Agus Morales – Non sono soltanto migranti e rifugiati. Sono donne e uomini come noi. tutti siamo in procinto di un esodo. Comunicazione e orientamento sono i nuovi bisogni urgenti per tutti. Questa è crisi dei diritti umani e della dignità.

Agus Morales 01

«Che stirpe d’uomini è questa? O quale mai tanto barbara patria permette questi usi? Ci nega accoglienza alla riva, viene a aggredirci, e ci scaccia dal margine estremo del lido. Se disprezzate il genere umano e le armi mortali, temete almeno gli dèi, memori di giustizia e iniquità».

Virgilio, Eneide, I, 539-43 .

«Perché mai hanno bisogno di aiuto? – si chiedono alcuni.
– Hanno i soldi, pagano i trafficanti, non sono indifesi.
Perché non vendono i loro cellulari, le loro proprietà? Ci sono persone più bisognose.

Come se in quel viaggio contasse di più restare un giorno a digiuno piuttosto che orientarsi e comunicare con altri che si trovano più a nord – quelli che sanno quali frontiere stanno chiudendo, quelli che possono avvisare dei pericoli –, come se la bussola non fosse ciò di cui si ha più bisogno nel deserto. […] Non si tratta di una crisi nutrizionale in Africa o di una guerra in Medio Oriente, bensì di una crisi dei diritti umani e della dignità. I bisogni erano altri: la comunicazione e l’orientamento erano per tutti i piu urgenti. Se domani bombardassero Barcellona [la città di Morales], l’ultima cosa che lascerei a casa sarebbe il cellulare».

Agus Morales, Non siamo rifugiati. Viaggio in un mondo di esodi, traduz. di Sara Cavarero, Einaudi, Torino 2018, pp. 74, 195.

«Ora, poiché sei giunto nella nostra città e nella nostra terra
non ti saranno negate né vesti né nulla di quanto
si conviene offrire a un misero supplice.
Ti indicherò la città e ti dirò il nome dei suoi abitanti».

Omero, Odissea, VI, 191 ss.
Così si rivolge Nausicaa a Odisseo sfinito sulla spiaggia di Scheria, l’isola dei Feaci.

In calce rassegna di Altre letture

Agus Morales segue le orme degli esiliati della terra, dà voce a coloro che sono stati obbligati a fuggire.
«La forza di Morales, che fa sua la lezione del miglior Kapuscinski, è di raccontare da vicino la vastità, e la varietà, della galassia di chi si muove per ragioni umanitarie o economiche, un popolo in marcia nei confini dei propri stati o da questi a quelli più vicini, dall’Africa verso l’Europa e dall’America del sud verso quella del nord.»Angelo Mastrandrea
Viviamo nel momento della storia che presenta il maggior numero di persone sradicate dal proprio Paese. Non è una crisi dell’Europa. È una crisi del mondo. Un mondo di esodi.
Viaggia alle origini del conflitto in Siria, Afghanistan, Pakistan, Repubblica Centrafricana e Sudan del Sud. Cammina con i centroamericani che attraversano il Messico e con i congolesi che fuggono dai gruppi armati. Si addentra sulle strade piú pericolose, segue i salvataggi nel Mediterraneo, conosce le umiliazioni che soffrono i rifugiati in Europa. E sbarca presso l’ultima frontiera, la piú dura e la piú difficile da attraversare: l’Occidente. Si è ormai arrivati alla costruzione dell’immagine del rifugiato come il nemico contemporaneo. L’immagine del rifugiato è il volto piú immediato di questo cambiamento storico: il terreno simbolico su cui si discute il nostro futuro in comune. Oggi ci sono decine di milioni di persone che non sono rifugiati perché non diamo loro asilo. Chissà se tutti – anche noi – tra una decina d’anni, non saremo rifugiati.

Agus Morales (Barcellona, 1983) ha dedicato una decina d’anni a raccontare le vittime di guerra e i rifugiati. È stato corrispondente dell’Agenzia EFE nel sud-est asiatico, dove ha trascorso piú di cinque anni tra India e Pakistan. Ha lavorato tre anni con Medici Senza Frontiere seguendo i movimenti delle popolazioni in Africa e in Medio Oriente. Attualmente è reporter freelance e collabora, tra l’altro, con l’edizione spagnola del «New York Times». Ha seguito la morte di Osama Bin Laden, l’epidemia di ebola in Africa occidentale e l’odissea dei migranti nel Mediterraneo. È direttore della rivista di cronaca internazionale «5W» e dottore in Teoria della letteratura e letteratura comparata presso la UAB con una tesi dedicata a Rabindranath Tagore, la sua passione segreta. Per Einaudi ha pubblicato Non siamo rifugiati (2018).

Altre letture



Aulo Gellio (125-180) – Humanitas è paidéia. Coloro che con sincerità aspirano ad esse, sono di gran lunga i più umani (“vel maxime humanissimi).

Aulo Gellio 01


Qui verba Latina fecerunt quique his probe usi sunt, “humanitatem” non id esse voluerunt, quod volgus existimat quodque a Graecis philanthropia dicitur et significat dexteritatem quandam benivolentiamque erga omnis homines promiscam, sed “humanitatem” appellaverunt id propemodum, quod Graeci paideian vocant, nos eruditionem institutionemque in bonas artis dicimus. Quas qui sinceriter cupiunt adpetuntque, hi sunt vel maxime humanissimi. Huius enim scientiae cura et disciplina ex universis animantibus uni homini datast idcircoque “humanitas” appellata est.

 

Coloro che hanno creato le parole latine e coloro che le hanno usate correttamente, non hanno voluto che humanitas significasse ciò che significa nell’uso comune e che i Greci definiscono col termine philanthropia: ossia una disponibilità e una benevolenza rivolta indiscriminatamente verso tutti gli uomini. Piuttosto hanno usato humanitas nel senso in cui i Greci usano paidéia, ciò che noi definiamo piuttosto erudizione ed educazione nelle arti liberali. Infatti, coloro che con sincerità ambiscono e aspirano ad esse, sono anche di gran lunga i più umani (vel maxime humanissimi), perché la ricerca di queste conoscenze e l’educazione che ne deriva, fra tutti gli esseri animati sono state concesse solo agli uomini. Ecco perché è chiamata humanitas.

 

Aulio Gellio, Noctes Atticae, XIII, 17.


Aulo Gellio così come raffigurato
nel frontespizio dell’edizione delle Noctes Atticae,
pubblicata nel 1706 dai filologi Johann Friedrich e Jacob Gronov

Chimamanda Ngozi Adichie – Le ragazze diventano donne che non sanno di avere dei desideri. Crescono e diventano donne che si reprimono. Crescono e diventano donne che non possono dire ciò che pensano. Crescono – ed questa è la cosa peggiore – e diventano donne che fanno della finzione un’arte.

Chimamanda Ngozi Adichie 01

Questa è la versione rivista di un intervento che ho tenuto nel dicembre del 2012 alla TEDxEuston Conference, un incontro annuale dedicato all’Africa in cui oratori provenienti da varie discipline pronunciano brevi discorsi con l’obiettivo di scuotere e ispirare un pubblico formato da africani e amici dell’Africa. Qualche anno prima avevo partecipato a un’altra TED Conference con un intervento intitolato The danger of the single story, in cui mostravo come gli stereotipi limitano e plasmano il nostro modo di pensare, soprattutto riguardo all’Africa. Ho l’impressione che la parola «femminista», e l’idea stessa di femminismo, siano altrettanto limitate dagli stereotipi. Quando mio fratello Chuks e il mio migliore amico Ike, entrambi organizzatori della TEDxEuston Conference, hanno insistito perché partecipassi, non ho potuto rifiutare. Ho deciso di parlare di femminismo perché è una cosa che mi tocca da vicino. Avevo il sospetto che non fosse un tema molto popolare, ma speravo di avviare un confronto necessario. E cosí quella sera, sul palco, mi sembrava di avere di fronte dei parenti: un pubblico benevolo e attento, ma che avrebbe potuto non apprezzare l’argomento del mio discorso. Alla fine, la loro standing ovation mi ha dato speranza.


In questo saggio molto personale, scritto con grande eloquenza – frutto dell’adattamento di una conferenza TEDx dal medesimo titolo di straordinario successo – Chimamanda Ngozi Adichie offre ai lettori una definizione originale del femminismo per il XXI secolo. Attingendo in grande misura dalle proprie esperienze e riflessioni sull’attualità, Adichie presenta qui un’eccezionale indagine d’autore su ciò che significa essere una donna oggi, un appello di grande attualità sulle ragioni per cui dovremmo essere tutti femministi. In un contesto in cui il femminismo era considerato un ingombrante retaggio del secolo scorso, la posizione di Adichie ha cambiato i termini della questione. Alcuni brani della sua conferenza sono stati campionati da Beyoncé nel brano Flawless e hanno fatto il giro del mondo. La scritta FEMINIST a caratteri cubitali come sfondo della performance dell’artista agli Mtv Video Music Awards e il famoso discorso dell’attrice Emma Watson alle Nazioni Unite in cui si dichiara femminista sono segni evidenti del fatto che c’è un prima e un dopo “Dovremmo essere tutti femministi”.
 
Ecco alcuni stralci di un intervento di questa scrittrice nigeriana al TED X talk
 

Ma la cosa di gran lunga peggiore che facciamo agli uomini, è costringerli a pensare di dover essere dei duri e il lasciarli con un ego molto fragile. Più gli uomini sentono di dover essere degli “uomini duri” più il loro ego è debole. Facciamo un danno anche più grande alle ragazze perché le educhiamo a compiacere il fragile ego degli uomini. Insegniamo loro a limitarsi, a farsi più piccole, diciamo alle ragazze: “Puoi essere ambiziosa, ma non troppo.”
“Dovresti ambire ad avere successo, ma non troppo, altrimenti minaccerai l’uomo.” Se sei colei che porta i soldi a casa in una relazione devi far finta di non esserlo, specialmente in pubblico, altrimenti lo castreresti.

E se rimettessimo in discussione la premessa? Perché il successo di una donna deve essere una minaccia per un uomo? Se decidessimo di liberarci semplicemente di questa parola, non c’è parola in inglese che io detesti di più di “castrazione”. Un conoscente nigeriano mi ha chiesto una volta se non avessi paura di intimidire gli uomini. Non ero per niente preoccupata. Non ho mai avuto questa preoccupazione perché un uomo che si sente intimidito da me è proprio il tipo di uomo che non mi interessa affatto.

Tuttavia questa domanda mi ha colpita. Dato che sono una donna, ci si aspetta che aspiri al matrimonio. Ci si aspetta che prenda le mie decisioni tenendo sempre in mente che il matrimonio è la più importante. Il matrimonio può essere una buona cosa: una fonte di gioia, di amore e di supporto reciproco. Ma perché insegniamo alle ragazze ad aspirare al matrimonio e non lo insegniamo ai ragazzi?

Conosco una donna che ha deciso di vendere casa perché non voleva intimidire l’uomo che avrebbe potuto sposarla. Conosco una donna non sposata in Nigeria che, quando va alle conferenze, porta una fede al dito perché in questo modo vuole che gli altri partecipanti le “diano rispetto”. Conosco molte donne giovani che subiscono la pressione della famiglia, degli amici, anche al lavoro perché si sposino e sono spinte a fare delle scelte terribili. A una certa età una donna che non è sposata è spinta dalla società a sentire un enorme senso di fallimento personale. Di un uomo che a una certa età non è ancora sposato, pensiamo solo che non si sia ancora deciso a scegliere. È facile dire: “Le donne sono libere di dire no a tutto questo”. La realtà è più difficile e più complessa di così. Siamo tutti esseri sociali. Assimiliamo le idee dalla nostra società. Persino il linguaggio che usiamo quando parliamo di matrimonio e relazioni lo dimostra. Il linguaggio del matrimonio è spesso la lingua della proprietà piuttosto che della collaborazione. Usiamo la parola “rispetto” per descrivere qualcosa che una donna mostra a un uomo ma spesso non ciò che un uomo mostra a una donna.

Così le ragazze diventano donne che non sanno di avere dei desideri. Crescono e diventano donne che si reprimono. Crescono e diventano donne che non possono dire ciò che pensano. Crescono – ed questa è la cosa peggiore – e diventano donne che fanno della finzione un’arte.



Eschilo (525-456 a.C.) – C’è bisogno di un pensiero profondo, salvifico, che si immerga nell’abisso come un tuffatore dallo sguardo limpido, sgombro dall’ebrezza del vino, così che rovina non tocchi la città …

Eschilo023

C’è bisogno di un pensiero profondo,
salvifico, che si immerga nell’abisso
come un tuffatore dallo sguardo limpido,
sgombro dall’ebrezza del vino,
onde rovina non tocchi la città …

 

Eschilo, Supplici, 407 ss.

 

Le Danaidi di J.W. Waterhouse

Eschilo (525-456 a.C.) – «Specchio dell’immagine è il bronzo, ma il vino lo è della mente».
Eschilo (525-456 a.C.) – «È bello anche da vecchio imparare la saggezza».

William H. Davies (1871-1940) – Che cos’è la vita se non abbiamo il tempo di fermarci e sostare? Nessun tempo per vedere fiumi pieni di stelle, come i cieli di notte. È una vita povera questa.

Davies William H. 01
Tempo liberato

Che cos’è la vita se, piena di preoccupazioni,
non abbiamo il tempo di fermarci e sostare?
[…]
Nessun tempo per vedere, quando si attraversano i boschi
dove gli scoiattoli nascondono le noci nell’erba.
Nessun tempo per vedere, in pieno giorno
fiumi pieni di stelle, come i cieli di notte.
[…]
È una vita povera questa, se piena di preoccupazioni
non abbiamo il tempo di fermarci e sostare.

William H. Davies

da Songs of Joy and Others (1911)

Henry David Thoreau (1817-1862) – È impossibile descrivere l’infinita varietà di sfumature della natura. Per descrivere queste foglie si dovranno usare parole colorate.

Henry David Thoreau 02

È impossibile descrivere l’infinita varietà di sfumature, toni e gradazioni perché la nostra lingua non ha nomi per tutti e noi siamo costretti ad usare lo stesso termine per designare venti cose diverse. Se potessi mostrare altrettanti alberi diversi o anche foglie diverse, l’effetto potrebbe essere differente, ma il fatto è che anche quando i colori sono gli stessi, essi variano talmente in purezza e in delicatezza che la nostra tavolozza, non solo dovrebbe essere straordinariamente arricchita per descriverli, ma addirittura tingersi degli stessi colori e poter così parlare all’occhio non meno che all’orecchio […]. Per descrivere queste foglie si dovranno usare parole colorate.

Henry David Thoreau, Vita di uno scrittore (I Diari), a cura di Biancamaria Tedeschini Lalli , Ed. Neri Pozza, Vicenza 1963, pp. 300-302.


Henry David Thoreau (1817-1862) – Questa è la biblioteca, ma il mio studio è là fuori, oltre la porta. Credo che non esista niente – neppure il crimine – maggiormente contrario alla poesia, alla filosofia e alla vita stessa che questa incessante smania per il business.


Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – Cosa di più bello avrei potuto fare nella mia vita se non affidare alla scrittura ciò che è di grande utilità per gli uomini e portare alla luce per tutti la vera natura delle cose?

Platone Lettera VII 01

 

[…] εἰ δέ μοι ἐφαίνετο γραπτέα θ’ ἱκανῶς εἶναι πρὸς τοὺς πολλοὺς καὶ ῥητά, τί τούτου κάλλιον ἐπέπρακτ’ ἂν ἡμῖν ἐν τῷ βίῳ ἢ τοῖς τε ἀνθρώποισι μέγα ὄφελος γράψαι καὶ τὴν φύσιν εἰς φῶς πᾶσιν προαγαγεῖν;

«Se davvero pensassi che sia possibile scrivere queste cose esprimendole in modo adatto a molti lettori, che cosa di più bello avrei potuto fare nella mia vita se non affidare alla scrittura ciò che è di grande utilità per gli uomini e portare alla luce per tutti la vera natura delle cose [καὶ τὴν φύσιν εἰς φῶς πᾶσιν προαγαγεῖν]?».

Platone, Lettera VII, 341 d.

Platone, «Filebo» – Senza possedere né intelletto né memoria né scienza né opinione vera, tu saresti vuoto di ogni elemento di coscienza
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – Coloro che sono privi della conoscenza di ogni cosa che è, e che non hanno nell’anima alcun chiaro modello, non possono rivolgere lo sguardo verso ciò che è più vero e non possono istituire norme relative alle cose belle e giuste e buone.
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – Le relazioni con gli stranieri sono atti di particolare sacralità. Lo straniero si trova ad essere privo di amici e parenti, e quindi è affidato in modo particolare alla solidarietà degli dei e degli uomini. Non c’è colpa peggiore per un uomo che un torto fatto ai supplici
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – Non esiste male maggiore che un uomo possa patire che prendere in odio i ragionamenti. L’odio contro i ragionamenti, e quello contro gli uomini, nascono nella stessa maniera.
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – È questo il momento nella vita che più di ogni altro è degno di essere vissuto da un essere umano: quando contempla il bello in sé. La misura e la proporzione risultano essere dappertutto bellezza e virtù.
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – L’educazione è l’orientamento dell’anima alla virtù. La virtù è il piacere verso ciò che bisogna amare e l’avversione verso ciò che bisogna odiare
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – Non il vivere è da tenere in massimo conto, ma il vivere bene. E il vivere bene è lo stesso che vivere con virtù e con giustizia. Per nessuna ragione si deve commettere ingiustizia.
Platone & Aristotele – Il principio della filosofia non è altro che esser pieni di meraviglia, perché si comincia a filosofare a causa della meraviglia.
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – È infatti la costituzione dello Stato che forma gli uomini, buoni, se essa è buona, malvagi in caso contrario.


Salvatore Bravo – La libertà è solo nella verità. L’alternativa è l’eristica, l’argomentare/battagliare sofistico e liberticida. La libertà è l’armonia dialettica tra soggetto e comunità. Libertà è relazione tra teoria e prassi. Senza la verità non vi è libertà.

György Lukács 020
Salvatore Bravo

La libertà è solo nella verità.
L’alternativa è l’eristica, l’argomentare/battagliare sofistico e liberticida.

La libertà è l’armonia dialettica tra soggetto e comunità.
Libertà è relazione tra teoria e prassi.

Senza la verità non vi è libertà.

 

 

Democrazia e capitalismo assoluto
I processi di dominio ed alienazione sono la verità del capitalismo assoluto. La pratica del capitalismo assoluto agisce secondo due direzioni convergenti: la struttura e la sovrastruttura speculari l’una all’altra. Il fine è non lasciare tempo e spazio per il pensiero e sostituirlo con il calcolo. La fase del rispecchiamento del capitalismo diviene così totalitaria. In assenza di discrepanze tra struttura e sovrastruttura non resta che il pensiero omologato e la necrosi della democrazia. Se la democrazia sopravvive perché è usata come mezzo ideologico contro i sovvertitori dell’ordine mondiale, la motivazione è da riscontrarsi nella sua riduzione a forma giuridica privata di ogni partecipazione sostanziale.
La “democrazia del capitale” rende sostanziale i diritti delle merci ed il loro feticismo, infatti possono circolare senza limiti nello spazio concreto e virtuale, attraversano l’etere per colonizzare le menti mediante le tecnologie. L’atmosfera al tempo del capitalismo assoluto è inquinata dall’invisibile circolazione di frequenze che trasportano messaggi commerciali; il capitalismo non lascia nessuno spazio libero: visibile ed invisibile si ritrovano accumunati nella densità quantitativa e calcolante.
Nel Timeo il Demiurgo soffiava nel corpo del cosmo per vivificarlo, donandogli un’anima unica che tutti accomuna; il capitalismo assoluto soffia nello spazio e nel tempo per dividere, per frammentare e lasciare dietro di sé un mondo fatto unicamente di cose. L’effetto di tale pratica non è solo la divisione e la formazione di individui anti-comunitari, ma una miriade di specializzazioni che consentono di acquisire un numero notevole di informazioni tecniche, ma inibiscono ogni pensiero della totalità.
Democrazia senza verità e senza prassi.
Pertanto, non resta che il calcolo nichilistico delle tecniche di produzione e controllo, a cui si è passivamente sussunti.
György Lukács coglie la profondità della crisi della democrazia occidentale, e nel contempo analizza nell’Unione Sovietica l’altro volto della stessa crisi: il neopositivismo imperante della burocrazia di Stato che, mentre controlla, nega la libertà consapevole della prassi, il farsi della libertà nelle circostanze storiche in cui gli esseri umani vengono a trovarsi. Il comunismo avrebbe dovuto fondare il regno della libertà, ma al suo posto non vi è che il potere sovietico speculare, seppure in in modo differente, al potere del capitalismo.

Verità e democrazia sostanziale
L’arsura della libertà è globale. G. Lukács ne analizza il suo realizzarsi per riflettere sulla grande possibilità della Rivoluzione russa di fondare una democrazia sostanziale trascendendo i limiti della democrazia borghese. La scomposizione del mondo in settori tecnici riafferma un mondo in cui non solo i settori della conoscenza, ma anche l’essere umano è disperso in funzioni, le quali alimentano il pensiero calcolante incompatibile con la partecipazione politica, la quale presuppone la capacità di intendere la totalità-verità, in modo da mettere in pratica processi collettivi trasformativi. Il pensiero calcolante e positivista è profondamente conservatore, poiché consente – al capitale come al comunismo burocratizzato – di ipostatizzarsi:

«Il processo si trasforma in una riunione obbiettiva di sistemi razionalizzati parziali, la cui unità è determinata soltanto calcolisticamente e che debbono quindi presentarsi in una reciproca accidentalità. La scomposizione razional-calcolistica del processo lavorativo annienta la necessità organica delle operazioni parziali che sono reciprocamente collegate e che arrivano ad unificarsi nel prodotto. L’unità del prodotto come merce non coincide più con la sua unità come valore d’uso: l’autonomizzazione tecnica delle manipolazioni parziali nelle quali essa sorge, mentre la società si trasforma da parte a parte in senso capitalistico, si esprime anche sul terreno economico come autonomizzazione delle operazioni parziali, come relativizzazione crescente del carattere di merce di un prodotto ai diversi gradi della sua produzione. Ed a questa possibilità di operare una scissione spazio-temporale nella produzione di un valore d’uso è di solito associata la connessione spazio-temporale di manipolazioni parziali che si riferiscono a loro volta a valori d’uso del tutto eterogenei».[1]

 

Rivoluzione russa: Trockij
La Rivoluzione russa è stata il luogo politico in cui le scissioni potevano risolversi per ricostituire l’unità aprendo alla libertà. Le condizioni storiche terribili in cui la Rivoluzione al suo esordio ha dovuto operare non ha impedito la discussione interna e il confronto tra modelli politici diversi di sviluppo della democrazia. Trockij proponeva non solo l’industrializzazione veloce – in quanto l’Unione Sovietica era in fortissimo ritardo rispetto all’Occidente aggressore – ma sosteneva specialmente la burocratizzazione dei sindacati, poiché la classe operaia non necessitava di corpi medi di discussione, in quanto Stato comunista.
Il comunismo era, in realtà, soltanto formale, perché l’uomo comunista doveva ancora delinearsi. Il potere politico formale non corrispondeva alla realizzazione effettiva dell’uomo e della donna comunisti, in quanto solo un lungo processo storico di crescita collettiva può formare ad una nuova prassi delle relazioni umane. Anche in questo caso le circostanze storiche ostili inducono ad una scelta che deve rispondere ai bisogni immediati degli uomini e delle donne e specialmente alla difesa dello Stato comunista:

«Poiché Trockij aveva divulgato un progetto d’una sorta di statalizzazione dei sindacati, così da poterne utilizzare le possibilità organizzative per elevare la produzione, cosa che a lui sembrava fattibile in quanto riteneva che in uno Stato operaio fosse superfluo proteggere specificatamente i lavoratori dal proprio Stato, Lenin precisò che in realtà quello era “uno Stato operaio con una deformazione burocratica”».

 

Lenin
Lenin dinanzi alla proposta politica di Trockij dimostra una maggiore consapevolezza. Il comunismo può sopravvivere solo se tiene fede al progetto politico in cui uomini e donne credono e sperano nel regno della libertà. Se tradirà le sue premesse, se non sarà capace di mediare le condizioni storiche con la teleologia ideale comunista, il fallimento sarà probabile. Lo sguardo politico di Lenin si volge dal presente verso il futuro. Il comunismo può diventare un’opportunità di riscatto universale solo se conserva, malgrado gli arretramenti e le contraddizioni, la chiarezza degli obiettivi. Se ricade in forme di dominio dell’uomo sull’uomo, non è che una diversa versione del capitalismo che si connota per lo sfruttamento. Nel comunismo e nell’estinzione dello Stato si addensano le speranze di millenni di storia umana:

«Nella sua opera principale in tema di democratizzazione socialista, Stato e rivoluzione, agli a un certo punto si trova a parlare del concetto di “estinzione” dello Stato: questa può luogo solo perché, “liberati dalla schiavitù capitalistica, dagli innumerevoli orrori, barbarie, assurdità, ignominie dello sfruttamento capitalistico, gli uomini si abituano a poco a poco a osservare le regole elementari della convivenza sociale, da tutti conosciute, ripetute da millenni in tutti i cambiamenti, a osservarle senza violenza in tutti i cambiamenti, senza costrizione, senza sottomissione, senza quello speciale apparato di costrizione che si chiama Stato”». [2]

La prassi non può che concretizzarsi con un lungo processo, in cui le difficoltà necessitano di soluzioni che spesso possono contraddire apparentemente gli obiettivi. La grande sfida del comunismo, l’azzardo dialettico che esso ha tentato di mettere in opera, esigono energie immense, sacrifici titanici e specialmente un grandioso senso storico. Le difficoltà storiche e il sistema produttivo industriale inadatto ai grandi obiettivi del comunismo necessitano di grandezza ideologica e politica per portare l’Unione Sovietica verso il “nuovo mondo”.

Il possibile
Emerge la categoria del possibile, in cui si confrontano una serie di soluzioni alle circostanze storiche in cui l’Unione Sovietica si è trovata ad operare. Le soluzioni dallo sguardo corto o gli estremismi sono perniciose alla stessa Rivoluzione che per avanzare deve vivere su piani diversi e rispondere all’immediato storico senza privarsi dei grandi orizzonti, senza i quali la Rivoluzione è messa in pericolo, poiché il congelamento della Rivoluzione, la burocratizzazione del potere, inevitabilmente procurerebbe uno scollamento tra il vertice e la base. L’educazione, la formazione e la sconfitta dell’anafalbetismo sono la corrente calda che deve vivificare il popolo, prepararlo alla partecipazione, a neutralizzare i rischi dello statalismo. L’uomo e la donna comunista devono formarsi mediante nuove abitudini educandosi collettivamente a superare categorie del vecchio sistema zarista e capitalista che non sono scomparse con la Rivoluzione, anzi rischiano di riemergere velocemente.
L’abitudine ad una nuovo consapevolezza, non è meccanico automatismo, ma educazione graduale ad una nuova emotività, ad un lento riorientamento gestaltico emotivo e razionale che gradualmente devono coincidere, superando la scissione, sempre foriera di processi di reazione ed alienazione:

«Qui restiamo alla questione per noi centrale: come la democrazia socialista possa affermarsi nella vita quotidiana degli uomini. Lenin parla dell’abitudine come del motore più importante della estinzione dello Stato, in quanto essa rende gli uomini capace di andare avanti convivendo con il prossimo “senza violenza, senza costrizione, senza sottomissione”. Ora l’abitudine è indubbiamente una categoria “sociologica” generalissima che non può non avere una parte rilevante in una società, e tuttavia, considerato così in generale è del tutto neutrale nei confronti di ciò cui ci si abitua e del modo in cui essa, per conseguenza, agisce sulla prassi della quotidiana degli uomini. Quel che Lenin ha in mente va, perciò, molto oltre una tale generalità sociologica “astratta”. Egli allude a un processo socio-teleologico nel quale tutte le azioni, le istituzioni, ecc. dello Stato e della società mirano ad abituare gli uomini a comportamenti da lui descritti».[3]

 

Nuove abitudini
Le nuove abitudini dell’uomo nuovo sono il motore della democrazia, devono esplicarsi nelle istituzioni come nelle banali azioni della vita. Le scissioni della vita borghese tra vita privata e vita pubblica devono saltare per unificarsi in una visione dell’esistenza e della politica. Il pericolo della Rivoluzione è di collassare sotto la pressione delle tragiche contingenze della storia, è il ritorno del passato nella forma della burocratizzazione. Il timore sempre vivo per un vero rivoluzionario dev’essere l’attenzione a scrutare il presente per cogliere le metamorfosi del passato, la democrazia socialista non è mai definitiva ed anche le buone abitudini possono perdersi sotto la pressione degli automatismi. L’abitudine di Lenin non è mai meccanica, ma sempre mediata dalla razionalità, è un lavoro continuo su se stessi, è interiorità che prende forma nella libertà e si estrinseca in prassi istituzionale:

«La sua battaglia appassionata contro le tendenze democratiche si fonda non solamente sulla sua precocissima percezione, estremamente critica, dell’impotenza ultima della manipolazione burocratica, ma anche in termini soggettivi, forse soprattutto sulla consapevolezza che, a causa della routine che scaturisce da una prassi tanto programmata, ogni burocratizzazione cela in sé per forza di cose la tendenza a rinsaldare il dominio del passato sul presente. Per questo nel movimento che dà vita ai cosiddetti sabati comunisti egli vede l’intenzione di andare verso l’autogestione dell’agire sociale delle persone che conduce oltre il dominio del passato, un’intenzione che può a suo volta condurre alla democrazia socialista, alla preparazione del “regno della libertà” e, attraverso un processo necessariamente lungo, ricco di contraddizioni e ritorni indietro, alla sua realizzazione».[4]

 

Sabati comunisti
Il 1 Maggio 1920 il partito comunista annunciava il primo sabato comunista. I sabati comunisti erano la premessa del mondo che verrà, del regno della libertà. In essi il lavoro è liberato dal valore di scambio, per diventare espressione dello spirito comunitario degli esseri umani. È lavoro che umanizza, in cui il soggetto si riconosce, ed in cui scopre che la prassi è servizio per gli altri, è gioia del dono:

«Ecco perché Lenin, a proposito della sostanza sociale dei sabati comunisti, dice: “Ma nel nostro regime economico non vi è ancora nulla di comunista. L’elemento ‘comunista’ incomincia soltanto quando appaiono i sabati comunisti, cioè il lavoro gratuito, che non è regolato da alcun potere, da alcuno Stato, il lavoro su larga scala di singole persone a vantaggio della società”».[5]

 

Il sabato comunista rientra nella strategia pedagogica e rivoluzionaria di Lenin, era finalizzato a destrutturare le incrostazioni della sovrastruttura capitalistica che sopravvivono alla caduta del capitalismo. Il regno della libertà non è l’effetto meccanico delle leggi della storia, ma necessita della libera mediazione razionale che si concretizza nell’azione educativa ed istituzionale. Il sabato comunista è la manifestazione aurorale dell’essere umano liberato dalle anguste categorie della valorizzazione. Ai sabati comunisti partecipavano lavoratori di ogni classe sociale accumunati da un unico fine: il bene della collettività. In modo simbolico anche i capi erano presenti, l’intento era di superare la scissione tra vertice e base. Il sabato comunista era parte di una pedagogia rivoluzionaria senza la quale la Rivoluzione rischiava di diventare patrimonio culturale e politico dei soli intellettuali e dei gruppi che in modo attivo avevano fondato l’Unione Sovietica. La cittadinanza attiva doveva essere parte imprescindibile dell’iter rivoluzionario, la strategia in tal modo non cadeva nel tatticismo.

 

Tatticismo staliniano
La strategia della libertà, non cade mai nel tatticismo, il quale è ideologico, ha lo scopo di difendere il potere e rispondere in modo semplicistico alle problematiche politiche. Stalin è abile nella tattica, esprime una diversa soluzione rispetto alle precedenti simili situazioni storiche: la difesa dell’ideologia comunista diventa un mezzo per eliminare l’opposizione e solidificare posizioni di potere e scelte indiscutibili:

«Così, quando Stalin nella seconda metà degli anni Venti ebbe tatticamente bisogno di dire che i suoi rivali, anche nel caso di minime differenze di principio, erano da smascherare come nemici della rivoluzione socialista, nacque la “teoria” secondo cui le divergenze d’opinione apparentemente piccole costituivano il pericolo massimo, essendo in realtà un raffinato mascherarsi del nemico Questo bisogno tattico ebbe poi l’incarnazione teorica di maggior rilievo nel movimento operaio internazionale, dove i socialdemocratici vennero dichiarati “fratelli gemelli” dei fascisti e l’ala sinistra della socialdemocrazia venne considerata la corrente ideologica più pericolosa all’interno del movimento operaio. (La critica di questo metodo è molto importante e attuale. Infatti esso compare oggi con la stessa frequenza che ai tempi di Stalin)». [6]

Il tatticismo è manipolazione, si disarciona la dialettica per sostituirla con il determinismo del materialismo dialettico, i margini del possibile sono cancellati a favore di un neopositivismo in cui costringere la vitalità storica. Nuovamente i soggetti diventano sudditi del potere, ogni partecipazione è negata in nome della teoria non solo indiscutibile, ma scientifica e pertanto la storia è predeterminata, ogni oppositore p inodore di follia, in quanto non intende l’inevitabile. Il passato ritorna ed il sogno sfuma, ogni corpo medio è sciolto, ogni discussione è oggetto di sospetto ed indagine. Il tatticismo burocratico ed economicistico toglie alla Rivoluzione l’anima per renderla struttura di potere in competizione con le democrazie manipolatrici:

«Per Stalin invece l’ideologia viene “liquidata” e basta, cioè è semplicemente oggetto di una dinamica sociale: per l’appunto la manipolazione staliniana. La spinta intrinseca alla manipolazione ci si rileva nella maniera più evidente davanti alla questione vitale dello smantellamento staliniano della struttura consiliare dello Stato socialista In precedenza abbiamo tentato di mettere in luce come un connotato fortemente innovativo del sistema consiliare fosse proprio il superamento sociale dell’idealismo del citoyen, caratteristico della società borghese. Il cittadino attivizzato secondo l’essenza del socialismo dalla pratica burocratica dei problemi generali della società non doveva più essere una entità “ideale” separata dall’uomo reale (l’homme delle costituzioni democratiche), alla quale entità corrispondeva nella vita quotidiana, come sua fondazione, l’uomo materiale, egoista, della società civile, ma al contrario doveva essere un uomo teso a realizzare materialmente, fattualmente, in cooperazione collettiva con i suoi consimili la propria socialità nella vita quotidiana, dalle immediate questioni quotidiane agli affari di Stato. […] La soluzione tattica dei problemi del tempo fu lo smantellamento radicale, burocratico, di ogni propensione che potesse trasformarsi in atto preparatorio di una democrazia socialista. Il sistema dei Consigli cessò in pratica di esistere».[7]

 

Sistemi a confronto
Lukács trova nel regime sovietico e nel “capitalismo democratico” la stessa verità, ovvero la manipolazione. Con Levinas potremmo utilizzare l’espressione il y a: la libertà è l’armonia dialettica tra soggetto e comunità; nei totalitarismi – riconosciuti e non –, il popolo diventa massa, un corpo indifferenziato pronto ad essere utilizzato per fini eteronomi. La denuncia del pensatore ungherese è ad ampio orizzonte. La storia dell’Unione Sovietica serve per leggere la storia del sistema che si dichiara democratico, ma che in realtà nasconde tra le sue pieghe problemi e limiti simili, ma espressi con mezzi tecnici e ideologici differenti. Pertanto la semplice contrapposizione, ha permesso la sopravvivenza dei due sistemi, e non di rielaborare criticamente il superamento dialettico di entrambi. Perché si possano riallacciare i sentieri interrotti della democrazia sostanziale e socialista, è necessario rileggere il pensiero marxiano e riattivare la categoria della prassi e della logica della modalità, le quali introducono nella storia la libertà, il possibile decisionale storico contro le forme di positivismo che naturalizzano il capitalismo ed in passato sono servite per congelare la storia dei paesi comunisti.

 

Prassi e libertà
La filosofia della prassi è già politica, in quanto la consapevolezza che la storia non segue le leggi naturali, ma è lo spazio ed il tempo in cui gli esseri umani decidono responsabilmente e rispondono dei loro errori, libera dai ceppi ideologici del positivismo. Bisogna rimettere al centro la libertà, la qualità della libertà contro il liberticidio dell’edonismo tecnocratico; libertà è relazione tra teoria e prassi senza la quale l’essere umano non è che un suddito dei poteri trascendenti, a cui deve obbedire negando la sua essenza (Gattungswessen).
Il tatticismo è la negazione della verità della politica, poiché non ha finalità universali da mediare nelle contingenze, ma si limita alla difesa ideologica del particolare, di interessi immediati. Non vi è conseguentemente un progetto comune, ma solo razionalità strumentale senza razionalità oggettiva. Il tatticismo prepara la gabbia d’acciaio, in quanto è l’eternizzarsi del presente, mentre la libertà è il movimento della storia. La storia senza dialettica è la negazione dell’essere umano e prepara la disperazione del presente:

«Proprio questo legame del regno della libertà con la sua base socio-materiale, con il regno economico della necessità, mostra come la libertà del genere umano sia il risultato della propria attività. La libertà, e anche la possibilità di essa, non è qualcosa che sia dato per natura, né un dono dall’ “alto”, e neppure parte integrante – d’origine misteriosa – dell’essere umano».[8]

Se nella storia si forma il nuovo, e si riconosce la verità, nessuna teoria può profetizzare il nuovo con esattezza. Ma senza la teorizzazione politica la storia è consegnata al caos; la teoria in contatto con la prassi mette in atto la libertà e la responsabilità dell’essere umano, in quanto la libertà è l’attività che deve fare interagire teoria e prassi.

La libertà è solo nella verità. L’alternativa è l’eristica (dal greco ἐριστική τέχνη), l’argomentare/battagliare sofistico e liberticida. Senza la verità non vi è libertà, poiché la verità pone il limite, permette alle pluralità di riconoscersi sul comune confine. La verità è nella storia, è metafisica del quotidiano senza il quale non vi è che la violenza dell’alienazione.

Salvatore Bravo

[1] György Lukács, Storia e coscienza di classe, Mondadori, Milano 1973, p. 115.

[2] Ibidem, p. 64.

[3] Ibidem.

[4] Ibidem, p. 66.

[5] Ibidem, pp. 66-67.

[6] Ibidem, pp. 96-97.

[7] Ibidem, pp. 98-99.

[8] György Lukács, L’uomo e la rivoluzione, Punto rosso, Milano 2013, p. 22.




György Lukács (1885-1971)  –  «Thomas Mann e la tragedia dell’arte moderna». Il momento puramente soggettivo, l’estraniarsi da ogni collettività, il disprezzare ogni comunità annulla ogni vincolo con la società e nell’opera stessa: autodissoluzione dell’arte in seguito a quella lontananza dalla vita ch’essa si pone per principio.
György Lukács (1885 – 1971) – Il fuoco che arde nell’anima partecipa all’essenza delle stelle. Perché il fuoco è l’anima di ogni luce, e nella luce si avvolge il fuoco.
György Lukács (1885-1971) – Questo trasformarsi in merce di una funzione umana rivela con la massima pregnanza il carattere disumanizzato e disumanizzante del rapporto di merce.
György Lukács (1885-1971) – Considerazioni su «Marx, il cinema e la critica del film», un libro di Guido Aristarco (1918-1996). La tendenza generale è il dominio della manipolazione, a cui in misura sempre più vasta si va assoggettando anche, e tutt’intero, il campo dell’arte.
György Lukács (1885-1971) – Uno dei tratti più fecondi e caratteristici di Lenin è che egli non cessò mai di imparare teoricamente dalla realtà e che in pari tempo era sempre pronto ad agire.

Donatella Di Cesare – La veglia è il preludio della filosofia. L’armonia nascosta che governa il cosmo è racchiusa nel lógos. Ma chi vorrà ascoltare il lógos? molti Vivono ripiegati su di sé, come se dormissero, prigionieri della propria privatezza. Eraclito denuncia ciò che impedisce di accedere a quel che è comune, restando nell’isolamento della notte, precludendosi la partecipazione al giorno comune e al mondo comune.

Donatella Di Cesare 01

Sfoglia le prime pagine

«I filosofi sono i sublimi migranti del pensiero»

La veglia è stata sin dall’inizio tema peculiare della filosofia.
Al punto da divenirne la rappresentazione simbolica, la metafora perspicua che la precede, prima ancora che la filosofia abbia un nome. Misterioso sorgere del lume interiore che segna il riaffiorare dalla notte, forza del richiamo, stupore della vita che si desta, ritorno a sé: questo è anzitutto la filosofia.
A sciogliere dal mito il chiarore diurno, innalzandolo a categoria metafisica, è stato Eraclito, detto l’«oscuro», per il suo stile enigmatico e oracolare. Si inaugura così l’avventura del pensiero che, guidato dalla luce del lógos, articola il mondo, che diventa cosmo, dispiegandosi in un superamento ininterrotto del proprio angusto, infimo raggio, verso una sfera sempre più vasta, elevata e comune.
Ben poco si sa della vita di Eraclito. I biografi antichi gli attribuirono stirpe regale. Diogene Laerzio dice che fu «altero quant’altri mai e superbo» (IX, i – A i). Quel suo atteggiamento, quasi sprezzante, era dovuto a un dissidio con i concittadini, ai quali rimproverava l’esilio imposto al suo amico Ermodoro dopo la fallita rivoluzione democratica. Efeso, città della Ionia, al confine tra la costa turca e il mare europeo, non era ancora Atene. Ma le tensioni non mancavano. Eraclito si estraniò, risentito, dalla vita politica, rifiutò la richiesta di dare leggi alla polis, che gli appariva oramai governata da una cattiva Costituzione. Si ritirò nel tempio di Artemide, dove la leggenda vuole che deponesse il suo grande libro suddiviso in tre discorsi: il primo sul tutto, il secondo politico, il terzo teologico. Qualcuno in seguito diede all’opera un titolo ricorrente: Perì phúseos. Quasi che Eraclito avesse scritto un trattato sulla phúsis, sulla natura intesa come principio e sostanza di tutte le cose. A consolidare questa visione, fuorviante e riduttiva, contribuì Aristotele. Esiste, tuttavia, un’antica tradizione, impersonata ancora dallo stoico Diodoto, secondo cui il libro di Eraclito, a parte alcuni esempi, non aveva nulla a che fare con la natura e affrontava invece argomenti politici: perì politeías.

D’altronde non è difficile riconoscere, su uno sfondo numinoso, l’ispirazione politico-tragica del pensiero di Eraclito negli oltre centoventi frammenti che restano della sua opera. A parlare non è tanto l’indagatore del cosmo, quanto il severo guardiano della città, l’interprete del pólemos, quel conflitto, «padre» di tutte le cose, che su tutte regna (B 53). La contesa della pólis viene proiettata sulla realtà per scrutarne a fondo la legge che la governa, per collegare ciò che è apparentemente sparso e molteplice nella sua unità, per cogliere la palíntropos harmoníe, la «discorde armonia» dei contrari (B 51). È la città a offrire il paradigma ermeneutico del mondo.
Percepire in ogni differenza l’uno: questo è il merito di Eraclito, precursore riconosciuto della dialettica. Così ha scritto Hegel: «qui vediamo finalmente terra: non c’è frase di Eraclito che io non abbia accolto nella mia Logica». Occorre tuttavia evitare forzature di prospettiva storica. La concordia degli opposti, quell’enigmatico legame eli cui parla Eraclito, non è l’unità speculativa, ma piuttosto il passaggio repentino per cui l’uno si muta incessantemente nell’altro: vita e morte, giorno e notte, veglia e sonno, estate e inverno, pace e guerra. Erroneamente questa visione è stata irrigidita in una dottrina del divenire perenne, del fluire, quel pánta rheî, di cui non si rinviene traccia nei frammenti di Eraclito, il quale ricorda sì il fiume – in cui «entriamo e non entriamo, siamo e non siamo» (B 49a) – per insistere, però, sull’alternarsi delle acque sempre diverse. Non sorprende che sia in particolare il fuoco, che vive trasformandosi, che muta a seconda dei profumi con cui si mescola, a restituire visivamente la concorde armonia degli opposti.
A questa legge non si sottraggono neppure i nomi che, anzi, portano alla luce le opposizioni. Eraclito inaugura la schiera di quei pensatori che guardano al linguaggio per comprendere la realtà. L’armonia nascosta, che governa il cosmo, è racchiusa nel lógos, secondo cui tutto accade, legge eterna e universale, capace di regolare il divenire, che non è un cieco precipitare, bensì un sapiente trascorrere da un contrario all’altro.
Ma chi vorrà ascoltare il lógos?
[…] Ecco la domanda di Eraclito, che contiene già un monito.
Sordi, assenti, quasi assopiti, preda di flussi onirici e opinioni particolari, lontani da ciò che è saggio, sophón, i mortali si sottraggono all’ascolto. Vivono ripiegati su di sé, come se dormissero, prigionieri della propria privatezza, della loro asfittica meschinità.
Così viene denunciata l’idiozia, che etimologicamente – idiótes deriva da ídios, proprio – in greco rinvia alla proprietà.
Impossibile allora accedere a quel che è comune, koinón.
Eraclito usa la forma ionica xunón che, con un gioco di parole, riconduce a xùn nôi, cioè con il noûs, «con la ragione» (B 114).
Non solo l’intelligenza è comune, ma è sull’intelligenza che si basa ciò che è comune.
Non si tratta di intuizione immediata, bensì di conoscenza ordinatrice del cosmo che si articola e si raccoglie nel lógos.
Idiota è chi rifiuta l’ascolto, chi resta nell’isolamento della notte, precludendosi la partecipazione al giorno comune e al mondo comune.
Così suona la sentenza di Eraclito: «unico e comune è il mondo per coloro che sono desti, mentre nel sonno ciascuno si rinchiude in un mondo suo proprio e particolare» (B 89).

[…] La veglia è il preludio della filosofia.

Il richiamo alla veglia torna incessante nei frammenti. In seguito la filosofia farà sua questa esortazione.
Pensare è aver parte alla vigilanza del lógos che accomuna.
La «saggezza privata», idía phrónesis, è un ossimoro, perché quel che affiora nel singolo, sogni, immagini, opinioni, idee, non è che vuota, morta illusione. Tale è destinata a rimanere, finché non trovi la via della comunanza.
Dunque no, non dormite!
Non lasciatevi andare al sonno dell’idiozia privata!
Così ripete Eraclito rivolto ai più che vivono nel torpore. «Non bisogna agire e parlare come se si stesse dormendo», ingiunge perentorio (B 73).

 

Donatella Di Cesare, Sulla vocazione politica della filosofia, Bollati Boringhieri, Torino 2018, pp. 16-20.

 

 

 

 

Quarta di copertina
È tempo che la filosofia torni alla città. Anzitutto per risvegliarla da quel sonnambulismo che la narcosi di luce del capitale ha provocato. Ma quale margine ha il pensiero nel mondo globalizzato, chiuso in se stesso, incapace di guardare fuori e oltre? Mentre viene richiamata alla sua vocazione politica, la filosofia è spinta a non dimenticare la sua eccentricità, la sua atopia. Nata dalla morte di Socrate, figlia di quella condanna politica, sopravvissuta a salti coraggiosi e rovesci epocali, come nel Novecento, la filosofia rischia di essere ancella non solo della scienza, ma anche di una democrazia svuotata, che la confina a un ruolo normativo. In questo libro, dove traccia le linee del proprio pensiero, tra esistenzialismo radicale e nuovo anarchismo, Donatella Di Cesare riflette sul rientro della filosofia nella pólis, divenuta metropoli globale. Non bastano la critica e il dissenso. Memori della sconfitta, dell’esilio, dell’emigrazione interna, i filosofi tornano per stringere un’alleanza con gli sconfitti, per risvegliarne i sogni.

Donatella Di Cesare


Epicuro (342 a.C. – 270 a.C.) – Né quando uno è giovane esiti a filosofare, né quando è vecchio si stanchi di dedicarsi alla filosofia.

Μήτε νέος τις ὢν μελλέτω φιλοσοφεῖν, μήτε γέρων ὑπάρχων κοπιάτω φιλοσοφῶν. οὔτε γὰρ ἄωρος οὐδείς ἐστιν οὔτε πάρωρος πρὸς τὸ κατὰ ψυχὴν ὑγιαῖνον. ὁ δὲ λέγων ἢ μήπω τοῦ φιλοσοφεῖν ὑπάρχειν ὥραν ἢ παρεληλυθέναι τὴν ὥραν, ὅμοιός ἐστιν τῷ λέγοντι πρὸς εὐδαιμονίαν ἢ μὴ παρεῖναι τὴν ὥραν ἢ μηκέτι εἶναι. ὥστε φιλοσοφητέον καὶ νέῳ καὶ γέροντι, τῷ μὲν ὅπως γηράσκων νεάζῃ τοῖς ἀγαθοῖς διὰ τὴν χάριν τῶν γεγονότων, τῷ δὲ ὅπως νέος ἅμα καὶ παλαιὸς ᾖ διὰ τὴν ἀφοβίαν τῶν μελλόντων· μελετᾶν οὖν χρὴ τὰ ποιοῦντα τὴν εὐδαιμονίαν, εἴπερ παρούσης μὲν αὐτῆς πάντα ἔχομεν, ἀπούσης δὲ πάντα πράττομεν εἰς τὸ ταύτην ἔχειν.

 

Né quando uno è giovane esiti a filosofare, né quando è vecchio si stanchi di dedicarsi alla filosofia. Infatti nessuno è né prematuro né fuori stagione per ciò che rende sani nella mente. Invece colui che dice o che non è ancora presente la stagione del praticare la filosofia o che è passata la stagione è simile a colui che dice che per la felicità o non è arrivata la stagione o non c’è più. Cosicché è necessario che pratichi la filosofia sia il giovane sia il vecchio, questo affinché invecchiando resti giovane per gli aspetti positivi della vita grazie alla soddisfazione delle cose passate, l’altro invece affinché sia giovane e nello stesso tempo vecchio per la mancanza di timore delle cose future; bisogna dunque esercitare le attività che determinano la felicità, se è vero che, quando essa è presente abbiamo tutto, quando invece è assente facciamo tutto allo scopo di averla.

 

Epicuro, Epistola a Meneceo, 122.

Logo Adobe Acrobat

Lettera a Meneceo


Epicuro, busto marmoreo, copia romana dell’originale greco (III secolo-II secolo a.C.), Londra, British Museum.
Epicuro (342 a.C. – 270 a.C.) – Con maggior piacere gode dell’abbondanza chi meno di essa ha bisogno

1 118 119 120 121 122 254