Gilles Lipovetsky e la società della seduzione. Se il capitalismo immateriale avanza senza limiti, ciò è possibile perché mancano le narrazioni veritative. Se la Filosofia si limita ad una critica sociologica e non propone la verità come centro di un processo rivoluzionario, la sua critica è solo puro parlare senza effetti.

Gilles Lipovetsky 01
Salvatore Bravo

Gilles Lipovetsky e la società della seduzione

Se il capitalismo immateriale avanza senza limiti, ciò è possibile perché mancano le narrazioni veritative. Se la Filosofia si limita ad una critica sociologica e non propone la verità come centro di un processo rivoluzionario, la sua critica è solo puro parlare senza effetti.

Capitalismo immateriale
Il capitalismo si autofeconda mediante un movimento perennemente innovativo. Non solo è capace di adattarsi alle circostanze storiche, ma fagocita i movimenti di emancipazione e di liberazione riducendoli a merce, e abbattendo persino le frontiere che esso stesso ha creato. Siamo dinanzi ad una nuova fase che rende il capitalismo certamente non diverso dalla sua essenza, ma con effetti amplificati dai mezzi utilizzati. Le fasi del capitalismo rivelano, in modo sempre più esponenziale, la sua intrinseca natura: si installa nelle relazioni umane, entra nella vita degli uomini per trasformarla in plusvalore, sostituisce il concetto con la gestualità seduttiva. La fase attuale è “rivoluzionaria”, perché accelera tale automatismo. Il capitalismo immateriale utilizza il digitale e gli algoritmi non solo per produrre, ma per orientare le scelte e la vita dei soggetti sussunti al suo invisibile potere.

L’incanto
L’incanto del capitalismo immateriale è nella narrazione che esso fa di se stesso: promette la pienezza, producendo a ciclo continuo – con sogni di onnipotenza narcisistica – una nuova percezione del tempo incentrata sul bisogno-desiderio. I bisogni-desideri sono l’incanto della speranza mondana, il tempo dura quanto è necessario per desiderare e consumare, il disincanto è subito compensato da un nuovo sogno. È l’eterno ritorno nella prospettiva dell’homo consumericus. La forza dell’incanto del capitalismo immateriale è nel non lasciare tempo al consumatore; non vi devono essere archi temporali vuoti, in cui il pensiero può concettualizzare con profondità, giustapporre i sogni ed i disincanti in modo sempre più veloce consente il radicamento dell’incantatore e lo sradicamento da se stesso, dal logos e dalla comunità del soggetto. L’homo consumericus vive su un palcoscenico il cui copione è stato scritto da altri, ma ha l’illusione di essere l’attore principale dello spettacolo, lo si coinvolge nella rappresentazione del prodotto da vendergli, gli si danno informazioni, lo si porta sui luoghi di produzione, assapora la storia dei prodotti, assiste alla spettacolarizzazione della vendita, l’emozione gradualmente lo distoglie dal logos, la pedina si autopercepisce come il sovrano delle merci tra le merci:

«Il capitalismo contemporaneo è stato definito “capitalismo immateriale”, intendendo con tale espressione il ruolo primordiale che rivestono oggi nell’economia le tecnologie digitali al pari dei servizi, del “capitale umano”, del “capitale di conoscenze”, del “capitale di conoscenze”. Siamo in un’economia immateriale nel senso che le risorse della creazione di valore si basano su fattori immateriali come le conoscenze, le qualità del comportamento, l’innovazione, l’invenzione. Il punto da sottolineare è che più il capitalismo diventa “immateriale” e più si confonde con il capitalismo incantatore. Il che significa che il capitalismo immateriale non designa soltanto un “capitalismo cognitivo” centrato sugli algoritmi, i dati digitali, i saperi astratti e matematizzati, ma anche un sistema che si adopera per stimolare i desideri, le emozioni, i sogni e il cui obiettivo è creare e rinnovare prodotti e servizi che piacciano al consumatore e li colpiscano (racconti, musiche, svaghi, divertimenti, stili, ecc.). Di conseguenza, il capitalismo immateriale è anche, paradossalmente, un capitalismo emotivo ed artistico».[1]

Si deve emozionare per favorire processi di regressione di massa: le piccole emozioni che lo spettacolo della merce offre invitano al sogno ed alla fuga dalla storia. La manipolazione dei significati è tale che la parola cultura – che per tradizione e significato si connota per essere il processo di liberazione dalla superstizione e dalla sudditanza per eccellenza – è associata allo spettacolo. Ogni attività culturale dev’essere economicamente proficua e nel contempo deve emozionare: luci, spettacoli, postazioni mediatiche sono la nuova esca con cui incantare lo spettatore-consumatore. La stimolazione sensoriale in continua ascesa – sempre più intensa negli eventi provoca meraviglia, stupore, inebetimento che prepara all’acquisto. Il pensiero è così sostituito dall’incanto, dalla fugace emozione; si viaggia in ogni parte del globo, si visitano monumenti, per tornare a casa con esperienze sensoriali velocemente sostituite da ulteriori emozioni. Il corpo è diventato il luogo sul quale affluiscono momenti emozionali, i quali non sono oggetto di riflessione, ma di veloce godimento. Il corpo è il luogo della guerra, della conquista, è solo carne da mercato.

Il sogno
Il consumatore coltiva i sogni di grandezza, vive il sogno nella forma del destino personale e privato, può essere parte di una famiglia o di una comunità, ma le vive come estranee, distanti, un limite al suo narcisismo. Si afferma l’astrazione in forme sempre più radicali, la vita reale, il contesto storico, sono cancellati in nome dell’incanto di una promessa che riguarda il soggetto stesso, che – ormai slegato da ogni ambito – vive il delirio regressivo del diritto a tutto e specialmente la possibilità che il “tutto” si realizzi solo per lui. Il ritmo veloce dei bisogni-desideri del consumatore causa uno scollamento sempre più incolmabile tra il principio di piacere ed il principio di realtà. Il capitalismo immateriale fa del popolo una massa di seduttori in posa per uno sguardo, per un licke. La seduzione sterilizza i popoli, i quali – svuotati dalle loro tradizioni culturali, dallo spirito della lingua materna – non hanno nulla da trasmettere alle nuove generazioni. L’irrilevanza è il nuovo paradigma. Non resta che la seduzione con le sue miserie, in cui l’altro è solo un mezzo per soddisfare il proprio narcisismo:

«Una seduzione che non dipende più né dalla politica, né dal sacro, né dall’ideologia, ma da un’offerta concreta, multiforme, continuamente cangiante, che si rivolge all’individuo privato e ai suoi piaceri: alla seduzione-politico-ideologica è subentrata una seduzione privatizzata ed esperienziale centrata sul rapporto con se stesso. Una forza di attrazione sostenuta non dall’immaginario di un futuro migliore per l’umanità, ma dalle promesse di godimenti immediati dell’individuo».[2]

 

La seduzione
Il gioco esiziale della seduzione non esclude nessuno. Il modo di produzione capitalistico si installa ovunque ed in chiunque, per cui la seduzione – ultima frontiera della sussunzione – è trasversale, riempie il vuoto dei concetti. Con il ritrarsi del logos, il vuoto è abitato dalla seduzione, dall’apparire autoidolatra.
Ci troviamo innanzi ad una nuova forma di seduzione: alla relazione duale del gioco della seduzione tradizionale si sostituisce l’atomismo seduttivo, in cui l’altro è l’oggetto che deve confermare il fascino del seduttore. Ai contenuti, alla passione che guida all’ascolto dell’altro subentra la solitudine del piacere privato, alla parola significante subentra il gesto. Anzi il linguaggio è sempre più elementare, deve parlare la fisicità, la posa che mentre proclama la libertà, in realtà desidera sedurre e dominare:

«Meno i politici hanno grandi idee, più si sforzano di acquisire una grande visibilità e sono presi dal panico all’idea di rimanere o diventare sconosciuti. Quando le grandi ambizioni di cambiare il mondo scompaiono, resta la magia della celebrità, poiché permette di provare la giubilazione di farsi vedere, mostrarsi, provare il godimento narcisistico della divinizzazione di sé. Poiché la visibilità sociale modifica la percezione di sé, aumenta il senso del proprio valore, lusinga l’ego e la stima di sé: essa è uno strumento di autoseduzione che intensifica il sentimento di esistere e di essere “importanti».[3]

Il grande seduttore è oggetto della forza che vorrebbe esercitare, la frustrazione e l’alienazione sono parte della sua esperienza, ma la velocità con cui vive e consuma i suoi gesti, i desideri, i bisogni indotti lascia che il malessere muto resti sullo sfondo: si possiede tutto, ma non si vive nulla, il mondo diviene in tal modo un accumulo inaudito di merce e possibilità senza sapore. Il narcisismo seduttivo dell’homo consumericus si ribalta in frigidità sostanziale, la velocità con cui le emozioni si susseguono lasciano il vuoto. Non vi è memoria, non vi è traccia, per cui i piaceri e le emozioni sono sempre più forti e pericolosi, in modo da avere l’illusione di vivere con pienezza:

«Il senso di alienazione di sé rimanda al fatto che viviamo in un mondo di velocità sfrenata il quale ci diventa sempre più estraneo, impenetrabile, insoddisfacente poiché cancella ogni vera appropriazione personale. Possediamo sempre più libri o DVD, ma non ci prendiamo il tempo di “digerirli”; navighiamo rapidamente sulle pagine della rete senza leggere nulla fino in fondo; facciamo zapping su qualunque cosa; guardiamo la televisione per ore senza trarne veramente piacere; non ci prendiamo il tempo di imparare perché questo tempo divora troppo tempo; ci sentiamo impotenti di fronte alla complessità degli oggetti tecnologici i cui modelli cambiano in continuazione».[4]

Pedagogisti dell’edonismo
La pedagogia alimenta la didattica veloce, i saperi minimi, l’offerta formativa, esperienze da vivere e vendere su un mercato del lavoro in perenne metamorfosi e che esige il continuo sacrificio dei suoi lavoratori. Pedagogia complice del sistema, gli economisti sono affiancati da “esperti della didattica”, che invitano a sostituire i contenuti con esperienze didattiche incentrate su obiettivi minimi, perché nulla deve fermare l’incanto dei consumi: il tempo utilizzato per capire è sottratto al consumo, per cui gli appelli degli esperti a non dare troppi compiti, a non traumatizzare debiti (rimandare a settembre nella neolingua dell’economicismo), a non dare compiti per le vacanze, al sabato libero, a posticipare l’inizio delle lezioni, altrimenti il sistema potrebbe incepparsi nel pensiero e nel contenuti. Il liceo classico è sconsigliato, perché astratto, perché il vecchiume delle lingue morte potrebbe disorientare nella scelta universitaria che dev’essere “libera”, ma orientata verso le facoltà produttive, ovvero tecniche. Sono i nuovi oratores che circolano nelle istituzioni per mutarne la natura, per asservirle alle logiche del mercato.
Lipovetscky, dinanzi all’avanzare del nuovo capitalismo immateriale, ritiene che l’unico argine sia la cultura. L’istituzione scolastica deve arginare l’inebetimento con la formazione critica:

«Che cosa modificherà l’ethos consumistico? La riduzione dell’inebetimento di massa passa attraverso una formazione scolastica e artistica di qualità. È su questa che la nostra epoca deve investire affinché le sirene consumistiche rimangano al posto che spetta loro».[5]

 

Ipermodernismo
Lipovetsky si dichiara ipermodernista. Constata la fine delle grandi narrazioni, l’affermarsi del potere seduttivo che tutto pervade, e giudica la formazione il luogo dove tale deriva può essere letta ed arenarsi. Lipovetsky pecca di astrazione. Le istituzioni formative sono interne al sistema, così come i suoi operatori. Se il capitalismo immateriale avanza senza limiti, ciò è possibile perché mancano le narrazioni veritative e con esse il logos. Se la Filosofia ha rinunciato alla verità e si limita ad una critica sociologica che, per quanto acuta, non propone la verità come centro di un processo rivoluzionario, la sua critica è solo puro parlare senza effetti. Naturalmente gli appelli alla formazione non possono che restare tali, o anche essere accolti per colte discussioni-spettacolo. Il teatrino della democrazia formale è sempre in attività.
Un nuovo inizio è sempre possibile, è una scommessa, ma non può che avere l’abbrivio dalla metafisica che deve arginare il relativismo e la cultura dell’irrilevanza che legittima la riduzione a spettacolo di ogni manifestazione culturale e dell’essere umano.
Il pensiero debole non può che essere fonte di conferma dello stato attuale. Bisogna constatare il fallimento del postmodernismo con i suoi alfieri, per rimettere in cammino la storia con la sua verità. Il postmodernismo e l’ipermodernismo descrivono il capitalismo nella sua effettualità, il quotidiano vissuto entro il confine dell’utile, ma restano interni ad essi, perché non escono dalla gabbia del relativismo:

«L’antico principio secondo il quale l’acquisizione del sapere è inscindibile dalla formazione (Bildung) dello spirito, e anche della personalità, cade e cadrà sempre più in disuso. Questo rapporto fra la conoscenza ed i suoi fornitori ed utenti tende e tenderà a rivestire la forma di quello che intercorre fra la merce ed i suoi produttori e consumatori, vale a dire la forma valore. Il sapere viene e verrà prodotto per essere venduto, e viene e verrà consumato per essere valorizzato in un nuovo tipo di produzione: in entrambi i casi, per essere scambiato».[6]

L’oblio della verità e dei perché
L’oblio della verità, la rinuncia ad essa, non permette di uscire dal paradigma dell’utile. Si constatano gli effetti del capitalismo, ma lo si ipostatizza, in quanto ogni progettualità alternativa è annichilita dal vuoto ontologico e metafisico. Pertanto gli appelli rivolti alla formazione ricadono su stessi, non interrompono, né deviano il capitalismo dal suo onnipotente radicarsi. Il postmodernismo si aggira tra le rovine della dialettica marxista, l’impossibilità di prevedere la storia ha portato via con sé ogni metafisica della verità consegnando la filosofia ad un ruolo ancillare rispetto alle scienze ed all’economia. Per uscire dal postmodernismo ed approssimarsi alla verità è necessario, in primis, riattivare la catena dei perché senza i quali la storia è consegnata alla palude del relativismo nella quale il capitalismo immateriale può proliferare, in quanto non incontra alcun limite. La catena dei perché riporta in scena con la filosofia la speranza che mai è scissa dalla verità:

«È necessario dunque “riaprire la catena dei perché”. Prendo a prestito questa espressione del defunto Franco Fortini, che mi onorava della sua stima e della sua amicizia (e che non avrebbe quasi sicuramente condiviso né la lettera né lo spirito di questo saggio). Quando nel 1956 il sinedrio dei gran sacerdoti del comunismo, capitanati dal mediocre contadino ucraino Nikita Krusciov, decise di detronizzare il papa georgiano defunto Giuseppe Stalin, Franco Fortini scrisse che bisognava “riaprire la catena dei perché”, a cominciare ovviamente dai perché fondamentali rimossi, ed aprire un dibattito liberatore fra tutti coloro che praticavano il marxismo, sostenevano il socialismo e credevano nel comunismo».[7]

Senza le grandi domande non vi sono che piccole risposte, pertanto è necessario porre in epochè il relativismo.
Il linguaggio attuale è puramente descrittivo. Si utilizza il registro linguistico positivistico in ogni ambito, si vuole neutralizzare la domanda sostituendola con la descrizione senza spiegazione profonda. Il linguaggio neutro dev’essere smascherato nel suo vacuo spessore ideologico: si presenta come neutro ciò che in realtà non è che espressione degli interessi di parte. Il linguaggio anonimo vorrebbe convincere dell’oggettività delle decisioni politiche per inibire ogni domanda. La lingua inglese, lingua dei vincitori, insidia le patrie, logora le comunità ed erode la domanda filosofica, in quanto non solo sostituisce la creatività della lingua madre, ma specialmente è lingua utilizzata per le sole comunicazioni commerciali e tecniche. Lingue anonime, senza profondità, formano soggetti irrilevanti che credono nel destino degli eventi storici.
I perché fanno fatica ad emergere sotto la cappa della lingua alienata. La sfida è far riemergere, con i perché, un’altra lingua, un altro pensiero che possa leggere la lingua del capitale per trascenderla. Senza verità non vi è radicamento, né progetto: la filosofia senza la verità non è che parte dello sradicamento globale e del meccanicismo economicista.

Doppio furto
È necessaria la critica filosofica forte per mostrare in modo radicale che mentre si proclama la morte delle ideologie, si cela il dato essenziale: il capitalismo immateriale è ideologia che tutto pervade, ma non vuole essere sottoposto al giudizio dei singoli, delle comunità, dei popoli, per rendere il suo trionfo indiscutibile. Senza verità non vi è radicamento, né progetto. La filosofia senza la verità non è che parte dello sradicamento globale e del meccanicismo economicista. Con il capitalismo immateriale si commette un doppio furto: la proprietà e la verità. Ogni concetto di proprietà pubblica, in cui la comunità ritrova se stessa, è stato occultato e criminalizzato in nome dell’utile privato. I monumenti in cui è conservata la memoria dei popoli divengono “petrolio” per il plusvalore, ma specialmente la verità è il furto per eccellenza. E questo furto si perpetua ogni giorno a danno dei popoli. Senza verità non vi è consapevolezza, né politica, ma solo eterno tatticismo, finzione della partecipazione. Senza verità i popoli divengono plebe nel pascolo del capitalismo. L’urgenza, non solo filosofica, è la verità. Essa risorgerà al di fuori degli ambienti accademici. Solo con la verità vi può essere un nuovo inizio.

Salvatore Bravo

[1] Gilles Lipovetsky, Piacere e Colpire. La società della seduzione, Raffaello Cortina Editore, Milano 2019, pp. 217-218.

[2] Ibidem, pp. 218-219.

[3] Ibidem, p. 267.

[4] Ibidem, p. 347.

[5] Ibidem, pp. 387-388.

[6] Jean François Lyotard, La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano 2019, p. 12.

[7] Costanzo Preve, Marx e Nietzsche, Petite Plaisance, Pistoia 2004, p. 5.