«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
«Quante volte ciascuno di noi ha “passeggiato” per la campagna senza saper decifrare il paesaggio umano che contemplava! Guardavamo e il nostro occhio era quello di un esteta goffo che confonde i fatti della natura e i fatti umani, che osserva i prodotti dell’azione umana – quel volto che cento secoli di lavoro hanno dato alla nostra terra – come si osserva il mare o il cielo, nei quali ogni traccia umana scompare».
Henri Lefebvre, “Introduzione”, in Id., Critica della vita quotidiana [1947], trad . il. di Vincenzo Bonazza, Dedalo Libri, Bari 1977, voI. l, p. 151.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
«Fratello! Non mi sono scoraggiato né perso d’animo.
La vita è vita ovunque, la vita è dentro di noi, non al di fuori. Intorno a me ci saranno altri uomini, ed essere un uomo tra gli uomini e rimanerlo per sempre, qualunque disgrazia capiti, senza lamentarsi, non perdersi d’animo – ecco in che cosa consiste la vita, qual è il suo scopo. Me ne sono reso conto. Quest’idea si è fatta di carne e sangue. È la verità! Quella testa che creava, si nutriva della vita superiore dell’arte, che ha compreso e si è abituata alle nobili esigenze dello spirito, quella testa ormai si è staccata dalle mie spalle. Ne è rimasto il ricordo e le immagini create, ma rimaste ancora senza forma. Lasceranno cicatrici, è vero! Però in me è rimasto il cuore, e quella carne e quel sangue che ancora possono amare, soffrire, desiderare e ricordare, e in fondo anche questa è vita! On voi! le soleil!».
Lettera di Fëdor Dostoevskij al fratello M.M. Dostoevskij, 22 dicembre 1849, San Pietroburgo, fortezza di Pietro e Paolo, in FëdorDostoevskij,Lettere, a cura di Alice Farina, traduzione di Giulia De Florio, Alice Farina e Elena Freda Piredda, il Saggiatore, Roma 2020.
Quarta di copertina
Fëdor Dostoevskij è uno dei più grandi scrittori di ogni tempo. Le sue opere sono annoverate tra i capolavori della letteratura di ogni epoca e luogo e, ancora oggi, nutrono lettori di tutto il mondo. Sono romanzi totali, monumenti letterari che contengono un sapere universale e manifestano la complessità della nostra esistenza travalicando confini e generazioni. Così le Lettere che Dostoevskij ha affidato alle mani dei suoi familiari, dei suoi amori, dei suoi sodali costituiscono, come scrive Alice Farina nell’introduzione, «il romanzo di una vita», «un’opera letteraria parallela all’opera, ma anche sorgente viva per l’opera stessa». E difatti sembrano traboccare di materiale romanzesco: l’arresto per aver frequentato un circolo di socialisti utopici, la condanna a morte, la grazia ottenuta pochi minuti prima di salire al patibolo; il confino in Siberia e la persecuzione della malattia; la continua e strenua battaglia per migliorare la propria condizione economica senza sacrificare nulla della propria arte. Ma questo materiale è qui innestato all’interno di una vita, la quale non può che diventare a sua volta sorgente creativa, in un continuo gioco di vasi comunicanti.Per buona parte inedite in Italia, queste pagine testimoniano poi gli scatti e le evoluzioni del pensiero di Dostoevskij, permettendoci di osservarne da vicino i movimenti interiori, come quando nel 1839, a soli diciotto anni, dichiara con orgoglio al fratello di voler dedicare la propria vita a svelare il mistero dell’essere umano. Le Lettere qui raccolte – ora interamente ritradotte, a comporre l’epistolario di Dostoevskij più completo mai pubblicato in Italia – raccontano questa missione; tracciano le linee di un’autobiografia intima e coinvolgente e rivelano una personalità infuocata, dedita alla letteratura fino allo stremo delle forze; offrono un nuovo sguardo sul suo percorso intellettuale e sulla genesi di opere che hanno cambiato per sempre la letteratura, sollevando interrogativi che ancora reclamano risposte. Sono la lente d’ingrandimento sulla vita di uno scrittore che ha esplorato gli abissi della condizione umana e ne è uscito più vivo che mai.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
Da quando il denaro […] ha iniziato a venire in onore, il reale valore delle cose è caduto in discredito, e noi [siamo] diventati ora mercanti ora merce in vendita.
Seneca
«Fare soldi è un arte, lavorare è un arte.
Un buon affare è il massimo di tutte le arti»
Andy Warhol
Great Seal of the United States, Diritto dello stemma.
Great Seal of the United States, Rovescio dello stemma.
Sul Great Seal (Grande Sigillo) degli Stati Uniti e sul dollaro furono scritte dai “Padri Fondatori” degli Stati Uniti tre frasi in Latino invece che in Inglese. Due di esse furono tratte liberamente da Virgilio. Si sentivano gli eredi di Augusto, e comunque si autocebravano con questa ascendenza che li legittimava alla loro “missione storica”.
Annuit coepitis è la versione affermativa (“Dio è favorevole all’impresa”) della preghiera troiana a Giove “Audacibus annue coepitis” (Eneide, IX, 625); e “Novus ordo s[a]ec[u]lorum” viene dalla Egloga IV di Virgilio, significativamente quella in cui si troverebbe una anticipazione del cristianesimo. E guarda un po’: l’Eneide esprime un programma ideologico che corrisponde al programma politico di Ottaviano detto Augusto, l’iniziatore dell’Impero romano.
Quando si parla della “vocazione imperiale” degli USA!
E Joseph Robinette Biden Jr., al di là delle evidenti macroscopiche difformità con lo «stupido e infantile Trump» (come lo definisce Michael Wolff), a cosa si sente “vocato”? Muterà forse il fine del dollaro “umanizzando” il suo corso e rendendolo meno “imperiale”?
Carmine Fiorillo
Dipinto di Andy Warhol.
«Fare soldi è un’arte, lavorare è un’arte.
Un buon affare è il massimo di tutte le arti».
Andy Warhol
La firma di Andy Warhol sul dollaro USA.
«Da quando il denaro, che tanti magistrati e tanti giudici tiene avvinti, che addirittura crea magistrati e giudici, ha iniziato a venire in onore, il reale valore delle cose è caduto in discredito, e noi, diventati ora mercanti ora merce in vendita, non esaminiamo più la qualità, ma il prezzo. Per interesse siamo onesti, per interesse siamo disonesti, e inseguiamo la virtù fin tanto che c’è la speranza di guadagnarci, pronti a cambiare rotta se il vizio promette di più. I nostri genitori ci hanno inculcato l’ammirazione per l’oro e l’argento, e la cupidigia, instillata in noi fin da piccoli, ha messo radici profonde ed è cresciuta con noi. Cosi il popolo intero, in tutte le altre cose discorde, su questo soltanto conviene: questo ammirano, questo si augurano per i loro cari, questo consacrano agli dèi, come espressione massima delle cose umane […]. I costumi si sono ridotti a un livello tale che la povertà è considerata maledetta e infamante, disprezzata dai ricchi, invisa ai poveri».
Lucio Anneo Seneca, Lettere a Lucilio, 115, 10-11; trad. di C. Nonni.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
La modernità (da intendersi qui come contemporaneità) è l’epoca della scienza e della tecnica, non della filosofia, che pure, occupandosi dell’intero, ne costituisce la base. La scienza e la tecnica, le quali si occupano delle parti, senza una consapevolezza filosofica sono però cieche rispetto al fine di cui sono strumenti. Tale fine, da almeno un paio di secoli, è purtroppo dettato dal modo di produzione capitalistico, e consiste dunque nella massima valorizzazione del capitale, il quale non ha nessuna cura per l’uomo e nessun rispetto per la natura. In merito alla effettuale priorità moderna della scienza e della tecnica sulla filosofia, concordano sia la maggioritaria componente liberale della modernità, sia la minoritaria componente marxista. Per ambedue queste componenti, il pensiero filosofico-politico classico è infatti secondario in quanto “non scientifico”. Ciò, per il pensiero liberale, lo rende “pericoloso”, in quanto esso – non richiesto – effettua analisi ed emette giudizi sulla totalità sociale; ciò, per il pensiero marxista, lo rende invece “inefficace”, in quanto il pensiero filosofico-politico classico si illude soltanto di effettuare analisi ed emettere giudizi sulla totalità sociale. In sostanza, ciò che il pensiero moderno critica più duramente del pensiero filosofico-politico classico è la sua pretesa di fondazione onto-assiologica, ritenuta arbitraria, e la sua conseguente – e pertanto ancor più arbitraria – “utopia progettuale”. Del concetto di “utopia” si sono date almeno due interpretazioni. La prima, liberale, sostiene che ogni “utopia” è espressione di un pensiero totalitario e violento (un sostenitore di questa tesi fu ad esempio Karl Popper). La seconda, marxista, sostiene che ogni “utopia” è espressione di un pensiero astratto ed illusorio (sostenitori di questa tesi furono anche, almeno in parte, Karl Marx e Friedrich Engels). L’etimologia greca del termine «utopia», coniato da Tommaso Moro, in qualunque modo venga ricavata, se in alcun caso può autorizzare la interpretazione liberale, può invece autorizzare la interpretazione marxista, che considera in sostanza l’utopia come la descrizione non di un «cattivo luogo», bensì come la descrizione di un «non luogo», ovvero di qualcosa di irrealizzabile nella storia. Tuttavia, come lo stesso Moro fa ben comprendere nel suo celebre testo, l’etimologia greca più verosimile del termine, ma soprattutto la più auspicabile, è quella per cui l’utopia descrive un «buon luogo» ideale in cui vivere, un modo di produzione sociale ideale conforme alla natura umana. È questa del resto la migliore definizione possibile di “comunismo”: quella di un modo di produzione sociale in cui gli uomini possano vivere in modo armonico realizzando la propria natura razionale e morale, dunque realizzando se stessi in modo compiuto. Contro ogni interpretazione “utopica” del comunismo (ossia contro ogni “progettazione di un buon luogo ideale in cui vivere”) si è, come accennato, schierato pressoché tutto il pensiero marxista, a cominciare da quello originario di Marx ed Engels. Questo erroneo e fuorviante approccio – la cui genesi è da ricavare nel clima scientistico-positivistico in cui si formò il pensiero marxiano e marxista – deve essere radicalmente rivisto, in quanto costituisce un regresso anche rispetto alla antica tradizione platonica. Soffermermandosi, sebbene sinteticamente, sul pensiero utopico di poco antecedente la nascita della modernità, strettamente derivato dal pensiero antico, si può dire quanto segue. I nomi dei due principali utopisti premoderni di epoca rinascimentale sono noti a tutti: Tommaso Moro e Tommaso Campanella. Il primo si ispirò fortemente a Platone, il secondo si ispirò fortemente al primo (oltre che al pensiero cristiano), a riprova di come il pensiero filosofico-politico classico sia stato il principale ispiratore del comunismo premoderno, ossia premarxiano. Nonostante tale rapporto diretto – o forse anche a causa dello stesso – Marx ed il marxismo ritennero in linea generale il tentativo utopico-progettuale del pensiero filosofico classico, così come quelli di Moro, Campanella e degli altri socialisti di epoche successive, “utopici” nel senso di “astratti, illusori, irrealizzabili”. Marx ed il marxismo ritennero tali questi tentativi in quanto non basati, a loro avviso, sulla analisi delle condizioni storico-sociali presenti, ma solo sul concetto classico – per loro assai discutibile – di “natura umana”. L’utopia progettuale pre-moderna fu insomma, per Marx ed il marxismo, nonostante alcuni meriti della medesima, quasi inservibile sia sul piano pratico (in quanto si basava sulla politica anziché sulla storia), sia sul piano teorico (in quanto si basava sulla filosofia anziché sulla scienza). Questa tesi è da ritenere errata. Pur nella consapevolezzza – basti consultare le molteplici pubblicazioni edite in proposito da Petite Plaisance negli ultimi 25 anni – del valore filosofico e scientifico del materialismo storico, e dunque della importanza della analisi storico-sociale, si sottolinea però che, senza mai giungere ad una consapevole comprensione filosofica, l’analisi storico-sociale, per quanto “scientifica”, non conduca a nulla. Molte premesse marx-engelsiane che si volevano “scientifiche” si sono peraltro rivelate errate in quanto, verosimilmente, inserite all’interno di un quadro di riferimento di tipo “scientistico-fideistico” – che ne richiedeva la “certezza” ma che come tale non era in grado di garantirla –, e non all’interno di un quadro filosofico classico, in cui invece avrebbero potuto essere valutate entro un più corretto orizzonte di “potenzialità” onto-assiologica.
Tornnando in ogni caso, per un momento, a Platone, occorre rilevare che, ispirandosi al suo pensiero, anche Moro e buona parte degli utopisti partirono dalla analisi critica e dalla valutazione negativa del proprio contesto storico-sociale, per delineare un modo di produzione sociale ideale storicamente realizzabile. Può essere interessante, per comprendere – in continuità col precedente pensiero greco e cristiano, ed in anticipazione del successivo pensiero moderno di Spinoza, Fichte, Hegel e Marx – il contenuto umanistico ed anticrematistico del pensiero utopico rinascimentale, riportare alcuni brani tratti proprio dall’Utopia di Moro che, se si escludono alcuni pensatori stoici, fu colui che per primo recuperò la grande progettualità ideale platonica. Moro, che scrisse Utopia nel 1516, analizzò in maniera lucida la realtà del proprio tempo, ed individuò sin da allora nella proprietà privata dei mezzi della produzione sociale, e nella conseguente centralità della merce e del denaro, la radice principale dei maggiori mali sociali. Contrariamente, infatti, a tutti coloro che considerano Moro e gli utopisti come pensatori astratti e fantasiosi, la lettura di qualche brano dell’Utopia potrà confermare che Moro aveva idee molto concrete e chiare. A suo avviso, in effetti, è letteralmente impossibile ben governare e far fiorire una buona comunità laddove tutto si misuri sulla ricchezza privata. Moro fu d’accordo con Platone su questo punto, e dunque ritenne che il solo modo per perseguire il benessere della comunità consiste nell’applicare in ogni campo il principio di uguaglianza; ma tale principio, sia per Platone che per Moro, non può essere rispettato nel momento in cui si tollera la proprietà privata. Secondo Moro, finché la proprietà privata dei mezzi della produzione sociale continuerà ad avere un ruolo centrale, la parte migliore della umanità rimarrà schiacciata dall’inevitabile fardello della povertà e della miseria. Egli peraltro non si limitò alla ricerca delle cause della disarmonia sociale ma, coerentemente, propose anche delle soluzioni che, a suo avviso, avrebbero dovuto essere accettate dai governanti per ricostituire un minimo di giustizia e di armonia sociale. In maniera analoga a Marx ed Engels – ma anche, ancora una volta, a Solone e Platone – Moro propose infatti di porre un limite ai terreni che ognuno può possedere, e al denaro che ciascuno può accumulare. Egli fu però consapevole che, senza la realizzazione di un modo di produzione compiutamente comunitario, con simili riforme potevano solo essere mitigati i mali cui accennava, un po’ come assidue e continue cure possono solo lenire le sofferenze di un corpo prossimo alla morte. Di curarlo a fondo non se ne parla nemmeno, finché esiste la proprietà privata. Non fosse che per queste parole, Moro risulta essere assai più radicale di molti “intellettuali di sinistra” che pure oggi vanno per la maggiore, i quali o si rifiutano di fare proposte, o fanno proposte “riformistiche” spacciandole per rivoluzionarie, o ipotizzano inverosimili “salti in avanti”. Moro invece, consapevole che «dove tutto si misura col denaro, si devono necessariamente esercitar molte arti del tutto senza senso, a servizio soltanto del lusso e del capriccio», riteneva che fossero completamente da rivoluzionare le finalità e le modalità della produzione, ma che ciò non potesse essere fatto senza un preliminare rivoluzionamento delle forme della proprietà. Se infatti la proprietà dei mezzi della produzione fosse comune, anche il lavoro potrebbe essere comune e pertanto l’attività da svolgere potrebbe essere distribuita nelle occupazioni necessarie al soddisfacimento dei bisogni primari, occupando un tempo assai minore, ma sufficiente per produrre tutto ciò che serve per vivere felici. In effetti, per Moro, tutto il tempo che non è strettamente necessario per i bisogni primari dovrebbe essere meglio impiegato dai cittadini, dedicandosi alle attività dello spirito e della cultura. In rapporto alle scarne affermazioni di Marx su come dovrebbe essere il comunismo, Moro – che pure non utilizza mai questo termine – sembra avere le idee molto più chiare, sottolineando innanzitutto la necessità di una pianificazione della produzione e della distribuzione: i prodotti del lavoro devono essere portati in determinati edifici, per essere divisi a seconda del genere; da questi magazzini si deve prendere solo ciò di cui si ha bisogno, senza dare in cambio denaro né prestazioni particolari. E, d’altronde, perché si dovrebbe prendere più di quanto risulti bastante, sapendo che non verrà mai a mancare nulla? In questo modo, scrive Moro, l’intero paese sarà come un’unica famiglia, in cui i comportamenti non comunitari saranno socialmente condannati. Per Moro, gli abitanti dell’isola di Utopia, ossia i futuri uomini di una società comunista, saranno felici in quanto non subiranno più il dominio della economia, ma lasceranno primeggiare la politica o, meglio ancora, la filosofia. «La questione fondamentale che costoro si pongono è in che cosa consiste la felicità dell’uomo», ed essa consiste nel «vivere secondo natura». La natura, a sua volta, «invita a vivere gioiosamente sostenendosi a vicenda». Privarsi di qualcosa per darla ad un altro è segno di umanità e gentilezza, ed è soprattutto motivo di arricchimento spirituale. Questa la struttura comunitaria che fu propria, in seguito, di varie utopie. Tutte o quasi queste utopie, da Moro in avanti (almeno fino al XIX secolo), hanno in effetti non solo stigmatizzato la proprietà privata ed il mercato, ma anche lo sfruttamento, la alienazione ed i lunghi orari di lavoro. Chiunque ritenga ogni fondato modello di totalità sociale come un qualcosa che si connoterebbe soltanto come statico ed astratto, non comprende il carattere insieme dinamico e concreto delle utopie. Tale carattere è stato in effetti messo in evidenza da pochi studiosi, fra cui sicuramente Luigi Firpo, secondo cui l’utopia si oppone sempre ad un determinato sistema ed alla sua ideologia, e pertanto agisce appunto come forza dialettica all’interno del processo storico. Un altro autore che si è espresso in tal senso – esperto, non a caso, di utopie antiche – è stato Lucio Bertelli, per il quale «il rapporto fra utopia e realtà è dialettico, nel senso che lo stesso insegnamento delle condizioni date e rifiutate si presenta come un’operazione di rettifica globale, che affonda le sue radici in una analisi radicale della realtà stessa». Da un lato il liberalismo, e dall’altro il marxismo, hanno attaccato il concetto di utopia (pur diversamente inteso). Tuttavia, l’utopia intesa come «buon luogo» ideale, come «paradigma in cielo» (lo scriveva Platone nella Repubblica, 592 B), rimane un elemento insostituibile per il pensiero umano, poiché per favorire la realizzazione di una totalità sociale migliore non vi è modo più appropriato che pensarla prima nelle sue strutture essenziali, valutando teoreticamente appunto prima se essa possa reggere alla prova dei fatti ed essere desiderabile, così da porsi poi come modello realizzabile. Nonostante, infatti, le due discutibili concezioni dell’utopia prodotte dal liberalismo e dal marxismo, essa rimane sostanzialmente un progetto al contempo di critica radicale del proprio contesto storico-sociale, e di costruzione teorica di un modo di produzione sociale alternativo. In un contesto come l’attuale, in cui regnano ingiustizia, sofferenza, povertà, alienazione, sfruttamento, l’unico motivo che spinge le persone a non voler abbandonare il capitalismo è l’incertezza nei confronti del mondo che potrà esserci, una volta che quello presente sia stato sostituito. Ebbene: nei limiti del possibile, ossia nei limiti della contingenza storica che necessariamente accompagnerà l’eventuale realizzazione di questo progetto, la «buona utopia» vuole proprio ridurre questa incertezza, ritenendo di poterlo fare non descrivendo le presunte leggi scientifiche della storia che dovrebbero portare al superamento del capitalismo, bensì delineando i princípi filosofici tramite cui questo progetto di superamento può e deve essere realizzato. La filosofia infatti, assai più della storia, costituisce la principale modalità culturale che può produrre una risposta politica di ampio respiro, la quale abbia come Soggetto l’intero genere umano trascendentalmente inteso (e non una singola classe). L’armonia, la comunità, la felicità o sono di tutti o di nessuno, poiché non si può essere realmente felici (ossia vivere in modo armonico e comunitario) quando una così gran parte dell’umanità soffre per cause evitabili. Poiché le cause di sofferenza umana (su vari piani) determinate dalle modalità sociali capitalistiche sono evitabili, è necessario pensare ad una nuova progettualità comunista, semplicemente per coerenza verso ciò che l’umanità richiede per realizzare compiutamente se stessa. Facciamo però un passo alla volta. Circa la tesi della possibilità di delineare in anticipo i tratti generali di un modo di produzione sociale alternativo, va detto che anche i critici del capitalismo più vicini alla filosofia tendono a diffidarne. Costoro ritengono in effetti che, così come si possono conoscere – data la limitatezza della condizione umana – solo poche facce di quel prisma poliedrico che è la storia dell’uomo, allo stesso modo si possono conoscere solo poche facce di quel prisma poliedrico che è l’uomo. L’uomo insomma, essendo – come molti filosofi nel corso del tempo hanno scritto – un ente troppo complesso per poter essere definito, sarebbe a loro avviso un ente che non possiede una natura stabile, bensì una natura mutevole nei diversi contesti storico-sociali. Per questo motivo non sarebbe pensabile alcuno stabile progetto di modo di produzione sociale ideale alternativo. Non dobbiamo stupirci della forza di questa tesi, che anche Marx, come ricordato, ha sostenuto in ampi passaggi della sua opera. Non dobbiamo stupircene poiché sostenere che una natura umana esiste, che può essere definita e che la sua struttura è razionale e morale (ossia che essa, per realizzarsi e rendere l’umanità felice, deve operare per la verità e per il bene), vincola, impegna, impone di realizzare nella vita, in ogni momento, i comportamenti migliori, quelli umanamente più rispettosi e fraterni, che certamente sono inizialmente i più difficili da porre in essere nell’attuale contesto storico-sociale. Non si tratta, sostenendo la tesi della esistenza e della definibilità della natura umana, di essere vittime del mito della “trasparenza totale” dell’uomo, che ci farebbe ritenere capaci di conoscere ogni lato di quel famoso prisma cui si accennava in precedenza. Si tratta solo di comprendere che l’uomo, come ogni ente facente parte dell’essere, possiede necessariamente una essenza, una sostanza, un contenuto stabile al di là delle sue empiriche molteplici determinazioni (anche il prisma, del resto, pur avendo molteplici facce, rimane pur sempre sostanzialmente un prisma), e che tale contenuto può dall’Uomo essere compreso. La «buona utopia» oggi è necessaria poiché, nella attuale devastazione materiale e spirituale della vita posta in essere dal modo di produzione capitalistico, per rapportarsi al futuro ci si deve affidare alla dimensione del “progetto”, ossia ad una visione d’insieme di ciò che gli uomini sono e di ciò che devono essere per realizzare una umanità felice.
Effimero, «l’essere umano è il sogno di un’ombra», scriveva Pindaro. Gli faceva eco Platone, che vedeva le anime, nel loro transito mortale, vivere solo qualche istante, forse un giorno: psychai ephemeroi.
Psyche è anche il nome della farfalla, e lievi, quasi impalpabili come farfalle sono gli umani. Ma anche senza fondo e spaventosi nella loro smisuratezza.
La filosofia greca sembra sorgere in risposta a questa esperienza contrastante. L’umano si scopre non solo vulnerabile, soggetto alle erosioni interiori ed esteriori del tempo, ma esso stesso pericoloso, luogo di una voragine di oblio e incoscienza, e in quanto tale capace di scatenare nel mondo il suo delirio, la violenza prevaricatrice.
È qui che si radica, in tutta la sua urgenza, l’imperativo delfico della conoscenza di sé e, a esso legato, quello della misura, della modulazione.
«Il senso della vista è cambiato con il passaggio al digitale. Prendiamo la storia della fotografia: è finita con la scomparsa dei negativi. Poi è cominciato qualcos’altro: quella rivoluzione digitale che è tutt’ora in atto. Ci siamo ancora troppo dentro per comprenderne realmente la portata. La disponibilità del mezzo fotografico sempre e in ogni luogo ha reso l’atto stesso del vedere meno prezioso. La fotografia è diventata un’attività casuale. Non importa più l’azione del vedere, ma il suo risultato digitale. E il risultato non è mai stato interessante per uno che di immagini se ne intendeva come Cartier-Bresson. Per lui guardare era un atto misterioso, sacro. Lo sviluppo di una fotografia arrivava molto tempo dopo».
Wim Wenders, I pixel di Cézanne e altri sguardi su artisti, Contrasto, 2017.
Quarta di copertina
Alcuni incontri sono stati fatali per Wim Wenders. Affinità artistiche, rapporti personali o professionali lo hanno legato a grandi pittori come Edward Hopper, Andrew Wyeth e, naturalmente, Cézanne; fotografi come Peter Lindbergh, James Nachtwey e Barbara Klemm e registi come Ingmar Bergman, Michelangelo Antonioni, Anthony Mann, Douglas Sirk, Samuel Fuller, Manoel de Oliveira e Yasujiro Ozu, o personalità come Pina Bausch e lo stilista giapponese Yohij Yamamoto. “I pixel di Cézanne” raccoglie i testi, in parte ancora inediti, scritti da Wenders negli ultimi 25 anni su questi personaggi. Ma il filo rosso che unisce le riflessioni del regista tedesco è il suo sguardo e l’inesauribile interesse per “l’atto del vedere”, in un rapporto indissolubile fra pensiero, scrittura, arte visiva e cinema.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
«Ora poiché la merce è destinata allo scambio fin dal momento della sua produzione, il produttore, già a livello di produzione diretta, prima dell’atto dello scambio, equipara il suo prodotto con una determinata somma di valore (denaro), e il suo lavoro concreto a una determinata quantità di lavoro astratto. […] Questa equiparazione deve preliminarmente avvenire “nella coscienza”, per potersi poi realizzare nello scambio effettivo. […]. Ora, il problema sta nella differenza tra “esistenza materiale” e ”funzionale” delle cose, tra prodotto del lavoro e sua forma sociale, tra cose e rapporti di produzione tra persone “concresciuti” alle cose, espressi cioè nelle cose. Ciò che si rivela è dunque la connessione inseparabile tra la teoria del valore di Marx e i suoi principi metodologici generali, formulati nella teoria del feticismo delle merci […]. Abbiamo a che fare con un rapporto umano che acquista la forma di cosa e in questa forma si collega al processo della distribuzione sociale del lavoro. In altre parole si tratta della reificazione di un rapporto di produzione tra persone».
Isaak I. Rubin, Saggi sulla teoria del valore di Marx, FeltrineIli, Milano 1976, pp. 59-60.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
Il veleno del nuovo campo semantico concentrazionario
Il potere conosce perfettamente (e ne tiene conto costantemente) la psicologia della massa che non pensa e va mantenuta incapace di pensare.
La lingua non si limita a creare e pensare per me, dirige anche il mio sentire, indirizza tutto il mio essere spirituale quanto più naturalmente, più inconsciamente mi abbandono a lei. E se la lingua colta è formata di elementi tossici o è stata resa portatrice di tali elementi? Le parole possono essere come minime dosi di arsenico: ingerite senza saperlo sembrano non avere più effetto, ma dopo qualche tempo ecco rivelarsi l’effetto tossico.
V. Klemperer
Potere e linguaggio Il potere possiede, dei popoli, prima le parole e quindi la vita. Per attuarsi il biopotere necessità di una precondizione: possedere le parole, operare sul linguaggio, introdurre nuovi significati, ridurre le prospettive di senso e di significato mediante il progressivo restringimento, l’esemplificazione, del linguaggio e ridurlo ad organo attivo della trasmissione del potere. I totalitarismi della contemporaneità si infiltrano nel pensiero, orientano la direzione dello sguardo ed il sentire con il tamburellare ossessivo delle parole. Le parole del capitale orientano verso la dimensione della quantità, neutralizzano ogni valutazione etica per favorire la sola componente legata al plusvalore. Il capitalismo fonda una nuova lingua per ri-orientare la natura dell’essere umano. Nel linguaggio quotidiano e mediatico le parole hanno un nucleo catalizzante: il plusvalore, dal quale a raggera si strutturano le altre parole e ne diventano la logica conseguenza. Le parole entrano nel corpo vivo, e ridispongono pensieri e sentimenti secondo l’ordine linguistico totalitario. Le parole straniere-anglofone – che i media esaltano come una forma di meticciato linguistico – sono tipiche di ogni totalitarismo. Attraverso di esse si indicano provvedimenti che normalmente non sarebbero popolari, ma la fascinazione magica della parola straniera consente il passaggio e l’accoglimento di provvedimenti che altrimenti potrebbero essere messi in discussione e, forse, razionalmente rifiutati. I popoli sono ridotti a plebi prima ancora che dalla sussunzione digitale, dalla sussunzione linguistica che riduce gli spazi temporali e progettanti per inchiodarli ad un presente senza futuro. Victor Klemperer, attraverso l’analisi filologica da lui compiuta sul linguaggio nazista (con i suoi acronimi, con la sua perversione dei significati, con il suo semplicismo aggressivo), ci è di ausilio per comprendere il presente, per cogliere nelle modificazioni introdotte oggi nella lingua che usiamo quotidianamente la diffusione del potere, e dunque, per capire che il potere non alberga in un “fuori”, ma vive nel soggetto parlante. Il soggetto è parlato dal potere, è de-soggettivizzato:
«Si farebbe però torto al Fürher se si attribuisse la sua preferenza per le parole straniere solo alla vanità e alla coscienza delle proprie deficienze. Hitler conosce perfettamente (e ne tiene conto costantemente) la psicologia della massa che non pensa e va mantenuta incapace di pensare. La parola straniera fa impressione, tanto più quanto meno viene compresa; proprio perché non viene compresa fuorvia, stordisce, soverchia il pensiero».[1]
La lingua del potere come arsenico La lingua del potere pensa per noi, le parole pensate dal potere determinano visuali ed azioni. La perenne attività del potere è un’operazione che si delinea mediante la selezione delle parole che devono circolare. Il veleno del condizionamento è nell’etere, nello scambio linguistico che diviene consolidamento del potere. L’automatismo linguistico è anti-dialettico. Le parole si comunicano senza mediazione concettuale, senza autocoscienza. La ripetizione del gesto come della parola diviene la nuova disciplina che orienta la vita. La nuova lingua deve formare l’homo œconomicus. Pertanto ogni “sospiro” deve essere sostenuto da parole di ordine economico, spesso anglofone, che marcano la vita dei soggetti sussunti. Le parole possono essere logos che emancipa o dosi di arsenico quotidiano, di cui ci si nutre e che riducono la vita dei popoli nella strettoia della gabbia d’acciaio di cui non si vedono le sbarre, perché sono le parole ad essere le sbarre d’acciaio invisibili entro cui si è confinati. Il campo di concentramento è stato allocato nella mente di ognuno:
«Ma la lingua non si limita a creare e pensare per me, dirige anche il mio sentire, indirizza tutto il mio essere spirituale quanto più naturalmente, più inconsciamente mi abbandono a lei. E se la lingua colta è formata di elementi tossici o è stata resa portatrice di tali elementi? Le parole possono essere come minime dosi di arsenico: ingerite senza saperlo sembrano non avere più effetto, ma dopo qualche tempo ecco rivelarsi l’effetto tossico».[2]
Nuovi eroismi Kemplerer analizza le parole. Un esempio di manipolazione è la trasformazione che il regime nazista ha fatto della parola eroe. L’eroismo per suo significato originario è il coraggio di mettere in pericolo la propria via per l’umanità. Il nazismo trasforma il significato della parola, la svuota del suo intrinseco umanesimo, per fare dell’eroe un assassino in nome del sangue e del suolo:
«Eroismo non è soltanto il coraggio e il mettere a repentaglio la propria vita, perché di questo è capace anche qualsiasi attaccabrighe o qualsiasi criminale. Originariamente è eroe chi compie delle azioni che promuovono l’umanità. Una guerra di conquista, tanto più una caratterizzata da tante atrocità come quella hitleriana, non ha nulla a che vedere l’eroismo». [3]
L’esaltazione dell’imprenditore come eroe dei nostri giorni, come datore generoso di vita, perché assume e permette la sopravvivenza di impiegati ed operai è un esempio della nuova manipolazione in atto. Il grande imprenditore è rappresentato dal circo orante asservito come il nuovo corpo divino che vivifica la nazione, come la mente da cui dipende il futuro dei popoli incapaci e “naturalmente inferiori”. Si cela del nuovo eroe la concretezza della sua ricchezza, che va dall’evasione fiscale, all’occupazione di ogni spazio mediatico, alla incultura dell’illimitato che attraverso di lui penetra nelle menti e diventa la religione laica del consumo e dell’individualismo violento. Il nuovo eroe è trattato come il santo della nuova religione che pratica la distruzione delle menti e dell’ambiente, ma specialmente è il feticcio con cui si insegna ai popoli a dipendere, ad essere comparse nel turbinio della storia.
Nichilismo e lingua in Tucidide Nel clima conflittuale vissuto quotidianamente, nel nichilismo violento quale nuova pratica del potere, le parole perdono il loro autentico significato. Le parole, per loro cornice naturale, sono collanti sociali e solidali, ma se la diffidenza si impossessa di un popolo, si instaura un clima di sfiducia, in cui le parole non sono altro che emissione fonatoria di nessun valore. Tucidide (in Storie, III, 83) ben descrive l’effetto della guerra e della violenza sul linguaggio vivo: le parole perdono significato, si svuotano del loro senso, non resta che il regno della forza a determinare vincitori e perdenti. Senza il logos non resta che la violenza a determinare la vittoria; gli esseri umani agiscono come creature in una giungla:
«Dunque, al seguito delle sommosse civili, l’immoralità imperava nel mondo greco, rivestendo le forme più disparate. La semplicità limpida della vita che è il terreno più fertile per uno spirito nobile, schernita, s’estinse. Dilagò e s’impose nei personali rapporti, in profondo, un’abitudine circospetta al tradimento. Non valeva il sincero impegno verbale a distendere i cuori, né il terrore di violare un giuramento. Ognuno, quando aveva dalla sua la forza, vagliando volta per volta il proprio stato, certo che nessuna garanzia di sicurezza era degna di fiducia, con fredda meticolosità si disponeva piuttosto a munirsi in tempo d’adeguata difesa che concepire, sereno, d’aprir l’animo suo agli altri. Ed erano gli intelletti più rudi a conquistare, di norma, il successo. Attanagliati dalla paura che il loro breve ingegno soccombesse all’acume dei propri antagonisti, alla loro destrezza di parola, nell’ansia d’esser trafitti prima d’avvedersene, dalla loro insidiosa mobilità inventiva, si slanciavano all’azione, con disperato fervore. I loro avversari invece, colmi di sdegnoso sprezzo, certi di prevenire ogni mossa nemica con una percezione istintiva, ritenevano superflua ogni concreta tutela fondata sulla forza fisica, e così scoperti perivano, fitti di numero».
Il potere vuole ridurre la formazione a semplice formazione professionale negando la formazione integrale degli esseri umani. In questo modo la lingua è ulteriormente ristretta nei suoi significati: il nuovo campo semantico concentrazionario diviene lo spazio-prigione entro cui, soltanto, ci si può muovere. Complementare alla sola formazione professionale è l’esaltazione dell’irrobustimento fisico, della bellezza fisica. Si predilige una dis-educazione che oscilla solo tra “lavoro” e “fisicità aggressiva”. L’educazione umanistica, la paideia, è secondaria, anzi pericolosa, e dunque tacitamente evitata. Si favorisce il movimento di uniformità linguistica globale, cosicché ovunque le parole abbiano a significare il mondo nella stessa spiritualmente povera maniera. La crisi dell’Occidente globalizzato è crisi linguistica, la cui causa profonda è il possesso delle parole e dei concetti da parte di taluni poteri che schiacciano i popoli solo sull’empirico della merce visibile e sulla quantificazione. Un nuovo umanesimo è possibile, poiché l’Occidente ha nella sua storia le lingue e le parole della liberazione, a partire dalla tradizione classica. Il potere è oggetto di frequenti crisi. Proprio perché globale, la sua forza imperiale è anche la sua debolezza. Sulle sue crisi bisogna agire anche con il logos della cultura classica. Il valore di una formazione comunitaria integrale è oggi più vero che mai. La barbarie della violenza che avanza anche nella neo-lingua imperiale non è un destino ineluttabile.
Salvatore Bravo
[1] Victor Klemperer, LTI. La lingua del terzo Reich. Taccuino di un filologo, Giuntina, Firenze 2011, p. 302. [2]Ibidem, pp. 111-112. [3]Ibidem, p. 20.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
La speranza, nel libro di Arianna Fermani, forte della sua fragilità, è apertura e rischio, si oppone alla paura, si accompagna alla fiducia e alla perseveranza, abita il campo della libertà, si confronta con la scelta, osa pensare il possibile (quando appare ancora impossibile) cercando di rendere realizzabile lo sperabile, è slancio verso il futuro, immaginazione creatrice, fiducia in un avvenire migliore costruito con pazienza e talento. È scommessa educativa, paideia, «speranza di seminare semi e di veder nascere fiori».
Recuperare la pregnanza di una parola a partire dalla sua etimologia, ritrovare le arterie di senso che si irradiano dal suo cuore vitale, ricostruire intorno ad essa un contesto culturale significa scavare nella sua profondità, fino a restituire quel nucleo originario che sopravvive miracolosamente intatto attraverso e malgrado le trasformazioni incise dal tempo e la patina opaca depositatavi sopra dall’uso quotidiano. È quanto fa Arianna Fermani nel suo recente saggio Senza la speranza è impossibile trovare l’insperato. La speranza antica tra páthos e areté con la parola bella ed impegnativa cui allude il titolo. Per i Greci la speranza è páthos, emozione, desiderio, passione, ma anche areté, virtù intesa come capacità di comportarsi in un certo modo, guidando e amministrando la passione stessa. Il greco έλπίς va ricondotto ad una radice elp corrispondente alla radice latina vel che ritroviamo nel verbo “volere”. È dunque forte la dimensione volitiva, per cui il soggetto che spera non si limita a sognare ad occhi aperti, ad inseguire chimere irrealizzabili, ma si dispone ad agire per dare forma al suo anelito. Immaginazione e volontà si coniugano, logos e pathos si abbracciano, un equilibrio si crea fra ragione e desiderio in un’ottica più generale capace di dare conto della complessità dell’uomo e di metterne in dialettica relazione le diverse facoltà.
La costellazione semantica della speranza La speranza si proietta verso il futuro e come tale cela in sé un’idea di attesa che si conserva in diverse lingue europee: lo spagnolo esperar ha assunto anche il significato di “aspettare”, così come anticamente il francese espérer, limitatamente all’area occidentale e meridionale del Paese, mentre attualmente mantiene tale accezione in particolari costrutti. Una sfumatura simile è presente nell’inglese hope, speranza, auspicio, ma pure attesa di un evento positivo. Questa parola è al centro di una costellazione semantica di cui l’autrice traccia le coordinate che permettono al lettore curioso di affacciarsi su una fitta trama di corrispondenze, analogie od opposizioni e di intraprendere un’autonoma esplorazione che, conducendolo in forme ed universi culturali differenti, restituisce appieno il peso culturale rivestito nelle comunità umane, oltre che nella psicologia individuale, da questa aspirazione indirizzata verso il futuro. Infatti, sottolinea Arianna Fermani, la prima nozione chiamata in causa dalla speranza è quella di orexis, aspirazione, termine che rinvia ad una tensione verso qualcosa o qualcuno. Questo movimento si ritrova nella radice sanscrita spa (tendere verso una meta) da cui il latino spes. Qualche studioso accosta tale radice alla radice spet che ha originato termini come il latino spatium o l’antico alto tedesco spannan,[1] distendere.
La speranza è apertura e rischio, si oppone alla paura e si accompagna alla fiducia e alla perseveranza Dunque, la speranza è movimento, apertura e rischio e come tale si oppone alla paura e si accompagna alla fiducia e alla perseveranza. La paura (da pavor, formato su paveo, temo, sono percosso, abbattuto) costruisce prigioni intorno all’uomo, cancella ogni orizzonte oltre le sbarre, vanifica desideri e volontà. Disegna un universo claustrofobico dove l’anima geme nel suo tedio infinito e la Speranza, timido pipistrello, sbatte le ali contro i muri. La poesia di Baudelaire Spleen mette in scena proprio il funerale della Speranza, la quale, dopo essersi invano dibattuta, lascia il campo all’Angoscia trionfante e dispotica che pianta sul cranio del poeta la sua nera bandiera.[2] Due sono i termini di cui dispone la lingua francese per “speranza”: l’Espérance (con una connotazione religiosa – una delle virtù teologali – e filosofica, disposizione dell’anima che porta l’uomo a considerare nell’avvenire un bene importante che desidera e che crede di potere realizzare) e l’Espoir, attesa di qualcosa di determinato, di preciso. Ora, nel componimento il passaggio dall’una all’altra è imprcettibile: l’Espérance della seconda strofa è un povero uccello prigioniero che cerca a tentoni una via di fuga e che finisce per assimilarsi all’Espoir in lacrime della strofa finale. Entrambe disfatte, tutte le strade sono chiuse, cielo e terra sono un’unica prigione. La catastrofe esistenziale del poeta, che fu anche catastrofe politica dopo la sconfitta del movimento rivoluzionario del giugno ’48 al quale egli aveva aderito con una certa ingenuità, forse, ma con un’autentica haine du bourgeois, trova proprio nella Speranza negata la figura chiave in cui si condensano angoscia, delusioni e sentimento di una vita mutilata. È, il suo, uno spirito intristito, che pure un tempo amava la lotta e che ora la Speranza non vuole più cavalcare e a cui non resta che la rassegnazione che il sonno regala al bruto.[3]
La speranza è il «giusto modo di sentire» ed è il campo dell’agire in cui il soggetto diventa protagonista L’ennui stende il suo sudario laddove la speranza muore, forse del suo stesso eccessivo ardore che l’ha portata a smarrire la dimensione di virtù che Aristotele le attribuiva, quel «giusto modo di sentire» che Arianna Fermani individua come il campo dell’agire in cui il soggetto diventa protagonista. Fragile e resistente al tempo stesso, la speranza va custodita e coltivata con la cura attenta richiesta da una pianticella esposta a venti, pioggia e arsura o da un cucciolo che muove i primi incerti passi in un mondo di cui il suo sguardo vergine non sa ben calcolare le insidie.
La speranza si posa sull’anima forte della sua fragilità È il piccolo uccello di Emily Dickinson, «quella cosa piumata che si viene a posare sull’anima» e non riesce a smettere di cantare, né si piega a tempeste o gelo, forte della sua fragilità.[4] Speranza si nutre di fiducia, cioè di relazione: la radice fid- delle lingue neolatine si collega al greco peith-, il quale rinvia al sanscrito bandh-, legame, corda. La fiducia è riconoscimento del proprio limite e apertura verso un’alterità che può assumere volto umano o rispondere ad un’istanza ideale, o ad una proiezione in un’esperienza possibile. Chi dà la propria fiducia mantiene vivo il legame con il mondo, si dispone in un una dimensione dialettica, riempie l’attesa della fede che qualcosa avverrà e che sarà un bene. È proprio la scissione dai legami che lo uniscono al mondo che precipita l’uomo nella buia segreta dove ad essergli compagni sono il tedio, l’angoscia e la paura.
La speranza abita il campo della libertà, la disperazione incatena al presente Speranza e fiducia si protendono verso l’avvenire, la disperazione incatena al presente, rimuove persino un orizzonte altro, e come concede un solo tempo, così conosce un solo spazio, quello delimitato dalle sbarre della gabbia. La speranza, dunque, abita il campo della libertà, perché osa pensare il possibile quando appare ancora impossibile e, in virtù della sua natura attiva, si spinge a pensare a come rendere realizzabile lo sperabile. Chi spera si confronta con la scelta: se non vuole cadere nelle sabbie mobili della vuota fantasticheria o nella trappola delle illusioni elegge, infatti, l’oggetto verso cui tendere, nella piena consapevolezza che l’atto stesso di sperare è indicativo di una mancanza.
Il logos sostiene la passione ed insieme generano progettualità Il logos sostiene la passione ed insieme generano progettualità, si gettano oltre l’esistente, ben conoscendo i limiti di questo e i propri. Oltre la strada tracciata c’è un vasto continente aperto all’azione, nuove linee da disegnare che altre speranze si ingegneranno di valicare in un dialogo fecondo quanto più è serrato che ha al centro la capacità umana di immaginare e costruire nuovi scenari individuali e comunitari. La speranza è dunque tutta interna a quel processo inesauribile che è la storia degli uomini, né è casuale che le grandi speranze collettive di liberazione sociale siano venute a cadere proprio in quegli anni in cui gli apologeti tardo novecenteschi del capitalismo decretarono la fine della storia, per assolutizzarne e naturalizzarne dominio ed egemonia ed espungere dall’orizzonte qualsiasi idea non solo di alternativa, ma persino di conflitto. La speranza diventa allora virtù eminentemente politica, negazione del meccanismo schiacciante di riproduzione sociale ed affermazione della necessità di immaginare mondi diversi. È l’Espoir che spinge i repubblicani spagnoli a battersi contro i franchisti non solo in nome di un generico antifascismo, ma con la prospettiva di cambiare in profondità gli assetti sociali del loro Paese.[5]
La speranza è scommessa educativa, paideia, «speranza di seminare semi e di veder nascere fiori» Fra le imprese umane costitutivamente rivolte al futuro, Arianna Fermani privilegia come particolarmente significativa la paideia, «speranza di seminare semi e di veder nascere fiori», i quali per sbocciare necessitano di tempo, cura e fiducia. La scommessa educativa è imperniata proprio sulla fides, «un atto di fiducia originaria» che richiede i tempi lunghi della conoscenza e dell’intimità. Anzi, su un duplice atto di fiducia che lega docente e discente, chiedendo ad entrambi di ripensare il tempo stesso, recuperando il valore dell’attesa, della lenta maturazione contro l’immediatezza della performance, l’idolatria del risultato, desolante espressione della curvatura aziendalistica della scuola del neoliberismo.
La speranza è slancio verso il futuro, immaginazione creatrice, fiducia in un avvenire migliore costruito con pazienza e talento
Che la speranza attraversi i destini individuali nel periodo strategico della formazione trova ampio riscontro nel peso che essa assume nel Bildungsroman. Lo slancio verso il futuro, l’immaginazione creatrice, la fiducia in un avvenire migliore costruito con pazienza e talento si scontrano con l’opacità e la solidità granitiche di una società ostile, di tempi difficili scanditi dall’accumulazione di capitale e dalla mentalità utilitaria. Così, le grandi speranze di riscatto sociale di Pip[6] o i giovanili sogni di gloria dei personaggi di Balzac si infrangono contro questa superficie dura e trascinano i loro portatori o nel naufragio esistenziale o verso il porto di un’amara saggezza. La speranza, quando non soccombe alla disperazione, si fa esperienza, perde di vigore, si acquatta nell’intimo, istituisce nel cuore del soggetto una mancanza che ne guiderà i passi come un’eco lontana. Dei suoi due bellissimi figli, lo sdegno e il coraggio secondo Agostino, citato dalla Fermani, resta, pur a capo chino, il primo, germe di consapevolezza, forse di nuova speranza. Quanto al secondo, ha le ali spezzate o forse aspetta un’occasione favorevole. Se non può contare su entrambi, la speranza è mutilata, si ripiega su se stessa, diventa nostalgia o, al contrario, folle corsa verso il nulla. In tempi di dilagante conformismo politico e culturale e di narcisismo nichilistico, ove la diversità sbandierata dalla società dello spettacolo ha come comune denominatore lo slogan thatcheriano There Is No Alternative,[7] le parole del filosofo di Ippona ci indicano la via diritta per comporre un’attitudine etica capace di ritrovare il filo di una speranza attiva, smarrito nelle secche di un presente contrabbandato come eterno.
Fernanda Mazzoli
***
[1] A.M. Carassiti, Dizionario etimologico, Odysseus, Genova, 1997. [2] C. Baudelaire, I fiori del male, Mondadori, Milano,1973. [3] Cfr. Ivi, Il gusto del nulla. [4] E. Dickinson, La speranza è quella cosa piumata, in Id., Tutte le poesie, Mondadori, Milano,1997. [5] A. Malraux, L’Espoir, Gallimard, Paris,1937. [6] Il protagonista di Great Expectations (Grandi speranze) di Charles Dickens. In Hard times (Tempi difficili) Dickens scrive una vibrante denuncia del nascente industrialismo. [7] “Non c’è nessuna alternativa”, slogan coniato da Margaret Thatcher, noto anche sotto l’acronimo TINA, e ripreso da diversi uomini di governo.
Fernanda Mazzoli, insegna Lingua e civiltà francese presso il Liceo Linguistico Raffaello di Urbino. Per alcuni anni ha collaborato con il Dipartimento di ugro-finnistica dell’Università di Bologna, occupandosi di letteratura orale e processi di stregoneria, con particolare riferimento all’area ungherese. Nel 1992 ha pubblicato con I quaderni italo-ungheresi, un testo sulla figura della strega tra immaginario e storia (La strega nella tradizione ugro-finnica e in quella occidentale) e, negli anni successivi, articoli relativi a fiabe di magia e credenze popolari su Il polo, rivista trimestrale dell’Istituto Geografico Polare Silvio Zavatti, ai canti lapponi per Settentrione (rivista di studi italo-finlandesi) e, nel 1997, uno studio (traduzione e analisi testuale) di due fiabe ungheresi per la rivista di Gianni Scalia In forma di parole. Nel 2016 ha pubblicato per Sensibili alle foglie un testo sulla deriva aziendalistica della scuola pubblica (Lascuola liquida. La liquidazione della scuola pubblica), nel quale ha cercato di fare incontrare esperienza diretta ed analisi puntuale delle dinamiche innestate dalle ultime riforme della pubblica istruzione. Nel 2019 ha curato con sua nuova traduzione L’Insurgé di Jules Vallès (il rivoluzionario “réfractaire” prima, durante e dopo la Comune di Parigi), L’Insorto testo pubblicato da Petite Plaisance. Nel 2020 ha pubblicato Di argini e strade. Un racconto di pianura. Collabora con la redazione di Koinè, e scrive recensioni di saggi ed opere letterarie pubblicate sul blog Invito alla lettura della editrice Petite Plaisance.
Arianna Fermani insegna Storia della Filosofia Antica all’Università di Macerata. Tra le sue pubblicazioni: Vita felice umana: in dialogo con Platone e Aristotele (2006); L’etica di Aristotele, il mondo della vita umana (2012); By the Sophists to Aristotle through Plato. The necessity and utility of a Multifocal Approach (2016). Ha tradotto, per Bompiani: Aristotele, Le tre Etiche (2008), Topici e Confutazioni Sofistiche (in Aristotele, Organon, 2016).
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