Salvatore Bravo – La filosofia è per sua natura anticrematistica e comunitaria. è resistenza all’inverno dello spirito che avanza. L’uscita dallo “stato capitale” necessita della radicalità della filosofia, senza di essa non vi è prassi, non vi è verità, non vi è domanda, ma solo l’antiumanesimo.

G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto
Alberto Giacometti, L’Objet invisible (Main tenant le vide) (1934-35)
Salvatore Bravo

L’epoca dell’inessenziale

 

L’accidente è la legge della storia al tempo del capitalismo assoluto. La profondità è sostituita dalla superficie, il pensiero dal calcolo, la comunità dall’individualismo. L’accidente (greco: symbebekòs, lat.: accidens = “che accade” nel tempo) è il volto concreto del pensiero debole e del nichilismo. Tutto avviene nella forma dell’evento che improvviso entra nella storia, devia il cammino dei popoli per condurli verso il niente. Il pensiero tramonta dove regna il caso. Lo scorrere insensato del tempo: nessuna comprensione, nessuna razionalità è data, semplicemente tutto accade e pertanto non resta che adeguarsi alle tempeste della storia. Non vi è verità, ma solo contingenza. Il Geist, lo spirito del mondo, il sapere, si eclissa, non è lecito conoscere le ragioni degli accadimenti. L’invito prescrittivo ad adeguarsi al mondo, alle sue opinioni non può che generare un nuovo tipo umano, le cui passioni sono strutturalmente debilitate dallo sforzo di un mondo che muta in modo incomprensibile, che bisogna inseguire nel susseguirsi della ridda degli avvenimenti. La velocità delle metamorfosi sempre più incalzante, esige l’olocausto (dal greco holòkaustos, “bruciato interamente”) di sé. Si arriva all’obiettivo programmato dai tecnocrati alienati, il rapporto duale con il proprio “io” è abitato da uno straniero: ci si perde senza ritrovarsi. Ogni sapere che introduce o invita alla verità, alla totalità, a cogliere la sostanzia degli eventi è osteggiato: il nuovo analfabetismo tecnocratico esige la specializzazione senza verità. Lo scandaglio del pensiero deve tacere per ridurre la conoscenza al solo fenomeno che appare senza donare verità.
La Filosofia ritrova proprio nella tragedia del nichilismo, nell’agire in modo automatico, la sua sorgiva verità: filosofare è lo sguardo della ragione che strappa l’essere umano dai flutti delle contingenze per restituirgli la dignità nel pensiero-concetto. L’attività veritativa è prassi che rileva la forma e mobilita le energie razionali dal profondo del corpo vissuto (Lebenswelt) per creare la geometria razionale del presente e orientarsi lungo la linea del tempo che muove dal passato per ridisporsi verso il futuro.
Oggi invece imperversa il solo calcolo tecnocratico, il quale è prodigioso nelle sue possibilità tecniche, ma è scisso dalla verità e diviene semplice “prodigio astratto”, perché non risponde ai bisogni dell’essere umano, alla sua natura, ma solo al calcolo della finanza apolide.
Hegel ci rammenta la verità come processo dialettico, l’autocoscienza con «l’immane potenza del negativo», senza la quale l’umanità è solo plebe ruminante, poiché abdica alla propria umanità per diventare simile agli animali non umani, i quali vivono del solo immediato. Razionalità filosofica per Hegel è quindi pensare, conoscere il proprio tempo per estrarne il codice segreto, la verità che tutto muove al fine di trasformare il presente storico. Gli esseri umani riconoscono la propria umanità nella responsabilità verso la storia, la quale non vive nell’iperuranio, ma nel quotidiano:

«Però egli si è mostrato grande; che il principio intorno a cui si svolge la diversità della sua Idea, è il perno sul quale gira il mondo. Ciò che è razionale è reale. E ciò che è reale è razionale. La spontanea coscienza serba al par della filosofia questa convinzione, e con essa procede alla considerazione del mondo sia spirituale sia naturale. Quando la riflessione, il sentimento, o quale che sia la forma assunta dalla subbiettiva coscienza, intuisca fattualità come cosa vana, e vada oltre la stessa per conoscerla meglio, allora essa aberra ombre, ed al cospetto della realtà addiviene vanità. Quando al contrario l’Idea si considera come quella che è solo idea e concetto in un’opinione, resta alla filosofia la persuasione che nulla è reale se non l’Idea. Ed allora avviene che si riconosca nel fenomeno dell’instabile e passeggero la sostanza, l’immanente, l’eterno che ci è d’innanzi. Il razionale, sinonimo d’idea, passando nel suo operare all’esistenza esterna, dà luogo ad un’infinita ricchezza di forme, appariscenze e figure, e riveste il suo nocciolo con quella variopinta sfera, cui la coscienza invade e la nozione compenetra per trovarne l’ intrinseca forza, ed insieme sentirla agitarsi nell’estrinseche configurazioni».[1]

 

Paideia della violenza
Il concetto è la libertà dell’essere umano, è attività con la quale si partecipa alla vita, alla storia che altrimenti scivola in modo anonimo. Senza il concetto non vi è il coraggio della prassi, poiché il relativismo ontologico ed etico logora la verità, e favorisce invece la violenza della competizione, dato che in assenza di convinzioni razionali ed argomentate non resta che la pulsione, l’istinto (Trieb) da mettere al servizio della competizione, che macchinalmente deve scattare all’attacco senza la mediazione della ragione. Si esalta una nuova paideia della violenza. Ciò è reso possibile dal pubblico discredito della metafisica e della verità fondate sul logos. Si delinea l’antiumanesimo che si caratterizza per il suo nichilismo passivo. Non vi è razionalità veritativa, né realtà, il soggetto vive ripiegato su se stesso ed esclude in modo dogmatico la verità dal suo lessico, sostituito dalla lingua del capitale con i suoi dogmi, con i suoi postulati in odore di superstizione. La speranza ha quale precondizione la verità, non vi è progetto comunitario – e quindi speranza – che nella verità. L’antiumanesimo coincide con l’irreale irrazionale. Senza il movimento dialettico non vi è autocoscienza, la quale fonda la possibilità del ribaltamento. Il relativismo è la rinuncia – scientemente organizzata – alla verità anche come semplice ipotesi. L’atomismo delle solitudini necrotizza la razionalità che si forma nella comunicazione per inibire ogni processo veritativo, lasciando l’umanità nel vuoto caotico dell’inessenziale.

Le patrie
La verità vive nelle istituzioni, si concretizza nella partecipazione alla vita sociale e politica. Non vi è verità astratta, recisa dalla storia, ma si svela nella pratica comunitaria delle istituzioni. La patria forma all’incontro dialettico, educa non dall’alto, ma, mediante la relazione istituzionale ed il servizio alla comunità, educa a trascendere l’accidente per l’universale. La politica in tal maniera guida l’economia, la ordina all’interno dell’assiologia politica, nella misura gli individui si ritrovano esseri umani comunitari. La comunità istituzionale della patria educa alla pluralità dei singoli relazionandoli democraticamente. La patria si dispone alle patrie, perché forma alla differenza nella verità. Tra il nazionalismo ed la globalizzazione cosmopolita vi è una terza possibilità da contemplare, ovvero l’internazionale delle patrie:

«Il senno politico, soprattutto il patriottismo, come certezza che sta nella verità (poiché la subbiettiva certezza non giunge alla verità e non è che un’opinione), e nel volere divenuto abitudine, è un risultato delle istituzioni che han forza in uno Stato, come quelle in cui la ragione è in realtà presente, la quale per un’azione a lei corrispondente consegue la sua effettuazione. Detto senno politico è precipuamente la fiducia (inescusabile alle vedute più o meno educate) che la coscienza del mio sostanziale e particolare interesse è serbato e racchiuso nell’interesse e nello scopo di un altro che qui è lo Stato, nella sua relazione a me quale individuo. Onde questo immediato per me non è altro; ed Io in tale coscienza sono libero».[2]

Politica ed economia
La moltiplicazione dei bisogni non produce benessere, ma la lotta di tutti contro tutti, il sistema dei bisogni senza conduzione politica è la contingenza che diviene legge: nella lotta senza razionalità, senza l’istituzione che difende la dignità dei singoli, non vi è che la facile regressione ad uno stato pulsionale che si esplica con la comunicazione resa perversa rispetto ai suoi fini, non più comunione di significati, interazione tra le parti in gioco per completarsi e conoscersi, ma solo mezzo per rendere l’altro strumento, semplice “strumento con la voce”. La frammentazione mostra la sua irrazionalità nella violenza dell’economia. La patria rende i suoi membri eguali nella dignità, come figli e fratelli. Pertanto la patria interviene per impedire lo scempio dei suoi figli mediante lo stato sociale e la tutela dei cittadini:

«La società civile racchiude tre momenti:

  1. La mediazione de’ bisogni e dell’accontentamento dell’ individuo per via del suo lavoro, e dell’accontentamento dei bisogni di tutti gli altri: questo è il sistema de’ bisogni:

  2. La realtà dell’universale della libertà ivi racchiusa; ossia la protezione della proprietà con la garanzia del dritto:

  3. La preveggenza contro 1’accidentalità che sta in quel sistema; e la cura de’ particolari interessi, quasi interesse comune, per via della polizia e della corporazione». [3]

 

Enea fuggiva con il figlio Ascanio da Troia, con il padre Anchise sulle spalle che portava in salvo i Penati; il cosmopolitismo della globalizzazione prescrive di rinunciare al padre e ad ogni legame con la patria. Senza padri e Penati, l’essere umano non è che un essere astratto, un semplice organismo produttivo per il mondo che non si riconosce in nulla e nessuno. Diventa veicolo di violenza, perché la violenza è il suo pane quotidiano.

 

L’anomia depressiva
La libertà – come la verità – è comunitaria. L’universale si coniuga con le differenze patrie. La libertà è nell’educazione all’universale concreto che conserva le differenze, anzi le differenze sono la condizione per l’universale, per il concetto. La dignità della persona è nel pensiero che vive delle identità che si riconoscono nella comune appartenenza all’umanità:

«Appartiene all’educazione, al pensiero come coscienza individuale nella forma di universalità, l’esser io compreso come persona universale in cui tutti sono identici. L’uomo vale così perché uomo, non perché giudeo, cattolico, protestante, tedesco, italiano ecc. Questa coscienza, in cui vale il pensiero, è di infinito peso; solo in ciò difettosa in quanto che si oppone alla concreta vita dello Stato, allorché si fissa come cosmopolitismo».[4]

Il popolo diventa plebe in assenza di verità e diritti sociali. Senza i diritti sociali non vi è verità, perché essi sono la concretizzazione dell’essere umano come «animale politico» (politikòn zôon). I popoli diventano plebe se sono consegnati alle intemperie del mercato, dell’economicismo. L’essere umano si adatta, ma perde la sua dignità, perché rinuncia al pensiero, a riconoscersi negli altri, a sentirsi parte della totalità. L’individualismo genera nella maggioranza sofferenza incompresa, irrazionale che si trasforma in aggressività, in attacco perpetuo per il timore di essere oggetto di aggressione è Il regno animale dello Spirito. La paura sollecita il servilismo dinanzi alla precarietà, la tensione continua neutralizza ogni processo di autocoscienza, si vive da stranieri, si consuma la propria esistenza in uno stato di anomia depressiva:

«Il rabbassarsi di una grande massa al di sotto della misura di una certa maniera di sussistere che si crede necessaria per un membro della società, e quindi alla perdita de’ sentimenti del dritto dell’onestà e della dignità di vivere salta propria attività e lavoro, genera il volgo; che, di rimando, produce l’agevole concentrazione delle ricchezze in poche mani».[5]

L’incultura delle plebi è individualismo ipostatizzato. La rinuncia alla verità è la fede nella legge del più forte.
La giustizia secondo Trasimaco (Platone, Repubblica, primo libro) è pienamente realizzata nella fase attuale del capitalismo, nella quale non vi è che la violenza del potere monetario a determinare “la giustizia”. Le plebi si nutrono del cattivo cibo del relativismo, del nichilismo economicistico che dissecca la creatività ascendente delle genti. Riportare al centro la verità è un’azione trasgressiva e radicale. La filosofia è per sua natura e storia anticrematistica e comunitaria. La sua posizione periferica, oggi, pur in presenza della colonizzazione delle menti, è resistenza all’inverno dello spirito che avanza. L’uscita dallo “stato capitale” necessita della radicalità della filosofia, senza di essa non vi è prassi, non vi è verità, non vi è domanda, ma solo l’antiumanesimo.

Salvatore Bravo

[1] G.W.F. Hegel, Filosofia del diritto, trad. it. di A. Novelli, Napoli 1863, prima edizione italiana, p. 11.

[2] Ibidem, p. 264.

[3] Ibidem, p. 201.

[4] Ibidem, p. 215.

[5] Ibidem, pp. 242-243.

G.W.F. Hegel, Filosofia del diritto, trad. it. di A. Novelli, Napoli 1863, prima edizione italiana