Massimo Bontempelli (1946-2011) – L’uomo, proprio perché elevato al di sopra della vita meramente biologica da una divina capacità di conoscenza, deve mantenere tale elevazione con il distacco dall’immediatezza vitale che è costituito dalla coscienza della certezza della morte. Sapere il bene e il male e sapere la morte sono due lati indisgiungibili di una stessa realtà, che non è né animale né divina, ma specificamente umana.
Massimo Bontempelli
La conoscenza del bene e del male
indice – presentazione – autore – sintesi
Massimo Botempelli
Gli alberi del Giardino di Eden
«L’albero della conoscenza del bene e del male» e «L’albero della vita»
L’uomo storico è costretto, proprio perché è elevato al di sopra della vita meramente biologica da una divina capacità di conoscenza, a mantenere tale elevazione anche attraverso quel distacco dall’immediatezza vitale che è costituito dalla coscienza della certezza della morte. Sapere il bene e il male e sapere la morte sono dunque due lati indisgiungibili di una stessa realtà, che non è né animale né divina, ma specificamente umana.
«Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, ad oriente […]. Il Signore Dio vi fece germogliare ogni sorta di alberi gradevoli alla vista e pieni di frutti buoni da mangiare, tra cui l’albero della vita e l’albero della conoscenza del bene e del male […]. Il Signore Dio prese quindi l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché ne godesse e lo tenesse in custodia. Gli diede questo comando: “Saranno tuoi tutti i frutti del giardino, ma non dovrai mai mangiare quello dell’albero della conoscenza del bene e del male, perché quando lo mangiassi, ne moriresti”. […] Il serpente era la più astuta delle bestie fatte dal Signore Dio. Egli disse alla donna: “È vero che Dio non vuole che mangiate i frutti del suo giardino?”. Gli rispose la donna: “Dei frutti degli altri alberi possiamo cibarci, ma Dio ci ha detto che non dobbiamo mangiare e non dobbiamo toccare il frutto dell’albero che sta nel mezzo del giardino, altrimenti moriremo”. Replicò però il serpente: “Non morirete affatto! Al contrario, se lo mangiaste, i vostri occhi si aprirebbero, e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male”. Allora la donna, vedendo come il frutto era bello e desiderabile per acquistare la sapienza, lo prese e lo mangiò, dandone un pezzo anche al marito, che era con lei […]. Poi udirono il Signore Dio che passeggiava nel giardino, e si nascosero in mezzo agli alberi. Ma il Signore Dio chiamò l’uomo dicendogli: “Dove sei?”. Quegli rispose: “Ho udito il tuo passo, e ho avuto paura, perché sono nudo, per cui mi sono nascosto”. E Dio: “Chi ti ha fatto sapere che sei nudo? Hai dunque mangiato dall’albero dal quale ti avevo comandato di non mangiare?”. Rispose l’uomo: “La donna che mi hai posto accanto mi ha dato quel frutto, ed io l’ho mangiato”. […] Disse allora Dio: “Ecco l’uomo è diventato come uno di noi, avendo acquistato la conoscenza del bene e del male. Devo ora fare attenzione a che non stenda la mano per prendere anche il frutto dell’albero della vita, e mangiandolo viva per sempre”. Il Signore Dio scacciò perciò l’uomo dal giardino di Eden».
Questi sono, all’inizio della Bibbia, i passi salienti di un celebre e antichissimo mito, che gli Ebrei avevano ereditato, attraverso i Babilonesi, dalla più antica di tutte le civiltà conosciute, quella dei Sumeri. Il nome stesso del luogo in cui il mito è ambientato, Eden, non è originariamente ebraico, ma deriva dal termine sumerico edin, con il quale veniva indicata una pianura non irrigata. L’Eden biblico è certamente la Mesopotamia preistorica, dato che il testo menziona espressamente il Tigri e l’Eufrate come appartenenti alla regione. Nella sua zona più meridionale, dove i due fiumi si avvicinavano, creando spazi irrigui ricchi di vegetazione, i primi coloni sumeri dovettero trovare diversi angoli di terra dove pochi abitanti potevano vivere senza fatica, semplicemente raccogliendone i frutti spontanei, a cominciare dai gustosi e nutrienti datteri. Qualcuno di questi angoli di terra, particolarmente incantevole, fu certamente considerato un giardino piantato dagli dèi, e immaginato come dimora felice dell’uomo e della donna primigenio Il testo biblico conserva la memoria del politeismo sumerico, originariamente connesso con la raffigurazione del giardino di Eden, in uno dei termini che usa per designare Dio, e cioè Elhoim, che è un plurale. E Adamo è un nome tratto da una espressione della lingua sumera, ada-mu, che vuol dire “padre mio”.
I più antichi miti religiosi, oltre a contenere i relitti mnestici di remotissime esperienze storiche, condensano anche, nei loro racconti storicamente più inverosimili, grandi verità umane, sia pure espresse in forma non razionale, e nascoste sotto il velo della pura immaginazione. Ben lo sapeva Platone, quando parlava del mito come narrazione menzognera nella quale si trovava tuttavia una verità. E ben lo sapeva Hegel, quando definiva il livello più autentico e profondo della religione come comprensione dell’Assoluto nella forma della rappresentazione mitica, anziché in quella del concetto razionale.
Una maniera di cominciare a riflettere sulla natura della verità umana nella sua dimensione assiologica può dunque essere quella di interrogare il mito biblico del giardino di Eden. Ciò di cui esso essenzialmente ci parla è infatti la conoscenza del bene e del male, rappresentata dal frutto di un albero posto in mezzo al giardino paradisiaco di Dio. Tutti i momenti in cui la sua narrazione si articola riguardano questo frutto, che è oggetto prima della proibizione divina, poi del discorso tentatore del serpente, quindi della disobbedienza umana, ed è successivamente causa della paura dell’uomo, della preoccupazione di Dio, e della cacciata della coppia primigenia dal giardino di Eden. Può dunque essere interessante capire quale intreccio di significati si celi nell’immaginaria rappresentazione dell’albero del giardino di Eden.
La fondamentale questione interpretativa concerne, in proposito, il perché il frutto proibito da Dio sia proprio quello che pende dall’albero della conoscenza del bene e del male. Perché, cioè, il mito presenta il desiderio umano di comprendere la natura della distinzione tra il bene e il male come tentazione da evitare?
La risposta usuale a questa domanda è che la conoscenza del bene e del male a cui si riferisce la narrazione biblica indica in realtà il potere di stabilire cosa sia bene e cosa sia male. L’uomo che mangia il frutto proibito sarebbe dunque l’uomo che rifiuta il riconoscimento di una tavola di valori precostituita da Dio, e che pretende di farsi lui stesso creatore del suo proprio ordinamento morale. Si tratta di una risposta che emerge quasi naturalmente da una lettura moderna del testo biblico, sia perché è suggerita, in maniera magari inconsapevole, da una tradizione culturale sul peccato originale che percorre tanta parte della nostra storia, sia perché risulta per un verso tranquillizzante per la coscienza cristiana, e per un altro verso corrispondente alle inclinazioni dell’odierno pensiero post-metafisico. Il sacrificio redentore di Cristo, che è al centro della coscienza cristiana, appare infatti necessario proprio sulla base di un originario rifiuto, da parte dell’uomo, del fondamento divino dell’ordine morale. E la morte di Dio avviene, nell’orizzonte post-metafisico dei nostri tempi, proprio nella misura in cui l’uomo si pensa creatore autonomo di ogni sua norma.
L’albero del giardino di Eden racchiude davvero questi significati? Nel mito originario certamente no. Essi sono stati proiettati sul mito soltanto da una sensibilità culturale formatasi in epoche successive. Nel mito originario, infatti, la condizione umana prima della tentazione non è quella di un obbediente riconoscimento della distinzione tra il bene e il male voluta da Dio. È piuttosto uno stato anteriore ad ogni coscienza etica, tanto è vero che Dio si accorge che l’uomo ha ceduto alla tentazione proprio perché lo trova impaurito della sua nudità. La narrazione biblica non dice affatto, poi, che, mangiato il frutto proibito, l’uomo ha rifiutato il fondamento divino dell’ordine morale, ed ha preteso di stabilire lui stesso cosa sia il bene e cosa sia il male. Essa dice bensì che l’uomo si è reso simile a Dio, non però per la creazione, ma per la conoscenza dell’ordine morale. Nel mito, cioè, la distinzione tra il bene e il male sussiste senza essere creata, neppure da Dio, e Dio è divino perché ne conosce la natura, cosicché l’uomo stesso diventa divino quando arriva a conoscerla, cibandosi del frutto dell’albero del giardino di Eden. Non dimentichiamo che nella narrazione biblica Dio esclama, una volta saputo che l’uomo ha mangiato il frutto proibito: «Ecco l’uomo è diventato come uno di noi, avendo acquistato la conoscenza del bene e del male». È dunque la conoscenza del bene e del male, non la sua creazione, non la sua statuizione, che appartiene alla sfera divina.
Torna a questo punto, ancora inevasa, la questione fondamentale. Perché il frutto che pende dall’albero della conoscenza del bene e del male è proibito da Dio? Perché il desiderio umano di comprendere la natura della distinzione tra il bene e il male è quindi raccontato come una tentazione da evitare? Se la conoscenza dell’ordine etico appartiene alla sfera divina, non è forse la cosa più bella che l’uomo, potendolo, si renda divino acquisendo tale conoscenza?
Gli dèi degli antichi miti religiosi sono spesso gelosi degli uomini, perché temono le grandi potenzialità della specie umana. Essi temono, cioè, che alcuni uomini possano utilizzare tali potenzialità per usurpare il loro superiore rango divino. Perciò proibiscono agli uomini la piena utilizzazione delle facoltà umane, cosicché la mitica umanità primigenia deve confrontarsi con la tentazione proibita di rendersi divina. Se essa cede a questa tentazione, gli dèi la puniscono con una mutilazione permanente, che la allontana per un altro verso dal rango divino. Nasce così la natura umana attuale, che incorpora in se stessa un aspetto divino, acquisito seguendo la tentazione originaria, ma riequilibrato da un elemento dissolutivo di ogni perfezione, che costituisce la punizione per la colpa originaria dell’uomo di aver voluto diventare dio. La mitica vicenda della tentazione, della colpa e della punizione è quindi esplicitamente riferita ad una umanità non più esistente, e non ancora umana nel senso attuale del termine. Essa rappresenta dunque un puro giuoco dell’immaginazione, costruito come presupposto narrativo, come genesi fantastica degli elementi formativi della natura umana attuale.
Perché allora nel mito del giardino di Eden il frutto proibito da Dio è quello che pende dall’albero della conoscenza del bene e del male? Perché la comprensione della natura del bene e del male si colloca al di sopra della vita biologica, in una sfera divina. L’uomo che comprende la natura del bene e del male possiede quindi un dono divino, ovvero diventa lui stesso divino in questa sua conoscenza. Ma Dio è personificato dal mito in un essere creatore che non tollera alcuna condivisione della sua divinità da parte delle sue creature. Il mitico frutto che dona la conoscenza del bene e del male è dunque un frutto proibito per l’uomo, perché cibarsi di esso significa sfidare la gelosia di Dio, elevandosi al suo stesso piano divino, e attirando perciò la sua punizione.
L’uomo a cui il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male è proibito non è però, nel mito, l’uomo storicamente esistente, bensì l’uomo primigenio. Quando comincia la storia umana fuori dal giardino di Eden, infatti, l’uomo ha ormai mangiato quel frutto, e si è già attirato la punizione di Dio. All’uomo storicamente esistente, quindi, non è più interdetta la sfera divina della conoscenza del bene e del male, dato che essa fa ormai parte della sua natura, già irreversibilmente elevata al di sopra della vita biologica. Questa capacità divina, che era proibita all’uomo primigenio, e che invece l’uomo storico è chiamato ad esercitare, non rende tuttavia divina la persona umana, in quanto è sempre imprescindibilmente connessa ad un elemento che l’uomo è stato costretto ad incorporare nella sua natura come punizione per la colpa originaria, e che ristabilisce una distanza abissale tra la persona umana e quella divina.
L’elemento riequilibratore che fa risprofondare nella biologia animale anche l’aspetto divino acquisto dalla natura umana, vale a dire la mutilazione permanente inflitta all’essere umano come punizione per la colpa originaria, è nel mito biblico la mortalità dell’uomo. La verità che quel mito esprime e cela nella vicenda immaginaria della sua narrazione è dunque la connessione indissolubile, nella natura umana, tra il suo destino di morte e la sua possibilità di comprendere il bene e il male. La morte, cioè, si prospetta anticipatamente all’uomo come necessità ineludibile della sua esistenza perché l’uomo sa cosa sono il bene e il male.
È questo ciò che il mito del giardino di Eden essenzialmente ci dice. In tutto il corso della sua narrazione, infatti, l’albero della conoscenza del bene e del male si trova in relazione con un altro albero speciale, quello della vita. Di questo secondo albero non ci viene detto inizialmente nulla se non che si trova anch’esso nel giardino di Eden. Ma quando Dio si accorge che l’uomo ha ormai mangiato il frutto proibito, esclama: «Ecco, l’uomo è diventato come uno di noi, avendo acquistato la conoscenza del bene e del male. Devo ora fare attenzione a che non stenda la mano per prendere anche il frutto dell’albero della vita, e mangiandolo viva per sempre». Il senso è come si vede molto chiaro: l’uomo non può mangiare il frutto dell’albero della vita, cioè allontanare la morte dal suo orizzonte, perché è diventato come un dio attraverso l’acquisto della conoscenza del bene e del male. Prima di tale acquisto, ovvero in un immaginario tempo anteriore alla storia, l’uomo aveva a sua disposizione, in mezzo al suo giardino, l’albero della vita, il cui frutto non gli era stato proibito. La sua evoluzione era quindi ancora in bilico, perché avrebbe potuto, mangiando quel frutto, ricadere in una totale immedesimazione con l’immediatezza della sua vita, retrocedendo così al livello degli altri animali, che vivono al di fuori di ogni rapporto con la morte. Ma l’uomo primigenio, dice il mito, non ha avuto l’occasione di mangiare il frutto dell’albero della vita prima di essere stato spinto a mangiare quello dell’albero della conoscenza del bene e del male. Si è così avuto il salto evolutivo che lo ha portato definitivamente oltre la restante animalità. Ne è derivato l’uomo storico, elevato al di sopra della vita meramente biologica da una capacità di conoscere non più animale, bensì divina. La parte conclusiva del mito narra come proprio per questa sua capacità divina l’uomo storico sia stato condannato a percorrere la sua storia fuori dal giardino di Eden. All’ingresso di quel giardino, narra il mito, Dio ha posto due cherubini con le spade fiammeggianti, incaricati di tenere l’uomo per sempre lontano dall’albero della vita. L’uomo storico è così costretto, proprio perché è elevato al di sopra della vita meramente biologica da una divina capacità di conoscenza, a mantenere tale elevazione anche attraverso quel distacco dall’immediatezza vitale che è costituito dalla coscienza della certezza della morte. Sapere il bene e il male e sapere la morte sono dunque due lati indisgiungibili di una stessa realtà, che non è né animale né divina, ma specificamente umana. Questo ci dice il mito. Si tratta ora di vedere quanto questa verità del mito rimanga vera alla luce della ragione.
Massimo Bontempelli, La conoscenza del bene e del male, Petite Plaisance, Pistoia 1998- 2001, pp. 11-18.
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