Maria Corti (1915-2002) – Ci sono Presenze, invisibili ai più, che sembrano sorgere da una categoria nuova della realtà, da uno stato proprio del reale e non da noi. Solo loro sanno che cosa veramente sia il passato, e abbracciano in un solo insieme le cose che ci sono e quelle fluttuanti tra il possibile e l’improbabile.
«[…] Nel crepuscolo invernale i cortili dell’Università di Pavia diventano spazio deserto e se un uomo si muove fra le colonne viene fatto di chiedersi: ma chi è che si muove fra le colonne? I passeri planano per l’ultima volta dalla quercia alle due magnolie. Il silenzio avanza come un’alta marea sugli otto cortili, soprattutto acquista potere sull’ultimo, il cortile sforzesco, che risale al Quattrocento e dove si trovano le sale del «Fondo Manoscritti di autori moderni e contemporanei»; vuoto di frequentatori la sera il Fondo si trasforma in un cimitero. […]
Un cimitero è un luogo di silenziosi fantasmi; più raramente di sonori musicisti. È Calvino a dirci che nella città di Ipazia i suonatori si nascondono nelle tombe e da una tomba all’altra si danno la voce con flauti e arpe. Ma più spesso vi dimorano ombre. […] Benché non sia possibile descrivere l’aspetto fisico delle ombre, si può dire che esse pur nella nuova condizione di esseri senza peso hanno le stesse facce di quando avevano un corpo, dato che la faccia conserva per sempre tracce di quello che le è capitato.
Si accostano furtive agli armadi-cassaforte dove qualcosa d’altro, che le riguarda, ma cosa?, occupa la loro attenzione. È allora che se uno per caso si trova nel Fondo è invaso dalla sensazione di un’immensa, insuperabile distanza: al tempo in cui le ombre avevano un corpo lui magari non era ancora nato o, se era nato, si trovava in un luogo diverso dello spazio. In questi casi si può fare ben poco l’uno per l’altro, come succede ai ricevimenti pubblici o ai funerali, dove ci si trova tutti insieme da estranei.
Senza dubbio tali Presenze, invisibili ai più, sembrano sorgere da una categoria nuova della realtà, da uno stato proprio del reale e non da noi. Come se l’altro reale, quello a cui di solito si fa capo, tacesse, avesse perso qualsiasi virtù di evidenza. Adesso sappiamo che è possibile avere per qualche momento la sensazione che ombre si muovano implacabili nelle sale. Non si ha nessun dato sul preciso momento in cui la mente si arrende a tale visione e le ombre, scaturite da ignota sorgente, si emancipano, hanno causa vinta. Esse desiderano raccontare di sé tutt’altro genere di vicende e di cose, atte a colmare lacune dei biografi e dei critici. Mica sono personaggi della fantasia. Loro hanno dovuto portare in giro sul serio un corpo palpabile. Non si tratta qui di restare nella logica di un racconto, ma di entrare in un’altra logica, in altre regole del gioco, quelle in cui uomini e donne hanno dovuto vivere materialmente ogni istante dell’esistenza, provare la difficoltà di sbrogliarsela con se stessi, vita natural durante, quando per esempio hanno preso in mano la penna per la prima volta, con una felicità poi perduta, andata a finire in uno scritto fatto a pezzi, e quando presto o tardi è venuto il momento in cui hanno cominciato a dubitare di quello che facevano.
Le ombre passano inquiete da una sala all’altra: allora uno, seduto al tavolo di lavoro, prova voglie inconsuete, quali voglie?, metti quella di dare alla foto di uno scrittore appesa alla parete o a un venerato busto di marmo, situato in un angolo della sala, i freschi movimenti dell’uomo. Impossibile? Ma già abitare tale desiderio è qualcosa.
Forse le ombre notano il turbamento di chi le trova un po’ dentro e un po’ fuori dei ritratti noti. Se potessero sorriderebbero, ma le ombre non sorridono, sono al di là del tempo della vita in cui si sorride. Ma sono davvero uscite dal tempo? Bisogna distinguere. C’è il tempo a cui sono appartenute e c’è l’altro tempo, quello che ora le avvolge nel Fondo, nel mondo dei viventi. Il primo i greci lo chiamavano aion e segnava una fatale chiusura; il secondo chronos e segnava un’apertura verso il futuro, per cui venne anche detto immagine dell’eternità. Ecco dunque perché loro sono qui, nel Fondo, sono venute a farci visita, si sono immerse nel chronos. In questo mondo in cui ogni cosa si consuma in un mese o in un anno, e viene subito sostituita con un’ altra più perfezionata, che pare insostituibile ed eterna, ma si consuma essa pure in un mese o in un anno e così via, loro non prendono parte a questo consumio generale. Persistono, premono su di noi, attendono di essere riconosciute, se pure da un numero limitatissimo di viventi. In modo ora ludico ora drammatico comunicano, anche se non sempre attraverso la voce. Chi frequenta d’abitudine il Fondo sa che la comunicazione dura magari, come accade nei sogni, pochi intensissimi minuti dopo di che tutto si perde in quartieri sconosciuti. Non esiste una mappa del mondo sotterraneo, di quell’ignoto da cui tutti i fantasmi provengono, profondo come un abisso, che esercita su di essi un’attrazione cosmica diversa da quella a cui sono soggetti i viventi. Per questo i fantasmi sono instabili, erranti, fuggitivi. Fanno fatica ormai a riabituarsi al mondo in cui vissero coi piedi per terra nel loro aiòn, il loro tempo passato.
Ma le Presenze invisibili sono attratte nel Fondo da una terza idea di tempo, che è soltanto loro e dà segni di sé soltanto qui, fra i manoscritti. Un’idea di tempo che diventa cosa, oggetto fatto di parole scritte. Fogli ingialliti, stesure successive, un tutto che segnala l’ordine temporale della composizione di un’opera. Come dire che c’è una realtà temporale che appartiene alla logica dell’opera. Le vere competenti sono loro, le ombre. Quello che Filone d’Alessandria nel De opificio chiama il “giorno uno” dell’inizio del mondo c’è in ogni testo letterario; solo loro, e nemmeno sempre, saprebbero rintracciarlo. Quello che di sicuro conoscono è il ciclo dei giorni e delle notti dell’opera, anch’esso proprio di questa terza idea di tempo, che non è né aiòn né chronos, ma è ritmo e articolazione dell’energia creativa, crescita segreta e quasi biologica delle forme.
Naturalmente ci sono ombre e ombre, come uomini e uomini. Alcune, particolarmente inquiete, considerano sbagliata la vita trascorsa coi piedi per terra: avrebbero potuto realizzare grandi cose e invece queste grandi cose non ci sono state, tanto che il mondo continua a sentirne la mancanza. Il modo difatti con cui le cose terrene sono come sono è del tutto parziale, cioè nessuno esclude che se fossero diverse potrebbero essere meglio e tutti sulla terra hanno l’aria di aspettare che questo succeda. Loro, le inquiete, hanno perso l’occasione e un’invisibile tramezza le separa dalle altre, quelle il cui destino è stato in direzione del più e non del meno o addirittura è stato un destino trionfale. Si leva nel silenzio la voce di Italo Calvino:
“Si dispiegavano tutte le forme che il mondo avrebbe potuto prendere nelle sue trasformazioni e invece non aveva preso, per un qualche motivo occasionale o per una incompatibilità di fondo: le forme scartate, irrecuperabili, perdute”.
Ogni ombra si muove in cerca dei suoi feti, delle sue incompiute, che arrischiano invano di emergere tra il disordine delle varianti a penna all’interno degli armadi-cassaforte, simili a spirali di insetti sulle foglie. C’è della bellezza in queste creature abortite, in questi personaggi non ancora condotti a compimento e abbandonati ai margini del niente. […] Siamo sempre lì, una bellezza prigioniera di ciò che avrebbe potuto essere e non è stato; una distanza non sempre ipotizzabile fra prime stesure e opere giunte alla luce della stampa. Di qua ombre inquiete che vagano nelle sale del Fondo, di là embrioni, feti, aborti della scrittura sporchi di inchiostro, uccisi dalle cancellature. Allora il Fondo è un universo in miniatura, che abbraccia in un solo insieme le cose che ci sono e quelle fluttuanti tra il possibile e l’improbabile. Cosi cessa di essere un semplice Fondo, dove tutto il dentro è deposito e il fuori è vita. Diventa anzi specchio del mondo, dove quasi niente di quanto ha inizio giunge del tutto a compimento.
Si muovono da padrone perché solo loro sanno che cosa veramente sia il passato, mentre la via d’uscita dei pensieri dei viventi è quasi sempre una via che segue la freccia diretta al dopo, non al prima. Per i viventi dentro l’unione di passato e futuro è il futuro che soverchia. Tutto sommato anche il Fondo con le sue quotidiane pulsazioni, con il ramificarsi per cui ogni ramo ne genererà altri sembra provare non esserci bene che non si proietti nel dopopresente […]»(pp. 5-9).
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«[…] Si sa, ci sono cose che si presentano come segni di altre. Guai se ci si incaponisce a non vederli questi segni, anche se possono a prima vista apparire privi di senso. La vita quotidiana contiene un mucchio di avvertimenti che appaiono assolutamente privi di senso e carenti di realtà, ma che esistono tuttavia, è solo la ragione del loro esistere che rimane nell’ombra. Per questo non sempre ci si sente in grado di distinguere se un evento del passato che ricordiamo c’è stato o lo abbiamo sognato e trasformato in conformità dell’architettura interna del nostro io» (p. 111).
Maria Corti, Ombre dal Fondo, Einaudi, Torino 1997.
Quarta di copertina
Esiste a Pavia un luogo singolare, popolato da ombre immerse in una temporalità diversa da quella dei viventi. Quel luogo ha un nome e una storia: si chiama «Fondo Manoscritti di autori moderni e contemporanei» ed è nato e cresciuto grazie ai sogni e alla tenacia di Maria Corti. Lì si conservano e si studiano i testi autografi dei maggiori scrittori dell’Otto e del Novecento, lì i viventi intrecciano le loro storie con quelle di chi non è più al mondo ma vi ha lasciato una traccia.
In questo testo creativo Maria Corti, nella sua doppia veste di narratrice e di studiosa, evoca vicende del Fondo, divenuto nel corso degli anni una delle più vive realtà culturali italiane. Ed evocando dispensa testimonianze e aneddoti di prima mano su famosi scrittori, vedove votate alla gloria letteraria dei propri mariti, banchieri generosi, personaggi maggiori e minori che si incrociano come in un testo sinfonico, con tempi, ritmi e movimenti musicali di volta in volta diversi. Ombre dal Fondo è esempio di un raro genere letterario, una sorta di sinfonia evocativa. Coagula con originalità riflessioni sulla letteratura e sulla «materia» di cui la letteratura è fatta: il manoscritto d’autore, con i tratti a penna che definiscono una grafia, le correzioni, a volte i disegni che lo corredano, diventa la chiave d’accesso per sondare quello che Maria Corti chiama «avantesto», cioè la scaturigine, esistenziale oltreché letteraria, dell’invenzione creativa. Perché «al tocco giusto dello sguardo, gli occhi guardano il visibile, le Carte, e allo stesso posto vedono l’invisibile».
Ombre dal Fondo, infine, è anche una rassegna di interventi critici su una serie di scrittori fra i più amati dall’autrice, da Montale a Bilenchi, ad Amelia Rosselli. Una critica, quella disseminata in questo libro, che non ha mai nulla di astratto ma si nutre della presenza fantasmatica degli scrittori e delle loro Carte, come in un concretissimo colloquio che tocca nel profondo le ragioni della letteratura.
Maria Corti ha insegnato per molti anni Storia della lingua italiana e ha creato e diretto il «Fondo Manoscritti di autori moderni e contemporanei». Ha ideato riviste culturali come «Strumenti critici», «Alfabeta», «Autografo». Tra i suoi studi filologico-letterari ricordiamo Metodi e fantasmi (Feltrinelli 1969), Il viaggio testuale (Einaudi 1978), La felicità mentale (Einaudi 1983), I percorsi dell’invenzione (Einaudi 1993), a cui si aggiunge il volume teorico I principi della comunicazione letteraria (Bompiani 1976) . Ha diretto l’edizione critica delle Opere di Fenoglio (Einaudi 1978). Ha pubblicato alcuni libri di narrativa: L ‘ora di tutti (Bompiani 1996, 15a ed.), Il ballo dei sapienti (Mondadori 1966), Voci dal Nord Est (Bompiani 1986), Il canto delle sirene (Bompiani 1989), Cantare nel buio (Bompiani 1991). Nel 1995 è uscito il libro-intervista Dialogo in pubblico (Rizzoli).
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