre energie morali e spirituali, se vogliamo non un “nuovo mondo” alla Huxely, ma un’epoca dominata dalla ragione e dall’umanità.

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«Non dobbiamo ingannare noi stessi:
la lotta sarà lunga e difficile,
e inciderà su tutte le nostre energie morali e spirituali,
se vogliamo non un "nuovo mondo" alla Huxely,
ma un'epoca dominata dalla ragione e dall'umanità».


B. Bettelheim, Il prezzo della vita.
La psicanalisi e i campi di concentramento nazisti, Bompiani, 1976, p. 266.
La fiaba «I tre porcellini», nella versione di Joseph Jacobs (1854–1916)
C'erano una volta tre porcellini che vivevano con i genitori. I tre porcellini crebbero così in fretta che la loro madre un giorno li chiamò e disse loro: "Siete troppo grandi per rimanere ancora qui. Andate a costruirvi la vostra casa". Prima di andarsene da casa li avvisò di non fare entrare il lupo in casa: "Vi prenderebbe per mangiarvi!" E così i tre porcellini se ne andarono. Presto la strada si divise in tre parti. Il Porcellino Grande spiegò che ognuno di loro avrebbe dovuto scegliere una direzione. Li avvisò del lupo e poi andò a sinistra. Il Porcellino Medio andò a destra e quello piccolo nella via centrale. Sulla sua strada il Porcellino Piccolo incontrò un uomo che portava della paglia. "Per piacere, dammi un po' di paglia!" disse "Voglio costruirmi una casa". In poco tempo costruì la sua casa e pensò di essere salvo dal lupo. La casa non era molto bella e nemmeno fatta bene ma a lui piaceva molto. Gli altri due porcellini se ne andarono assieme e presto incontrarono un uomo che portava della legna. "Costruirò la mia casa con il legno" disse il Porcellino Medio "Il legno è più resistente della paglia". Il Porcellino Medio lavorò duramente tutto il giorno per costruire la sua casa. "Adesso il lupo non mi prenderà e non mi mangerà" disse. Il Porcellino Grande camminò per conto suo. Presto incontrò un uomo che trasportava mattoni. "Per piacere, dammi un po' di mattoni" disse il Porcellino Grande "Voglio costruirmi una casa." Così l'uomo gli diede dei mattoni per costruire una bella casa. "Ora il lupo non potrà prendermi per mangiarmi" pensò. Il giorno dopo il lupo arrivò alla casetta di paglia: " Porcellino, porcellino, fammi entrare" gridò il lupo. Ma il Porcellino Piccolo sapeva che era il lupo e non lo lasciò entrare. Ma il Porcellino Piccolo sapeva che era il lupo e non lo lasciò entrare. Ma il lupo cominciò a sbuffare stizzito. E sbuffava e sbuffava e buttò giù la casetta del Porcellino Piccolo. Poi se lo mangiò in un baleno. Il giorno seguente il lupo andò a casa del Porcellino Medio e bussò alla sua porta. "Chi è?" chiese. "Tuo fratello" rispose il lupo. Ma il Porcellino Medio sapeva che non si trattava del fratello e non aprì al lupo. Così questi sbuffò stizzito e buttò giù la casa del Porcellino Medio. La casa di legno cadde e il lupo se lo mangiò. Il giorno dopo il lupo arrivò alla casa di mattoni e gridò: "Porcellino, Porcellino, fammi entrare!" Ma il Porcellino Grande rispose: "No, non ti farò entrare!" quando improvvisamente sentì bussare nuovamente alla porta. "Apri la porta e vedrai chi sono!" disse il lupo con una vocetta. Quindi il lupo cominciò a sbuffare e sbuffare ma non riuscì a buttare giù la casa. Il lupo era furibondo! Gridava: "Porcellino, Porcellino, scenderò per il camino e ti mangerò!" Il Porcellino era spaventato ma non rispose. Dentro casa c'era una grossa pentola sopra il fuoco del camino. L'acqua stava per bollire. Il lupo si calò dal camino. Siccome non c'era il coperchio sulla pentola il lupo vi ruzzolò dentro e finì nell'acqua bollente. E questa è la fine del lupo cattivo e la storia di tre piccoli porcellini.

Per diverse versioni dei Tre porcellini vedi Katherine M. Briggs (18981980), A Dictionary of British Folk Tales, 4 voll., Indiana University, Bloomington, 1970. La trattazione da parte di B. Bettheleim di questa fiaba si basa sulla sua più antica forma pubblicata nel libro di J. O. Halliwell (1820-1889), Nursery Rhymes ad Nursery Tales, London, 1843 circa. Soltanto in alcune delle più recenti versioni della storia i due porcellini più giovanbi sopravvivono, e questo priva la storia di gran parte del suo impatto.


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«La fiaba I tre porcellini insegna in forma molto divertente e drammatica al bambino […] che non dobbiamo essere pigri e prendercela comoda, perché altrimenti potremmo perire. L’intelligente programmazione e la previdenza unite al duro lavoro ci permetteranno di trionfare anche sul nostro più feroce nemico: il lupo! La storia mostra anche […] che il terzo porcellino, [è] quello più saggio, [ed] è solitamente presentato come […] il più anziano.
Le case che i tre porcellini costruiscono simboleggiano il progresso dell’uomo nella storia: prima una baracca e poi una casa di legno, e per finire una solida casa di mattoni. Internamente, le azioni dei porcellini rivelano un progresso dalla personalità […]. Il porcellino piu piccolo costruisce la sua casetta nel modo più sbrigativo, con della paglia; il secondo si serve di bastoni; entrambi tirano su i loro rifugi con la massima fretta e col minimo dispendio di energie, così da poter giocare per il resto della giornata. […] Il porcellino più piccolo cerca un’immediata gratificazione, senza darsi pensiero del futuro e dei pericoli della realtà, mentre il porcellino mediano dà prova di maggiore maturità cercando di costruire una casa un po’ più solida di quella del porcellino più piccolo.
Soltanto il terzo porcellino […] ha imparato ad agire in conformità col principio di realtà: egli […] agisce invece conformemente alla sua capacità di prevedere quello che può accadere nel futuro. È perfino in grado di prevedere correttamente il comportamento del lupo: il nemico […] che cerca di sedurci e di prenderei in trappola; perciò il terzo porcellino può sconfiggere potenze piu forti […] di lui. Il selvaggio e distruttivo lupo rappresenta tutte le forze asociali, inconsce e divoranti da cui l’individuo deve imparare a difendersi, e che egli può sconfiggere […].
I tre porcellini colpisce molto di più […] che non la favola di Esopo, affine ma apertamente moralista, La cicala e la formica. In questa favola una cicala, ridotta alla fame in inverno, supplica una formica di darle un po’ del cibo da lei faticosamente raccolto e immagazzinato
durante l’intera estate. La formica chiede alla cicala cosa fece durante l’estate. La cicala risponde che cantò senza mai lavorare, e la formica respinge la sua richiesta d’aiuto dicendole: “Visto che hai cantato per tutta l’estate, adesso che è inverno balla pure”.
Questa chiusa è tipica delle favole […]. La fiaba, al contrario, lascia a noi ogni decisione […]. Sta a noi applicare la fiaba alla nostra vita […].
Un raffronto fra I tre porcellini e La cicala e la formica accentua la differenza fra una fiaba e una favola. La cicala, similmente ai porcellini e al bambino stesso, è decisa a trastullarsi, senza preoccuparsi molto del futuro. In entrambe le storie il bambino s’identifica con gli animali (anche se solo un ipocrita saputello può identificarsi con la spietata formica, e soltanto un bambino malato di mente col lupo); ma secondo la favola, una volta che il bambino si è identificato con la cicala può abbandonare ogni speranza. La cicala votata al principio di piacere non può aspettarsi che la rovina; è una situazione senza altre alternative, in cui l’aver fatto una scelta una volta sistema le cose per sempre.
Ma l’identificazione coi tre porcellini della fiaba insegna che ci sono degli sviluppi […] La storia dei tre porcellini suggerisce una trasiormazione in cui è mante nuta una notevole misura di piacere, perché ora la soddisfazione è rIcercata con autentico rispetto per le esigenze della realtà. L’astuto e gaio terzo porcellino mette nel sacco il lupo parecchie volte […]. Al bambino, che dal principio alla fine della storia è stato invitato a identificarsi con uno dei protagonisti, non solo s’infonde speranza ma viene anche detto che sviluppando la propria intelligenza potrà sconfiggere anche un avversario molto piu forte.
Dato che secondo il senso di giustizia dei primitivi […] dei bambini soltanto chi ha compiuto qualcosa di veramente cattivo viene distrutto, la favola [La cicala e la formica] sembra insegnare che è sbagliato godersi la vita quando il tempo è propizio, come d’estate. Peggio ancora, in questa favola la formica è un animale cattivo, senza la minima compassione per le sofferenze della cicala: ed è questa la figura che si chiede al bambino di prendere ad esempio.
Il lupo, al contrario, è manifestamente un animale malvagio, perché vuole distruggere. La cattiveria del lupo è qualcosa che il bambino piccolo riconosce nel proprio intimo: il suo desiderio di divorare, e la sua conseguenza: l’angoscia di poter subire anche lui una sorte del genere. […] Quale miglior dimostrazione del valore dell’agire in base al principio di realtà […] frustrando i malvagi disegni del lupo? […] I tre porcellini è una fiaba perché ha un lieto fine, e perché il lupo riceve quanto si merita.
Mentre la concezione della giustizia del bambino è offesa dal fatto che la povera cicala deve morire di fame pur non avendo fatto niente di male, il suo senso di onestà è soddisfatto dalla punizione del lupo. Dato che i tre porcellini rappresentano vari stadi dello sviluppo dell’uomo, la scomparsa dei primi due non è traumatica; il bambino comprende
a livello subconscio che dobbiamo emanciparci da forme piu primitive di esistenza se vogliamo passare a forme superiori. Chi racconta a dei bambini piccoli la fiaba dei Tre porcellini trova soltanto che essi si rallegrano per la meritata punizione del lupo e la vittoria, ottenuta con l’astuzia, del porcellino piu anziano: essi non sono dispiaciuti per la sorte dei due piu piccoli. Anche un bambino piccolo sembra comprendere che tutti e tre sono in realtà uno solo e il medesimo a differenti stadi, come è suggerito dal fatto che rispondono al lupo esattamente con le stesse parole: “No, no, no, per le setole del mio groppone!” Se sopravviviamo soltanto nella forma piu elevata della nostra identità, è bene che sia cosi.
I tre porcellini indirizza i pensieri del bambino relativi al suo sviluppo senza dirgli neppure come dovrebbe essere, permettendogli di trarre le proprie conclusioni. Questo processo basta da solo per una vera maturazione, mentre dire al bambino cosa deve fare non fa che
sostituire alla schiavitù rappresentata dalla sua immaturità la subordinazione ai dettami degli adulti».

Il mondo incantato

Bruno Bettelheim, Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicanalitici delle fiabe, Feltrinelli, 1978, pp. 44-47.

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Immagine in evidenza:
Richard Dadd (1817-1886), The fairy feller’s master-stroke, Tate Gallery, London.


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Marwan Barghouti – «L’ultimo giorno dell’occupazione sarà il primo giorno della pace». – Onore, Rispetto e Libertà per Marwan Barghouti, prigioniero da 14 anni di Israele

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Onore, Rispetto

e Libertà

per

Marwan Barghouti

prigioniero da 14 anni di Israele

 

Libertà per i palestinesi prigionieri politici di Israele

Libertà per il popolo palestinese

 



Oggi, 6 giugno 2016, un grande combattente per la causa palestinese, Marwan Barghouti, compie 57 anni. È sequestrato nelle carceri degli occupanti israeliani proprio in quanto dirigente della opposizione alla Conquista della Palestina perpetrata da Israele, e con lui sono prigionieri moltissimi altri militanti palestinesi. Vogliamo ricordarlo, e ricordarli, in questo giorno, rinnovando il nostro impegno con cui da quasi cinquanta anni cerchiamo di essere vicini alla legittima lotta del popolo palestinese.

Giancarlo Paciello e Carmine Fiorillo



«Mi sono unito alla lotta per l’indipendenza palestinese 40 anni fa e sono stato imprigionato per la prima volta a 15 anni. Questo non mi ha impedito di adoperarmi per una pace basata sulla legge internazionale e sulle risoluzioni dell’Onu. Ma ho visto Israele, la potenza occupante, distruggere metodicamente questa prospettiva un anno dopo l’altro. Ho trascorso 20 anni della mia vita, tra cui gli ultimi 13, nelle prigioni di Israele e tutti questi anni mi hanno reso ancora più convinto di questa immutabile verità: l’ultimo giorno dell’occupazione sarà il primo giorno della pace. Coloro che cercano quest’ultima devono agire, e agire subito, perché si realizzi la prima condizione».

Marwan Barghouti, da il manifesto, 12-10-2015: Il «Mandela palestinese» accusa

 


Barghouti

Il testo che segue rappresenta il capitolo “Il giudizio e la condanna” pp. 55-74 del libro Barghouti il Mandela palestinese di Paolo Barbieri e Maurizio Musolino, DATANEWS Editrice, Roma 2005

Risvolto di copertina

l testo parla della figura politica di Maruan Barghouti, membro del Consiglio legislativo palestinese e segretario di Al-Fatah per la Cisgiordania. Imprigionato nel 1978, per sette anni, nelle carceri israeliane, nel 1987 è stato costretto a lasciare la Palestina per la Giordania e vi è tornato solo nel 1994 dopo gli accordi di Oslo. Il 15 aprile 2002 è stato rapito a Ramallah dall’esercito israeliano e sottoposto a processo per terrorismo e altri gravi crimini; nel 2004 è stato condannato all’ergastolo. Dopo la morte di Arafat, Barghouti rappresenta il possibile leader alla guida della Palestina, soprattutto in seguito alla sua inaspettata candidatura alle presidenza dell’Anp in aperta sfida a Abu Mazen.


 

Marwan Hassib Hussein Barghouti nasce il 6 giugno 1959 a Kobar, un villaggio poco a nord di Ramallah, in Cisgiordania. E il terzo di sei fratelli. I primi anni della sua vita Marwan li trascorre in un lembo di terra amministrato dal regno giordano e in questo contesto inizia a frequentare la scuola primaria. La sua è una delle famiglie più influenti e conosciute dell’area (un Barghouti fu tra i fondatori del Partito comunista palestinese, un Barghouti, Mustafa per la precisione, è stato il principale antagonista di Abu Mazen alle elezioni presidenziali del gennaio 2005; Hafez Barghouti è uno dei giornalisti più affermati nel Medio Oriente; Mourid Barghouti è un apprezzato poeta; e sempre una Barghouti, Fathiya, è una delle poche donne elette “sindaco” nelle elezioni amministrative del dicembre 2004 in Palestina: l’elenco potrebbe continuare a lungo, anche se non tutti i Barghouti più noti sono direttamente imparentati con Marwan) e la sua prima infanzia si svolge in modo abbastanza sereno. Ma questa tranquillità non durerà a lungo. Finirà il 6 giugno 1967, proprio il giorno in cui il giovane Marwan festeggia il suo ottavo compleanno. Quel 6 giugno le truppe israeliane lanciano la Guerra dei Sei giorni, occupano quel che resta del territorio della Palestina originariamente affidata al mandato inglese, invadono il Sinai egiziano e il Golan siriano.

 

Il prigioniero politico

Marwan Barghouti é un uomo piccolo, tarchiato, non ha l’aria solenne del leader ma l’aspetto, si direbbe, di un uomo qualunque. A prima vista potrebbe essere un avvocato di provincia, ma le misure di sicurezza e la tensione che si respira nell’aula della Corte distrettuale di Tel Aviv, tradiscono la verità: è un imputato e non un imputato qualunque. Manette ai polsi, le mani alzate simbolo del suo rifiuto di arrendersi, «la pace sarà raggiunta – grida da dietro le sbarre in arabo, inglese ed ebraico – solo con la fine dell’occupazione». È il 14 agosto del 2002, è il giorno della formalizzazione delle accuse nel processo per terrorismo a carico del segretario generale di al Fatah, il movimento nazionalista anima storica della lotta per l’autodeterminazione del popolo palestinese.

Quando è apparso chiaro che l’Intifada non si sarebbe fermata nonostante le rappresaglie indiscriminate, i bombardamenti sui civili, i rastrellamenti, le punizioni collettive, il governo israeliano ha deciso di prenderlo di mira, come massimo responsabile della rivolta. Per ben tre volte le truppe israeliane compiono provocatorie, sprezzanti intimidazioni occupando militarmente la sua casa nel paese natale di Kobar, nei pressi di Ramallah: nel dicembre del 2001, a gennaio e a fine marzo del 2002, l’ultima volta prendendo in ostaggio («arrestando», nel gergo ufficiale) sua moglie e i suoi figli. Il 14 aprile del 2002, finalmente lo trovano in casa di Ziad Abu ‘Eyn, un vecchio compagno di lotta, accusato di un attentato vent’anni prima e quindi schedato dagli israeliani come «terrorista». Accade ancora una volta a Ramallah.

Sono passati quattro mesi dal suo arresto, quando il procuratore dello Stato Devorah Chen legge i capi d’imputazione a suo carico. Quattro mesi in cui ha avuto pochissimi contatti con l’esterno, e, secondo una prassi purtroppo consolidata, è stato praticamente sempre a disposizione degli agenti dei servizi segreti di Tel Aviv. «Marwan – racconta Fadwa, la moglie – ha sofferto 100 giorni successivi di interrogatori intensi e di torture impietose da parte dei suoi carcerieri israeliani. Durante gli interrogatori, hanno usato vari mezzi di crudeltà fisici e psicologici. Lo hanno privato del sonno e gli hanno inflitto un tipo di tortura chiamato shabeh. Ciò vuol dire che è stato costretto a sedere su una sedia bassa con le mani dietro la schiena per lunghe ore». Ma quando prende la parola durante le udienze del procedimento voluto fortemente dal governo Sharon, con la sua requisitoria contro la politica israeliana Barghouti ribalta la scena, rimette al centro del processo la storia, la politica, la rivolta palestinese e le sue ragioni ormai antiche. [Leggi tutto nelle dieci pagine in formato PDF]

Onore, Rispetto e Libertà per Marwan Barghouti,
prigioniero da 14 anni di Israele

 

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Manuel Rivas – I libri bruciano male. Incerto è, a dire il vero, l’avvenire. Chi sa cosa accadrà? Ma incerto è anche il preterito. Chi sa cosa è accaduto?

Manuel Rivas
Incerto è, a dire il vero, l'avvenire.
Chi sa cosa accadrà?

Ma incerto è anche il preterito.
Chi sa cosa è accaduto?

Antonio Machado, Juan de Mairena

 

 

 

I libri bruciano male


Risvolto di copertina

La Coruña, notte del 18 agosto 1936: sulla darsena del porto e in varie piazze della città ardono grandi pire. Ma non si tratta delle tradizionali fogueiras accese per animare le sagre popolari estive: sono i franchisti che, un mese dopo il golpe, stanno dando fuoco alle principali biblioteche della città per cancellare ogni traccia del passato repubblicano. La Coruña diventa così un modello di sofferenza universale, sottolineando come il controllo sistematico sulla lingua e la cultura non sia stato un semplice corollario della dittatura ma una delle sue prime preoccupazioni. Bruciare i libri significa sì ucciderne le idee, ma anche e soprattutto gli uomini e le storie che le loro pagine racchiudono. Attorno a questo evento, a questo buco nero, ruotano come pianeti le linee narrative e i personaggi in un carosello di voci senza fine: tra i deliri intellettuali del dottor Montevideo e le raccapriccianti esecuzioni di Federico García Lorca e dell’editore corugnese Ánxel Casal, tra gli abusi di potere del giudice Ricardo Samos, spalleggiato dal torvo ispettore Ren, e le mulleres con cousas na cabeza della pittrice e spia repubblicana Chelo Vidal, tra il censore Tomás Dez, simbolo dell’anticultura fascista, e l’affascinante figura di Terranova, viveur amante del bel canto e delle feste paesane aiutato dall’amico e pugile Curtis. Un’atmosfera di terrore e oscurantismo troppo nauseabonda per non far riecheggiare nella nostra memoria le atrocità che in quegli stessi anni il fascismo perpetrava in Italia.


 

«l libri bruciavano male. Quando uno di loro si mosse nella pira più vicina, a Hércules parve che all’improvviso stesse aprendo a ventaglio le fresche spine rossastre di una branchia di merluzzo. Da un altro si staccò un pezzetto incandescente che rotolò come un riccio di mare di neon sui gradini di una scala antincendio. Poi pensò che quella cosa che si agitava inquieta nel mucchio ardente fosse una lepre imprigionata e che un refolo di vento, che ravvivò un po’ la pira, spargesse in scintille il suo mantello bruciato, dal primo all’ultimo pelo. In questo modo, la lepre conservava ancora la sua sagoma nella grafia di fumo e stirava le zampe per avanzare rapida lungo la diagonale vetrata del cielo del viale atlantico.
Le prime pire dei libri erano state innalzate lì, a fianco della Darsena, andando verso il Parrote. Erano posizionate, in un certo senso, nel ventre urbano, dove il mare aveva partorito la città, il primo nido di pescatori, e da allora di erba ne era cresciuta parecchia, persino sui tetti, che somigliavano a cime verdeggianti, in quel luogo che oggi è il punto di confluenza del servizio di trasporto pubblico di lance della baia, dei tram urbani e delle vetture di linea dell’interno. Le altre pire bruciano lì a fianco, nella piazza principale che porta il nome di Maria Pita, l’eroina che durante uno dei molti attacchi dal mare guidò la difesa della città alla testa di un comando di pescivendole […]».

«Tutto questo, le pire di libri, non appartiene alla memoria della città. Sta succedendo adesso. Quindi questo bruciare dei libri non accade in un passato remoto e neppure di nascosto. Non si tratta nemmeno di un incubo immaginario sognato da un apocalittico. Non è un romanzo. Per questo il fuoco va lento, perché deve vincere le resistenze, l’imperizia degli incendiari, la mancanza di abitudine dei libri a bruciare. L’incredulità degli assenti. Si vede benissimo che la città non ha memoria di questo fumo svogliato e renitente che si muove in un’atmosfera estranea. Deve bruciare persino quello che non sta scritto […]. Tutto questo brucerà lentamente, anche il libro dello stemma, che non apparirà più sullo scudo della città. La Repubblica di Platone. Finalmente, era ora!».

«Quello che adesso assume la direzione del rogo sottoscrive con un sorriso l’intenzione della frase del subordinato. I libri come criminali, arrestati, messi al muro. Di spalle alla gente. In fila , pigiati, senza lo spazio per potersi allungare, in un silenzio muto. Quelli lì, comunque, hanno avuto miglior sorte che questo. Passeranno i giorni, i mesi, gli anni, e i libri arrestati spariranno a poco a poco. Una mano distratta. Un artiglio deciso. Libro dopo libro, quel che non è stato bruciato della biblioteca sarà ridotto a brandelli nel Palazzo di Giustizia. E lo stesso accadrà con tutte le altre cose che appartenevano a quell’uomo. Tutto sarà oggetto di spoglio. Le grandi e le piccole proprietà. Persino le cose più minuscole e intime. Non soltanto i libri: hanno estirpato anche gli scaffali di legno intagliato su cui erano appoggiati. Hanno portato via o hanno distrutto le collezioni dell’amante della scienza, del curioso naturalista».

«Le consultazioni erano sporadiche. Non c’era molta selezione nel rogo. I libri erano scaricati a mucchi o lanciati a casaccio dai cassoni dei camion. Quando uno di loro usciva dall’anonimato, come un viso che spunta fuori da una fossa comune, la proclamazione del titolo ad alta voce gli conferiva un ultimo merito, la prova definitiva del fatto che alla fin fine si trattava di un buon titolo, perché quell’ignorante di Parallelepipedo – era stato lui a definirsi così, non senza un certo orgoglio – era lì, a chiedere informazioni al riguardo».

«Capo! Qui ce n’è uno di quel tale, Lorca! Lo gettò con ostentata avversione, cercando di mirare al centro del vulcano. Dalle fiamme fuoriuscì un’eruzione di fumo scuro e scintille incandescenti. Ne prese un’altra manciata. Il capo, intanto, si era avvicinato un’altra volta. Il primo del nuovo mucchio era un libriccino esile. Al centro, l’unica illustrazione, una semplice capasanta.
Sei poesie galeghe, Fe-de-ri-co … Ma che storia è questa, li sfornano per famiglie?
Si voltò verso il capo tendendogli il libro con un’espressione di disgusto.
Samos, mi dica un po’! Questo finocchio scriveva anche in galego?»

 

Manuel Rivas, I libri bruciano male, Feltrinelli, 2009, pp. 47, 49-50, 62, 65, 67.

 

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Darsena di A Coruña, agosto 1936.
Rogo di libri dopo il colpo di stato fascista del 18 luglio.

Rogo libri

Un rogo di 600 libri fu ordinato nel 1490  dall’inquisitore Torquemada.

 

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Rogo di libri alla Festa studentesca della Wartburg il 18 ottobre 1817.


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Max Pohlenz (1872-1962) – La Grecia classica ci ha indicato la via verso la libertà interiore, in cui unico criterio direttivo è il vero bene comune. La libertà ha un limite solo, ma inviolabile. Esso è implicito nelle leggi stesse dello spirito, che può volere soltanto il vero e il bene.

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La libertà greca

«Caratteristica fondamentale dell’uomo ellenico è il forte impulso ad autodeterminarsi, che lo induce a formulare un suo personale giudizio sulle cose da cui si trova circondato, e a configurare, di conseguenza, la propria vita secondo un criterio proprio.
Egli non disconosce gli ostacoli contro cui viene ad urtare, ed ha un senso profondo dei limiti che, in quanto uomo, gli sono imposti. È’ ben consapevole di trovarsi in una collettività, nella quale, per poter esistere, si deve inserire, anche a costo di sacrificare desideri propri. Ben sovente egli è anche costretto a sperimentare che la sua volontà è frustrata da accadimenti imprevedibili […]. Gli è pure estranea l’angoscia cosmica che, conseguenza delle più dure esperienze, grava sugli uomini di oggi […].
L’uomo greco possiede il senso della realtà, dell’esistenza riconosce appieno ed avverte, oltre agli aspetti buoni, anche la durezza; vede i pericoli che lo minacciano, ma il suo atteggiamento fondamentale non è il timore, l’ansia di difendersi, bensl una positiva volontà di vita, che lo spinge, entro i limiti che nell’ordinamento cosmico gli sono stati tracciati, a configurare la sua esistenza in modo adeguato alla propria natura e conforme alla sua volontà. In Eschilo Eteocle rimprovera aspramente alle fanciulle tebane la loro paura inconsulta […]. E già in Omero Ettore assurge a piena grandezza umana proprio nell’attimo in cui si vede dinanzi la morte sicura e s’avvede d’essere ingannato e tradito da tutti gli dei. Non lo vince la paura, ma ecco qual è il suo unico pensiero:
                     ch’io non senza lotta, non privo di gloria termini la vita,
         no, ch’io compia ancora qualcosa di grande, novella alle generazioni future.

Ecco il fondamento psicologico su cui poté svilupparsi il concetto greco di libertà»

Max Pohlenz, La libertà greca, Paideia, 1963, pp. 5-6.

«Socrate […] impegnò  tutte le sue energie per convincere gli uomini che non dovevano affidarsi a opinioni soggettive, ma aspirare con tutte le forze alla conoscenza del bene oggettivo, l’unica sicura stella polare nella loro attività pratica. Solo questo ‘bene’ l’uomo, per sua natura, poteva davvero ‘volere’ e la desiderata libertà poteva consistere solo nell’orientare a questo fine il proprio agire, senza lasciarsi turbare da influenze estrinseche. […] Socrate  […] nei suoi dialoghi andava traendo sempre maggiore conferma alla convinzione che l’uomo fosse creato per vivere nella società e suo primo compito dovesse essere di inserirsi in essa mediante una condotta etica.
[…] Socrate è  consapevole che l’individuo deve tutta la sua esistenza fisica e spirituale alla società, e può vivere solo in essa. Alla società egli è quindi per sua natura esternamente legato e anche interiormente vincolato. Non possiede quindi una libertà assoluta, ma si trova in un vincolo oggettivo che non può sciogliere senza perdersi. Può renderlo più spontaneo se vi assente da sé, riconoscendo il bene etico come suo autentico bene e agendo di conseguenza. La subordinazione volontaria al tutto, che Peride sognava come ideale mentalità politica, raggiunge la sua espressione piena quando Socrate, ingiustamente condannato, preferisce rimanere in carcere piuttosto che compromettere per parte sua l’ordinamento giuridico e la stabilità dello stato. L’atteggiamento fondato sulla intuizione sentimentale s’è però trasformato in chiara scelta che l’uomo attua basandosi sulla conoscenza del vero bene. E se nella tragedia Antigone sacrificava la sua vita per una grande causa obbedendo alla propria sensibilità etica, anche la sua azione si caricava ora d’un significato più profondo per la certezza che non la vita importava, ma la vita buona, e con il sacrificio volontario della sua esistenza fisica l’uomo poteva salvare la sua parte migliore, la sua persona etica.
In tal modo Socrate diede agli uomini il sicuro sostegno di cui avevano bisogno, e indicò loro la via verso la libertà interiore, in cui unico criterio direttivo è il vero bene. Tale libertà del resto poteva trovare attuazione solo salva restando la consapevolezza dei suoi limiti, e anche la libertà personale presupponeva dei vincoli.
Per la massa quest’ideale era troppo alto, e la democrazia non sopportò chi incitava alla libertà etica dell’individuo. Fra i discepoli stessi di Socrate non potevano capire appieno il maestro quelli che non erano penetrati del suo stesso senso della polis».

Max Pohlenz, La libertà greca, Paideia, 1963, pp. 217-218.

«Socrate aveva indicato agli uomini la via per la libertà interiore, mostrando loro che i veri valori si trovavano nella loro stessa anima. […] Platone fu indotto […] a riconoscere chiaramente che la vera libertà poteva consistere solo nel dominio assoluto dello spirito sugli istinti inferiori. Il dominio di sé, che anche la sensibilità popolare esigeva, era la libertà dello spirito, che rappresenta il vero io dell’uomo. Aristotele, guidato dalla sua personale inclinazione, modificò tale concetto, affermando che lo spirito adempiva alla sua natura ‘divina’ nel pensiero teoretico, per il quale l’uomo è sollevato al disopra della vita quotidiana.
Sia Platone sia Aristotele usarono solo con ritegno il termine di ‘libertà’, perché aveva suono troppo politico. In realtà però hanno sviluppato il concetto conferendogli chiarezza filosofica: la libertà interiore giunge a pienezza nella libertà dello spirito, che non solo garantisce all’uomo l’indipendenza dall’esterno, ma gli dà anche la possibilità di sviluppare liberamente la sua vera natura.
La libertà ha un limite solo, ma inviolabile. Esso è implicito nelle leggi stesse dello spirito, che può volere soltanto il vero e il bene».

Max Pohlenz, La libertà greca, Paideia, 1963, pp. 134-135.

 


Vedi anche:

Max Pohlenz (1872-1962)  – Il cammino del dell’uomo greco è illuminato da tre guide ideali: il vero, il bello, il bene. Il sentimento dell’incondizionata sudditanza gli è affatto sconosciuto. Nel suo intimo possiede la forza di resistere a tutti i rovesci del destino e plasmare la sua vita a proprio modo, nella consapevolezza di essere personalmente responsabile delle proprie azioni


Luca Grecchi

Perché non possiamo non dirci Greci
In Appendice: In difesa di Socrate, Platone ed Aristotele

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indicepresentazioneautoresintesiinvito alla lettura


Luca Grecchi

La filosofia della storia nella Grecia classica

coperta 165

indicepresentazioneautoresintesiinvito alla lettura


Luca Grecchi – Quando il più non è meglio. Pochi insegnamenti, ma buoni: avere chiari i fondamenti, ovvero quei contenuti culturali cardinali che faranno dei nostri giovani degli uomini, in grado di avere rispetto e cura di se stessi e del mondo.

Luca Grecchi – A cosa non servono le “riforme” di stampo renziano e qual è la vera riforma da realizzare

Luca Grecchi – Cosa direbbe oggi Aristotele a un elettore (deluso) del PD

Luca Grecchi – Platone e il piacere: la felicità nell’era del consumismo

Luca Grecchi – Un mondo migliore è possibile. Ma per immaginarlo ci vuole filosofia

Luca Grecchi – «L’umanesimo nella cultura medioevale» (IV-XIII secolo) e «L’umanesimo nella cultura rinascimentale» (XIV-XV secolo), Diogene Multimedia.

Luca Grecchi – Il mito del “fare esperienza”: sulla alternanza scuola-lavoro.

Luca Grecchi – In filosofia parlate o scrivete, purché tocchiate l’anima.

Luca Grecchi – L’assoluto di Platone? Sostituito dal mercato e dalle sue leggi.

Luca Grecchi – L’Italia che corre di Renzi, ed il «Motore immobile» di Aristotele

Luca Grecchi – La natura politica della filosofia, tra verità e felicità

Luca Grecchi – Socrate in Tv. Quando il “sapere di non sapere” diventa un alibi per il disimpegno

Luca Grecchi – Scienza, religione (e filosofia) alle scuole elementari.

Luca Grecchi – La virtù è nell’esempio, non nelle parole. Chi ha contenuti filosofici importanti da trasmettere, che potrebbero favorire la realizzazione di buoni progetti comunitari, li rende credibili solo vivendo coerentemente in modo conforme a quei contenuti: ogni scissione tra il “detto” e il “vissuto” pregiudica l’affidabilità della comunicazione e non contribuisce in nulla alla persuasione.


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Gioacchino Turco – «ETERNIT». Quando i soldi si impadroniscono del cuore la salute e la vita stessa dei lavoratori e dei cittadini vengono sacrificate sull’altare del profitto.

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Eternit

Risvolto di copertina

Questa storia prende vita negli anni del secondo dopoguerra, quando un forte flusso migratorio si spostava dal Meridione al Settentrione industrializzato. Si svolge in tre diversi ambienti: Casale Monferrato, Reggio Calabria e Torino, ruotando intorno al caso Eternit e ai tanti morti per amianto. Per l’Istituto Superiore per la Prevenzione e la Salute sul lavoro, sono almeno tremila casi l’anno nella sola Italia (centomila nel mondo), e gli epidemiologi dicono che si morirà a causa dell’amianto fino al 2040. Questo libro unisce elementi di verità storica all’invenzione di alcuni personaggi che questa vicenda raccontano. Una storia singolare e insieme universale, di persone semplici, che esalta la forza dell’uomo di rialzarsi e andare avanti nonostante le tragedie e mette a nudo la fragilità umana al cospetto del denaro. È, infatti, quando i soldi si impadroniscono del cuore che la salute e la vita stessa dei lavoratori e dei cittadini vengono sacrificate sull’altare del profitto.

Gioacchino Turco, Eternit. Quando i soldi si impadroniscono del cuore, Sensibili alle foglie, pp. 80, 2016.

Gioacchino Turco, operatore socio-sanitario, è nato a Reggio Calabria nel 1976. Amante della letteratura inglese, fin da ragazzo cerca nella natura che lo circonda una forma di ispirazione. Questo è il suo primo romanzo.

 

 


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Karl Marx (1818-1883) – Il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità.

Marx e il regno della libertà

Abolizione del lavoro alienato

«Di fatto, il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità… La libertà in questo campo può consistere soltanto in ciò, che l’uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come da una forza cieca; che essi eseguano il loro compito con il minore possibile impiego di energia e nelle condizioni più adeguate alla loro natura umana e più degne di essa. Ma questo rimane sempre un regno della necessità. Al di là di esso comincia lo sviluppo delle capacità umane, che è fine a se stesso, il vero regno della libertà, che tuttavia può fiorire soltanto sulle basi di quel regno della necessità. Condizione fondamentale di tutto ciò è la riduzione della giornata lavorativa».

Karl Marx, Il Capitale, III, Editori riuniti, 1972, pp. 231-232.

 


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Herbert Marcuse (1898-1979) – Se vogliamo costruire una casa di abitazione nel posto in cui sorge una prigione, dobbiamo prima demolire la prigione, altrimenti non possiamo neppure iniziare i lavori.

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Giovanni Battista Piranesi, The-Prisons.

«Se vogliamo costruire una casa di abitazione nel posto in cui sorge una prigione, dobbiamo prima demolire la prigione, altrimenti non possiamo neppure iniziare i lavori. Tuttavia […] dobbiamo per lo meno sapere che al posto della prigione vogliamo costruire una casa di abitazione. È proprio quello che crediamo di sapere. Non è necessario avere già pronto un piano preciso della casa per cominciare a demolire la prigione; purché si sappia che si vuole e si può sostituire a quest’ultima una casa di abitazione, e purché si abbiano le idee chiare su come deve essere una casa decente (questo costituisce, secondo me, l’aspetto decisivo)».

Herbert Marcuse, La fine dell’utopia, Laterza, Roma-Bari, 1968, pag. 107.

 

La fine dell'utopia

La fine dell’utopia


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Sensibili alle foglie / Spin Time Labs – Il dono delle lingue. Domenica 29 Maggio 2016

il dono delle lingue

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logoScrittaSENSIBILI ALLE FOGLIE e SPIN TIME LABS


Propongono

 Domenica 29 Maggio – dalle ore 10 alle ore 20

presso

SPIN TIME LABS

Via Santa Croce in Gerusalemme, 59  – Roma

 

Il dono delle lingue

lingue u.v.xxx

Poesie, canzoni e messaggi in

amarico
amazigh
arabo classico
farsi
giapponese
hassaniya
igbo
lingala
mandinga
pashto
peul
portoghese
romanes
rumeno
russo
soninke
tigre
urdu
wolof

 

 

momenti di riflessione sulle migrazioni con

Marcella Guidoni, Fiabe del Marocco.
Andrea Pizzorno, Clandestino italiano,
Giusi Sammartino, L’interpretazione del dolore

Monologo sulla colonizzazione tratto da Clandestino italiano,
recitato da Caterina Venturini

***

Nella pausa pranzo sarà aperta l’osteria di Spin Time Labs, per momenti conviviali


Una giornata in cui tutti possono parlare la loro lingua, per aiutarci a sentire e riconoscere le diverse sonorità delle lingue del pianeta, perché la lingua è cultura, è ricchezza. Un incontro contro il razzismo, per l’accoglienza delle culture che giungono con i migranti. L’organizzazione dell’incontro è in progressione, saranno presenti anche altre lingue

SCALETTA PROVVISORIA (ELASTICA)

DOMENICA 29 MAGGIO – DALLE ORE 10:00 ALLE 20:00 –
AUDITORIUM DI SPIN TIME LABS.
VIA SANTA CROCE IN GERUSALEMME 59. ROMA

 

h. 10 Presentazione dell’incontro a cura di Spin Time Labs e Sensibili alle foglie

Introduzione ai gruppi linguistici del Nordafrica e dell’Asia
Said, Bashir e altri (poesie e messaggi in arabo classico)
Omran Algallal e altri (messaggio sulla fratellanza universale e messaggi in amazigh)
Marcella Guidoni, Fiabe del Marocco
Jamil Awan Ahamede, (poesia del poeta Iqbal in urdu, poesia di Faiz in farsi)
Shah Hussain (messaggio in pashto)
Giusi Sammartino, L’interpretazione del dolore
Miki Hirashima (intervento pacifista – art. 9 Costituzione del Giappone – in giapponese)
Edilson Araujo dos Santos (recita il testo di una canzone di Renato Manfredini – Renato
Russo, cantautore brasiliano – in portoghese)
***
Pausa durante la quale nell’Osteria di Spin Time si potrà mangiare qualcosa a prezzi modici
***
h. 15 Introduzione ai gruppi linguistici centroafricani

Yacoub Diarra (messaggio sulla schiavitù in Mauritania in hassaniya e soninke)
Leone (messaggio in amarico – si potrà ammirare l’alfabeto amarico esposto nell’atrio)
Bah Fallo (canzone in mandinga)
Hope (messaggio poetico in igbo)
Diop (la favola di Esopo La volpe e l’uva in wolof)
Omar Diamanka (messaggio contro il razzismo in peul)
Djby Ka (favola senegalese in wolof)
Alain Alphonse (canzone d’amore in lingala)
Hummed Mohammednur (messaggio in tigre)

Andrea Pizzorno Clandestino italiano
(connessione con la colonizzazione italiana in Africa)

Caterina Venturini recita monologhi tratti da Clandestino italiano
Intervento in romanes di una donna rom di origine rumena

Introduzione alle lingue slave
Valentina (messaggio in ucraino o russo)
Anna (poesia di Octavian Goga in rumeno)
Altre persone porteranno messaggi in lingua (russo, urobo e altre)
non ancora in scaletta.


Logo-Adobe-Acrobat-300x293Locandina Il dono delle lingue

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Articolo 33 – Il libro di Mauro Magini, «Il mio amico Platone».

Magini 005

 Mauro Magini 

Il mio amico Platone
Riflessioni su società, religione, vita

245 ISBN

indicepresentazioneautoresintesi  

 

Mauro Magini è nato a Orciano di Pesaro nel 1941 e attualmente vive a Roma. Laureato in chimica e già ricercatore dell’Enea, dove ha pubblicato numerosi studi su riviste scientifiche internazionali. Ha inoltre pubblicato, con la moglie Maria Teresa Pellegrini, manuali di chimica per le scuole superiori. Questa è la sua prima opera in cui affronta questioni esistenziali. Militante attivo della Comunità di base di San Paolo, crede in una religione che libera le coscienze e non le opprime come purtroppo succede quasi sempre in tutte le religioni.

articolo-33-supplemento-digitale-alla-rivista-2Mauro Magini ha raccolto in questo libro i suoi scritti, composti in tempi diversi. Su argomenti diversi tra loro. Coprono infatti un arco di circa quaranta anni, a partire dagli anni Settanta del Novecento ad oggi. Si tratta di riflessioni sulle grandi questioni della vita e del mondo: la società, le guerre, il terrorismo, la corruzione politica. Il filo che lega i vari passaggi è l’approfondimento dei temi etico-religiosi che caratterizzano il nostro tempo. Il percorso inizia con i referendum sul divorzio e sull’aborto, per passare poi al tema della corruzione, all’etica, alla ricerca. Una attenta analisi sul terrorismo caratterizza la riflessione sul secolo che stiamo vivendo, con proposte sul pacifismo e la collaborazione tra i popoli. Affrontata in maniera ampia è la questione religiosa. Mauro Magini è un chimico, viene quindi da una formazione scientifica. Militante attivo della Comunità di base di San Paolo, crede fermamente in una religione che libera le coscienze e propone un terreno di condivisione non conflittuale tra scienza e religiosità. Si confronta nelle pagine del suo libro con importanti pensatori come Hans Küng, Raimon Panikar, Vito Mancuso. Per chiudere, alcune poesie intimiste.

Articolo33

Articolo 33, Anno VIII, N. 3-4, Marzo-Aprile 2016, p. 88.

 

 


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