Ngugi Wa Thiong’o’ – Bisogna Decolonizzare la mente. Il mezzo più potente di cui si serve l’imperialismo post-coloniale è il linguaggio.
Se vuoi assoggettare i corpi, usa catene e cannoni. Ma i cannoni e le catene non bastano, ti serve qualcosa come una calamita, che da un lato respinge, dall’altro subdolamente attrae, a seconda di come la volti. Qualcosa che se allontanata retoricamente da te, rimane concretamente dentro di te. La conquista dell’Africa è stata fatta con i cannoni, ma per rendere eterna tale conquista dovevano intervenire sulle scuole, sulla formazione delle élites, trasformare la pluralità in una sorta di monoglottismo del capitale.
Dovevano incantare l’anima e la mente, asservendole silenziosamente. Per questa ragione, si presenta con urgenza la necessità di decolonizzarle, partendo dal mezzo più potente di cui si è servito l’imperialismo coloniale e ancora si serve l’imperialismo post-coloniale: il linguaggio.
In Africa, il portoghese, il francese e l’inglese sono state le lingue del potere, le lingue del governo e di tutta l’amministrazione. Sono state le lingue della classe media e della borghesia e di chi poteva permettersi di «studiare». La borghesia acculturata è così entrata di fatto a far parte di una comunità basata su uno standard europeo di cultura. […] In questa prospettiva imperialista, studiare significava allora, entrare in quel sistema linguistico e di valori, un sistema molto selettivo e riduttivo, che riproduce perpetuamente le stesse logiche di dominio da cui è partito.
Premesse e conclusioni non differiscono e nel mezzo c’è sfruttamento dell’altro, non meno che autosfruttamento di sé. La povertà culturale non è meno devastante di quella linguistica. Proprio perché la lingua è invece strumento per mediare fra me e gli altri, fra la mia e le altre identità, e crea diversità come ricchezza.
[…] Mai come oggi la borghesia africana subisce l’influenza della lingua inglese, vietando ai propri figli di apprendere, parlare, scrivere in una delle lingue africane. La classe media pensa che i propri figli, i figli dei borghesi di oggi, saranno i borghesi di domani. La futura classe dirigente deve così perpetuare il monolinguismo, la sudditanza, lo svuotamento.
La loro mente è colonizzata, una mente colonizzata dalla lingua dominante. Per questa ragione, il futuro dell’Africa mi preoccupa molto. Mi preoccupa l’abbandono, non più imposto con la sola coercizione fisica, ma da una sorta di disciplinamento delle anime. Sono strategie sottili, che l’imperialismo conosce molto bene, perché l’imperialismo è un serpente, striscia e si insinua dove meno te ne accorgi.
Oggi questo l’imperialismo si è incanalato per vie che non sono solo quelle delle braccia o delle schiene ricurve dalla fatica. È un imperialismo che è arrivato a lambire la coscienza, trasformando in falsa coscienza quello che viene però proclamato come autocoscienza.
Ngugi Wa Thiong’o’, Decolonizzare la mente. La politica della lingua nella letteratura africana, trad. di Maria Teresa Carbone, Jaca Book, Roma 2015.
I quattro testi di Ngugi Wa Thiong’o che compongono “Decolonizzare la mente”, sono la summa di un pensiero che si è andato formando con anni di studio e con dolorose esperienze vissute in prima persona; in particolare la scelta di scrivere una pièce di critica al potere nella sua lingua madre, il gikuyu, in modo da poter essere compreso da ogni strato di pubblico, gli costò nel 1978 un anno di detenzione. Fu in quei mesi che l’autore maturò la convinzione che “l’arma più grande scatenata ogni giorno dall’imperialismo contro la sfida collettiva degli oppressi è la bomba culturale, una bomba che annulla la fiducia di un popolo nel proprio nome, nella propria lingua, nelle proprie capacità e in definitiva in se stesso”. In tal senso, questo volume anche oggi può dire molto ai lettori occidentali che vogliano osservare criticamente i fenomeni connessi alla globalizzazione e gli effetti di una politica culturale omologante.