«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
Ho inseguito la verità dell’intelletto nella curva veloce degli anni e ancora non so quale sia la lingua del cuore ancora mi è ignota a patria vera degli esuli.
Daniele Serafini, Heimat.
Vengono da vecchi album questi fremiti di vita virati seppia volti fieri di donne senza ansia di esistere – eleganti e silenziose ferme nella loro forza queste donne antiche dagli sguardi severi [. ..] tornano a salutarci queste donne antiche con la fragranza di un fiore che non si rassegna al tempo né al nostro troppo facile oblio.
Daniele Serafini, Antiche donne, in Tra le radici e l’altrove. Poesie 1986-2016, L’arcolaio, Forlinpopoli (FC) 2016, p. 184.
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La storia non si snoda come una catena di anelli ininterrotta. In ogni caso molti anelli non tengono. La storia non contiene il prima e il dopo, nulla che in lei borbotti a lento fuoco. La storia non è prodotta da chi la pensa e neppure da chi l’ignora. La storia non si fa strada, si ostina, detesta il poco a poco, non procede né recede, si sposta di binario e la sua direzione non è nell’orario. La storia non giustifica e non deplora, la storia non è intrinseca perché è fuori. La storia non somministra carezze o colpi di frusta. La storia non è magistra di niente che ci riguardi. Accorgersene non serve a farla più vera e più giusta. La storia non è poi la devastante ruspa che si dice. Lascia sottopassaggi, cripte, buche e nascondigli. C’è chi sopravvive. La storia è anche benevola: distrugge quanto più può: se esagerasse, certo sarebbe meglio, ma la storia è a corto di notizie, non compie tutte le sue vendette. La storia gratta il fondo come una rete a strascico con qualche strappo e più di un pesce sfugge. Qualche volta s’incontra l’ectoplasma d’uno scampato e non sembra particolarmente felice. Ignora di essere fuori, nessuno glie n’ha parlato. Gli altri, nel sacco, si credono più liberi di lui.
Il presente non è tutto Nei tempi bui in cui tutto sembra procedere nel rumore cadenzato e stridulo dei cingolati del , la poesia appare come libertà, breccia nella plumbea cappa dei nostri giorni senza speranza e senza prospettiva. Montale nella poesia La Storia ci induce a riflettere sull’andamento della storia per poter riprendere il cammino che pare già segnato, ma in realtà è un campo di possibilità che si snoda davanti a noi. Il capitalismo ha in odio la storia, poiché essa testimonia che ogni potere è nel tempo, vorrebbe dissolverla in modo che si pensasse che il presente ha in sé la pienezza senza trascendenza, che oltre il tempo presente con la sua visione unidirezionale non vi è nulla. Il capitale nella sua fase apicale ha divorato anche il nulla, non ammette antitesi di nessun genere, si presenta come l’essere univoco parmenideo, deve eliminare ogni orizzonte temporale per erigere prigioni globali. Montale ci rammenta che la storia non è prevedibile, è attività creatrice, ha improvvise deviazioni, nessuno la possiede, ma appartiene a tutti, e dunque con l’aiuto delle circostanze l’impossibile può diventare reale. La storia ideale costruisce eroi ed ipostasi quali artefici della storia, ma la verità è che la storia è il frutto di una pluralità di soggetti che muoiono anonimi, eppure partecipano vivamente al suo procedere, sono il sale della vita che crea nuove possibilità. La loro gioia è nella partecipazione silenziosa che non verrà segnalata da nessuno storico. Ciò malgrado, dietro i rumori dei grandi vi è la storia dei piccoli, dei resistenti, che con la loro piccola vita possono deviare il corso fatale della stessa. Coloro che vogliono ridurre la storia ad un teorema con definizioni e corollari predeterminati hanno già perso, perché si pongono fuori del cammino della storia vivente:
La storia non si snoda come una catena di anelli ininterrotta. In ogni caso molti anelli non tengono. La storia non contiene il prima e il dopo, nulla che in lei borbotti a lento fuoco. La storia non è prodotta da chi la pensa e neppure da chi l’ignora. La storia non si fa strada, si ostina, detesta il poco a poco, non procede né recede, si sposta di binario e la sua direzione non è nell’orario.
Piani di passaggio La storia ci sembra, ora, in questi decenni omogenea: un piano liscio su cui scorrono merci e chiacchiere. L’impero del valore di scambio sembra non lasciare scampo, assimila ogni differenza, espelle dal suo grembo maligno ogni alterità. L’omogeneità si ripiega su se stessa, non lascia varchi, brecce da cui ri-dialetizzare il presente. Montale ci invoca a guardare fortemente la storia e a cogliere sul piano liscio improvvise “buche” che consentono il passaggio verso nuovi mondi. Il piano grigio e compatto della globalizzazione, apparentemente invincibile, è puntellato di resistenti che non si lasciano divorare dalla chiacchera, ma conservano la loro umanità, la loro razionalità critica che trasforma il presente in attività divergente. La storia non è conclusa, il potere vive l’illusione del controllo totale, si bea della sua tracotanza, ma la vita con le sue buche gli sfugge. Le buche possono trasformarsi in voragini tali da deviare il corso degli eventi, da mutare la geografia dei significati che il potere vorrebbe eternizzare:
La storia non è poi la devastante ruspa che si dice. Lascia sottopassaggi, cripte, buche e nascondigli.
Fuori dalle reti Per poter comprendere la storia, se mai questo sia possibile, dobbiamo guardare fuori la rete che ci rassicura, distribuisce i ruoli, tira una linea tra vincitori e vinti. La storia vera e viva è fuori della rete. Solo chi è fuori della rete può comprendere la verità della storia. Chi è tagliato fuori dalla storia, svela le illusioni di coloro che sono nella rete, chi sfugge alla rete per volontà o per un caso trova un varco, è l’attore di un nuovo inizio. Gli infelici che sono “fuori” non sono da compiangere, perché in loro riposa la possibilità di un nuovo percorso, perché dal loro “fuori” vedono la verità della rete con i suoi disincanti. Il loro sguardo penetra nella notte oscura per incontrare l’inizio di un nuovo giorno, la tragedia si sposa con la speranza:
C’è chi sopravvive. La storia è anche benevola: distrugge quanto più può: se esagerasse, certo sarebbe meglio, ma la storia è a corto di notizie, non compie tutte le sue vendette. La storia gratta il fondo come una rete a strascico con qualche strappo e più di un pesce sfugge. Qualche volta s’incontra l’ectoplasma d’uno scampato e non sembra particolarmente felice. Ignora di essere fuori, nessuno glie n’ha parlato. Gli altri, nel sacco, si credono più liberi di lui.
Non dobbiamo temere di essere degli invisibili, dei pesci piccoli che nuotano alla periferia della rete, coloro che non sono nella rete non appaiono, ma sono la sostanza del mondo, e la storia vive delle loro inconfessabili libertà. La teoria del caos (James Yorks) ci insegna che un battito d’ali può causare effetti che non possiamo prevedere. Dobbiamo continuare a battere le nostre ali. I nostri pensieri, il nostro impegno sono le ali della storia. La storia viva è indecifrabile, insondabile e non si ripete mai in modo eguale, pertanto anche nella disperazione può fiorire la speranza, perché la storia è molto più di ciò che appare, leggiamo e viviamo. La storia incombe, se ci arrestiamo davanti alla sua grandezza, ma se entriamo in essa e ci doniamo senza la presunzione del risultato tutto può ancora essere ed esserci. Non dobbiamo allevare barbari dal calcolo facile e dal cuore lento, ma guerrieri gentili dalle cui parole può rifiorire un mondo.
Salvatore Bravo
[1] Eugenio Montale, La Storia, in Satura, Mondadori, Milano 1971).
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Dopo settant’anni di intima dimestichezza con opere d’arte d’ogni specie, d’ogni clima e d’ogni tempo, sono tentato di concludere che a lungo andare le creazioni più soddisfacenti sono quelle che, come in Piero e in Cézanne, rimangono ineloquenti, mute, senza urgenza di comunicare alcunché, senza preoccupazione di stimolarci col loro gesto e il loro aspetto. Se qualcosa esprimono è carattere, essenza, piuttosto che sentimenti [. .. ]. La loro semplice esistenza ci appaga. Applicherei l’epiteto di esistenziale alle opere d’arte che ho in mente.
Bernard Berenson, Piero della Francesca o l’arte del non eloquente (1950), a cura di L. Vertova, tr. it. Abscondita, Milano 2007, p. 16.
Bernard Berenson, nato in Lituania, si laurea in Letteratura nel 1887 all’Università di Harvard, prima di trasferirsi in Europa grazie a una borsa di studio. Qui matura la sua vocazione per la critica e la storia dell’arte, visitando e familiarizzando con le collezioni più importanti e affermandosi tra i maggiori studiosi della pittura italiana. Tra le sue opere ricordiamo: I pittori italiani del Rinascimento (1936), Estetica, etica e storia nelle arti della rappresentazione visiva (1948), Echi e riflessioni. Diario 1941-1944 (1950), Lotto (1954).
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La saggezza, la prudenza e la sapienza sono modi di vivere che sembrano ormai superati, e anzi temuti, perché estranei ai modelli oggi dominanti: la fretta, l’accelerazione, la tendenza a mettere fra parentesi i valori, il sacrificio, l’interiorità, la gentilezza, la generosità …
Non c’è saggezza se non conosciamo le terre incognite della nostra vita razionale e emozionale, e se non ci mettiamo senza fine in relazione con la vita degli altri; la saggezza si nutre non solo di ragione ma di intuizione, amore del prossimo, immaginazione; ci fa prendere decisioni non improvvise, né istintive piuttosto meditate e libere da pregiudizi è come una grande lampada che illumina in altro modo le esperienze costitutive della nostra vita.
Eugenio Borgna, Saggezza, il Mulino, Bologna 2019, p. 7.
Quarta di copertina
Parola antiquata, astratta, scomparsa o quasi dal linguaggio della vita privata e, ciò che è ancora più grave nelle sue fatali conseguenze, dalla vita pubblica. E allora che cosa può significare oggi vivere in modo saggio? Non solo ascolto dell’intelligenza, razionalità nei giudizi e nel comportamento, ma anche capacità di scendere negli abissi della nostra interiorità, lì dove si intrecciano immagini e inclinazioni impensate, passioni ed emozioni.
Primario emerito di psichiatria dell’ospedale Maggiore di Novara e libero docente in Clinica delle malattie nervose e mentali presso l’Università di Milano. È uno degli esponenti italiani di punta della psichiatria fenomenologica. Con Feltrinelli ha pubblicato diversi libri tra i quali: I conflitti del conoscere. Strutture del sapere ed esperienza della follia (1988), Malinconia (1992), Le figure dell’ansia (1997), L’arcipelago delle emozioni (2001), Come in uno specchio oscuramente (2007), Nei luoghi perduti della follia (2008), Le emozioni ferite (2009), La fragilità che è in noi (2014) e Il tempo e la vita (2015). Con Aldo Bonomi ha scritto Elogio della depressione (Einaudi, 2011). Nel 2015 esce per Einaudi Parlarsi. La comunicazione perduta e nel 2016 Responsabilità e speranza. Per Feltrinelli, nello stesso anno, pubblica L’indicibile tenerezza. In cammino con Simone Weil. Tra i suoi libri più recenti ricordiamo: L’ascolto gentile. Racconti clinici (Einaudi 2017), Le passioni fragili (Feltrinelli 2018), L’arcobaleno sul ruscello. Figure della speranza (Cortina Raffaello 2018) e La nostalgia ferita (Einaudi 2018).
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«Essere radicale vuol dire cogliere le cose alla radice.
Ma la radice, per l’uomo, è l’uomo stesso.
[…] l’uomo è per l’uomo l’essenza suprema
[ e dunque occorre trasformare]
tutti i rapporti nei quali l’uomo è un essere degradato, assoggettato, abbandonato, spregevole, rapporti che non si possono meglio raffigurare che con l’esclamazione di un francese di fronte a una progettata tassa sui cani: poveri cani! Vi si vuole trattare come uomini!».
Karl Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, in La questione ebraica ed altri scritti giovanili, Editori Riuniti , Roma 1969, p. 101.
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Tutti vivono, solo alcuni esistono. Vivono ma non esistono, perché in-sistono, perché cioè si collocano dentro, dentro la catena alimentare o di altro tipo, della vita. Alcuni, invece, e-sistono, hanno il coraggio di collocarsi fuori, di esistere nel senso radicale del termine indicato dalla filologia. E così vanno alla ricerca della forza di essere migliori. […] Il verbo esistere esprime quello che indica la sua etimologia. Il verbo latino originario è formato dalla preposizione ex, che in questo caso significa “fuori”, e dal verbo sistere che significa porre, collocare, collocarsi, per cui ex-sistere propriamente significa “venir fuori”.
Vito Mancuso, La forza di essere migliori, Garzanti, Milano 2019, pp. 11-12.
Quarta di copertina
«La qualità della nostra vita interiore, il valore di ciò che siamo dipendono da noi e illuminano il nostro destino.»
Viviamo secondo un modello di sviluppo che adora gli oggetti, non la lettura, la cultura, la partecipazione sociale e politica. Consumiamo, inquiniamo, ma così devastiamo noi stessi e il nostro pianeta. Essere migliori è diventato quindi un’urgenza, e il lavoro etico e spirituale una necessità non rimandabile. Ma come far nascere, in noi, il desiderio di praticare il bene? Dove trovare una motivazione che sappia liberarci dalle catene dell’effimero/della società, una forza motrice che dia impulso al nostro costante bisogno di guarigione e al nostro infinito desiderio di bellezza? Riscoprendo le nostre radici che affondano nella cultura classica e nella tradizione cristiana Vito Mancuso ci accompagna in viaggio lungo il sentiero delle quattro virtù cardinali, e offre una nuova prospettiva di senso per le nostre vite in balìa dei tumultuosi venti dell’esistenza. Perché solo colui che non cerca più di vincere e di prevalere, ma recupera il senso profondo dell’essere forte, saggio e temperante, può infine essere giusto, e fiorire in armonia con il mondo.
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«[…] Nel crepuscolo invernale i cortili dell’Università di Pavia diventano spazio deserto e se un uomo si muove fra le colonne viene fatto di chiedersi: ma chi è che si muove fra le colonne? I passeri planano per l’ultima volta dalla quercia alle due magnolie. Il silenzio avanza come un’alta marea sugli otto cortili, soprattutto acquista potere sull’ultimo, il cortile sforzesco, che risale al Quattrocento e dove si trovano le sale del «Fondo Manoscritti di autori moderni e contemporanei»; vuoto di frequentatori la sera il Fondo si trasforma in un cimitero. […] Un cimitero è un luogo di silenziosi fantasmi; più raramente di sonori musicisti. È Calvino a dirci che nella città di Ipazia i suonatori si nascondono nelle tombe e da una tomba all’altra si danno la voce con flauti e arpe. Ma più spesso vi dimorano ombre. […] Benché non sia possibile descrivere l’aspetto fisico delle ombre, si può dire che esse pur nella nuova condizione di esseri senza peso hanno le stesse facce di quando avevano un corpo, dato che la faccia conserva per sempre tracce di quello che le è capitato. Si accostano furtive agli armadi-cassaforte dove qualcosa d’altro, che le riguarda, ma cosa?, occupa la loro attenzione. È allora che se uno per caso si trova nel Fondo è invaso dalla sensazione di un’immensa, insuperabile distanza: al tempo in cui le ombre avevano un corpo lui magari non era ancora nato o, se era nato, si trovava in un luogo diverso dello spazio. In questi casi si può fare ben poco l’uno per l’altro, come succede ai ricevimenti pubblici o ai funerali, dove ci si trova tutti insieme da estranei. Senza dubbio tali Presenze, invisibili ai più, sembrano sorgere da una categoria nuova della realtà, da uno stato proprio del reale e non da noi. Come se l’altro reale, quello a cui di solito si fa capo, tacesse, avesse perso qualsiasi virtù di evidenza. Adesso sappiamo che è possibile avere per qualche momento la sensazione che ombre si muovano implacabili nelle sale. Non si ha nessun dato sul preciso momento in cui la mente si arrende a tale visione e le ombre, scaturite da ignota sorgente, si emancipano, hanno causa vinta. Esse desiderano raccontare di sé tutt’altro genere di vicende e di cose, atte a colmare lacune dei biografi e dei critici. Mica sono personaggi della fantasia. Loro hanno dovuto portare in giro sul serio un corpo palpabile. Non si tratta qui di restare nella logica di un racconto, ma di entrare in un’altra logica, in altre regole del gioco, quelle in cui uomini e donne hanno dovuto vivere materialmente ogni istante dell’esistenza, provare la difficoltà di sbrogliarsela con se stessi, vita natural durante, quando per esempio hanno preso in mano la penna per la prima volta, con una felicità poi perduta, andata a finire in uno scritto fatto a pezzi, e quando presto o tardi è venuto il momento in cui hanno cominciato a dubitare di quello che facevano. Le ombre passano inquiete da una sala all’altra: allora uno, seduto al tavolo di lavoro, prova voglie inconsuete, quali voglie?, metti quella di dare alla foto di uno scrittore appesa alla parete o a un venerato busto di marmo, situato in un angolo della sala, i freschi movimenti dell’uomo. Impossibile? Ma già abitare tale desiderio è qualcosa. Forse le ombre notano il turbamento di chi le trova un po’ dentro e un po’ fuori dei ritratti noti. Se potessero sorriderebbero, ma le ombre non sorridono, sono al di là del tempo della vita in cui si sorride. Ma sono davvero uscite dal tempo? Bisogna distinguere. C’è il tempo a cui sono appartenute e c’è l’altro tempo, quello che ora le avvolge nel Fondo, nel mondo dei viventi. Il primo i greci lo chiamavano aion e segnava una fatale chiusura; il secondo chronos e segnava un’apertura verso il futuro, per cui venne anche detto immagine dell’eternità. Ecco dunque perché loro sono qui, nel Fondo, sono venute a farci visita, si sono immerse nel chronos. In questo mondo in cui ogni cosa si consuma in un mese o in un anno, e viene subito sostituita con un’ altra più perfezionata, che pare insostituibile ed eterna, ma si consuma essa pure in un mese o in un anno e così via, loro non prendono parte a questo consumio generale. Persistono, premono su di noi, attendono di essere riconosciute, se pure da un numero limitatissimo di viventi. In modo ora ludico ora drammatico comunicano, anche se non sempre attraverso la voce. Chi frequenta d’abitudine il Fondo sa che la comunicazione dura magari, come accade nei sogni, pochi intensissimi minuti dopo di che tutto si perde in quartieri sconosciuti. Non esiste una mappa del mondo sotterraneo, di quell’ignoto da cui tutti i fantasmi provengono, profondo come un abisso, che esercita su di essi un’attrazione cosmica diversa da quella a cui sono soggetti i viventi. Per questo i fantasmi sono instabili, erranti, fuggitivi. Fanno fatica ormai a riabituarsi al mondo in cui vissero coi piedi per terra nel loro aiòn, il loro tempo passato.
Ma le Presenze invisibili sono attratte nel Fondo da una terza idea di tempo, che è soltanto loro e dà segni di sé soltanto qui, fra i manoscritti. Un’idea di tempo che diventa cosa, oggetto fatto di parole scritte. Fogli ingialliti, stesure successive, un tutto che segnala l’ordine temporale della composizione di un’opera. Come dire che c’è una realtà temporale che appartiene alla logica dell’opera. Le vere competenti sono loro, le ombre. Quello che Filone d’Alessandria nel De opificio chiama il “giorno uno” dell’inizio del mondo c’è in ogni testo letterario; solo loro, e nemmeno sempre, saprebbero rintracciarlo. Quello che di sicuro conoscono è il ciclo dei giorni e delle notti dell’opera, anch’esso proprio di questa terza idea di tempo, che non è né aiòn né chronos, ma è ritmo e articolazione dell’energia creativa, crescita segreta e quasi biologica delle forme. Naturalmente ci sono ombre e ombre, come uomini e uomini. Alcune, particolarmente inquiete, considerano sbagliata la vita trascorsa coi piedi per terra: avrebbero potuto realizzare grandi cose e invece queste grandi cose non ci sono state, tanto che il mondo continua a sentirne la mancanza. Il modo difatti con cui le cose terrene sono come sono è del tutto parziale, cioè nessuno esclude che se fossero diverse potrebbero essere meglio e tutti sulla terra hanno l’aria di aspettare che questo succeda. Loro, le inquiete, hanno perso l’occasione e un’invisibile tramezza le separa dalle altre, quelle il cui destino è stato in direzione del più e non del meno o addirittura è stato un destino trionfale. Si leva nel silenzio la voce di Italo Calvino:
“Si dispiegavano tutte le forme che il mondo avrebbe potuto prendere nelle sue trasformazioni e invece non aveva preso, per un qualche motivo occasionale o per una incompatibilità di fondo: le forme scartate, irrecuperabili, perdute”.
Ogni ombra si muove in cerca dei suoi feti, delle sue incompiute, che arrischiano invano di emergere tra il disordine delle varianti a penna all’interno degli armadi-cassaforte, simili a spirali di insetti sulle foglie. C’è della bellezza in queste creature abortite, in questi personaggi non ancora condotti a compimento e abbandonati ai margini del niente. […] Siamo sempre lì, una bellezza prigioniera di ciò che avrebbe potuto essere e non è stato; una distanza non sempre ipotizzabile fra prime stesure e opere giunte alla luce della stampa. Di qua ombre inquiete che vagano nelle sale del Fondo, di là embrioni, feti, aborti della scrittura sporchi di inchiostro, uccisi dalle cancellature. Allora il Fondo è un universo in miniatura, che abbraccia in un solo insieme le cose che ci sono e quelle fluttuanti tra il possibile e l’improbabile. Cosi cessa di essere un semplice Fondo, dove tutto il dentro è deposito e il fuori è vita. Diventa anzi specchio del mondo, dove quasi niente di quanto ha inizio giunge del tutto a compimento. Si muovono da padrone perché solo loro sanno che cosa veramente sia il passato, mentre la via d’uscita dei pensieri dei viventi è quasi sempre una via che segue la freccia diretta al dopo, non al prima. Per i viventi dentro l’unione di passato e futuro è il futuro che soverchia. Tutto sommato anche il Fondo con le sue quotidiane pulsazioni, con il ramificarsi per cui ogni ramo ne genererà altri sembra provare non esserci bene che non si proietti nel dopopresente […]»(pp. 5-9).
***
«[…] Si sa, ci sono cose che si presentano come segni di altre. Guai se ci si incaponisce a non vederli questi segni, anche se possono a prima vista apparire privi di senso. La vita quotidiana contiene un mucchio di avvertimenti che appaiono assolutamente privi di senso e carenti di realtà, ma che esistono tuttavia, è solo la ragione del loro esistere che rimane nell’ombra. Per questo non sempre ci si sente in grado di distinguere se un evento del passato che ricordiamo c’è stato o lo abbiamo sognato e trasformato in conformità dell’architettura interna del nostro io» (p. 111).
Maria Corti, Ombre dal Fondo, Einaudi, Torino 1997.
Quarta di copertina
Esiste a Pavia un luogo singolare, popolato da ombre immerse in una temporalità diversa da quella dei viventi. Quel luogo ha un nome e una storia: si chiama «Fondo Manoscritti di autori moderni e contemporanei» ed è nato e cresciuto grazie ai sogni e alla tenacia di Maria Corti. Lì si conservano e si studiano i testi autografi dei maggiori scrittori dell’Otto e del Novecento, lì i viventi intrecciano le loro storie con quelle di chi non è più al mondo ma vi ha lasciato una traccia. In questo testo creativo Maria Corti, nella sua doppia veste di narratrice e di studiosa, evoca vicende del Fondo, divenuto nel corso degli anni una delle più vive realtà culturali italiane. Ed evocando dispensa testimonianze e aneddoti di prima mano su famosi scrittori, vedove votate alla gloria letteraria dei propri mariti, banchieri generosi, personaggi maggiori e minori che si incrociano come in un testo sinfonico, con tempi, ritmi e movimenti musicali di volta in volta diversi. Ombre dal Fondo è esempio di un raro genere letterario, una sorta di sinfonia evocativa. Coagula con originalità riflessioni sulla letteratura e sulla «materia» di cui la letteratura è fatta: il manoscritto d’autore, con i tratti a penna che definiscono una grafia, le correzioni, a volte i disegni che lo corredano, diventa la chiave d’accesso per sondare quello che Maria Corti chiama «avantesto», cioè la scaturigine, esistenziale oltreché letteraria, dell’invenzione creativa. Perché «al tocco giusto dello sguardo, gli occhi guardano il visibile, le Carte, e allo stesso posto vedono l’invisibile». Ombre dal Fondo, infine, è anche una rassegna di interventi critici su una serie di scrittori fra i più amati dall’autrice, da Montale a Bilenchi, ad Amelia Rosselli. Una critica, quella disseminata in questo libro, che non ha mai nulla di astratto ma si nutre della presenza fantasmatica degli scrittori e delle loro Carte, come in un concretissimo colloquio che tocca nel profondo le ragioni della letteratura.
Maria Corti ha insegnato per molti anni Storia della lingua italiana e ha creato e diretto il «Fondo Manoscritti di autori moderni e contemporanei». Ha ideato riviste culturali come «Strumenti critici», «Alfabeta», «Autografo». Tra i suoi studi filologico-letterari ricordiamo Metodi e fantasmi (Feltrinelli 1969), Il viaggio testuale (Einaudi 1978), La felicità mentale (Einaudi 1983), I percorsi dell’invenzione (Einaudi 1993), a cui si aggiunge il volume teorico I principi della comunicazione letteraria (Bompiani 1976) . Ha diretto l’edizione critica delle Opere di Fenoglio (Einaudi 1978). Ha pubblicato alcuni libri di narrativa: L ‘ora di tutti (Bompiani 1996, 15a ed.), Il ballo dei sapienti (Mondadori 1966), Voci dal Nord Est (Bompiani 1986), Il canto delle sirene (Bompiani 1989), Cantare nel buio (Bompiani 1991). Nel 1995 è uscito il libro-intervista Dialogo in pubblico (Rizzoli).
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Alla ricerca di Spinoza, Emozioni sentimenti e cervello
L’atomocrazia liberista L’antiumanesimo è la cifra del tempo moderno. Ogni ideologia ha i suoi trombettieri dell’Apocalisse. Le neuroscienze dichiarano la morte dell’uomo, al suo posto vi sarebbe un automa, un immenso meccanismo che risponde alle leggi dello stimolo e della risposta: l’atomocrazia liberista ha trovato, così, una scienza a sua misura ed immagine. Le scienze, rappresentate come oggettive, sono la nuova testa d’ariete dell’ideologia del capitale. Si autorappresentano come verità libere, perché oggettive, ma in realtà – come la statua di Glauco descritta da Platone nel X libro della Repubblica – sono incrostate di condizionamenti e sedimenti ideologici. Il monismo delle neuroscienze si limita a descrivere i circuiti neuronali, espelle con la dialettica l’esperienza storica e relazionale, dalla genesi del pensiero. Ed esclude l’atto creativo. Si descrive una nuova normalità prodotta in laboratorio, curvata sul fisiologico e quindi trasformabile in dispositivo medico con cui sussumere la popolazione. L’essere umano – per queste scienze – è abitato soltanto da sostanze chimiche che con le loro leggi ne determinano sentimenti, prassi e motivazioni. L’essere umano è un ente tra gli enti governato da leggi di cui sono depositari scienziati e tecnocrati. Ancora una volta si vuole convincere l’umanità che il pensiero è un atto chimicamente spiegabile, e dunque le scelte politiche ed etiche sono private di ogni valore. La scienza dell’ultimo uomo (der Letzte Mensch) nietzscheano insegna che l’umanità è “natura naturata” senza speranza e libertà. Il pensiero cosciente non risponde agli stessi meccanismi. Pertanto l’essere umano è fatto oggetto – in “qualsiasi stato” si trovi – al fato della biochimica. Ogni mediazione tra lo stimolo e risposta è negata, in modo da ridurre la persona ad un flusso di ormoni e reazioni chimiche ingovernabili dal soggetto, ma molto “governabili” dagli agenti esterni che ne diventano i signori e i padroni. In tale contesto l’umanità perde ogni specificità, ogni grandezza e miseria per diventare ente da gestire sotto l’influsso semi-magico di esperti e professionisti che riducono la mente al solo cervello da manipolare:
«Anche quando la reazione emozionale ha luogo senza una conoscenza consapevole dello stimolo, ciò nondimeno l’emozione esprime il risultato della valutazione della situazione da parte dell’organismo. Non ha importanza che quella stima non sia chiaramente notificata al sé. In qualche modo, il concetto di stima è stato interpretato troppo letteralmente come valutazione cosciente, quasi che la straordinaria impresa di valutare una situazione e reagire a essa automaticamente fosse una conquista biologica di minor rilievo. Uno dei principali aspetti della storia dello sviluppo umano riguarda il modo in cui moltissimi oggetti che costituiscono l’ambiente del nostro cervello hanno acquisito la capacità di innescare, consapevolmente o meno, varie forme di emozione – debole o intensa, positiva o negativa. Alcuni di questi fattori scatenanti sono stabiliti dall’evoluzione, mentre altri hanno finito con l’essere associati dal cervello a stimoli emozionalmente adeguati grazie alle nostre esperienze individuali. Pensate a quella casa dove una volta, da bambini, viveste un’intensa esperienza di paura. Quando vi tornate, può darsi che vi sentiate a disagio; e quel disagio non ha altra causa se non il fatto che molto tempo fa, in quello stesso ambiente, provaste una potente emozione negativa. Potrebbe addirittura accadervi, in un’altra casa per certi versi simile a quella, di provare lo stesso disagio, sebbene stavolta senza ragione alcuna, se si esclude il fatto che in quel luogo rilevate la registrazione cerebrale di un oggetto e di una situazione paragonabili».[1]
L’essere umano è dunque – nella prospettiva delle neuroscienze – un animale semplice con reazioni ipoteticamente prevedibili. Il pensiero – con la sua capacità critica ed etica – è ridotto ad una interazione chimica. La storia, in tale ottica, è solo un percorso ormonale ed evolutivo di ordine biologico. Ogni resistenza ed avanzamento etico è solo attività elettrica determinata da specifici stimoli. La capacità di pensare le emozioni, di concettualizzare i sentimenti, di trarre dalla profondità interiore di ciascuno un nuovo mondo è rimossa in nome delle semplici reazioni meccaniche.
Cervello astratto Il pensiero come i sentimenti sono spiegati attraverso le funzioni del cervello e la loro azione organica. Si tende ad eliminare la relazione, la mediazione dialettica che per attivarsi necessita del cervello, ma che non può essere ridotta a tali reazioni. Il cervello, per potersi attivare nelle sue reazioni, deve relazionarsi con il mondo esterno. Reca con sé una verità invisibile che si cela alle analisi di laboratorio, ovvero l’intera attività cerebrale non sarebbe possibile senza l’apertura al mondo. Tale attività relazionale sposta il cervello fuori della sua sede anatomica, o meglio il cervello è nella sua sede anatomica, ma la mente – in quanto cervello vivo – diventa altro dal cervello, è disposta all’esterno, all’incontro che retroagisce sul cervello mediante una lunga serie di passaggi dialettici, che finiscono per istituire una interazione tra mente e cervello. Si è dinanzi ad una realtà-verità plastica, in cui l’anatomia non spiega se stessa, ma ha bisogno di altre categorie e paradigmi per poter decodificare la complessità del rapporto mente cervello. Una forma di dualismo diventa, così, imprescindibile per poter riportare la complessità alla sua razionalità. Le sofferenze dell’individuo non sono semplici impressioni neuronali, ma hanno la loro dinamica nelle relazioni che sono non spiegabili totalmente col cervello. Benché la vitalità delle esperienze critiche segnino il cervello ed il corpo vissuto, le neuroscienze semplicizzano e rassicurano, per cui le idee come i sentimenti sono riportati all’’omeostasi:
«I sentimenti, nell’accezione adottata in questo libro, non insorgono solo dalle emozioni vere e proprie, ma da qualsiasi insieme di reazioni omeostatiche, e traducono nel linguaggio della mente lo stato vitale in cui versa l’organismo. Qui, io suggerisco che esistano «modalità corporee» distinte risultanti da diverse reazioni omeostatiche, dalle più semplici alle più complesse. Esistono anche oggetti induttori distinti, e altrettanto distinti pensieri conseguenti alla reazione, e modalità di pensiero corrispondenti. La tristezza, per esempio, si accompagna a una minor produzione di immagini alle quali viene tuttavia prestata maggiore attenzione: una situazione opposta al rapido susseguirsi di immagini – che peraltro ricevono un’attenzione brevissima – tipico della felicità. I sentimenti sono percezioni, e io propongo che la loro percezione trovi il necessario supporto nelle mappe cerebrali del corpo. Una certa variazione del piacere o del dolore è un contenuto costante di quella percezione che chiamiamo sentimento. Accanto alla percezione del corpo c’è sia quella di pensieri con temi consoni all’emozione, sia quella di una certa modalità di pensiero – uno stile di elaborazione mentale. Come avviene tale percezione? Essa deriva dalla costruzione di meta-rappresentazioni dei processi mentali, un’operazione di livello superiore in cui una parte della mente ne rappresenta un’altra. Questo ci permette di registrare un rallentamento o un’accelerazione dei nostri pensieri, a seconda che prestiamo loro maggiore o minore attenzione o che i pensieri raffigurino oggetti o eventi cogliendoli, a seconda dei casi, da vicino o da lontano. La mia ipotesi, allora, presentata sotto forma di definizione provvisoria, è che un sentimento sia la percezione di un certo stato del corpo, unita alla percezione di una particolare modalità di pensiero nonché di pensieri con particolari contenuti. I sentimenti emergono quando il semplice accumulo dei dettagli registrati nelle mappe raggiunge un certo stadio».[2]
Nuovo realismo Le neuroscienze negano “la rivoluzione copernicana”: sono interne al realismo che esige un atteggiamento adattivo. Le immagini degli oggetti sono riprodotte sulla retina. Anche in questo caso è esclusa ogni attività intenzionale, creativa e libera del soggetto che riproduce l’oggetto nell’immagine. L’attività intenzionale non è registrabile, poiché è la disposizione del corpo vissuto ad orientarsi verso l’alterità significandola. Le neuroscienze non valutano la concretezza del sistema percettivo, esso avviene in un contesto di senso, il quale contribuisce alla formazione dell’immagine mediante l’attività del soggetto che nell’attribuire significati, nel cogliere aspetti di particolare rilievo per la cultura e la formazione del soggetto percipiente, contribuisce attivamente alla formazione dell’immagine e trascende la semplice risposta sensoriale. La soggettività è sostituita da procedure anatomiche eguali in ogni essere umano:
«Le immagini che abbiamo nella nostra mente, allora, sono il risultato di interazioni che hanno luogo fra ciascuno di noi e gli oggetti che impegnano il nostro organismo, interazioni che vengono riprodotte in configurazioni neurali costruite in base all’architettura dell’organismo. Va sottolineato che questo non nega la realtà dell’oggetto. Gli oggetti sono reali. Né si nega, qui, la realtà delle interazioni fra oggetto e organismo. Inoltre, com’ è ovvio, anche le immagini sono reali. Ciò nondimeno, le immagini che noi sperimentiamo sono costruzioni cerebrali indotte da un oggetto, e non riflessi speculari dell’oggetto stesso. Non c’è un’immagine dell’oggetto che venga trasferita otticamente dalla retina alla corteccia visiva. L’ottica si ferma a livello della retina. Al di là di essa troviamo trasformazioni di natura fisica che hanno luogo in continuità, dalla retina alla corteccia cerebrale. Allo stesso modo, i suoni che sentiamo non sono strombazzati con una sorta di megafono dalla coclea fino alla corteccia uditiva, sebbene, in senso metaforico, fra le due strutture anatomiche abbia effettivamente luogo un passaggio di trasformazioni fisiche. Esiste una serie di corrispondenze, affermatasi nella lunga storia dell’evoluzione, fra le caratteristiche fisiche di oggetti indipendenti da noi, e il menu delle possibili risposte dell’organismo. (La relazione fra le caratteristiche fisiche dell’oggetto esterno e le componenti preesistenti selezionate dal cervello per costruire una rappresentazione è un tema importante, che andrà esplorato in futuro). La configurazione neurale attribuita a un determinato oggetto viene costruita in base al menu di corrispondenze, scegliendo e combinando i simboli appropriati. D’altra parte, noi esseri umani siamo talmente simili dal punto di vista biologico che, riferendoci allo stesso oggetto, finiamo per costruire configurazioni neurali simili. Non dovrebbe sorprendere, se da quelle configurazioni neurali simili emergono poi immagini anch’esse simili. E per questo che possiamo accettare, senza proteste, l’idea convenzionale secondo la quale ciascuno di noi formerebbe nella propria mente l’immagine riflessa di un particolare oggetto».[3]
Relazioni tra ordini diversi In tale riduzionismo, si evita volutamente di porre il problema del “perché” i soggetti provino particolari sentimenti di avversione verso ingiustizie sociali o atti cruenti. Dalla profondità dell’anatomia appare la ragione etica che, sicuramente, necessita delle funzioni del cervello, ma il motivo che spinge taluni ad impegnarsi per la comunità o a disimpegnarsi resta tra i segreti non svelati delle neuroscienze. La mente sfugge all’indagine sul cervello, poiché è di altra natura, o di un altro piano:
«La nostra ipotesi è che qualsiasi cosa noi sentiamo debba basarsi sulla forma dell’attività delle regioni cerebrali somato-sensitive. Se esse non fossero disponibili, noi non sentiremmo nulla, proprio come non vedremmo nulla se fossimo privati delle fondamentali aree visive del nostro cervello. Noi sperimentiamo dunque i sentimenti per gentile concessione delle regioni somato-sensitive. Può darsi che questo suoni un po’ ovvio, ma devo ricordare che, fino a pochissimo tempo fa, la scienza evitava accuratamente di assegnare i sentimenti a qualsiasi sistema cerebrale; si limitava a collocarli in qualche luogo evanescente nel cervello – o attorno a esso. Ed ecco una possibile obiezione, che è ragionevole e pertanto meritevole di attenzione, ma che in realtà è infondata. In generale, le regioni somato-sensitive producono una mappa precisa di quanto ha luogo nel corpo in quel momento; in alcuni casi, tuttavia, non è così, per la semplice ragione che l’attività delle regioni impegnate nella produzione della mappa, o i segnali afferenti a esse, possono essere stati in qualche maniera modificati».[4]
Le neuroscienze devono essere comprese all’interno della storia dell’attuale fase del capitalismo. Esse sono l’espressione più avanzata della rappresentazione dell’essere umano come mappa neuronale su cui si può agire per determinare scelte e sentimenti, e nel contempo hanno l’ambizioso progetto di eliminare la variabile coscienza, e l’annessa libertà. Divengono lo strumento ideologico per educare l’umanità ad un modello pedagogico fortemente “adattivo”. La filosofia ha il compito di smascherare tali derive riportando la concretezza critica dove regna l’incanto distopico del semplicismo ideologico.
Segnali emozionali Le scienze – al pari di ogni altra attività umana – “avvengono” nella storia e senza una riflessione sulla propria “azione storica” tendono a trasformarsi nell’onnipotenza astratta del nuovo capitalismo che le finanzia al fine di governare sui popoli da trasformare in greggi di automi che sperano nella magia delle sostanze chimiche per risolvere i loro problemi. Esse sono parte del dispositivo di passività generale. Il logos ed il linguaggio diventano secondari rispetto ai segnali emozionali che stabiliscono finalità da raggiungere:
«Il segnale emozionale non è un sostituto del ragionamento vero e proprio, ma ha semplicemente un ruolo ausiliario, giacché ne aumenta l’efficienza e lo velocizza. In qualche caso, può renderlo quasi superfluo, come accade, per esempio, quando respingiamo immediatamente un’opzione che condurrebbe a un disastro sicuro o, viceversa, cogliamo al volo una buona opportunità in base alla sua elevata probabilità di successo. In alcuni casi il segnale emozionale può essere molto forte, e condurre alla parziale riattivazione di emozioni come la paura o la felicità, seguite dal sentimento cosciente appropriato di quella particolare emozione. E questo il presunto meccanismo della percezione viscerale, che utilizza quello che ho definito circuito corporeo. D’altra parte, i segnali emozionali possono funzionare anche in modo più sottile, e presumibilmente, nella maggior parte dei casi, è così che svolgono la loro funzione. In primo luogo è possibile produrre percezioni viscerali senza usare davvero il corpo, ma attingendo dal circuito «come se» discusso nel capitolo precedente. In secondo luogo, poi, c’è un fatto più importante, e cioè che il segnale emozionale può operare interamente al riparo dal radar della coscienza».[5]
Spinoza, immunologo delle passioni Per salvare il logos e la progettualità politica bisogna mettere al riparo l’umanità da derive irrazionaliste che la schiacciano sulle sole azioni-reazioni neuronali senza linguaggio e capacità di meta-riflessione. Nella lettura di Antonio Damasio (Lisbona, 25 febbraio 1944) Spinoza è «un immunologo delle cattive passioni»:
«La soluzione di Spinoza richiede anche che l’individuo tenti di interrompere il processo che porta dagli stimoli emozionalmente adeguati potenziali induttori di emozioni negative – passioni come la paura, la rabbia, la gelosia, la tristezza – ai meccanismi che le eseguono. L’individuo dovrebbe invece sostituirli con altri stimoli, in grado di indurre emozioni positive, dalle quali trarre forza e nutrimento. Per facilitare questo obiettivo Spinoza raccomanda di tornare più volte a contemplare mentalmente gli stimoli negativi così da sviluppare una qualche tolleranza nei confronti delle emozioni negative e da acquisire gradualmente una certa dimestichezza nel generare quelle positive. Questo Spinoza è, a tutti gli effetti, un immunologo della mente che sta sviluppando un vaccino per creare anticorpi contro le passioni».[6]
Spinoza è un pensatore che difende “le buone pratiche comunitarie” e che persegue l’universale concreto in una società democratica rispettosa delle individualità con l’obiettivo politico di favorire la letizia comunitaria contro la tristezza del potere e della marginalità sociale. Spinoza non è un individualista, ma il suo senso sociale lo porta a progettare una comunità di individui che coltivano le passioni positive per poter ben vivere nella comunità che come «la visione intellettuale di dio» è un’unità in cui le parti si integrano, creando pratiche politiche rispettose della dignità umana. Il conatus sese conservandi non ha come fine la conservazione individuale, ma la liberazione dalle tristezze che condizionano le vite dei singoli, le quali sono in perenne tensione dialettica e politica.
Salvatore Bravo
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[1] Antonio Damasio, Alla ricerca di Spinoza, Emozioni sentimenti e cervello, Adelphi, Milano 2007, pag. 58.
N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo:
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