Jonathan Lethem – La maschera è caduta: non si può più ignorare la forza distruttiva del capitalismo e del dominio delle multinazionali, la catastrofe ecologica, la violenza e le diseguaglianze che hanno causato. Non è possibile un capitalismo egualitario

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È un sollievo che Trump non sarà più alla guida, ma la storia di questi quattro anni, culminata nella pandemia e nell’invasione del Campidoglio, è che la maschera è caduta: non si può più ignorare la forza distruttiva del capitalismo e del dominio delle multinazionali, la catastrofe ecologica, la violenza e le diseguaglianze che hanno causato, non si può non vedere che stanno travolgendo i nostri corpi come una supercar. Non si può più credere alle scuse per cui sarebbe possibile un capitalismo egualitario e la governance globale delle élite potrebbe essere controllata e portarci gentilmente per esempio verso l’energia solare, senza però distruggere i piaceri del consumismo e le fantasie della predominanza culturale bianca che sembrano normali, ma non lo sono affatto.

La creazione di miti è un processo seducente, ma devi chiederti che tipo di storia stai creando, di che cosa stai diventando complice. Costruiamo sogni sociali senza un vero esame delle conseguenze. I sogni che Steven Spielberg vuole che tu abbia sono diversi da quelli di Stanley Kubrick. […] Ma alla fine mi associo al protagonista, Journeyman [il viaggiatore di The Arrest), e ai corvi sulla torre, nel ritenere che siamo stanchi delle vecchie storie, abbiamo bisogno di sentirne di nuove».

 

Jonathan Lethem, Basta con Hollywood, serve un altro sogno, Intervista a Jonathan Lethem, «La lettura», Corriere della Sera, 10-01-2021, p. 7.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Rainer Maria Rilke (1875-1926) – Per i nostri padri una ‘casa’, una ‘fontana’, il loro vestito, erano infinitamente più intimi che per noi. Ora dall’America s’affollano tante cose vuote e indifferenti, parvenze di cose, imitazioni della vita …

«Ancora per i nostri padri una ‘casa’, una ‘fontana’, una torre a loro familiare, perfino il loro vestito e il loro cappotto, erano infinitamente di più, infinitamente più intimi che per noi; ogni cosa quasi un’urna, in cui trovavano sempre un che di umano da mettervi in serbo. Ora dall’America s’affollano tante cose vuote e indifferenti, parvenze di cose, imitazioni della vita … Una casa, nello spirito americano, una mela americana o una vite di laggiù non hanno nulla in comune con la casa, il frutto, il grappolo in cui la speranza e la meditazione dei nostri avi era lentamente penetrata. Le cose vive, vissute e ammesse alla nostra confidenza, a poco a poco scompaiono, e non possono più essere sostituite. Noi siamo forse gli ultimi che abbiamo conosciuto tali cose. Su di noi pesa la responsabilità di serbarne non solo il ricordo (ché sarebbe poca cosa, né darebbe alcun affidamento), ma il loro valore larico e ‘umano’ (‘larico’ nel senso delle divinità domestiche). […] Non vi è né un al di qua né un al di là, ma solo una unità immensa […] con un sentimento puramente, profondamente, beatamente terrestre bisogna introdurre le cose viste e toccate quaggiù in un cerchio più ampio, nel più ampio di tutti. Non in un al di là, la cui ombra oscuri la terra, ma in un tutto, nel Tutto».

R. M. Rilke, “An Witold von Hulewicz” (12 novembre 1925), in Briefe aus Muzot, Leipzig, Insel, 1937, trad. it. a cura di N. Saito, in R. M. Rilke, Del poeta, Torino, Einaudi, 1955, pp. 98-99.

 


Rainer M. Rilke (1875-1926) – Non dimenticare mai di formulare un desiderio: i desideri durano a lungo, tutta la vita, tanto che non potremmo aspettarne l’adempimento.
Rainer Maria Rilke (1875 – 1926) – La pazienza è tutto
Rainer Maria Rilke (1875-1926) – E queste cose, che passano ma ci credono capaci di salvarle, noi che passiamo più di tutto, vogliono essere trasmutate, entro il nostro invisibile cuore in – oh Infinito – in noi! Quale che sia quel che siamo alla fine.
Rainer Maria Rilke (1875-1926) – Occorre raccogliere senso e dolcezza per tutta una vita. Anche i ricordi di per se stessi ancora “non sono”. Solo quando divengono in noi sangue, sguardo e gesto, non più scindibili da noi, solo allora può darsi che in una rarissima ora sorga nel loro centro e ne esca la prima parola di un verso.
Rainer M. Rilke (1875-1926) – Sicurezza significa non sospettare di nulla, non tenere nulla a distanza, non considerare nulla come un Altro irriducibile, significa spingersi oltre ogni concetto di proprietà e vivere di acquisizioni spirituali e mai di possessi reali.
Rainer M. Rilke (1875-1926) – On voudrait avoir les yeux toujours ouverts, pour avoir vu, avant le terme, tout ce que l’on perd.
Rainer Maria Rilke (1875-1926) – Le mani di Rodin hanno vissuto come cento, una vita in cui tutto è vivo e presente nello stesso sitante e nulla è perduto. Cercava la grazia delle grandi cose e una pacatezza radicata dentro di lui gli mostrò il saggio cammino. Diceva: «Non bisogna avere fretta».

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Rob Riemen – «La nobiltà di spirito. Elogio di una virtù perduta»: La cultura, come l’amore, non ha il potere di costringerre. Non offre garanzie. L’unica possibilità di conquistare e difendere la nostra dignità di uomini ce la offrono la cultura e una educazione libera.

Rob Riemen - La nobiltà dello spirito

«La cultura, come l’amore, non ha il potere di costringerre.
Non offre  garanzie.
Ciò nonostante, l’unica possibilità di conquistare e difendere la nostra dignità di uomini
ce la offrono proprio la cultura e una educazione libera».
Rob Riemen

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Rob Riemen

La nobiltà di spirito.

Elogio di una virtù perduta

189 pagine, Rizzoli, 2010

“I valori umanistici classici implicano una fondamentale fiducia nel potere, sempre imperfetto ma costantemente corroborato, dello spirito umano” afferma George Steiner. Portavoci, spesso incarnazioni di questi valori furono grandi figure come Socrate, Baruch Spinoza, Walt Whitman, Thomas Mann e Leone Ginzburg. La consapevolezza di vivere un’epoca di crisi, segnata dalla guerra o dall’abbrutimento, ma soprattutto la strenua volontà di opporsi alle derive del loro tempo ne accomuna il lascito umano e intellettuale: la determinazione a non perdere di vista la destinazione morale dell’essere umano, anche nelle tenebre della storia, anche nel fondo di un carcere. In “La nobiltà di spirito” Rob Riemen si sforza di mettere in salvo il messaggio di queste grandi figure “inattuali” per legarle al nostro travagliato presente, ricostruendo una genealogia spirituale che va dall’Atene di Pericle all’Europa dei totalitarismi. Ripercorre una catena di esistenze esemplari spese alla ricerca di una libertà che non sia arbitrio, ma aspirazione a una vita giusta; di una saggezza che non sia erudizione, ma inseguimento dell’assoluto pur nell’imperfezione della conditio humana; di un coraggio che non sia vanagloria, ma forza di lottare per gli ideali intramontabili dell’umanesimo occidentale. (Prefazione di George Steiner)

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Bertolt Brecht (1898-1956) – Dice Arturo Ui: «Il singolo lavoratore ha tutta la mia simpatia. Ma quando pretende di intervenire sul meccanismo dei profitti, io dico allora: fermo. Tu sei un lavoratore, ossia lavori, ma quando non lavori più e scioperi, allora non sei più un lavoratore, ma un soggetto pericoloso, ed io intervengo».

Bertolt Brecht 06

Salvatore Bravo

Dall’opera di Bertolt Brecht si leva una invocazione e una denuncia

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Resistibile ascesa
La resistibile ascesa di Arturo Ui di Bertolt Brecht[1] è un’opera teatrale, scritta nel 1941, che denuncia – in un gioco di metafore – la violenza nazista: i personaggi dell’opera, infatti, sono i protagonisti del potere politico in Germania. Bertolt Brecht rappresenta il potere nazista nella sua verità essenziale: nichilismo e violenza. Il titolo dell’opera teatrale ha un significato profondo: pone un quesito, ovvero, se l’ascesa di Adolf Hitler, nell’opera Arturo Ui, sia stata ineluttabile. Il titolo dell’opera esplicita la risposta: non vi sono eventi storici fatali, ma è la responsabilità generale dei popoli come delle classi dirigenti a pronunciare il “sì” fatale. Si può estorcere il “sì” in una pluralità di modi, le paure possono essere utilizzate per invocare l’uomo della provvidenza, e si può abdicare ad ogni responsabilità individuale e collettiva. Vi è sempre la complicità generale e di molti, la quale ci pone il problema della responsabilità umana e politica delle nuove generazioni. La storia non è scritta nelle stelle o nella natura, ma nella volontà dei singoli e dei popoli che interagiscono con la storia: la formazione, in tal senso, è fondamentale. La guerra all’istruzione, meglio alla paideia, la sua mutazione che l’ha ridotta a serva del potere, aumenta la possibilità in modo esponenziale che si possano generare in modo simile derive totalitarie. La formazione è d’ausilio a riconoscerle, essa non è solo contenuti e cultura, ma anche formazione di caratteri e di volontà disponibili alla partecipazione ed alla lotta condivisa. La rappresentazione del potere nazista, si pensi alla Notte dei lunghi coltelli (1934), come lotta tra gangster, non è poi dissimile dall’attualità, in cui partiti e movimenti si contendono il potere spartendosi lo stesso sulle ceneri della pubblica utilità; la negazione dei diritti sociali in nome degli interessi privati ha innumerevoli vittime che non attendono di essere riconosciute e di avere giustizia:

 «Butttafuori: Oggi, spettabile pubblico, presentiamo – ehi voi, fate silenzio, laggiù in fondo! e si tolga il cappello, signorina! – la cavalcata storica dei gangster! Contenente, in prima assoluta, la verità sul grande scandalo dei docks. Vi sveleremo inoltre il testamento e la confessione di Dogsborough. La carriera di Arturo Ui in tempo di crisi! Colpi di scena al processo per l’incendio dei magazzini! Il caso Dullfeet! La giustizia in coma! Lotta tra i gangster: ucciso Ernesto Roma! Quindi il quadro finale, con luminaria: i gangster che conquistano la città di Cicero! Vedrete qui, artisticamente interpretati, gli eroi più noti dei nostri bassifondi. Ne vedrete di morti e di ancor ritti, di già passati e di presenti, di elezione e di nascita; ad esempio, il buono, il vecchio, onesto Dogsborough! (Il vecchio Dogsborough si presenta innanzi al sipario). Nero di cuore, candidi i capelli, fa la tua reverenza, vecchio corrotto! (Il vecchio Dogsborough si inchina e si ritira). Vedrete ancora – ma ecco, è proprio lui che viene… (Givola si presenta davanti al sipario). il negoziante in fiori Givola. Con la bocca unta d’olio sintetico vi sa spacciare un caprone per ronzino. Le bugie, dicono, han le gambe corte! Osservate le sue! (Givola si ritira zoppicando). Ed ora Emanuele Giri, il superclown! Su, vieni fuori, fatti vedere! (Giri compare davanti al sipario e saluta con la mano). Assassino fra i sommi d’ogni tempo! Fuori, via! (Giri si ritira in collera). Ed ora la nostra attrazione più grande! Il gangster di tutti i gangster! Il notorio Arturo Ui! Il castigo del cielo per tutti i nostri peccati e delitti, violenze, debolezze e stupidaggini! (Ui si presenta davanti al sipario ed esce camminando lungo la ribalta). Riccardo Terzo: a chi non viene in mente? Dai tempi della Rosa Rossa e Bianca non si sono piti visti così grandi sanguinosi fulminei massacri. Così stando le cose, inclito pubblico, la direzione si è proposta di non badare a spese straordinarie per inscenare tutto in grande stile. Pure, qui è realistica ogni cosa: quanto vedrete stasera non è nuovo, non è stato inventato o escogitato censurato e manipolato per voi: lo sa, quel che mostriamo, l’intero continente: la commedia dei gangster, nota a tutta la gente! (Mentre la musica cresce e le si unisce il suono di un mitra il buttafuori esce rapido)».[2]

 

Plebi oranti
Il potere ha le sue strategie e dinamiche per rendere i popoli “plebi oranti” che attendono che cadano le briciole dalla tavola dei padroni. In primis l’abitudine graduale alla violenza, la quale non è più colta come tale. Se è inserita nella normalità dei rapporti umani e delle relazioni politiche e sociali diviene il mezzo per “far accettare” anche l’impossibile. Hume lo ha dimostrato, l’essere umano è abitudine, il potere forma all’abitudine alla violenza, al punto da renderla legge del vivere civile in modo che non venga colta nella sua verità e genesi. La violenza non è solo fisica, ma specialmente ideologica e linguistica, essa deve privare il pensiero delle sue potenzialità critiche e generative, deve asciugare al sole dell’indifferenza l’intenzionalità sociale e comunitaria, deve dividere per potersi affermare e conservare. La speranza e l’immaginazione critica tramontano, di conseguenza, dalla comune visuale per abbandonare i popoli all’immediatezza del destino, ad una nuova filosofia della storia in cui i popoli non sono che servi al servizio del destino:

«DOGSBOROUGH: Quelle azioni sono state come il sacchetto di salati, esposto dal barista gratuitamente, in modo che il cliente, saziando la sua fame a buon mercato, stimoli la sete. (Pausa). Non mi piace l’inchiesta al municipio circa le attrezzature. Il nostro prestito è già sprecato: Clark ha preso, Butcher e Caruther e Flake, tutti hanno preso: purtroppo ho preso anch’io, e non s’è ancora acquistata una libbra di cemento! C’è un unico vantaggio: per volere di Sheet, al nostro affare non ho dato pubblicità, e così non sa nessuno che ho a che fare con questa società».[3]

La paura è il modo più celere e veloce per spingere popoli e nazioni sotto la protezione degli uomini della provvidenza o di “istituzioni oracolari” (mercato, scienza e partito) a cui delegare il presente ed il futuro. Diffondere l’inquietudine, far percepire una minaccia perenne che incombe, è il modo più funzionale e diretto per strutturare forme di potere illegittime. Governare in uno stato di eccezione perenne permette di assuefarsi all’impossibile, di tacitare la coscienza comune nell’incombente necessità di provvedimenti eccezionali, ma necessari. Il consenso si vena di terrore, lo si sparge ovunque, la lingua diviene veicolo di violenza scientemente programmata, si solleticano paure e fantasmi profondi, al punto da far apparire l’alterità come minaccia, si inquinano le fonti della vita per spingere ad invocare e sostenere i poteri forti e solidi. La solitudine dei singoli caduti in un mondo irrazionale è l’inizio dei ceppi imposti in nome della sicurezza e della vita:

«UI In breve: regna il caos. Perché, quando ciascuno può far ciò che vuole e che gli suggerisce l’egoismo, significa che tutti son contro tutti, e perciò regna il caos. Quando mi guardo in pace il mio negozio o carico, diciamo, sul mio camion i cavoli o che altro, ed uno irrompe meno pacifico in bottega, e dice «Mani in alto!» e mi spara sulle gomme con la Browning, non può regnar la pace! Però una volta accertato che gli uomini sono così, non agnellini, io debbo fare qualcosa perché non mi mettano tutto il negozio sottosopra, ed io non sia costretto a alzar le mani ad ogni momento, se fa comodo al vicino, ma possa usarle per il mio lavoro, per contar cetrioli, o che so io. Perché l’uomo è così. Di proprio impulso non metterà mai la Browning da parte, e neanche perché sarebbe nobile o perché un oratore al municipio lo loderebbe. Se non sparo io, spara l’altro! È la logica. Ma cosa si deve fare, voi chiedete. Adesso ve lo dirò. Una cosa innanzi tutto. Non quello che finora avete fatto. Sedere pigri davanti alla cassa e sperare che tutto vada bene, e per di più non essere d’accordo tra voi, dispersi, senza una robusta sorveglianza che vi protegga, e quindi impotenti di fronte ad ogni gangster, non va, naturalmente. Quindi occorre, per prima cosa, l’unità. Poi qualche sacrificio. Vi sento dire: «Cosa bisognerà sacrificare? Soldi? Dare il trenta per cento sugli incassi per pagare la protezione? No, noi non vogliamo questo! Amiamo troppo i nostri soldi! Se la protezione si potesse aver gratis, volentieri!» Ma non è cosi semplice, miei cari bottegai! Solo la morte è gratis, tutto il resto si paga. E cosi pure la protezione. E la sicurezza, e la pace, e la tranquillità. Cosi è la vita. E dato che è cosi, né sarà mai diversa, abbiamo stabilito, io ed alcune persone che vedete qui intorno – ed altre ancora stanno fuori – di prestarvi la nostra protezione. (Givola e Roma applaudono). Ma per farvi vedere che ogni cosa sarà fatta su base commerciale, è presente il signor Clark, dei Grossisti, Clark, che voi tutti conoscete».[4]

 

Frode linguistica perenne
L’inganno linguistico è l’appello perenne ai lavoratori, tutti sono al capezzale dei lavoratori, fin quando sono disponibili al solo lavoro senza diritti e specialmente senza partecipazione. L’appello ai lavoratori ha lo stesso effetto del suono del pifferaio magico, serve a richiamare greggi da condurre nell’abisso, ma se qualche elemento del gregge osa “belare” diversamente è oggetto di ostracismo e violenza. Le parole non hanno più significato, sono solo mezzi per l’ascesa inarrestabile di poteri criminali legittimati dalla sovrastruttura giuridica:

«UI: Domanda molto giusta. Ed io rispondo: con il lavoratore, lo si apprezzi o no, nel mondo d’oggi è necessario fare i conti. Anche già come cliente. Io ho sempre affermato che il lavoro non fa vergogna, anzi edifica e dà dei profitti. E per questo è indispensabile. Il singolo lavoratore ha tutta la mia simpatia. Soltanto quando si riunisce in massa e poi pretende di intervenire dove non capisce, ossia sul meccanismo dei profitti e cosi via, io dico allora: fermo, fratello, in questo modo non va bene. Tu sei un lavoratore, ossia lavori, ma quando non lavori più e scioperi, allora non sei più un lavoratore, ma un soggetto pericoloso, ed io intervengo. (Clark applaude). Ma per rendervi certi che ogni cosa è prevista in buona fede, un uomo siede qui tra noi, che vale per tutti noi, posso ben dirlo, come modello di onestà, di incorruttibile moralità, cioè il signor Dogsborough. (I negozianti applaudono un po’ più forte). Io sento, signor Dogsborough, in quest’ora, tutto il debito di riconoscenza che ho verso di lei. Noi siamo stati uniti dalla Provvidenza. Mai mi scorderò che un uomo come lei ha eletto me, più giovane, ed un semplice figlio di Bronx, a suo amico, anzi vorrei dire di più, quasi a suo figlio. (Afferra la mano di Dogsborough che pende inerte e la stringe)».[5]

 

Il palazzo del Reichstag (1933) in Europa brucia ancora, e continuerà a bruciare fin quando i popoli saranno messi in catene da paure sollecitate e rese incomprensibili, in modo che i poteri possano gestire con l’inquietudine e l’angoscia forme di sussunzione finalizzate a rendere i popoli carne da macello per gli interessi di oligarchie senza etica e senza comunità. Poteri sovranazionali dominano e si celano dietro parole sempre più simili a potenze celesti che necessitano del clero orante per la loro interpretazione da consegnare ai popoli. In tale contesto si comprende come l’attacco o l’indifferenza verso la formazione sia parte di un disegno di analfabetismo tecnocratico che vuole i popoli greggi belanti delle migrazioni in nome dei mercati. Dall’opera di Bertolt Brecht si leva una invocazione indicando un problema perdurante, ma nello stesso tempo è una denuncia del silenzio degli intellettuali che vivono all’ombra del potere e di accademie e che hanno tradito la vocazione critica che dovrebbe animarli. La qualità della democrazia coincide con la qualità dei suoi intellettuali. Il linguaggio ed i contenuti attuali ci parlano di una decadenza che non è solo causata da circostanze storiche, ma è specialmente una scelta distopica che sta contribuendo alle brutture del presente ed alla riduzione della democrazia a semplice formalità senza sostanza e prassi.

Salvatore Bravo

[1] Bertolt Brecht (Augusta, 10 febbraio 1898 – Berlino Est, 14 agosto 1956).

[2] Bertolt Brecht, La resistibile ascesa di Arturo Ui, Prologo.

[3] Ibidem, Scena V, Villa Dogsborough.

[4] Ibidem, Scena VIII, Sede dei trusts dei cavolfiori.

[5] Ibidem, Scena VIII, Sede dei trusts dei cavolfiori.


Bertolt Brecht (1898-1956) – Gli amanti costruiscano il loro amore conferendogli alcunché di storico, come se contassero su una storiografia. L’attimo non vada perduto
Bertolt Brecht (1898-1956) – Il commercio non è mai pacifico. Parole come «commercio pacifico» nella storia non hanno un posto. I confini che le merci non possono superare, vengono superati dagli eserciti.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Paul Hazard (1878-1944) – La scienza sta già diventando un idolo, un mito. Si comincia a confondere insieme scienza e felicità, progresso materiale e progresso morale; a credere che la scienza prenderà il posto della filosofia, della religione, e che basterà a soddisfare tutte le esigenze dello spirito umano.

Paul Hazard 01

«La scienza sta già diventando un idolo, un mito. Si comincia a confondere insieme scienza e felicità, progresso materiale e progresso morale; a credere che la scienza prenderà il posto della filosofia, della religione, e che basterà a soddisfare tutte le esigenze dello spirito umano.».

Paul Hazard, [La Crise de la conscience européenne : 1680-1715 (1935)] La crisi della coscienza europea,  2 voll., II, il Saggiatore, Milano 1968, p. 398.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Fernando Pascual – Questo libro di Maurizio Migliori è importante per approfondire questioni fondamentali della riflessione umana, offrendoci nuove strade per avvicinarci alla verità.

Fernando Pascual - Maurizio Migliori 01

Maurizio Migliori

La bellezza della complessità. Studi su Platone e dintorni. Introduzione di Luca Grecchi.

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De un modo cordial y bien articulado, Luca Grecchi expone en la introducción algunos de los muchos méritos de Maurizio Migliori y de sus opciones interpretativas a la hora de hacer historia de la filosofía y, en concreto, sobre el modo de estudiar a Platón, al mismo tiempo que ofrece, con sencillez estimulante, un punto que lo distancia de Migliori acerca del modo de encuadrar el proyecto utópico de Platón (pp. 14-15).
El volumen recoge 12 trabajos publicados anteriormente en los que Maurizio Migliori, conocido estudioso de Platón y profesor durante años en la Universidad de Macerata (Italia), profundiza en algunos argumentos de la filosofía antigua y, sobre todo, en el pensamiento platónico.
Los tres primeros capítulos (no están numerados así, pues aparecen simplemente como trabajos autónomos) están dedicados a figuras importantes del mundo antiguo: a Heráclito, con su compleja teoría en la que conviven las oposiciones entre unidad y multiplicidad, quietud y devenir; a Gorgias, presentado como un sofista importante para entender a Platón; y al movimiento sofístico en su conjunto, para mostrar sus nexos con el eleatismo y para dar relieve a la presencia de Protágoras y de Gorgias en Platón.
Con el cuarto capítulo entramos a un tema importante y fuente de un interesante debate en los últimos años: el método para escribir escogido por Platón y la intencionalidad de tal método. Para Migliori, en vez de dejar a un lado posibles incongruencias o saltos incomprensibles en los Diálogos, habría que fijarse precisamente en esos puntos extraños del texto para ir más a fondo en la filosofía platónica (p. 99). A través de ejemplos tomados de varios Diálogos, el Autor señala que el sentido de la escritura platónica radica en estimular filosóficamente al lector, en invitarlo a caminar en la búsqueda de buenos razonamientos (p. 115).
El Fedro, que suscita un continuo interés entre los estudiosos, es el centro de atención del capítulo quinto. Migliori no solo presenta el conjunto y las partes de esta obra, sino que busca evidenciar cómo este diálogo platónico tiene como punto central el alma y las relaciones entre el hombre y Dios (pp. 172-181).
Ha suscitado diversas discusiones el tema de la unidad (o falta de unidad) de la República, en concreto respecto de la transición entre los libros IX y X. Al argumento está dedicado el capítulo sexto, que resume al inicio la tesis de una reciente publicación a cargo de Mario Vegetti, autor que negaba tal unidad (como lo han hecho otros estudiosos). Migliori no comparte esa interpretación por motivos que expone a lo largo de ese capítulo (cf. sobre todo pp. 185, 189-192). Además, ilustra una interesante interpretación de los tres niveles de realidades (ideas, objetos particulares que incluyen objetos artificiales, imitaciones) que aparecen en el libro X de la República y que describen en cierto modo la relación en­tre el Demiurgo (Dios) y las ideas (cf. especialmente pp. 220-225).
El capítulo séptimo trata de la dialéctica platónica, relacionada con la doctrina de los principios, a partir de una serie de análisis centrados en dos importantes diálogos: el Parménides y el Filebo. Desde sus numerosos estudios sobre el tema, Migliori explica el sentido de la búsqueda platónica, en la que los problemas y aporías ocupan un lugar insustituible (pp. 276-278).
El siguiente capítulo continúa el estudio del Filebo, además de otros diálogos (sobre todo Protágoras, Leyes, Político y Parménides), para profundizar en el tema de la medida y su técnica propia, la metrética, que ocupa un lugar importante en la filosofía gracias a las semejanzas que tiene con lo que Aristóteles elaborará sobre la justa medida.
Con el capítulo noveno el lector encuentra una ayuda para comprender mejor la relación entre cuidado del alma, cuidado del hombre y cuidado de la sociedad según el pensamiento platónico (p. 406). Migliori sintetiza la doctrina sobre el alma y la prioridad de esta respecto del cuerpo, sin que ello implique un desprecio total de la dimensión corporal en el hombre. De allí se desprende la propuesta de trabajar en el autodominio y en el cuidado del alma, que aparece ya en la Apología y que reaparece en otros Diálogos, llegando hasta las Leyes (cf. especialmente pp. 411-426). Este capítulo es especialmente ilustrativo de temáticas constantes en el pensamiento de Platón, como la propuesta del carácter educativo de las leyes (pp. 447-449); o el nexo (problemático pero que debe ser encontrado) entre vida virtuosa y felicidad (pp. 461-468); o la apertura a la vida más allá de la muerte, a la escatología como horizonte necesario para la comprensión del sentido y de la finalidad de la aceptación de la justicia como criterio para el propio actuar (pp. 468-471).
El tema de la amistad (philía), con sus diversos matices, ocupa la atención del capítulo décimo. Tras una breve descripción de los diversos significados que tiene el término en Platón (pp. 475-477), el Autor subraya la dimensión política y educativa que puede darse a la amistad (pp. 477-482), para luego fijarse en dos diálogos más concretos, el Critón y el Lisis, con algunas breves relaciones con lo que también se dice sobre la philía en las Leyes. El capítulo concluye comparando los planteamientos diferentes pero no totalmente incompatibles de Platón y de Aristóteles sobre el argumento.
Va más allá de la filosofía antigua el capítulo undécimo, que analiza el paradigma griego de afrontar el tema de la inmortalidad, y luego el paradigma bíblico centrado en la resurrección de los muertos. Migliori presenta al inicio las ideas sobre la muerte y el alma en el antiguo mundo griego, en Platón y en Aristóteles. A continuación, hace un rápido resumen de lo que la Biblia y la cultura hebraica pensaban sobre la unidad del hombre, sobre la vida tras la muerte, sobre el pecado y sobra la resurrección. Con los datos expuestos, puede destacar las diferencias profundas entre la visión griega y la bíblica sobre el hombre y sobre el más allá, con la ayuda (no exenta de dificultades) de algunas tesis de O. Culmann (pp. 529-531).
El último capítulo podría considerarse como una especie de síntesis de la propuesta interpretativa de Migliori, al poner como centro de atención la conveniencia de un acercamiento multifocal a la hora de interpretar el pensamiento platónico y el aristotélico. El Autor considera que el modelo evolutivo, que tanta difusión tuvo durante el siglo XX, no ha sido capaz de explicar adecuadamente los textos de los grandes autores del mundo griego, y por eso propone, sobre todo a la hora de interpretar a Platón y a Aristóteles, un acercamiento multifocal (multifocal approach), respetuoso sea de la complejidad de los textos, sea del mismo planteamiento que el fundador de la Academia expone en algunos Diálogos (cf. especialmente pp. 555-559).
Al final se ofrece un índice de nombres y, tras el índice, un elenco de obras de Maurizio Migliori. Falta una sección que refleje en su conjunto la bibliografía citada en el volumen.
Como parte de un largo camino de investigaciones sobre Platón y sobre otros argumentos de la filosofía griega, esta publicación sirve para profundizar en temas fundamentales de la reflexión humana que, desde las primeras etapas del pensamiento racional, siguen siendo objeto de interés al ofrecernos caminos para conseguir un mayor acercamiento a la verdad.

Fernando Pascual, L.C.


Fernando Pascual, Professore Ordinario della Facoltá di Filosofia, Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, Roma.

«Alpha Omega» 2020 n. 2, pp. 353-355.


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Costanza Fiorillo – «Non dirmi che hai paura» non era il mio genere di libro. Ma adesso lo è diventato. Mi ha aiutata a comprendere una realtà che non avevo compreso appieno. Ho capito l’importanza di Avere un sogno e di essere protagonisti della propria vita, perché vivere significa rischiare tutto per qualcosa in cui si crede.

Samia Yusuf Omar - Costanza Fiorillo

A Samia Yusuf Omar dedico questi miei pensieri 
e il video che ho preparato come lavoro per la scuola.

Costanza


Samia, disegno di Costanza Fiorillo

Non dirmi che hai paura non era il mio genere di libro.
O, almeno, così dicevo prima di averlo letto.
Ma adesso lo è diventato.

Mi ha aiutata a comprendere una realtà che non mi era estranea ma che, finora, non avevo compreso appieno.
Grazie a questo libro ho capito cosa significa davvero nascere in un paese in guerra, dove si rischia la vita anche solo uscendo di casa. Un paese dove un fratello arriva ad uccidere un altro fratello per denaro, dove non c’è libertà di esprimersi.
Ma, cosa più importante, ho capito per davvero cosa rappresenta “il viaggio” per molte persone migranti. Si è disposti ad affrontare di tutto, il deserto, il mare, pur di raggiungere una nuova vita, per poi essere destinati o a morire in mezzo all’acqua o alla sabbia, o, peggio, ad essere riportati indietro quando manca così poco a raggiungere il proprio sogno, così come è accaduto a Samia.
E spesso quel sogno si scontra anche con il disprezzo e l’ignoranza delle persone che non sanno accoglierlo e riconoscerlo. Questo è accaduto e accade anche adesso spessissimo. Lo abbiamo visto purtroppo anche recentemente con i porti italiani chiusi allo sbarco delle navi che hanno soccorso i migranti in mare.
Samia Yusuf Omar corre per non deludere suo padre, corre per onorare il suo Paese, corre per riscattare le donne che si nascondono sotto al burqa, ma soprattutto corre per realizzare un sogno: partecipare alle Olimpiadi con la bandiera della Somalia. Una ragazzina che, nonostante la guerra, le minacce e l’integralismo islamico non perde la forza e il coraggio di sperare che il suo sogno possa avverarsi.
Io penso che sia sempre importante avere un sogno da inseguire con determinazione senza lasciare che la paura di non poterlo realizzare ci impedisca perfino di provarci. Perché tutti dovrebbero essere protagonisti della propria vita e perché vivere significa rischiare tutto per qualcosa in cui si crede.
Grazie abayo.

Costanza Fiorillo

Liceo artistico Statale Policarpo Petrocchi, Pistoia, Prima D



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Copertine e schede editoriali (321-330) – Luca Grecchi, Gabriella Putignano, Salvatore A. Bravo, Arianna Fermani, Sergio Rinaldelli, Mino Ianne, Costanzo Preve, Margherita Guidacci, Ilaria Rabatti, Giancarlo Chiariglione, Alberto Giovanni Biuso, Carmine Fiorillo, Massimo Bontempelli.

321-330

321
Luca Grecchi, Scritti brevi su politica, scuola e società.
ISBN 978-88-7588-209-9, 2019, pp. 192, formato 140×210 mm., Euro 15 – Collana “Il giogo” [101].
In copertina: Volta dell’Eremo di San Galgano, sec XII, Chiusino, Siena.

322
Gabriella Putignano, Flash di poesia, dipinti di versi. Prefazione di R. Pellegrino. Postfazione di F.  Malizia.
ISBN 978-88-7588-213-6, 2019, pp. 88, formato 140×210 mm., Euro 10.
In copertina: Tommy Ingberg, Reveal.

323
Salvatore A. Bravo, L’albero filosofico del Ténéré. Esodo dal nichilismo ed emancipazione in Costanzo Preve. Dalla metafora del deserto (Nietzsche-Arendt) al fondamento veritativo in Costanzo Preve.
ISBN 978-88-7588-231-0, 2019, pp. 176, formato 170×240 mm., Euro 15 – Collana “Il giogo” [102].
In copertina: L’albero del Ténéré, deserto del Ténéré, nordovest del Niger.

324
Arianna Fermani, Divorati dal pentimento. Sguardi sulla nozione di metameleia in Aristotele.
ISBN 978-88-7588-246-4, 2019, pp. 64, formato 170×240 mm., Euro 7 – Collana “Il giogo” [103].
In copertina: William A. Bouguereau,The Remorse of Orestes (1862). In quarta di copertina: Michelangelo Merisi da Caravaggio, La Maddalena penitente, 1594-1595, Galleria Doria Pamphilj, Roma.

325
Sergio Rinaldelli, Come una foglia a primavera. Pagine di diario (2000-2018).
ISBN 978-88-7588-244-0, 2019, pp. 128, formato 130×200 mm., Euro 10.
In copertina: Sergio Rinaldelli, Giardino giapponese, olio su tavola, 2018.

326
Mino Ianne, Diremo addio ai filosofi greci? Il Cristianesimo deellenizzato del terzo millennio.
Prefazione di Arianna Fermani.
ISBN 978-88-7588-242-6, 2019, pp. 128, formato 140×210 mm., Euro 15 – Collana “Il giogo” [104].
In copertina: Il simbolo del pesce, in greco antico ΙΧΘΥΣ .

327
Costanzo Preve, Gesù tra i dottori. Esperienza religiosa e pensiero filosofico nella costituzione del legame sociale capitalistico.
ISBN 978-88-7588-240-2, 2019, pp. 128, formato 140×210 mm., Euro 13 – Collana “Divergenze” [63].
In copertina: Albrecht Dürer, Gesù tra i dottori (1506).

328
Margherita Guidacci, Sibille. Seguito da Come ho scritto “Sibille”. A cura di Ilaria Rabatti.
ISBN 978-88-7588-238-9, 2019, pp. 88, formato 140×210 mm., Euro 12 – Collana “Filo di perle”.
In copertina: Luca Lucherini, Sibilla (2019).

329
Giancarlo Chiariglione, Il discepolato di Ernesto De Martino. Tra religione, filosofia e antropologia. Prefazione di Alberto Giovanni Biuso.
ISBN 978-88-7588-236-5, 2019, pp. 56, formato 140×210 mm., Euro 10 – Collana “Il giogo” [105].
In copertina: Sascha Schneider, Eine vision, 1894-1895.

330
Koinè, L’essere della libera comunità e l’amore.
ISBN 978-88-7588-233-4, 2019, pp. 48, formato 140×210 mm., Euro 7 – Collana “Il giogo” [106].
In copertina: Henri Matisse, La danza, olio su tela, 1909. Ermitage di San Pietroburgo.



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Aldo Lo Schiavo – La condanna platonica della tirannide è radicale. Per Platone la città perfetta è un prodotto della ragione filosofica. La politeia ideale è il coerente progetto di trasformazione etico-politica della società temperato dal concetto di unità nella diversità. Il manifesto del filosofo laico.

Aldo Lo Schiavo 03


La condanna platonica della tirannide è radicale
La condanna platonica della tirannide è la più radicale che la storia del pensiero politico abbia mai pronunziato. Anche se tanta parte della cultura e della politica greche aveva già manifestato forte avversione a ogni forma di tirannide, quella di Platone può essere considerata a ragione la più coerentemente argomentata e fondata, e anche perciò rimane una condanna senza appello, definitiva. Platone infatti collega, come sappiamo, la fenomenologia politica al fondamento ontologico della costituzione psichica dell’uomo. Su tale base, la tirannide si pone necessariamente all’estremo limite della scala degenerativa del potere, così come l’uomo tirannico costituisce l’ultimo anello della degradazione morale dell’individuo. Alla radice di tutto ciò sta l’eros tyrannos (Repubblica, 573 b). L’indigenza (penia), l’insaziabilità (aplestia), lo spavento (phobos) caratterizzano certamente la personalità del tiranno (577 e – 578 a). Ma più di ogni altra cosa, è la condizione di schiavitù a contrassegnare sia la città dominata dal tiranno sia l’uomo dominato dall’animo tirannico: in entrambi i casi viene ridotta al minimo la possibilità di agire secondo libera determinazione (577 c-e). La tirannide si pone all’ultimo gradino delle forme politiche degenerate proprio perché si trova all’estremo opposto della città ideale, così come l’individuo tirannico si trova all’estremo opposto dell’uomo regale aristocratico (576 d, 580 b-c). In effetti, «non c’è città più sventurata di quella sottoposta a tirannide, né più felice di quella governata dalla regalità» (576 e); correlativamente, «l’uomo più virtuoso e più giusto è il più felice, […] il più malvagio e più ingiusto è il più sventurato» (580 c). Si ha così anche la dimostrazione conclusiva del punto che Socrate aveva posto all’inizio della Repubblica (354 a): «il giusto è felice, l’ingiusto sventurato» (pp. 351-352).

 

Per Platone la città perfetta è un prodotto della ragione filosofica
[…] Per Platone la città perfetta, indipendentemente dal fatto che sia mai esistita o che possa esistere da qualche parte, prima di ogni altra cosa è un prodotto della ragione filosofica. Essa «è posta in cielo come un modello (paradeigma) offerto a chi voglia vederlo, e tenendolo d’occhio possa insediarvi se stesso» (Resp. 592 b; trad. di M. Vegetti). Più esattamente, fuor di metafora, essa si configura come un imperativo laico, il dover essere di ogni persona filosoficamente formata. Questi può vederla idealmente in cielo, in quanto può realizzarla in se stesso come una «costituzione interiore» (591 e 1; 590 e 4), in quanto cioè si fa governare da ciò che in lui «è divino e dotato d’intelligenza» (590 d), dalla ragione appunto. La città ideale di Platone non cerca una legittimazione teologica, né un fondamento trascendente. Essa trova fondamento e legittimità nella natura razionale dell’uomo, alla cui responsabilità intellettuale e morale in ultima analisi risale. Tale valore normativo, però, non si esaurisce nell’interiorità del soggetto, ma obbliga il filosofo a intervenire nella realtà politica, a impegnarsi per la trasformazione della città storica nella città del modello, scoperto dentro se stesso come fosse in cielo. Il suo compito è di istituire quaggiù, e di difenderle se già istituite, le misure delle cose belle giuste e buone che egli vede lassù (484 d 1-3), ovvero che egli scopre con la ragione. Vedendo quelle essenze, «tutte disposte secondo un ordine razionale», egli non può limitarsi a plasmare se stesso, ma deve essere pronto a trasporre nella dimensione della realtà politica quell’ordine superiore noetico che trova disegnato nella città interiore-celeste (500 c-e). […]

La politeia ideale della Repubblica si presenta quale coerente progetto
di trasformazione etico-politica della società
La politeia ideale della Repubblica, quindi, da un lato costituisce […] il criterio di giudizio e di valutazione critica delle forme costituzionali registrate nella realtà storica, e, dall’altro lato, si presenta quale coerente modello normativo, quale progetto di trasformazione etico-politica della società, progetto sorretto da una rigorosa strategia educativa coinvolgente in modo diretto o indiretto l’intera comunità. Il disegno platonico, perciò, non può definirsi una semplice “metafora dell’anima”, quasi si esaurisse in quella “costituzione interiore” pur auspicata dal filosofo. Né d’altra parte esso assume le sembianze di un mito o di una visione puramente utopica della società. Quel disegno, invece, intende essere un paradigma ideale diretto a orientare l’azione, a guidare i comportamenti morali, sociali e politici dei singoli e dell’intera comunità. La realizzabilità storica di tale modello non è esclusa in linea di principio, sebbene questa possibilità rimane un evento del tutto eccezionale, e anche in questo caso, per i limiti insiti nella natura umana, non potrebbe trattarsi che di una realizzazione imperfetta, di una approssimazione al modello (472 b -473 b; 501 b-c). Della kallipolis (527 c 2) Platone non individua specifiche istituzioni politiche. Stabilisce però quale è la funzione o l’obiettivo dello stato perfetto, quale la sua struttura sociale, quali i fattori o le condizioni che devono contrassegnarlo.

Il progetto di Platone intende risolvere alla radice il problema della stasis
Il progetto di Platone intende risolvere alla radice il problema della stasis, della discordia intestina (444 b), che era propria delle città greche in generale e di Atene in particolare, come lo è stato in seguito di tutte le comunità pervase da forte spirito individualistico. L’unità dello stato diventa dunque l’obiettivo primo e fondamentale del suo disegno insieme etico e politico. Mentre una città mal governata non è “una” città ma una “pluralità” di città, una città invece ben governata nel segno della “saggezza” è una città unita (polin mia) (422 e – 423 a). E la ragione di ciò sta nell’attuazione di un «principio», quello della “giustizia” (nel senso platonico del termine), ossia nel principio secondo il quale ogni parte di un tutto (sia esso l’individuo o la città) deve svolgere la propria funzione senza invadere quella delle altre, e fare in modo che tutte si armonizzino fra di loro, in base a quella sapienza (sophia) che presiede a queste cose (443 b – 444 a). In tal modo si ha l’uomo giusto e la città giusta. […] Tale principio riflette ancora il motivo socratico del primato della competenza. Si giunge così a vedere che il massimo bene (megiston agathon) per l’assetto dello stato, quello al quale il legislatore deve mirare nel porre le leggi, consiste nel coordinare insieme le differenti parti (gruppi sociali) della città, in modo da farne di molte una, mentre il massimo male (megiston kakon) consiste nel separare quelle parti, sì da fare di una città sola molte città (462 a 2 – b 2). Alla promozione dell’unità dello stato nella diversità delle sue componenti interne, Platone collega un secondo, non meno importante, obiettivo, che consiste nella promozione e salvaguardia del benessere generale. La felicità (eudaimonia) non può mancare nello stato ideale: bisogna, anzi, che l’intera città, e non un solo gruppo, sia per quanto più possibile felice (420 b-c). […]

Il richiamo all’unità fondativa dello stato
è fortemente temperato dal concetto di unità nella diversità
Queste tesi rivelano una concezione fortemente unitaria dello stato, ma tutt’altro che sorda e cupa, e anzi alquanto avanzata, attenta al fatto che non vi siano privilegi per alcun gruppo sociale e interessata all’esigenza che tutti i cittadini partecipino del benessere comune. Il problema è che, di fronte al valore assoluto dello stato, il singolo individuo non compare come soggetto portatore di valori autonomi, non conta come tale; compare soltanto come cittadino e come membro di una classe sociale. Questo limite è tipico, peraltro, della concezione tradizionale della polis greca. Semmai bisogna riconoscere che Platone approfondisce, come nessun altro pensatore greco, gli elementi costitutivi che sono al fondo della personalità umana e della sua autonoma responsabilità, elementi in mancanza dei quali non avrebbe neppure senso parlare dell’individuo come soggetto autonomo. Il richiamo all’unità fondativa dello stato, d’altra parte, è fortemente temperato dal concetto di unità nella diversità, diversità di ruoli e di funzioni relativi purtroppo ai gruppi sociali più che agli individui nella loro singolare autonomia (pp. 355-358).

Il manifesto del filosofo laico

La digressione sul filosofo contenuta nel Teeteto (172 c – 177 c) per un verso richiama motivi socratici presenti nella giovanile Apologia, ma per altro e più importante verso si colloca nella prospettiva di pensiero della maturità di Platone. Conviene ora esaminare queste pagine nella loro interezza, individuando i punti salienti del discorso di Socrate, prima di formulare un giudizio d’insieme sulla digressione stessa.

La schiavitù dei retori e la libertà del filosofo
Il filo conduttore del ragionamento di quelle pagine è rappresentato dalla contrapposizione fra due condizioni di vita antitetici: la schiavitù del retore e la libertà del filosofo. Fin dalle prime righe del discorso di Socrate (172 c) viene sottolineata la differenza che corre fra quanti sono abituati a frequentare tribunali e luoghi simili e quanti invece sono stati allevati allo studio della filosofia. I primi appaiono come schiavi di fronte a uomini liberi. La circostanza che discrimina le due condizioni sta nel modo di utilizzare il proprio tempo. Nella ricerca filosofica, la libertà (eleutheria) si sposa alla padronanza del proprio tempo; nella ricerca del successo, la schiavitù (douleia) è una conseguenza dei condizionamenti del tempo a disposizione nell’agone giudiziario o politico. Quelli che hanno trascorso «molto tempo» nello studio della filosofia, apprezzano il loro tempo libero, conducono i loro discorsi con agio, possono tranquillamente passare da un discorso all’altro se questo serve al loro unico obiettivo: arrivare a cogliere «ciò che è», l’essere (172 d 9). Gli altri, al contrario, si sentono incalzati dal tempo che scorre secondo la misura della clessidra, non possono svolgere i discorsi come desiderano, devono anzi sottostare ai limiti loro imposti da un padrone-giudice che, seduto sopra uno scanno, ha nelle sue mani «una certa giustizia» (172 e 6). Pur di prevalere nei tribunali o nelle assemblee, retori e simili non esitano ad agire per vie oblique, a ricorrere a menzogne e ingiurie, fino a perdere la dignità di un uomo libero. Soprattutto imparano presto a lusingare il loro padrone-giudice con le parole e a ingraziarselo con i fatti (173 a). In questa pagina, la condanna dei giudici e della giustizia amministrata dalla città non nasce, come nell’Apologia, dal caso singolo della sentenza ingiusta pronunciata contro Socrate, bensì è una condanna assai più forte, vuole essere una condanna generale dei tribunali e dei singoli giudici di ogni città e di ogni tempo, giudici ai quali sembrano inevitabilmente connaturati arroganza, arbitrio, corruzione. Il termine despotes qui usato per designare i giudici, appunto giudici-padroni, non lascia adito a dubbi sulla portata della loro condanna, una condanna senza appello. Il giudice non è uomo di giustizia, di cui illegittimamente si ammanta, perché, al pari dei retori, non fa parte degli uomini allevati nella filosofia, e quindi ignora cosa sia la vera giustizia, la giustizia in sé. A distanza di oltre tre secoli, Platone rinnova e rafforza filosoficamente la condanna espressa da Esiodo negli Erga nei confronti dei giudici-re del suo tempo, che ripetutamente definisce mangiatori di doni (dorophagoi).

Il sapere cui tende il filosofo
Chi si occupa di filosofia non ha giudici che presiedano alla sua attività, non è interessato a ciò che si discute nei tribunali o in altre adunanze pubbliche, né sa di tutte quelle cose e pettegolezzi di cui gli altri si servono per acquistare onori e reputazione. Soltanto il suo corpo risiede nella città, mentre il suo pensiero vola altrove, verso «le profondità della terra», come diceva Pindaro, o piuttosto verso l’indagine scientifica, la geometria, l’astronomia, la natura stessa degli esseri nella loro universalità. Esprime bene questo orientamento del filosofo la storiella di Talete deriso dalla servetta tracia perché, tutto preso a osservare le cose del cielo, non si accorgeva degli ostacoli che aveva davanti ai suoi piedi (173 c – 174 a). Qui siamo di fronte a un Platone molto lontano dall’agnosticismo del maestro. Quel Socrate che nell’Apologia dichiara di non sapere, e che anzi controbatte le accuse di Aristofane (19 b-d) asserendo che delle cose di sotterra e di quelle celesti egli non se ne intende né molto né poco e neppure si cura di fame ricerca, ebbene quel Socrate è stato sostituito nel Teeteto da un altro Socrate, il quale, al contrario del precedente, è proprio impegnato nella ricerca di come stanno le cose di sotterra e del cielo, è anzi tutto proteso ad abbracciare col pensiero «la terra tutta intera» e a fissare sempre lo sguardo su «il tutto (to pan)» (174 e 4 – 175 a 1). L’indagine sulla totalità del reale avvicina il filosofo alla sophia, che è il sapere appunto della totalità, del fondamento di ogni cosa. Nel perseguire questo obiettivo, peraltro, il filosofo non trascura di indagare ancora su cosa sia la giustizia e l’ingiustizia, in cosa consistano la felicità e l’infelicità umane (175 c). Tale è appunto il modo di essere del filosofo, di colui che è stato «allevato realmente nella libertà e nella padronanza del proprio tempo» (175 e 1 s.).

Assimilarsi a dio, ovvero diventare giusti
La conoscenza teorica, sia quella scientifica sia quella dialettica, non è sufficiente a realizzare il bene. Anzitutto occorre essere consapevoli che, nella natura umana, il bene si trova spesso commisto al suo contrario. Di conseguenza, bisogna cercare di fuggire dalle cose di quaggiù e tentare per quanto possibile di «assimilarsi a dio». L’impegno teorico deve tradursi nell’impegno pratico. L’assimilarsi al dio vuol dire «diventare con intelligenza giusti e santi», «fuggire la malvagità e perseguire la virtù» (176 b). Se è vero che la divinità in nessuna circostanza è ingiusta, bensì è sempre al massimo grado giustissima, non c’è nulla che più gli assomigli di colui che fra gli uomini sia diventato a sua volta dikaiotatos, il più giusto possibile. Conoscere ciò e comportarsi di conseguenza significa possedere vera sapienza (sophia) e virtù (arete), mentre non conoscerlo e non esserlo è manifesta ignoranza (amathia) e malvagità (kakia) (176 b-c). Il richiamo congiunto a sapienza e virtù indica che, nella prospettiva platonica, conoscenza e azione devono essere inseparabili, devono procedere in sintonia. Nella realtà, infatti, esistono due modelli di vita (paradeigmata): uno divino, felicissimo; l’altro non divino, infelicissimo. Scegliere fra questi due modelli, seguire l’uno o l’altro, con le conseguenze che ne derivano, è frutto di conoscenza e sapienza nel primo caso, di stupidità e follia nel secondo (176 e – 177 a). E allora assimilarsi a dio non vuol dire abbracciare un modo di vita ascetico, distaccato dal mondo. Né vuol dire seguire un particolare credo religioso. Al contrario, vuole semplicemente dire che è necessario ispirarsi a quel sommo criterio di giustizia che riteniamo appartenga nella sua purezza alla divinità, non essendo una qualità sempre e sicuramente presente fra gli uomini, i quali invece spesso la negano per ignoranza o per malvagità.

I temi ora riassunti consentono di vedere nella digressione del Teeteto un manifesto della libertà e laicità del filosofo. Il laicismo filosofico del Teeteto va molto oltre il laicismo agnostico dell’Apologia. Dalla giovanile adesione alla critica confutatoria di Socrate, Platone è passato alla rivendicazione dell’autonomia e piena libertà della ricerca filosofica. La stessa critica dell’uomo pubblico (oratore, sofista o mestierante politico) e la connessa condanna del foro giudiziario e dei giudici-padroni sono diventate assai più radicali e senza attenuanti. Ma il punto di maggior distacco sta nel fatto che ora la ricerca filosofica ha un obiettivo preciso: pervenire alla comprensione dell’essere, indagare la natura e l’uomo nella loro essenza costitutiva, scoprire attraverso queste indagini la ragione del tutto. La riflessione filosofica sull’essere, da un lato, la tensione morale verso la massima giustizia, dall’altro lato, danno fondamento a quell’ideale unitario di pensiero e di vita che identifica la sophia, la vera sapienza, per mezzo della quale l’uomo si sente vicino alla divinità, ovvero prossimo al grado più elevato di perfezione. Si comprende soltanto in questa chiave il senso della ricreata atmosfera socratica del Teeteto. Nel momento in cui si sta avvicinando alla sophia, ai più rigorosi criteri del sapere insieme scientifico-dialettico ed etico-politico, Platone rivive in una luce del tutto nuova l’insegnamento del maestro, al quale rivolge un ultimo omaggio, che è, in un certo senso, anche un commiato. Rende questo omaggio-commiato proprio perché è consapevole di essere entrato in un orizzonte di pensiero che ha superato o sta superando lo stallo aporetico del metodo socratico. Di tale nuovo orientamento, il Teeteto è documento significativo, almeno relativamente al pluralismo, insieme epistemologico e ontologico, che affiora sia nell’ abbozzo di teoria dei koina sia nella discussione intorno al tutto-intero e ai prota stoicheia […] (pp. 444-448).

 

Aldo Lo Schiavo, Platone e le misure della sapienza, Bibliopolis, Napoli, 2008.



Quarta di copertina

Nel corso della sua lunga esperienza intellettuale, Platone non ha certo dimenticato la grande lezione socratica. La sua opera, però, è andata ben oltre quella lezione. Se l’obiettivo primario è stato quello di trovare una soluzione positiva del problema morale e politico, egli ha tuttavia allargato progressivamente l’orizzonte della filosofia. Non solo ha indagato come nessun altro prima di lui le vie della ricerca, ma si è interessato in profondità ai temi dell’ordine della natura, della struttura del cosmo, dei principi stessi dell’essere e delle sue determinazioni molteplici. Egli ha inverato in una costruzione molto più avanzata e coerente ipotesi e idee della cultura prefilosofica e filosofica precedente. Al centro di tale costruzione trova posto un’attiva intelligenza ordinatrice, la quale, aldilà di tensioni e contrasti pure esistenti, promuove in ogni aspetto della realtà misure di ordine e di equilibrio che costituiscono la ragione d’essere delle singole cose e del tutto. L’itinerario filosofico di Platone appare contrassegnato da una ricerca, continua e sempre aperta, in fondo alla quale la philosophia riesce quanto meno a intravedere una superiore sophia, un’immanente sapienza ordinatrice operante in ogni sfera del cosmo e dell’esperienza umana.

Aldo Lo Schiavo (n. 1934) è stato ispettore centrale nel Ministero della pubblica istruzione per l’insegnamento della filosofia. È stato redattore capo e poi direttore della rivista «Annali della Pubblica Istruzione». Ha presentato un’interpretazione critica del pensiero gentiliano nel saggio La religione nel pensiero di G. Gentile («La Cultura», 1968, pp. 333-378) e nei due volumi La filosofia politica di G. Gentile (Roma 1971) e Introduzione a Gentile (Roma-Bari 1974, collana «I Filosofi»). Si è poi dedicato allo studio del pensiero greco, ed ha pubblicato a riguardo: Il contributo della tragedia attica al razionalismo antico (Roma 1979) e Omero filosofo. L‘enciclopedia omerica e le origini del razionalismo greco (Firenze 1983).


Aldo Lo Schiavo – Il sapere filosofico, quando non si isola in un formalismo tecnico fine a se stesso, trae sostanziale giovamento dall’analisi delle origini e del radicamento delle rappresentazioni mentali nel fitto tessuto di esigenze, sentimenti, reazioni individuali e collettive espresse nelle concrete situazioni in cui gli uomini operano e costruiscono la loro civiltà.
Aldo Lo Schiavo – Themis sa guardare all’avvenire del mondo, per il quale auspica un ordinamento al tempo stesso stabile e giusto, senza prevaricazioni e violenze. Themis pertanto esprime una normatività non costrittiva, non cieca, perché portatrice di una specifica sapienza cosmica.

Un tuffo …

… tra alcuni dei  libri di Aldo Lo Schiavo…














M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Maria Luisa Gatti – Nel presente testo vengono pubblicati diversi saggi di ermeneutica platonica realizzati da autorevoli studiosi del pensiero antico: GABRIELE CORNELLI, PIA DE SIMONE, FRANCO FERRARI, MARIA LUISA GATTI, RICHARD HUNTER, MAURIZIO MIGLIORI, FEDERICO M. PETRUCCI, ROBERTO RADICE, FRANCO TRABATTONI, CHRISTIAN VASSALLO.

Gatti Maria Luisa 01

«[…] Con questo nuovo volume, Interpretare Platone. Saggi sul pensiero antico, apriamo una nuova fase nelle pubblicazioni della Collana,[1] giunta ora alla centoquarantaseiesima uscita, avendo ancora una volta in cantiere libri di grande respiro scientifico, in un orizzonte spiccatamente internazionale.
Nel presente testo vengono pubblicati diversi saggi di ermeneutica platonica realizzati da autorevoli studiosi del pensiero antico, sulla scia del Seminario Internazionale di Filosofia Antica, da me inaugurato nel 2018 e concluso quest’anno, dedicato a Platone a al Platonismo, che ha visto la partecipazione di importanti autori su questi temi. Il volume non costituisce tuttavia gli atti del Seminario, ma intende essere una più ampia e ricca ricostruzione, grazie all’intervento secondo varie prospettive di studiosi di primo piano su queste problematiche.
L’intento è, infatti, quello di mettere a fuoco la tradizione platonica in alcuni punti di grande rilevanza scientifica, riprendendo le interpretazioni degli antichi alla luce dell’apporto di autori contemporanei.
L’interpretare Platone riguarda, infatti, da un lato i pensatori antichi successivi al grande maestro – senza trascurare le rivisitazioni che Platone stesso, a sua volta esegeta, ha dato di suoi predecessori come i Presocratici, avviando a partire da questi ultimi la sua rivoluzionaria revisione dei grandi problemi –, dall’altra i filosofi moderni e contemporanei e gli studiosi che si sono occupati di questa ricchissima corrente di pensiero.
Le riletture degli interpreti che qui intervengono sono di ampio respiro. Non si è cercata un’univocità, ma una polivocità di apporti, che rispecchiano le varie sfaccettature della ricerca attuale sul Platonismo.
Sono già stati fatti significativi bilanci e rassegne degli studi su Platone, sulle dottrine non scritte e sul Platonismo. Quest’opera si colloca in una fase ulteriore, nella varia e approfondita riflessione di autori attenti ai testi e alla letteratura scientifica, amanti di Platone, della tradizione platonica e del pensiero antico. In questo modo vengono offerti al vaglio degli studiosi dei contributi originali e aggiornati.
Il volume è costituito da due Sezioni, dedicate rispettivamente a Platone e al Platonismo.
La prima Parte riguarda specificamente il pensiero di Platone. Vengono qui presentati saggi che analizzano il rapporto fra la matematica pitagorica e la filosofia platonica; la dottrina del Bene, della Giustizia e delle virtù nel Cratilo; Alcibiade come laughter-maker nel Simposio; l’approccio multifocale alla metafisica di Platone; la problematica del Demiurgo platonico dal punto di vista del linguaggio, della cosmologia e dell’allegoresi; la dottrina della partecipazione nel Parmenide; e infine questioni fisiche, gnoseologiche ed escatologiche del Fedone legate al concetto di elpis.
La seconda Parte affronta, nell’ambito del Platonismo, il problema dell’eudaimonia e della conoscenza in Plutarco; il conflitto delle interpretazioni sul Bene e il demiurgo nel Medioplatonismo e la questione della causalità divina in Apuleio […]».

Maria Luisa Gatti, Introduzione a Interpretare Platone. Saggi sul pensiero antico, a cura di Maria Luisa Gatti e Pia De Simone, Vita e pensiero, Milano, 2020, pp. 6-7.

***

[1] La Collana «Temi metafisici e problemi del pensiero antico. Studi e ricerche» fondata da Giovanni Reale e attualmente diretta da Maria Luisa Gatti e Roberto Radice.


 

INDICE DELLA MATERIA TRATTATA

Introduzione di Maria Luisa Galli

PLATONE

GABRIELE CORNELLI
La seconda navigazione “pitagorica” di Platone.
La matematica pitagorica e il sistema di derivazione platonico

MARlA LUISA GATTI
“Niente di giusto dopo il tramonto del sole”.
Bene, sole, giustizia e virtù nel Cratilo di Platone

RlCHARD HUNTER
Alcibiades the laughter-maker

MAURlZIO MIGLIORI
Un approccio multifocale alla metafisica di Platone

ROBERTO RADICE
Senza il Demiurgo niente sarebbe conoscibile del mondo naturale.
Riflessioni sul concetto di creazione

FRANCO TRABATTONI
La partecipazione nel Parmenide

CHRISTIAN VASSALLO
Paradossi (pre)platonici della speranza nel Fedone: fisica, conoscenza, escatologia

 
IL PLATONISMO

PIA DE SIMONE
“Gli uomini buoni sono amici degli dèi”. Il rapporto tra eudaimonia e conoscenza in Plutarco

FRANCO FERRARI
Il Bene e il demiurgo: identità o gerarchia? Il conflitto delle interpretazioni nel medioplatonismo

FEDERICO M. PETRUCCI
Un dio non artigiano? Apuleio e la divulgazione di una teologia medioplatonica


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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