Giorgio Riolo – «La via del classico. Letteratura, società, vita quotidiana, conoscenza».

Giorgio Riolo,
La via del classico. Letteratura, società, vita quotidiana, conoscenza

ISBN 978-88-7588-423-9, 2025, pp. 488,  Euro 35 .

In copertina: Vittorio Amedeo Corcos, Sogni, 1896, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma.



Indice


Introduzione

Perché la letteratura e perché i classici.

Un necessario discorso preliminare

Bibliografia minima generale

Nota al testo

Parte prima

L’antichità classica

Capitolo I – Il mondo greco

Omero

Omero, Iliade

Omero, Odissea

Bibliografia minima

I tragici

Il teatro greco – Le tragedie

Eschilo, Orestea (Agamennone, Coefore, Eumenidi)

Bibliografia minima

Sofocle, Edipo re, Edipo a Colono, Antigone

Bibliografia minima

Euripide, Medea

Bibliografia minima

I filosofi

Platone

Bibliografia minima

Platone, Simposio

Bibliografia minima

Platone, Apologia di Socrate

Bibliografia minima

Platone, Eutifrone, Critone, Fedone

Bibliografia minima

Platone, La Repubblica

Bibliografia minima

Platone, Fedro

Bibliografia minima

Epicuro, Lettera a Meneceo

Bibliografia minima

Capitolo II – Il mondo romano

Seneca, Lettere a Lucilio

Bibliografia minima

Capitolo III – Il Vicino Oriente

La Bibbia e i Vangeli di Matteo e Luca

La Bibbia

Il problema Gesù: il Gesù storico e il Cristo della fede

Bibliografia minima

Parte seconda

Dal Medioevo all’età moderna

Capitolo I – Dante, Machiavelli, Shakespeare, Goethe

Dante, La Divina Commedia

Bibliografia minima

Niccolò Machiavelli, Il principe

Bibliografia minima

William Shakespeare

Bibliografia minima

W. Shakespeare, Amleto, Re Lear

Bibliografia minima

W. Shakespeare, Giulio Cesare, Il mercante di Venezia

Bibliografia minima

W. Shakespeare, Macbeth, La tempesta

Bibliografia minima

W. Shakespeare, Sogno di una notte di mezza estate,

Saggio di Laura Cantelmo

Bibliografia minima

Johann Wolfgang Goethe, Faust

Bibliografia minima

Capitolo II – Il Settecento e l’Illuminismo

Jean-Jacques Rousseau, Discorso sulle scienze e sulle arti, Discorso sull’origine e i fondamenti della diseguaglianza tra gli uomini, Fantasticherie di un passeggiatore solitario

  • Bibliografia minima

Parte terza

La grande stagione del romanzo realistico

Capitolo I – I francesi

Honoré de Balzac

Premessa

Vita e opere

Balzac, Illusioni perdute, Splendori e miserie delle cortigiane

Bibliografia minima

Balzac, Eugénie Grandet

Bibliografia minima

Balzac, Papà Goriot

Bibliografia minima

Stendhal, Il rosso e il nero

Bibliografia minima

Capitolo II – I russi

Nikolaj V. Gogol’, Racconti di Pietroburgo

Bibliografia minima

Fëdor M. Dostoevskij

Bibliografia minima

Dostoevskij, Delitto e castigo

Bibliografia minima

Dostoevskij, L’idiota

Bibliografia minima

Dostoevskij, I demoni

Bibliografia minima

Dostoevskij, I fratelli Karamazov

Bibliografia minima

Lev N. Tolstoj

Tolstoj, Tre morti, I cosacchi, Dopo il ballo

Tolstoj, Padrone e lavorante

Tolstoj, La cedola falsa

Tolstoj, La morte di Ivan Ilic

Tolstoj, Il divino e l’umano

Tolstoj, Padre Sergio

Tolstoj, La sonata a Kreuzer

Tolstoj, Hadzi Murat

Tolstoj, Guerra e pace

Tolstoj, Anna Karenina

Tolstoj, Resurrezione

Bibliografia minima

Anton P. Cechov

Cechov, Racconti

(La steppa, La signora col cagnolino, Reparto N. 6)

Bibliografia minima

Capitolo III – Thomas Mann

Thomas Mann, I Buddenbrook

Thomas Mann, Tonio Kröger

Thomas Mann, La morte a Venezia

Thomas Mann, Tristano

Thomas Mann, Disordine e dolore precoce

Thomas Mann, La montagna incantata

Thomas Mann, Doctor Faustus

Bibliografia minima

Capitolo IV – LOttocento italiano

Alessandro Manzoni, I promessi sposi

Bibliografia minima

Giacomo Leopardi, Canti, Operette morali

Bibliografia minima

Giovanni Verga, Novelle

Bibliografia minima

Parte quarta

La grande letteratura italiana del secondo dopoguerra

Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il gattopardo

Bibliografia minima

Elio Vittorini, Conversazione in Sicilia

Bibliografia minima

Primo Levi, Se questo è un uomo, I sommersi e i salvati

Bibliografia minima

Italo Calvino, La giornata di uno scrutatore

Bibliografia minima

Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli

Bibliografia minima

Cesare Pavese, La luna e i falò

Bibliografia minima

Beppe Fenoglio, Il partigiano Johnny, Una questione privata

Bibliografia minima

Francesco Jovine, Le terre del Sacramento

Bibliografia minima

Ignazio Silone, Uscita di sicurezza

Bibliografia minima

Leonardo Sciascia, Le parrocchie di Regalpetra, Il contesto,

Todo modo, Gli zii di Sicilia, Il mare colore del vino

Bibliografia minima

Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari e Lettere luterane

Bibliografia minima

don Lorenzo Milani, Lettera a una professoressa

Bibliografia minima

Parte quinta

Marguerite Yourcenar

Marguerite Yourcenar, Memorie di Adriano

Bibliografia minima

Parte sesta

La storia

Edward H. Carr, Sei lezioni sulla storia

Bibliografia minima

Marc Bloch, Apologia della storia o mestiere di storico

Bibliografia minima

AA.VV. Lettere di condannati a morte della Resistenza europea

Bibliografia minima

Massimo M. Salvadori, Storia d’Italia.

Il cammino tormentato di una nazione. 1861-2016

Bibliografia minima

Parte settima

Il pensiero critico

Karl Marx, Opere

Bibliografia minima

Antonio Gramsci, Alcuni temi della quistione meridionale,

Lettere dal carcere, Quaderni del carcere

Bibliografia minima

György Lukács, Il marxismo e la critica letteraria,

Estetica

Il fascino delle origini

L’intermezzo moscovita

Le concezioni estetiche di Marx ed Engels

Il realismo critico, la particolarità e il “tipo”

Lo scoiattolo e l’elefante

Il rigore della maturità

Dalla vita quotidiana alla vita quotidiana

La catarsi, dall’antica Atene alle moderne metropoli

La catarsi nella vita e nella letteratura: Lev Tolstoj

Bibliografia minima

Ernst Bloch, Il principio speranza

Ernst Bloch e il marxismo critico

Il principio speranza

Il diritto degli esseri umani a “camminare eretti” e il socialismo

Il Sessantotto e oltre

La vita e l’opera

Bibliografia minima

Simone Weil, La prima radice

Bibliografia minima

Frantz Fanon, I dannati della terra

Bibliografia minima

Indice dei nomi




M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Salvatore Bravo – Equilibrio e civiltà nello spirito di M. Zambrano. L’etica dell’amicizia e del dono non è solo un ideale, ma è una pratica che stabilisce il cammino verso cui orientarsi. A noi tutti spetta il lavoro dello spirito, affinché l’Aurora di M. Zambrano risorga e la “nascita” possa sostituire la morte. Ogni nascita è un ponte verso la vita, ogni nascita reca con sé la dimensione del dono.


Salvatore Bravo

Equilibrio e civiltà nello spirito di M. Zambrano.
L’etica dell’amicizia e del dono non solo un ideale,
ma è una pratica che stabilisce il cammino verso cui orientarsi.
A noi tutti spetta il lavoro dello spirito, affinché l’Aurora di M. Zambrano risorga
e la “nascita” possa sostituire la morte.
Ogni nascita è un ponte verso la vita, ogni nascita reca con sé la dimensione del dono

 

La parola civiltà deriva da civitas, ovverossia la città. Il luogo dove vivono le buone relazioni è la città nella quale le idee si sviluppano parallelamente alle buone relazioni. Anche il conflitto rientra nelle buone relazioni, se esso non è mortifero, ma è fecondo scontro dialettico. La civitas è luogo urbano e simbolico della civiltà. Le buone relazioni presuppongono la stabilità e la valutazione etica. La stabilità è data dal reciproco riconoscimento della comune umanità sempre mediata dalla consapevolezza delle differenze, mentre la valutazione etica è la condizione che pone la geometria delle buone relazioni; è lo spazio ideale all’interno delle quali esse devono essere fondate. Si pensi alla sfera di Parmenide metafora dell’essere. Ogni punto della superficie è equidistante dal centro. La sfera è il simbolo della civitas-polis, l’uguaglianza senza stabilità e reciprocità è solo vuoto ciarlare. La sfera è indivisibile, come la civitas, se in essa subentra la divisione non è più tale, ma è semplice giustapposizione di individui. L’etica dell’amicizia e del dono non è, dunque, solo un ideale, ma è una pratica che stabilisce il cammino verso cui orientarsi. La madre è archetipo del dono e della mediazione della legge, mentre il padre è la legge che pone il limite entro cui è necessario disporsi. La civiltà necessita della complementarietà dei due archetipi, i quali sono incarnati in figure reali, il padre e la madre, o in figure simboliche e istituzionali. L’equilibrio fonda la possibilità della civiltà. Già Empedocle affermava che solo l’equilibrio tra forze contrastanti consente la vita.

Disarmonie

L’occidente ha rotto ogni equilibrio, l’archetipo della madre trova il suo senso nella tensione feconda col padre. Ancora una volta la cultura classica ci svela e rivela la verità: il polemos eracliteo è armonia degli opposti. L’armonia dinamica consente il fiorire della vita e delle vite nell’equilibrio tra gli opposti. La relazione tra gli opposti pone il senso e il significato. L’occidente a tutto questo ha rinunciato. Il logos, relazione dialogica, in cui i dialoganti attraversano gli spazi che li divide per ritrovarsi nella verità è già civitas-civiltà. Non a caso dialoghi socratici con una sola eccezione sono sempre ambientati nella città. L’occidente muore nell’efferatezza, perché ha rinunciato alla civitas, al logos e alla relazione dialettica tra gli archetipi. Non è un evento indeterminato, ma la rinuncia alla civiltà è l’effetto finale del momentaneo trionfo del capitalismo. Quest’ultimo deve trasformare ogni creatura in un essere consumante e in carriera. Esso ha sollevato con successo l’atomistica delle solitudini e governa mediante l’illimitata conflittualità. Tutto è odio e tutto è indifferenza verso l’umano. In questo clima di guerra e di solitudine competitiva l’efferatezza delle relazioni non meraviglia. I generi si guardano con sospetto e la perpetua campagna di denigrazione del maschile non può che favorire con la solitudine generale. L’occidente si frammenta e si disperde nella guerra di tutti contro tutti. Le nuove generazioni sono nutrite col cattivo cibo del desiderio che rende indifferenti al bisogno altrui e insegna ad ascoltare solo il proprio immediato desiderio; differirlo e pensarlo è considerato “il male”. I padri e le madri non ci sono. Il senso dell’uno e dell’altro è nella relazione tra le differenze. La rottura dell’equilibrio ha comportato il tramonto di entrambe le figure. Non resta che il mercato, il quale è diventato “il cattivo maestro” di tutti, poiché assimila nell’illimitato, in quanto si nutre dei desideri indotti e deforma la natura razionale ed etica dell’essere umano. La civiltà declina e all’orizzonte non si profila una nuova civitas, ma il “niente” nel presente appare con la sua incomparabile efferatezza. L’Occidente è, di conseguenza, sterile, produce guerre e non vita. La vita biologica e le nascite spirituali sono fortemente osteggiate, in quanto sono il consumo e la logica della morte a governare.

 

Coscienza e viscere in Maria Zambrano

Dove non vi è equilibrio e stabilità come i classici ci hanno insegnato regna la negazione. Tutto questo non è un destino, ma una contingenza storica. Innumerevoli sono i percorsi della prassi, uno dei fondamentali è riconnettere la “coscienza al viscere”, ovvero alla vita sentita come Maria Zambrano nel suo esilio filosofico e politico ci ha indicato. Bisogna ricongiungere interiormente e nelle relazioni ciò che la civiltà del globish ha diviso per innalzare gli altari della competizione-dominio in cui tutto muore e nulla nasce:

«E la terra le servirà da appoggio, da spazio illimitato. Ma la superficie, il piano, non le basta, alla vita già dotata di un corpo, per assimilato che questo sia alla pianura, alla desolazione della semplice superficie. Essa ritorna nella cavità della grotta iniziale protetta dalla luce e da qualsiasi elemento che non sia lei, torna alla terra, alla terra come tale, al viscere terrestre. In seguito, il corpo vivo otterrà di recare in sé questo viscere. E la grandezza delle viscere, la loro molteplicità, la loro ricchezza, il loro rigore, anche, contrassegneranno la scala della vita, la scala in cui l’essere vivente mostra già il suo viso. Al sembiante dell’essere vivo fa riscontro l’oscurità delle viscere; al sembiante, fattosi chiaro, del mammifero, e al suo luminoso volto, corrisponde il viscere vivo, tesoro che ormai la caverna terrestre non avrà più il privilegio di contenere. Viscere, ha la terra, in cui la luce è custodita scintillante, indelebile. La luce formata di acqua e di fuoco, di aria e di sale. Il sale della terra che assorbe e fissa la luce».1

Civiltà è nel sentire la presenza dell’altro, il quale nella sua sacralità ci riconnette con la vita consentendo la comunicazione tra il sentire delle viscere e il pensare. Il taglio sanguinoso tra il sentire e il pensare produce individui che hanno sostituito il logos con il calcolo dell’immediato e con l’abbaglio dei risultati da ottenere subito in termini di piacere, denaro e potere. In questo contesto uccidere è un’azione banale, è un mezzo tra i tanti, tanto più che la vita non è più un valore sacrale, ma è anch’essa assoggettata al desiderio. L’Occidente ha perso l’Aurora, ancora una volta le parola della filosofia poetante di Maria Zambrano sono preziose per riorientarci tra le macerie del presente. L’Aurora è il pensiero che emerge dall’equilibrio tra il femminile e il maschile, l’Aurora è la condizione chiaroscurale del sentire nella quale è possibile la nascita del “nuovo”:

«L’Aurora, che ha risvegliato il germe – preesistente ma quasi normalmente assopito – dell’illimitato e dell’ardente, ci appare come un limite, un confine che ci arresta e ci chiama in modo ineludibile. È un sogno, un luogo dove i semplici sentire, con il loro naturale fantasticare, sembrano sul punto di essere soppressi […]. L’apparizione dell’Aurora unifica i sentire trasformandoli in senso, reca il senso. […] In nome di quale ragione occulta, sconosciuta, l’Aurora appare e scompare? Appare così, senza ragione, si mostra all’improvviso, oscillando tra la purezza massima della ragione e il suo apparente opposto […]. Improvvisamente qualcosa che sembrerebbe naturale si manifesta come una rivelazione: il fatto che abbia colore. […] Ci sembra allora inevitabile che l’Aurora apra il senso, l’orizzonte e la luce di ogni giorno […], che la luce debba anch’essa farsi ogni giorno di nuovo, perché la vita, a sua volta, ogni giorno si faccia; perché l’essere e la vita uniti non muoiano una volta per sempre, come se fossero stati creati […] una volta sola e per sempre qui, dove siamo: se l’eternità ci si offrisse fin dal principio, se questo principio non fosse una gloriosa, impensabile rivelazione. Se il pensiero non dovesse alimentarsi respirando, anche solo per lievi istanti, l’eternità; un inconfondibile tremore, e quell’inconcepibile fiore che a volta è l’Aurora […]. È lei, l’Aurora, che fugge nell’istante in cui viene percepita, che si nega ad avere un corpo, che annuncia, tremando, questo sì, un mondo altro, in cui i sensi si trovano in un tempo proprio […]; poiché il tempo ci appare come il primo datore dell’essere, e non come il suo rivale. […] Il vuoto in cui la bellezza appare, sarà a sua volta proprio esso a manifestarsi? Essere, essere in altro modo, o essere in verità, o oltre la verità, o oltre l’essere; vuoto e bellezza annunciano qualcosa che non si perde ma che non si dà. E lei è, così immaginiamo, l’unica tra tutti gli dèi e le parole che un tempo furono come dèi; lei è, ci sembra, la sola ad aver conservato quella condizione. Lei, l’Aurora».2

A noi tutti spetta il lavoro dello spirito, affinché l’Aurora risorga e la “nascita” possa sostituire la morte. Ogni nascita è un ponte verso la vita e le vite, ogni nascita reca con sé la dimensione del dono. L’alternativa al comunismo deve fondarsi sulla Metafisica della vita e dell’intero. Se ciò non accadrà il futuro non sarà che la fosca ripetizione del passato da cui dobbiamo congedarci già nel presente. Il compito è grande, ma il percorso è necessario.

1 M. Zambrano, I Beati, a cura di Carlo Ferrucci, SE Edizioni, Milano 2010.

2 M. Zambrano, Dell’Aurora, Marietti, 2020, pp. 27-29


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Mauro Armanino – Da una guerra all’altra nel diario di un viaggiatore. Criminalizzare la guerra, ogni guerra, è il primo – seppur fragile ma comunque indispensabile – passo per camminare insieme su sentieri di pace.

Mauro Armanino

Da una guerra all’altra nel diario di un viaggiatore.
Criminalizzare la guerra, ogni guerra,
è il primo – seppur fragile ma comunque indispensabile – passo
per camminare insieme su sentieri di pace.

Arrivato in Argentina qualche anno dopo la “guerra sporca” (“sucia” in spagnolo) ho visto gli effetti della dittatura militare degli anni Settanta e Ottanta del Novecento. Ricordo le timide dimostrazioni nella città di Cordoba per fare memoria degli scomparsi a causa del terrorismo di Stato. Si chiamavano in Argentina “desaparecidos”: i loro nomi e le loro foto erano esibite dalle madri e dalle nonne nella Piazza di Maggio nella capitale Buenos Aires.

Questa non sarebbe stata che l’avvisaglia di quello che mi aspettava in Liberia, proprio l’anno seguente dalla partenza dall’Argentina. Inviato in Liberia ho ascoltato, visto e toccato la parte conclusiva della guerra civile in questo Paese: una guerra durata, con alcuni intervalli, per quindici anni.

Sono solito dire che quando gli occhi sono stati feriti da una guerra rimane loro ancora molto poco da vedere. Da quella lacerazione, ne sono testimone, non si guarirà mai più.

A dire il vero anche in Costa d’Avorio, il mio primo e indimenticabile soggiorno in Africa occidentale, erano affiorati i sintomi di ciò che avrebbe prodotto il primo colpo di Stato militare: anticipo di una crisi post-elettorale che sarebbe sfociata in una – fomentata – guerra civile che porterà il Paese ad essere diviso in due.

Di questa crisi ebbi modo di toccare gli effetti con le conseguenze subite dai rifugiati che, a decine, approdarono nel Niger, dove nel frattempo mi trovavo da circa un anno. Madri, padri, bambini che avevano perso tutto e che cercavano di ripartire nell’allora accogliente sabbia e polvere del Paese, in quegli anni modello di stabilità. Ancora lei, la guerra, nei suoi più evidenti, drammatici e spesso inosservati effetti (globalizzazione dell’indifferenza). La sofferenza silenziosa di chi deve di nuovo ricominciare a credere nella vita e negli altri, malgrado le ambiguità del così detto mondo umanitario. Troppo spesso rifugiati, ma senza un vero rifugio.

Il Sahel – fascia convenzionale di territorio che cinge l’Africa dall’Oceano Atlantico al Mar Rosso – è diventato, nella sua zona centrale, uno degli epicentri del terrorismo ‘islamista’ globale. La distruzione della Libia ad opera dell’intervento della Nato, con l’assassinio di Mu’ammar Gheddafi nel 2011, ha contribuito in modo forse determinante a creare una guerra che, ormai da anni, insanguina questa porzione del Continente.

Migliaia di morti, contadini e dunque invisibili, per lo più, assieme a giovani militari spesso mandati allo sbaraglio da capi militari che hanno preso il potere. Naturalmente questi ultimi preferiscono il fresco degli uffici e i redditi dei vari ministeri che hanno abusivamente occupato alla durezza del “fronte”. Questa è appunto l’altra guerra convissuta con la gente terrorizzata, sfollata, perduta e, troppo spesso abbandonata e venduta nelle geopolitiche del momento.

Poi si torna al Nord, in Occidente e allora la guerra è lontana, vicina, accanto e, soprattutto, dentro. Non se n’era mai andata, lei. Esportata, fabbricata, venduta, commercializzata e soprattutto voluta e subita ad un tempo.

Nell’Europa del Nord dove ancora lei, la Nato, continua una guerra per procura e di sudditanza al maggiore Stato terrorista dell’ultima porzione di storia, gli Stati Uniti dall’autoproclamato destino manifesto.

Dall’altra sponda del Mediterraneo lo Stato di Israele che, ormai da anni, organizza un laboratorio armato di controllo, esclusione, espulsione ed eliminazione che poco ha da invidiare alla politica nazista di cui, eppure, il popolo ebraico è stato una delle tragiche vittime.

La guerra nella testa, nel cuore e nell’immaginario che scorre dai fabbricanti d’armi, ai politici collusi e ai religiosi ammutoliti, non fosse per la triste ovazione di cui ha beneficiato la prima ministra del Paese nel recente Meeting di Rimini.

Poi riappare dall’oblio la dichiarazione di Kuala Lumpur, capitale della Malesia e crocevia di culture, religioni e lingue. Nel mese di dicembre del 2005, venti anni or sono, ci fu chi ebbe la saggia follia di scrivere che le guerre, che uccidono persone innocenti, sono criminali. E aggiunge che uccidere in guerra è altrettanto criminale che uccidere in tempo di pace.

Criminalizzare la guerra, ogni guerra, è il primo – seppur fragile ma comunque indispensabile – passo per camminare insieme su sentieri di pace.

 Mauro Armanino, Casarza Ligure, agosto 2025


Salvador Dalì, Il Volto della Guerra (El Rostro de la Guerra, Le visage de la guerre)

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Goffredo Fofi ci ha lasaciati l’11 luglio 2025 (era nato il 15 aprile 1937). Come cittadino militante, ha vissuto e lottato per una democrazia reale, perché vera democrazia è affermazione della dignità di ogni essere umano, che non deve mai essere mercificato e reso servo acquiescente del consumismo oligopolistico del capitalismo mondializzato. Fofi ci rammenta che tutto ciò non è un destino, e invita a dare l’esempio di una vita non motivata dalla ricerca del denaro e dei consumi e non guidata dalla tecnica.




Salvatore Bravo

In questi giorni è venuto a mancare Goffredo Fofi



In questi giorni è venuto a mancare Goffredo Fofi. Sulle TV di Stato la notizia non è stata riportata. I libertari non trovano spazio nei media ufficiali privati e pubblici. Nei media statali l’informazione è stata sostituita dalle canzonette e dalla pubblicità dei concerti e delle produzioni musicali di cantanti, il cui vuoto siderale è abissale. In questo contesto in stile “panem et circenses” uomini come Goffredo Fofi non trovano spazio. La cultura della cancellazione avanza in una miriadi di modi. Si cancellano i vivi e i morti per trasformarli in “non nati”. Questo è il tempo del capitalismo senza limiti. Il deserto avanza annichilendo la memoria. Goffredo Fofi lottò per la democrazia radicale/reale e la sua vita è un testo da cui emergono domande profonde a cui diede risposte sperimentando l’alternativa al capitalismo. Uomini di tale valore culturale e politico sono presenze dialettiche, che il sistema capitale deve seppellire nel deserto delle canzonette e delle vuote parole senza concetto. Fu un cittadino militante in una realtà che produce in serie “consumatori” che possono assistere ad immagini di Gaza fumante, tra le cui macerie si alzano le urla di donne e bambini, a cui succedono con somma indifferenza gli spot agli spettacoli di cantanti di ultima generazione che inneggiano “all’amore e al successo nelle calde estati estive”. Goffredo Fofi ha donato la sua esistenza contro tutto questo. Democrazia è dignità di ogni essere umano, nel nostro tempo, invece, sono il denaro e il potere a dare rilevanza, così muore la democrazia e il pensiero politico. Goffredo Fofi ci rammenta che non è un destino, ma ciascuno di noi può testimoniare l’alternativa nel presente senza delegare ad altri l’alternativa. Ciascuno di noi può diventare con la sua storia un modello piccolo o grande che testimonia che un altro modo di vivere è possibile. Solo così si difende la dignità di tutti gli esseri umani dal consumismo pianificato che ha consumato anche “l’essere” e lo ha sostituito con la società dello spettacolo, nella quale attori e spettatori recitano un ruolo stabilito da potenze sempre più distanti e anonime.

 

 Decervellamento…

 

La vera urgenza della contemporaneità è la scomparsa della democrazia reale: al suo posto vi è la democrazia giuridica e formale. La più grande conquista culturale e politica dell’Occidente scompare ed agonizza sotto i colpi delle oligarchie e del loro immenso patrimonio che si traduce in controllo e sfruttamento. Il binomio controllo-sfruttamento non è da relegare nelle aziende ed ovunque vi sia lavoro, ma è la normale condizione quotidiana del cittadino-consumatore. Il tempo in cui non si è al lavoro è all’ombra dei media che orientano non solo l’opinione pubblica, ma anche i gusti e le attività. Il mondo mondializzato è un immenso campo per la produzione di plusvalore e guadagno: il tempo libero è organico a tale produzione. La guerra è solo una declinazione della produzione. Tutto è irrilevante. Si tratta di un’immensa macchina, i cittadini sono solo elementi dei suoi ingranaggi e devono accettare di poter essere immediatamente sostituibili. Il sistema macchinale non deve mai fermarsi, esso è preda di un automatismo produttivo che cela tra i suoi ingranaggi il terrore panico del tempo sottratto al profitto. La guerra, la pace, l’amore e la cultura devono produrre denaro altrimenti devono essere cancellati dal pubblico orizzonte di visibilità. A tal scopo i media producono le opinioni con la massiccia e invisibile manipolazione dei dati, e specialmente, con la capacità di oscurare e deprezzare pubblicamente informazioni, concetti e modelli sociali non organici agli interessi del sistema.

Non è necessario il campo di concentramento per rieducare la popolazione, ma è sufficiente lasciarla libera di muoversi nel solo spazio geografico senza frontiere, il quale è un’arena per i consumatori perennemente in competizione per consumare ogni esperienza. Il movimento produce denaro, l’omologazione globale non consente l’incontro tra culture diverse, ma solo il contatto fugace con esperienze e modelli di vita simili. La produzione di saperi come fossero merci permette all’eremita di massa di essere prodotto in serie mediante il flusso ininterrotto di informazioni unidirezionali, veri imperativi categorici del consumo. Gli appelli alla libertà e lo scandalo per le dittature sono parte integrante del “grande inganno”, si deve donare l’illusione di essere dalla parte giusta, sempre e comunque, al punto da giustificare con un postulato gli interventi contro i dissenzienti. La macchina del capitale non può che produrre consenso ai suoi imperativi mercificanti e sudditi passivamente fedeli al consumo.

Per occupare ogni spazio della coscienza critica il capitalismo riduce la cultura ad intrattenimento con il quale far passare messaggi politici e sociali con i quali il sistema si rafforza, in tal modo l’eremita di massa (definizione di Günther Anders) è sfruttato senza sosta, è lo sgabello che regge il sistema, lo acclama senza comprenderlo. Lo schiavo di massa è il prodotto finale del totalitarismo liberista: il “decervellamento” è il risultato più clamoroso del neoliberismo come denunciato da Goffredo Fofi:

 

“La cultura, anche quella che si vuole migliore, perfino elitaria, è ridotta a merce, a intrattenimento e a mero consumo, serve a distrarre invece che a stimolare la riflessione individuale e a destare il senso di responsabilità che ciascuno dovrebbe sentire; la sua dovizia e la sua onnipresenza sono, avrebbe detto Jarry, l’arma centrale nell’azione di decervellamento dei singoli e delle masse[1]”.

 

 

 Accademiche menzogne

Non vi sono zone franche, il capitalismo deve penetrare ovunque, le Università da istituzioni che sin dal Medioevo sono stati “luoghi del sapere critico”, dove vigeva la dialettica, sono i docili strumenti con cui il sistema si riproduce. Si formano le future classi dirigenti nell’ottica del fanatismo del solo economicismo. Gli eventi che denunciano le contraddizioni del sistema con le sue tragedie umane e ambientali sono immediatamente convertiti in possibile business o in spettacolo. L’operazione di conversione delle contraddizioni in oro sonante è il mezzo più efficace per neutralizzare ogni spazio di pubblico uso della ragion critica:

 

“La cultura universitaria si morde la coda dentro a un suo limbo isolato, tra norme astruse e carriere esecrabili, e tutto fa fuorché emancipare i suoi studenti, anche se qualche professore riesce ancora a rispettarli e a proporre antidoti alla stupidità dilagante – favorita invece da pressoché tutta la cultura giornalistica, che ha finito, seguendo il modello offerto dalla televisione, per non depositare in nessuna coscienza la comprensione della gravità dei tempi e per fare invece di tutto, anche delle nostre paure, spettacolo e merce[2]”.

 

Il totalitarismo morbido del neoliberismo con la sua opera di omologazione e con la sua azione finalizzata ad eliminare ogni spazio dialettico ha un’immensa capacità di assimilazione. Le grandi conquiste libertarie e le libertà democratiche sono convertite in mercato. L’inclusione nel mercato è la fumisteria con cui si acceca la popolazione, poiché il mercato è pratica di antiumanesimo e sfruttamento non riconosciuto. Si include per addestrare tutti al catechismo liberista. Per impedire la vista della realtà si agisce omologando: le differenze sono solo quantitative. L’ultimo dei proletari e il primo dei capitalisti hanno gli stessi obiettivi e lo stesso modello di vita; si determina in un sistema gerarchizzato un piano liscio in cui l’apice, apparentemente, è simile alla base. Il sistema capitalistico non è “fuori”, esso abita nelle sue vittime, le quali possono diventare i carnefici più fedeli del capitalismo di guerra e sangue. Il sistema si rafforza con tale modalità, per cui lo sfruttamento, il vuoto ideologico e le tragedie del “benessere” non sono occasione per pensare la verità qualitativa del sistema, ma rientrano nella normalità del quotidiano:

 

“Il ventennio fascista, al paragone, aveva una vitalità diversa e aggressiva, una chiara proposta negativa, antidemocratica, mentre il trentennio recente si è affermato per via democratica presentandosi come sommamente razionale (ché il nostro è l’unico mondo possibile, anzi il migliore) ed è stato benedetto dal popolo – che rispetto a quello del ventennio non aveva identità e storia diverse da quelle del potere, non era piú composto da contadini, operai, artigiani, impiegati, in gran parte analfabeti e i cui bisogni erano inconciliabili con quelli del potere. La divisione in classi era un tempo netta, e la distanza del proletariato dalla borghesia e dalla nuova emergente piccola-borghesia era lampante. Nel trentennio, si è subita una mutazione radicale nel sistema economico-finanziario, nelle sue conseguenze sui comportamenti di massa, e la si è accettata essendo di fatto consenzienti: perché si è trattato di anni di vacche grasse per tutti o quasi tutti… La “nuova economia”, prima di mostrare il suo vero volto, ha retto e arricchito tutti[3]”.

 

Speranza e violenza

Malgrado la violenza appaia legalizzata e il consumismo disperato sia penetrato con la sua grammatica emotiva nelle coscienze, la natura umana resiste, non a caso lo stesso Goffredo Fofi in un’intervista affermò di intravedere movimenti dialettici. Vi sono giovani che hanno ripreso il percorso che conduce alla disobbedienza propositiva, non vogliono essere fruitori passivi del contesto storico, ma vogliono capirlo per elaborare processi di emancipazione. La verità qualitativa sul sistema può essere oscurata e posta in ombra, ma ciascuno la vive nella propria condizione materiale, pertanto riemerge nel sangue e nella carne pronta a diventare concetto:

 

“Oggi cosa fanno e chi sono i giovani?

«La storia è sempre andata avanti in un rapporto tra minoranze “virtuose”, innovatrici, e maggioranze più conformiste, sostanzialmente più egoiste. Ci sono però momenti in cui le minoranze influiscono in modo determinante sulla Storia, e sui comportamenti e le idee delle maggioranze. C’è una novità in questi ultimi anni: è rappresentata dai gruppi e gruppetti di ragazzi che sentono il dovere di occuparsi di chi soffre, degli immigrati, dei “subalterni”… Sentono il dovere di occuparsi della natura, dei rischi che comporta la violenza nei suoi confronti esercitata dal capitalismo – e dal consumismo che ci rende tutti suoi complici».

Hanno un peso sociale queste minoranze attive?

 «È difficile che queste minoranze alzino la testa in un anno pessimo come il 2020, di fronte a una minore tensione tra ceti sociali unificati da un sistema culturale pesantemente conformista se non reazionario. Però diversi segnali di un risveglio ci sono e il futuro, con le sue storture crescenti, spingerà le nuove leve a cercare nuovi modi di agire per contrastare il disastro»[4]”.

 

Per poter rompere la cappa di conformismo conservatore ogni tempo deve trovare il modo non solo per capire il proprio tempo e renderlo razionale, ma specialmente bisogna trovare i mezzi adeguati al proprio tempo per poter ricostruire una opposizione popolare e diffusa, e questa, è la sfida più grande del tempo presente. Per porre un limite al deserto della dimenticanza e riconquistare spazi di umanità è necessario ricordare i testimoni dialettici che non hanno atteso la rivoluzione, ma la loro esistenza è stata rivoluzionaria ogni giorno e con essa hanno lavorato per il futuro di ogni creatura umana. Sta a noi contrapporci contro gli imbonitori della cultura e riprendere a camminare per il difficile sentiero del comunismo libertario:

 

“Ma chi sono infine gli intellettuali? Oggi è scomparsa la generazione che attraversò fascismo guerra resistenza e ricostruzione e gli anni della democrazia e dei conflitti sociali che potevano preludere a una società migliore e che hanno fallito in parte per la povertà del nuovo e antagonista e in parte ben maggiore per la forza degli avversari, nel mondo e non solo in Italia e perfino là dove pareva si fosse vinto (il Vietnam, Cuba, l’Algeria e l’Africa post-coloniale). Sono scomparse quelle menti che, oltre a creare opere di grande valore e di piena sostanza, si preoccupavano del bene comune e dello stato del paese e della sua civiltà – e tanti sarebbero i nomi che si potrebbero fare, di una stagione unica nella nostra storia per ricchezza di capolavori e per energia e lucidità critica. Gli intellettuali di oggi figurano essere quasi esclusivamente giornalisti e professori, divi dei media imbonitori di se stessi, membri di un’istituzione come l’università che è certamente più mafiosa della mafia, membri delle corporazioni professionali dominanti, medicina, legge, architettura; sono solleciti passacarte, critici che non criticano, uffici stampa e propaganda, ciarlatani e narcisi immensamente innamorati di sé; sono «denunciatori» e ricattatori professionali – ciascuno per sé e per il proprio clan in un attento gioco di alleanze variabili e opportune[5]”.

 

Per combattere riprendiamoci spazi di silenzio nel quale elaborare e pensare l’alternativa senza narcisismi. Ribaltiamo le logiche, come ci ha insegnato, disertiamo il superfluo per tornare ad ascoltare la voce di tutti silenziata dal sistema mediatico:

 

“La televisione (oggi il digitale?): la distruzione della mente attraverso la comunicazione di massa usata a fine di dominio e non di emancipazione, non per la conoscenza di sé e del mondo ma per la loro dimenticanza, nell’acquiescenza alla visione che ne dà chi dirige il gioco, chi guida la danza. Non solo, dunque, la tv[6]”.

 

Torniamo ad essere i pensanti dell’agire.

Salvatore Bravo

 

 

[1] Goffredo Fofi, Elogio della disobbedienza civile, nottetempo, 2015, p. 6.

[2] Ibidem, pp. 7, 8.

[3] Ibidem, 9, 10.

[4] Goffredo Fofi: si stanno risvegliando i giovani. Intervista a Goffredo Fofi, a cura di Mirella Serri, in “La Stampa”, del 21 dicembre 2020.

[5] Goffredo Fofi, Il cinema del no: visioni anarchiche della vita e della società, Elèuthera, pp. 10-11.

[6] Ibidem, p. 14.





Associazione culturale Petite Plaisance

La contraddizione
Amici
Amore
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo – Rodolfo Mondolfo tra K. Marx e G.B. Vico.

Rodolfo Mondolfo, Sulle orme di Marx.

ISBN 978-88-7588-359-1, 2022, pp. 416, formato 170×240 mm., Euro 35 .


Salvatore A. Bravo

Rodolfo Mondolfo tra K. Marx e G.B. Vico

L’Umanesimo marxiano ha i suoi eroi. Rodolfo Mondolfo1 nella sua lunga vita ha lottato contro il totalitarismo fascista, ma la democrazia non gli ha donato giustizia. Pensatore fuori da schemi e da correnti politiche ha vissuto la sua lunga parabola culturale all’ombra della società dello spettacolo, e ciò gli ha consentito di sviluppare una visione di Marx e del comunismo divergente e originale. Sin da subito espresse dubbi sulla dittatura del proletariato in Unione Sovietica, constatando che tale “configurazione politica” avrebbe eroso il comunismo dall’interno. Fu critico verso i crollisti e i deterministi, in quanto riducevano l’essere umano e la storia e semplice effetto delle leggi economiche, in tal modo il semplicismo fatalistico si sostituiva alla storia degli uomini e delle donne.

L’Umanesimo marxiano è la via della complessità e della correlazione nella quale l’essere umano non è il semplice prodotto di forze superiori, ma è coscienza che risponde e si forma nella realtà materiale. Si tratta di una relazione olistica nella quale il soggetto pensa il proprio tempo e la propria condizione al fine di porre in atto ciò che è in potenza. Marx dunque fu hegeliano e vichiano, in quanto la storia è il “mondo degli esseri umani”, e in essa gli esseri umani, pur condizionati, pensano la propria condizione per poterla trasformare. Decodificare Marx è un’operazione ermeneutica che ci deve condurre sulle sue “orme” attraverso una difficile ricostruzione per approssimazione del “cantiere Marx”. Prassi e materialismo storico sono dunque i nuclei irrinunciabili, nella lettura di Rodolfo Mondolfo per accostarsi a Marx e smentire coloro che ne fecero “un positivista”.

La storia è processo vitale e concettuale, in cui l’umanità si modifica qualitativamente. La storia è il luogo e il tempo in cui la speranza del ribaltamento dialettico è progettualità politica, in quanto la trasformazione sociale non è mai atto e gesto solo individuale ma corale e di classe. La storia è nell’interiorità dell’essere umano, è pensata, è concettualizzata, pertanto senza tali processi nulla è possibile, non vi è storia, ma solo attesa alienante. La storia è la dimensione dell’uomo nella quale l’essere umano conosce se stesso e pone significati. La prassi è questo processo di liberazione dai condizionamenti che sussistono senza determinismo. La fatica del concetto è l’apertura all’orizzonte del “possibile”. La liberà prende forma gradualmente attraverso il superamento del dato immediato:

La mentalità rivoluzionaria pertanto, secondo Marx, è la sola capace di affermare e possedere il vero concetto storico (che è poi per Marx l’unico vero concetto della realtà) in quanto contro ogni Selbstentfremdung dell’umano torna alla raffermazione dell’interiorità di esso; e può così sostituire alla separazione degli elementi la concezione della loro unità, alla interruzione dei momenti successivi la visione della loro continuità2”.

L’interpretazione di Marx coglie un aspetto, spesso poco noto e poco studiato nella ricostruzione genetica del pensiero di Marx, ovvero la “presenza risemantizzata” di G. B. Vico nella concezione della storia e della prassi nel pensatore di Treviri.

Marx idealista, dunque, poiché la prassi è categoria della filosofia idealista. La prassi in Vico è la storia posta dagli esseri umani, non è “vuoto ciarlare” o “attivismo dell’insensato”, in quanto è la traduzione del vero nella realtà e tale operazione spetta unicamente agli esseri umani. Nulla accade senza l’intervento consapevole e fattuale di essi, anzi è il “fare concettualizzato” che determina il progresso. Marx vichiano, dunque, malgrado i cedimenti al positivismo e all’economicismo. Rodolfo Mondolfo individua nella prassi il filo rosso senza il quale Marx diviene filosofo non compreso nella sua struttura portante. Marx è “il filosofo della libertà” mediante la prassi:

Marx riprende il principio di Vico: il vero si converte col fatto; la realtà è nella praxis3”.

 

 

Prassi e storia

Ancor più chiaramente Rodolfo Mondolfo definisce il concetto di prassi, esso è un processo interiore che si esplica nella storia. I bisogni e le condizioni storiche devono attraversare un lungo viaggio interiore per diventare concetto. L’immediatezza è l’astratto, mentre il concreto è la coscienza che risemantizza i dati, li configura in concetti per porli nella storia. In tal modo l’individualità si eleva dal particolare all’universale e dall’ideologia alla filosofia. Tale viaggio è la libertà degli esseri umani. Interiorità ed esteriorità sono una unità inscindibile, ogni divisione è artificiale ed astratta; la storia è processo interale:

La praxis è sviluppo, è storia che nasce dall’impulso perenne del bisogno; e le condizioni che stimolano il bisogno, siano date dalla natura o siano costituite dai risultati, della attività umana precedente, non sono esteriori all’umanità, in quanto o debbono entrare nella vita del suo spirito per rimuoverla e darle l’impulso alla sua attività, o di questa vita ed attività espressione e prodotto: un prodotto che è anche produttore, creatura e creatore insieme nel processo indefinito della unwälzende Praxis4”.

Vico “insegna” a Marx l’eccellenza dell’essere umano. Gli animali non umani si sviluppano mediante l’evoluzione degli organi, come Darwin ha dimostrato, ma la specificità umana è il concetto e la conoscenza della verità che si svelano e rilevano nella storia. La verità consente il discernimento, di conoscersi e progettare il futuro a misura di essere umano. L’esperienza storica è resa viva nel pensiero e da essa si astrae l’eterno, ovvero la verità, in un lungo processo che conosce contraddizioni, lotte e avanzamenti:

In questa applicazione, pertanto, come della stessa teoria naturalistica, dalla quale ora Marx viene a prende le mosse, due caratteri appaiono essenziali: la concezione economica del processo di sviluppo, inteso nella sua rispondenza ai bisogni vitali; e la interpretazione attivistica di esso, come risultante della continuità della prassi. Ma se il primo carattere nella storia umana non appare con maggior rilievo che in quella delle specie di animali, il secondo al contrario si accentua per la consapevolezza, che Marx trae da G.B. Vico, che noi possiamo aver scienza solo di ciò che facciamo, e che ciò vale precisamente per la storia, in quanto essa è opera nostra5”.

La storia è l’unica scienza concreta, perché è dell’uomo, ne è la sostanza dinamica che non lo imprigiona in strutture inviolabili o in gabbie d’acciaio che diventano il letale sepolcro dell’essere umano, ma la storia è esperienza di libertà, è esodo dalle oppressioni e dal fatalismo in tutte le sue formule evidenti e criptiche:

E la scienza dell’uomo parimenti può essere concreta, cioè storica, quando concentri, sì, la sua attenzione soprattutto sulla storia degli organi produttivi, ma non dimentichi, per coglierla il suo farsi, e, così, veramente intenderla e conoscerla, che, secondo quanto insegnava G. B. Vico, siamo noi, noi uomini a fare tutta la storia della società umana6”.

Libertà e prassi

La libertà marxiana è nei produttori associati che gestiscono dal basso le attività economiche e sociali. La libertà solidale comunista non è solo condizione materiale, ma è prima di tutto atto interiore e della coscienza nella storia materiale senza il quale nulla è possibile. La coscienza di classe è consapevolezza, è l’in sé per sé realizzato, e dunque la coscienza di classe è agire che ringiovanisce la storia, in quanto le dona senso e finalità oggettiva. La speranza non è nelle leggi della storia, ma nell’uomo che pensa, lotta e realizza il progetto comunista. In questo processo i servi diventano soggetti della storia e compiono la Rivoluzione, la quale se non è, in primis condizione interiore (concetto) ricade su se stessa e riapre le porte alla reazione conservatrice:

Sicché la coscienza della condizione presente del proletariato, ossia la sua coscienza di classe, implica questa concezione di una società di liberi produttori, organizzata non per il profitto individuale, ma per la produzione sociale in vista dei bisogni sociali: coscienza della realtà attuale ed aspirazione ad un diverso ideale si implicano a vicenda; e per ciò la coscienza di classe, viene ad unificarsi con l’azione7”.

Rodolfo Mondolfo compie dunque una operazione di critica oggettiva, poiché compara il comunismo sovietico con il pensiero marxiano, dopo aver individuato il nucleo vivente e sostanziale del pensiero di Marx: la prassi. Da tale indagine filosofica si deduce in modo manifesto che l’esperienza sovietica è altro rispetto alle autentiche finalità marxiane. La dittatura del proletariato è capitalismo di Stato che ha reso i proletari sudditi e dunque sottoproletari oggetto del dominio dell’oligarchia rossa al potere. Il comunismo, in quanto filosofia della prassi, è forza emancipatrice dalle catene che gravano con le loro miserie sugli ultimi. Il comunismo reale non ha corrispondenza col pensiero marxiano:

Oggi invece nel concetto di dittatura del proletariato (che del resto lo stesso Manifesto dei comunisti affermava) sembra talora quasi volersi esprimere piuttosto un nuovo dominio di classe, che una abolizione delle classi stesse; e c’è chi l’interpreta nel senso che si voglia la riduzione della classe oggi a una specie di Lumpenproletariat, condannato all’abiezione e alla servitù peggiore8”.

Rileggere Rodolfo Mondolfo nel nostro tempo segnato dal fatalismo tecnocratico è esercizio paideutico di libertà. In “Lui” ricerca, libertà e testimonianza biografica sono coincidenti e, probabilmente, nel tempo della “servitù volontaria e della disperazione”, la sua libertà non gli è stata perdonata. Il dominio agisce per censure mediante forme di ostracismo e rimozioni che dobbiamo imparare ad attraversare per ritrovarci nel concetto con filosofi e autori trasgressivi rispetto all’ordine vigente. Ritrovarsi per riprendere con il dialogo il sentiero della libertà e dell’esodo, oggi poco battuto, ma di cui si sente il vuoto depressivo e acefalo e che rischia di essere l’Apocalisse incompresa del nostro tormentatissimo presente, è urgenza etica non più procrastinabile. Riappropriarsi della storia e rientrare in essa significa effettuare l’esodo da forme di pessimismo e di fatalismo che nel nostro tempo, come allora, sono gli strumenti più efficaci della reazione conservatrice:

Un programma di azione storica di un partito rivoluzionario deve dunque, se vuol tradursi nella realtà concreta, superare l’oscillazione incoerente fra volontarismo e determinismo, e poggiare sopra una concezione critico-pratica della storia9”.

Il proletariato necessita della prassi marxiana per emanciparsi dalla sussunzione formale e materiale e di questo Rodolfo Mondolfo fu assertore in tutta la sua produzione culturale e politica. Il materialismo storico10 afferma che l’essere umano è il fattore della storia ed insegna che ogni scissione è solo astrazione. L’unità olistica e dinamica è la prassi sempre mediata dall’interiorità del soggetto, pertanto Rivoluzione, prassi, umanesimo e materialismo sono il corpo materiale che si concretizza nella storia. La libertà necessita del faticoso lavoro dello spirito nella coscienza di classe. Lo spirito è la storia divenuta concetto nell’interiorità singolare e di classe. Ogni salto non può che tradursi in pericoloso fallimento, pertanto è necessaria una profonda azione paideutica e politica per dare futuro alla rivoluzione.

 

Note

1 Rodolfo Mondolfo (Senigallia, 20 agosto 1877 – Buenos Aires, 16 luglio 1976) è stato un filosofo italiano. Fu esule durante il fascismo perché ebreo. In Argentina visse l’esperienza tragica della dittatura militare. Si interessò della Grecia antica e dell’Umanesimo marxiano. Rilevanti sono gli studi su Engels nei quali mostra il nucleo filosofico di Engels, non più ritenuto dunque “secondo violino” rispetto a Marx.

2 Rodolfo Mondolfo, Spirito rivoluzionario e senso storico in Sulle orme di Marx, Petite Plaisance Pistoia, 2022 pag. 151.

3 Ibidem, pag. 151.

4 Ibidem.

5 Ibidem, Feuerbach e Marx pag. 340.

6 Ibidem, pag. 341.

7 Ibidem, pag. 343.

8 Ibidem, Il problema sociale contemporaneo, pag. 92.

9 Ibidem, pag. 85.

10 Ibidem, Il Materialismo storico, pag. 102.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Mauro Armanino (Niger) – La guerra di cui non si parla. Finché la vergogna non ritornerà ad essere una materia di insegnamento nella grammatica della vita quotidiana, sarà difficile cambiare lo sguardo sul mondo.

Mauro Armanino

La guerra di cui non si parla.
Finché la vergogna non ritornerà ad essere una materia di insegnamento
nella grammatica della vita quotidiana,
sarà difficile cambiare lo sguardo sul mondo.

Miete più vittime delle altre registrate nel mondo. L’anno scorso i conflitti armati riconosciuti tali erano 61. Quest’unica guerra uccide più che tutte i conflitti messe assieme. Si tratta della povertà o, se vogliamo, della miseria che porta con sè, troppo spesso nel silenzio, milioni di persone. Un pò come le cosiddette ‘morti bianche’ cioè quelle sul lavoro. Un’altra vera e propria battaglia quotidiana che vede come protagonista chi non è certo di tornare a casa dopo esserne uscito per lavoro, il mattino. Si calcola che l’anno scorso le ‘morti bianche’ hanno raggiunto i tre milioni.

La povertà è peggio perchè per gli economisti si perde nelle statistiche mentre per la gente è una sparizione continua che passa inosservata. Ad essere cancellati sono i poveri. Le tracce della miseria durano a lungo perchè coinvolgono i bambini, le donne e i giovani. La miseria è il frutto più immediato di guerre, movimenti forzati di popolazione, avversità climatiche ma soprattutto di classi politiche ammalate di potere e spogliamento del popolo nel più breve tempo possibile. Cause esterne, interne e purtroppo ‘eterne’ si perpetuano perchè abbiamo smarrito la vergogna.

Sembra davvero scomparsa, la vergogna, dal lessico e soprattutto dal volto, le parole e le azioni. Si tratta di un sentimento, innato e allo stesso tempo culturale, che manifesta l’inadeguatezza tra ciò che è giusto e il nostro agiree sentire. La crescita, tutta occidentale, dell’individualismo e del fin troppo citato relativismo, non possono che produrre l’esilio della vergogna. Gli atti, le scelte, le parole e financo l’abbigliamento non tengono più in conto lo sguardo dell’altro. Il ‘principo responsabilità’ è stato spazzato via dall’utilitarismo capitalista che tutto mercifica e traduce, senza vergogna, in denaro.

Investire somme abissali, destinate (invece che ai servizi sociali) ad armi, ordigni letali studiati e programmati allo scopo di uccidere il ‘nemico’ fa ormai solo vergognare i pochi irriducibili ‘idealisti’. Nel frattempo nel Sahel imperversa la vulnerabilità alimentare per milioni di persone, l’indigenza al quotidiano, la carenza di strutture educative e sanitarie. Mancano dispositivi che facilitino l’ingresso dei giovani nel mondo lavorativo. Irréductibles. La classe politica non si vergogna di nulla e così gli intellettuali attirati dalla retorica che sembra promettere loro un futuro. Persino i leader religiosi, senza vergogna, puntellano il sistema fatiscente.

Il Fondo Monetario Internazionale che non è un ente di beneficenza, ha rilasciato un documento che, prendendo in considerazione il Prodotto Interno Lordo dei Paesi, stila la lista dei 10 Paesi col reddito pro capite più basso in Africa. Con tutti i limiti che questa operazione sappiamo comporta, rimane utile affacciarsi su questa strana e drammatica classifica che nasconde ciò che mostra ed evidenzia ciò che nasconde. Ci sono numeri che offuscano le cause e facilitano l’azione di sminamento del sentimento di vergogna che dovrebbe toccare i politici per primi.

Senza sorpresa, l’Africa subsahariana domina la classifica. I conflitti cronici, la debolezza istituzionale e una élite politica sempre più spesso militarizzata, non sembra in grado di offrire alternative coerenti ed efficaci alla precarietà di vita dei popoli che dovrebbe servire. Nell’ordine della lista si trova il Sudan del Sud, lo Yemen, il Burundi, la Repubblica Centrafricana, il Malawi, il Madagascar, il Sudan, il Mozambico, la Repubblica Democratica del Congo e il Niger, Paese nel quale ho il privilegio di trovarmi. Tutto ciò dovrebbe far vergognare chi profitta della miseria degli altri per arricchirsi o per illudere i poveri con vuote e false promesse di un domani migliore.

Finchè la vergogna non ritornerà ad essere una materia di insegnamento nella grammatica della vita quotidiana, sarà difficile cambiare lo sguardo sul mondo.

Mauro Armanino, Niger, giugno 2025


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Il nemico peggiore si trova all’interno di ciascuna nazione. Questo mostro a cento teste si chiama imperialismo. La civiltà occidentale consuma i popoli che invade; stermina o annienta le stirpi che ostacolano la sua marcia di conquista. Una civiltà di cannibali che erige idoli mostruosi nei templi dedicati al Guadagno, il dio ch’essa adora.



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Mauro Armanino – L’omertà dei “buoni” sulle reali motivazioni delle guerre nel mondo

Norbert Zongo, giornalista del Burkina Faso barabaramente ucciso a causa del suo impegno per smascherare la violenza della menzogna nel suo Paese.

Era ciò che più dispiaceva a Norbert Zongo, giornalista del Burkina Faso barabaramente ucciso a causa del suo impegno per smascherare la violenza della menzogna nel suo Paese. Temeva l’omertà dei buoni, il loro colpevole silenzio, più che le azioni dei malvagi. Difficile dargli torto, soprattuto dopo la pubblicazione del recente rapporto realizzato dall’Istituto di Ricerca sulla Pace di Oslo, in Norvegia. L’anno scorso, nel mondo, sono stati registrati 61 conflitti, divisi in 36 paesi. L’Africa resta il continente più toccato con 28 conflitti implicando almeno uno Stato, segue l’Asia, il Medio Oriente, l’Europa e le Americhe. Il numero dei morti è stato, sempre secondo il documento, di circa 129 mila vittime.



L’omertà appare come una forma di solidarietà tra consociati, volta alla copertura di condotte delittuose celando l’identità di chi ha commesso un reato o comunque tacendo circostanze utili per le indagini. In altri termini possiamo parlare di riserbo assoluto per complicità spesso per timore di vendetta. Norbert Zongo non aveva torto a temere l’omertà dei buoni consociati a proteggere soprattutto la propria innoqua e banale tranquillità di vita. Essa non va confusa con chi è preso come ostaggio dai gruppi armati che operano nel Sahel, designato come il teatro della violenza di gruppi ‘islamisti’ militanti più letale in Africa per il quarto anno consecutivo. Si parla di 10 400 morti.



Resta da evidenziare, rispetto all’aumento dei conflitti armati nel mondo, la lista aggiornata dei Paesi produttori di armi che, non casualmente sono membri del Consiglio di (In) Sicurezza delle Nazioni Unite per grazia divina. Stati Uniti (43 per cento della produzione mondiale), Francia, Russia, Cina, Germania, Italia, Regno Unito, Spagna, Corea del Sud e Israele. In questo ambito l’omertà diventa assoluta e coinvolge i partiti politici, i sindacati, la società civile, i credenti, i cittadini qualunque e le autorità religiose. Si coprono condotte delittuose come l’antietico e vergognoso aumento delle spese per gli armamenti che coinvolge Paesi e continenti senza differenze politiche, ideologiche o religiose.


La produzione di armi nel mondo
è sotto gli occhi di tutti coloro
che vogliano “vedere”, “udire”, “conoscere”:
basta leggere i dati su Wikipedia,
la fonte da cui sono tratte le seguenti tabelle


L’amico Ouoba di Makalondi, a un centinaio di kilometri da Niamey, non ha potuto raggiungere la capitale perchè gli autisti temono attacchi dei gruppi armati. Qualche giorno fa un veicolo è stato bruciato e la gente viaggia ormai solo con la scorta armata. Droni, aerei, blindati, nuove reclute formate alla guerra e armi per combattere e ‘neutralizzare’ il nemico sembra l’unica narrazione del momento nel Paese. Lo ribadisce peraltro anche il testo del nuovo inno della Confederazione degli Stati del Sahel…’Soldati lo siamo tutti… Intrepidi e sovrani… per la parola e per le armi… col sangue e il sudore tu scriverai la storia’. Come comprovato dall’esperienza proprio questa è una storia che si ripete da troppo tempo . Come abbandonare definitivamente il mito della violeza sacrificale.

Spezzare la copertura di azioni delittuose, ossia l’omertà dei buoni non è impossibile. Un esempio è il discorso d’addio del capo redattore del New York Times, John Swinton. Afferma che i gionalisti non sono altro che… ‘Marionnette e vassalli di magnati che si nascondono dietro la scena. Tirano le fila e noi danziamo… Il lavoro del giornalista consiste a distruggere la verità, a mentire senza limiti, a pervertire i fatti e gettarsi ai piedi di Mammona: siamo dei prostituti intellettuali’. L’omertà è spezzata.

Intanto l’amico Ouoba scrive in un sms che farà di tutto per arrivare domani a Niamey.

Mauro Armanino, Niamey, giugno 2025



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Uno sguardo sul Medio Oriente. Ospite Sami Hallac, originario dei territori palestinesi occupati nel 1967.


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Mauro Armanino, da Niamey – Ambiguità del potere e ambiguità del potere vaticano. Verità di una Chiesa senza potere, ma in cammino con il Cristo della proclamazione della sua missione nella sinagoga, dell’annuncio delle Beatitudini, della parabola del buon samaritano, della lavanda dei piedi.





Ambiguità del potere/ambiguità del potere vaticano.

Verità di una Chiesa senza potere, ma in cammino con il Cristo della proclamazione della sua missione nella sinagoga, dell’annuncio delle Beatitudini, della parabola del buon samaritano, della lavanda dei piedi.

In qualunque ambito umano di cui si ha conoscenza il potere porta con sé una dose ineludibile di ambiguità che a prima vista appare connaturata all’uso dello stesso. Intendiamo parlare del potere politico, come pure di quello economico, culturale, relazionale, fisico e religioso.  Il potere – inteso come facoltà di far compiere ad altri azioni che altrimenti non sarebbero forse attuate – è, storicamente, attraversato da qualcosa che lo corrompe, un qualcosa di natura strutturale, ontologica, storica (o anche) congiunturale. Il potere si declina in varie forme. Si coniuga troppo spesso – e tragicamente – con l’abuso, la menzogna e si apparenta più a un fine che a un mezzo. Quando il potere si “istituzionalizza” – e cioè diventa espressione, salvaguardia o perpetuazione di un’istituzione – tende ad assolutizzarsi.

I noti sistemi per evitarne o moderarne l’uso non sempre raggiungono l’obiettivo, perché spesso sono esautorati dal loro compito regolatore. Le brevi note che seguono si riferiscono ad una specifica istituzione che è la Chiesa cattolica e si vogliono come pensieri custoditi, sedimentati e infine espressi. Lo scopo è quello di contribuire a riflettere sull’eventuale uso e abuso del potere in relazione  alla maniera con la quale il Cristo l’ha vissuto secondo i Vangeli.

Assassinato dall’azione congiunta e complice del potere religioso e politico del momento, il Cristo è morto solo, abbandonato e tradito da una parte dei suoi amici. Un contadino “‘marginale”, spesso non capito perché il tipo di mondo che immaginava per il suo popolo era stato mistificato dal potere religioso.

I Vangeli chiamano questo tipo di mondo “Regno di Dio” e dunque ricco di una duplice valenza: spirituale e politica. Nel mondo ma non parte del “sistema”: ecco la sua incomoda posizione, che in definitiva lo perderà “secondo il mondo”. Non si attacca impunemente il potere con la verità della testimonianza libera di un mondo differente. Il dialogo tra Cristo e Pilato, riportato dal Vangelo di Giovanni, ne mostra l’evidenza (Gv, 18, 33-38).

Si sa poco della vita del Cristo, ma ciò che i Vangeli condividono è sufficiente per arrendersi all’evidenza che la scelta dei “piccoli e dei senza potere” ha accompagnato il suo ministero. La parola nell’annuncio delle «beatitudini» nel Vangelo di Matteo (Mt, 5, 1-12), la proclamazione della sua missione nella sinagoga di Nazareth nel Vangelo di Luca (Lc, 4, 16-22) e la lavanda dei piedi nel Vangelo di Giovanni (Gv, 13, 1-15) evidenziano la sua unica opzione: rendere visibile il volto misericordioso del Padre invisibile. Il solo potere che ha praticato sul male e quello del servizio radicale, fino alla morte. La via tracciata è quella ricordata al numero 8 della Costituzione sulla Chiesa, Lumen Gentium. Il cammino scelto dal Signore per annunciare e liberare dovrebbe essere anche quello praticato dalla Chiesa, nella povertà pur se nella persecuzione.

Chi scrive è membro della Chiesa, dalla quale è stato scelto, e la cui missione e il cui mandato ha ricevuto dalla Chiesa, attraverso l’ordinazione sacerdotale.

Grato e riconoscente per quanto vissuto, in abbondanza, più di quanto potevo sperare in una vita come missionario, e sono consapevole che essa, la Chiesa, continua ad offrire al mondo la possibilità dell’incontro liberatore col Cristo stesso. Inoltre sono consapevole di non essere io stesso esente da contraddizioni e ambiguità nell’esercizio del “potere” che ha ricevuto come presbitero della Chiesa. Ma ho avuto il privilegio di vivere quasi la metà della mia vita nel “Sud del mondo”, nelle periferie della storia e dunque lontano dai centri geopolitici del potere. Ciò può facilitare una maggiore libertà di sguardo su se stessi e sulla realtà ecclesiale che si rappresenta – e per così dire “incarna” – nella missione in cui la povertà e talvolta la miseria sono il pane quotidiano della gente nel desco a cui si è inviati. Anche per questo è dato percepire in modo ancora più stridente il “fossato” che c’è tra «voi e noi», come ben ricorda la parabola di Lazzaro e del ricco senza nome che il solo Vangelo di Luca riporta (Lc, 16, 19-31).

Desidero soffermarmi in particolare su alcuni aspetti – peraltro già evidenziati in un mio precedente scritto indirizzato al “Vaticano” – sugli sviluppi degli avvenimenti che hanno accompagnato la morte di papa Francesco e i primi passi di papa Leone XIV. Quanto accaduto mi ha lasciato perplesso e, in una certa misura, sono preoccupato per la piega presa nell’interpretazione di questi eventi.

Per quanto riguarda papa Francesco, ringraziandolo per suo servizio, per le “picconate” date al sistema capitalista e all’interno della Chiesa, per l’eredità che ha lasciato alla Chiesa, permangono, a mio giudizio, alcune perplessità. L’eccessivo protagonismo sui media, la presa di parola su tutto e tutti, la posizione perlomeno avventata al tempo del Covid, l’alleanza del Vaticano per un capitalismo inclusivo e, non ultima, la sua partecipazione al G7. Fa impressione veder seduto Francesco coi finanziatori delle guerre, contro le quali peraltro lui stesso è stato chiaro.

C’è infine l’evento della morte di Francesco, o meglio la gestione mediatica della stessa: evidenziare a dismisura la folla di persone per l’addio al corpo, il “computo” compiaciuto delle delegazioni nazionali e non presenti alle esequie … Tutto ben calibrato e “ben venduto” da parte dell’istituzione. Il funerale del papa è un’espressione evidente del tipo di potere che la Chiesa conserva, nell’attuale sfacelo delle istituzioni politiche. Quando muoiono i migranti, di cui Francesco ha preso le difese fin dall’inizio, nel deserto, nel mare o alle frontiere armate del Nord del mondo, non ci sono affatto delegazioni di Stati o folle in fila.

Organizzare lo spettacolo avendo i mezzi tecnici per farlo è una notevole espressione di potere. Morire soli è quanto di peggiore possa capitare ad una persona: neppure una mano da stringere. Il potere dell’immaginario simbolico dei media è senza misura. (vicino alla tomba di Cristo c’erano solo alcune donne, fedeli e impaurite, arrivate di buonora la domenica mattina).

Quanto accaduto dopo la morte di Francesco, il tempo di preparazione per i cardinali, le inevitabili speculazioni sull’identità del nuovo papa, i marchingegni per il camino e le “fumate”, il conclave.

Il prezzo che si paga per la visibilità della Chiesa sembra eccessivo. L’elezione di un capo di stato appare, nel confronto, un gioco da ragazzi.

La scelta di papa Leone – in parte una sorpresa ma con il compiacimento di tutti senza distinzioni di campo –, non può non destare sospetti.

Altro spettacolo mediatizzato dopo l’elezione è stata la prima celebrazione ufficiale di papa Leone a Roma con in allegato la lista dei partecipanti famosi e non. Nulla da ridire se non che si è trattato ancora di una manifestazione di potere globale da parte di colui che vuole imitare il Cristo, che inizia il suo cammino nel nascondimento il suo ministero. Tra le prime sue mosse si noterà l’adesione al profilo di Istagram, con l’adesione di circa 13 milioni di lettori … Anche questo è potere.

Potremmo e dovremmo proseguire e domandarci su cosa si fonda il titolo di capo di stato attribuito al papa. Re? Presidente? Quale titolo per colui che rappresenta il Vaticano e come tale in grado di ricevere altri capi di stato. Uno stato, il Vaticano, che possiede lo statuto di osservatore nell’Assemblea delle Nazioni Unite. Sappiamo inoltre come la diplomazia vaticana – vecchia di oltre due mila anni – quanto ha saputo creare e tessere nelle geopolitiche del globo (non dimenticando i silenzi del magistero sul nazismo e sugli orrori dello sterminio del popolo ebreo, la mancata posizione di denuncia sull’operato della dittatura militare in Argentina,  il concordato col fascismo in italia, i timidi appelli ad una pace senza contenuto per i massacri nel Medio Oriente).

Come giustificare il tipo di regime monarchico assolutista del potere papale, inconcepibile per una persona umana fragile e fallibile nelle circostanze culturali e storiche del momento. Un peso insopportabile che di fatto rende poco credibile il compito delle Chiesa e dei cristiani nel proporre la democrazia per gli altri ma non per sé. Di fatto lo stato vaticano, ad esempio, ha leggi sulle migrazioni da non invidiare nulla ai Paesi più rigidi in termini di rispetto ed accoglienza.

Non dovrebbe mancare un richiamo alla gestione delle finanze che, immesse nel circuito dei flussi globali, entrano comunque a pieno titolo nei criteri del capitalismo finanziario “puro” e “duro”.

Chi scrive non è uno “spiritualista” che sogna un mondo irreale nel quale l’incarnazione iniziata dal Cristo sia poi vanificata in un mondo interiore innocuo  e pacificante. È consapevole delle contingenze storiche nelle quali si trova la Chiesa e tutt’altro che disposto a ridurla a spazio consolatorio per il futuro, o garante dei sistemi politici che dicono di proteggere e difendere i principi che la animano. Chi scrive non ha soluzioni da offrire ma domande da proporre a sé e chi desidera immaginare un altro tipo di potere.

Una Chiesa senza potere, così come il Signore al quale e dal quale trae la propria identità, la missione e lo scopo stesso della sua esistenza.

 

Ecco perché accanto agli “istituzionalisti” che amano l’ordine e la perennità non sono mai mancati nella Chiesa e non mancheranno mai i “demolitori” che, da buoni profeti, smascherano l’istituzione ogni qualvolta essa diventa fine a se stessa. Parliamo dei santi, dei “fondatori” di (dis)ordini, dai gesuiti agli ordini mendicanti, per arrivare a quelli contemplativi, di pastorale e missionari … Soprattutto parliamo dei martiri e cioè i testimoni privilegiati del “senza potere”: Cristo stesso.

Ognuno, crediamo mosso dallo spirito, ha seminato ciò che papa Francesco chiamava una santa «pagaille», scompiglio e destabilizzazione. Senza troppi calcoli, mezzi e programmi pastorali, hanno innescato un modo diverso di interpretare la Chiesa, il suo “potere” spirituale e il suo cammino carismatico.

Necessarie entrambe le dimensioni, che permettono di durare nel tempo, carisma e istituzione, dovrebbero “disturbarsi” e “inquietarsi” a vicenda.

Come Cristo ha compiuto la redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la Chiesa e chiamata a prendere la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza. Gesù Cristo «che era di condizione divina […] spogliò se stesso, prendendo la condizione di schiavo» (Fil, 2, 6-7) e per noi «da ricco che era si fece povero» (2 Cor, 8, 9): così anche la Chiesa, quantunque per compiere la sua missione abbia bisogno di mezzi umani, non è costituita per cercare la gloria terrena, bensì per diffondere, anche col suo esempio, l’umiltà e l’abnegazione. Come Cristo infatti è stato inviato dal Padre «ad annunciare la buona novella ai poveri, a guarire quei che hanno il cuore contrito» (Lc, 4, 18), «a cercare e salvare ciò che era perduto» (Lc, 19, 10), così pure la Chiesa circonda d’affettuosa cura quanti sono afflitti dalla umana debolezza, anzi riconosce nei poveri e nei sofferenti l’immagine del suo fondatore, povero e sofferente, si fa premura di sollevarne la indigenza e in loro cerca di servire il Cristo (Lumen Gentium, numero 8).

                                                                               Mauro Armanino,

Niamey, maggio 2025

Note essenziali

https://www.vaticannews.va/it/papa/news/2021-08/videomessaggio-sulle-vaccinazioni.html

https://valori.it/consiglio-capitalismo-inclusivo/

https://www.facebook.com/tg3rai/videos/g7-prima-volta-del-papa/476702764869770/

https://www.youtube.com/watch?v=WcJsXlk7lUE  (intervista fazio, che tempo fa)

https://www.youtube.com/watch?v=JDunq7sMnTw (i grandi al funerale di papa Francesco)

https://www.reuters.com/article/world/vaticano-nega-silenzio-papa-francesco-durante-dittatura-argentina-idUSMIE92E01V/

Le Vatican a la politique migratoire la plus répressive d’Europe, Jean-Bapriste Noé, Conflits, 2025

https://stream24.ilsole24ore.com/video/mondo/papa-leone-xiv-leader-politici-mondo-san-pietro-la-messa-inizio-pontificato/AH71uXp?refresh_ce=1

https://www.fanpage.it/innovazione/tecnologia/papa-leone-xiv-apre-il-suo-profilo-instagram-come-trovarlo/



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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