John Dos Passos (1896-1970) – Scrivere per denaro è almeno altrettanto stupido che scrivere per autoesprimersi. L’anima di una generazione è il suo linguaggio.
Il ricordo dell’opera che avrei voluto scrivere non è ancora impallidito al punto da rendermi facile il leggere l’opera che ho scritto. Né è abbastanza impallidita la memoria della primavera 1919. Ogni primavera è tempo di cambiamenti, ma allora Lenin era vivo, lo sciopero generale di Seattle era sembrato l’inizio dell’inondazione anziché l’inizio del calo della marea, gli americani a Parigi erano sbronzi di teatro e pittura e musica; Picasso avrebbe ricostruito l’occhio, Stravinskij faceva risuonare nelle nostre orecchie le steppe russe, correnti d’energia sembravano irrompere d’ogni dove mentre baldanzosi giovani emergevano dalle loro uniformi, l’America imperiale era tutta un luccichio nell’idea del nuovo Ritz, da ogni parte i paesi del mondo si protendevano affamati ed arrabbiati, pronti a tutto purché fosse nuovo e turbolento; dovunque andassi vedevi Charlie Chaplin. Il ricordo della primavera 1919 non è impallidito abbastanza da rendere appena più facile la primavera del 1932. Non che l’oggi fosse allora piu piacevole di quel che è adesso, era forse il domani che sembrava piu vasto; tutti sanno come crescere sia il processo di cogliere i germogli di domani. Molti di noi, giovanissimi in quella primavera, ci siamo fatti un giaciglio e vi abbiamo giaciuto; un bel mattino ti svegli e scopri che quel che avrebbe dovuto essere solo una molla per spingerti nella realtà è una professione, che l’organizzazione della tua vita che avrebbe dovuto servire a farti vedere di più e più chiaramente si è rivelata una sorta di paraocchi costruiti in base a uno schema predestinato: il giovane che pensava di fare il vagabondo si ritrova miope intellettuale borghese (o vagabondo, va male comunque). Va bene, sei un romanziere. E allora? Che te ne fai? Che scusa trovi per non vergognarti di te stesso? Non che vi sia una qualche ragione, suppongo, per vergognarsi del mestiere di scrittore. Un romanzo è un bene di consumo che risponde ad una determinata esigenza; la gente ha bisogno di comprare sogni ad occhi aperti come ha bisogno di comprare gelati o aspirina o gin. Qui e là hanno perfino bisogno di comprare un pizzico di intellettualismo per ravvivare i propri pensieri e qualche goccia di poesia per stimolare i propri sentimenti. Quel che basterà a farti sentire soddisfatto del tuo lavoro sarà tirar fuori il miglior prodotto possibile, soddisfare il mercato di lusso e al diavolo tutto il resto […].
Guadagnarsi da vivere vendendo sogni ad occhi aperti, sensazioni, pacchetti di stimolanti mentali, va benone, ma ritengo che pochissimi la ritengano vita adatta ad un adulto sano. Naturalmente ci puoi fare quattrini ma, anche a parte la caduta del capitalismo, il profitto tende ad essere motivo consunto, destinato sempre più ad essere soffocato dal suo stesso potere e complessità.
Scrivere per denaro è almeno altrettanto stupido che scrivere per autoesprimersi […].
E allora per che cosa scrivi? Per convincere la gente di qualcosa? Questo è predicare ed è parte del mestiere di chiunque abbia a che fare con le parole: il non ammetterlo equivale a giocare con un fucile per poi blaterare che non sapevi che era carico. Ma al di là della predica c’è qualcosa come lo scrivere per lo scrivere. Un ebanista si diverte ad incidere il legno perché è un ebanista; così ciascun tipo di lavoro ha il suo inerente vigore. L’anima di una generazione è il suo linguaggio. Uno scrittore rende duraturi taluni aspetti di questo linguaggio stampandoli. Afferra le parole e le frasi di oggi e ne fa forme per forgiare l’anima della generazione di domani. Questa è storia. Uno scrittore che scrive direttamente è architetto di storia […]. Né sarebbe necessario ripetere cose di questo genere qualora non ci avvenisse di appartenere ad un paese e ad un’epoca di così peculiare confusione allorché la sensibilità dell’uomo medio alla carta stampata è stata prima accesa dal nebuloso sentimentalismo dei professori di letteratura che sostituiscono i classici con «buoni libri moderni», e poi atrofizzata dall’abbaiare degli imbonitori delle case editrici su un qualunque piatto di spazzatura contrabbandato tra una portata e l’altra. Oggi noi scriviamo per la prima generazione americana che non è stata educata sulla Bibbia, e nulla l’ha finora sostituita in termini di disciplina letteraria.
Questi anni di confusione, quando tutto deve essere rietichettato e le parole perdono di settimana in settimana il loro significato, possono essere veleno per il lettore ma sono cibo per lo scrittore […].
Chi di noi è sopravvissuto ha visto come questi anni abbiano strappato una ad una le grandi illusioni del nostro tempo; noi dobbiamo avere a che fare con la nuda struttura della storia ora, dobbiamo farlo presto, prima che sia essa a imprimerci il suo stampo e a metterci fuori gioco.
Dall’Introduzione di John Dos Passos alla edizione della Modern Library di Three Soldiers, 1932.
Three Soldiers (1921, romanzo), tr. Lamberto Rem Picci, Il mondo fuori casa, Jandi Sapi, Roma 1944; tr. Luigi Ballerini, I tre soldati, Casini, Roma 1967.
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