Adam Schaff (1913-2006) – L’uomo, nella filogenesi e nell’ontogenesi, conosce agendo, trasformando la realtà. La lingua si è formata socialmente in base a una determinata prassi sociale. Il linguaggio, in quanto struttura astratta di pensiero, è ex definitione pensiero in potenza.
«Sulle orme di Marx, diciamo che l’uomo, tanto nella filogenesi quanto nell’ontogenesi, conosce agendo, trasformando la realtà, e che perciò la conoscenza non è un «riflesso speculare», ma il modo attivo in cui l’uomo coglie la realtà oggettiva. La conoscenza mette dunque in moto la prassi umana in tutte le sue forme ed è in un certo senso una proiezione dell’uomo». A. Schaff
«L’esame del rapporto linguaggio-pensiero ci ha condotto alle seguenti conclusioni: parlare è sempre pensare nel senso che i significati verbali hanno sempre la forma dei concetti o delle rappresentazioni che li accompagnano: il linguaggio, in quanto struttura astratta di pensiero, è ex definitione pensiero in potenza». A. Schaff
«[…] in Marx l’idea del comunismo si concretizza anzitutto nell’immagine di una società in cui l’individuo, liberato dall’alienazione, diventa un uomo totale, universale, cioè capace di dar pieno sviluppo alla sua personalità». A. Schaff
[…] Sulle orme di Marx, diciamo che l’uomo, tanto nella filogenesi quanto nell’ontogenesi, conosce agendo, trasformando la realtà, e che perciò la conoscenza non è un «riflesso speculare», ma il modo attivo in cui l’uomo coglie la realtà oggettiva. La conoscenza mette dunque in moto la prassi umana in tutte le sue forme ed è in un certo senso una proiezione dell’uomo. Ciò significa che il modo in cui l’uomo si appropria della realtà oggettiva – dalla sua articolazione nella percezione sensibile fino alla comprensione concettuale del fatto che essa si sviluppa secondo leggi determinate – non dipende soltanto dal modo d’essere della realtà, ma anche dal modo d’essere dell’uomo che conosce. Infatti che cosa e come l’uomo percepisce e conosce dipende dal tipo di prassi, accumulata nella filogenesi e nell’ontogenesi, di cui egli dispone, oltre che dal bagaglio di cognizioni ed esperienze con cui si accosta al processo conoscitivo. Così, una stessa realtà può essere e di fatto viene percepita in modo diverso da uomini diversi. Per tale via irrompe nel processo conoscitivo la grande corrente della soggettività, quel fattore cioè che attribuisce alla conoscenza le caratteristiche individuali del soggetto.
Dopo aver introdotto con la prassi un elemento di soggettività nel processo gnoseologico, dobbiamo ora cercare di intendere in modo concreto la categoria generale di «fattore soggettivo»: a tal fine mettiamo in risalto l’influsso della lingua sulla conosoenza o, in altre parole, il suo influsso sul rispecchiamento della realtà nello spirito umano.
Nel parlare dell’azione esplicata dalla prassi umana nella conoscenza, abbiamo sottolineato con energia che si tratta di una prassi accumulata dall’uomo sia nell’ontogenesi che nella filogenesi, che non si tratta soltanto, e neppure principalmente, delle trasformazioni della realtà operate dal singolo individuo ed entrate a far parte della sua esperienza personale, ma soprattutto della prassi sociale, i cui prodotti vengono in vario modo trasmessi ai componenti della società. Tra questi prodotti il primo posto spetta alla lingua, che per mezzo soprattutto dell’educazione trasmette il bagaglio di esperienze della società ai singoli individui del presente e dell’avvenire. Torniamo di nuovo al problema della lingua, intesa come prodotto della prassi sociale.
Come abbiamo visto, l’uomo pensa sempre in una lingua: in tal senso il suo pensiero è sempre linguistico, e la sua lingua è sempre una struttura segnica e semantica, una lingua che nello stesso tempo è pensiero. Come abbiamo già rilevato, il pensiero, in quanto ha la funzione di risolvere problemi, racchiude anche in sé elementi del modo prelinguistico di orientarsi nel reale, la percezione sensibile e i meccanismi che le sono connessi; senonché, nella fase del pensiero linguistico, tutti quei momenti assumono una funzione subordinata. Il modo di pensare di un uomo dipende soprattutto dall’esperienza sociale filogenetica, contenuta nelle categorie linguistiche trasmessegli dalla società nel processo dell’educazione. Da questo punto di vista è giusta l’affermazione di Humboldt che l’uomo pensa come parla. Impostando in modo un po’ diverso il problema, possiamo dire che l’individuo singolo guarda e sintetizza nel pensiero il mondo attraverso «lenti sociali»: «sociali» tanto nel senso degli influssi attuali quanto nel senso dell’influsso esercitato dalle esperienze accumulate dalle generazioni precedenti.
Ma questo è solo un aspetto della funzione della lingua nel processo di rispecchiamento della realtà da parte dell’intelletto conoscente. Bisogna avere ben chiaro che la lingua stessa è a sua volta il prodotto di tale rispecchiamento, il prodotto della prassi sociale nel senso più ampio del termine. E pertanto anche la seconda parte della tesi di Humboldt – che l’uomo non solo pensa come parla, ma anche parla come pensa – si dimostra vera. Soltanto quando ci siamo resi conto del senso di quest’integrazione, riusciamo ad avere un quadro completo del problema e a comprendere la dialettica delle sue relazioni interne. Perveniamo a una nuova impostazione del problema del rispecchiamento e, di conseguenza, della questione del ruolo attivo della lingua nella conoscenza.
Quando parliamo dell’influsso della lingua sul rispecchiamento della realtà nello spirito umano, in fondo trattiamo la lingua come un sistema compiuto di segni. Ma questo sistema, tanto essenziale per la nostra conoscenza, è a sua volta un prodotto di carattere nettamente sociale. Spesso, per mettere in rilievo l’influsso della lingua sulla conoscenza, si parla ad esempio del gran numero di nomi esistenti presso certi popoli per designare determinati aspetti della realtà per loro particolarmente importanti: si pensi alla varietà di nomi usati dagli esquimesi per definire la neve in rapporto ai suoi vari stati; o alla ricchezza di nomi usati dai popoli del deserto per le varie sfumature del marrone e del giallo; o al gran numero di nomi di pesci fra i popoli marinari, di piante fra quelli delle steppe, ecc. Ma proprio quest’esempio conferma in maniera evidentissima che la lingua si forma nella prassi sociale degli uomini. È chiara la ragione per cui gli esquimesi hanno tanti nomi per la neve e gli abitanti del deserto per le varie sfumature del giallo, ed è chiaro perché non si verifica il caso contrario. Gli uomini parlano come impone loro la vita, la prassi. Il fenomeno non riguarda, del resto, solo i nomi degli oggetti, ma anche i termini che indicano attività e forse persino la designazione dei rapporti di tempo e di spazio. Secondo l’ipotesi marxista è possibile dimostrare l’influsso della prassi sociale su intere configurazioni linguistiche e sul loro sviluppo, sulla sintassi e sulla morfologia.
Una cosa è comunque indubbia: il sistema linguistico condiziona in qualche modo la nostra visione del mondo. Se abbiamo non uno ma trenta termini per designare la neve, questo fatto non rivela soltanto una particolare ricchezza lessicale, ma anche la nostra capacità di percepire la neve in modo molto differenziato. È stato, del resto, dimostrato che non siamo noi a creare arbitrariamente le diverse specie di neve, le quali sono invece oggettivamente presenti nella natura; solo che, in precedenza, le trascuravamo, concentrando il nostro interesse sulle caratteristiche comuni a tutte le specie di neve, sulla consistenza, sul colore, sulla temperatura. Che una comunità abbia cominciato a tener conto delle differenze nel suo lessico non è il frutto d’una scelta convenzionale, ma un’imposizione della prassi: la differenziazione è diventata per i componenti di questa comunità una questione di vita o di morte; sulla base di tale prassi si e sviluppata storicamente la loro lingua, nella cui genesi non vi è dunque niente di misterioso o di speculativo. Altra cosa è che l’esperienza sociale fissata nella lingua domini in seguito inevitabilmente lo spirito di una determinata comunità umana. Gli esquimesi vedono trenta specie di neve, e non la neve «in genere», non perché lo vogliano, non perché l’abbiano concordato insieme, ma perché non possono più percepire la realtà in modo diverso.
[…]
Grande è la forza con cui la filogenesi opera sull’ontogenesi, l’esperienza di generazioni scomparse da lungo tempo sulla nostra esperienza individuale. Ciò che la lingua, che è nello stesso tempo pensiero, distingue nella realtà esiste oggettivamente, ma l’immagine del mondo può considerare questo qualcosa in varia maniera oppure può non tenerne conto affatto: in questo senso moderato la lingua «crea» per davvero l’immagine della realtà.
[…] Nonostante tutte le differenze ambientali, climatiche, culturali, le società umane sono legate tra loro da comuni destini biologici, e inoltre la prassi si riferisce sempre a una realtà oggettiva che è analoga, pur se non è la stessa. Nella lingua, insieme con le differenze, si conservano quindi anche le affinità, e in tal senso si può supporre che gli studi intrapresi di recente sui cosiddetti «universali linguistici» saranno coronati da successo. I sistemi linguistici non sono sistemi chiusi, ossia tali da non avere alcun elemento in comune, da essere impenetrabili e quindi anche intraducibili. Sotto il profilo filosofico è interessante domandarsi se destini biologici radicalmente diversi di esseri pensanti – ammesso che tali esseri esistano su qualche pianeta – renderebbero del tutto intraducibili i relativi linguaggi, nel caso in cui questi linguaggi fossero un rispecchiamento determinato della realtà, essendo pensieri fondati sul principio del riflesso elettromagnetico o pensieri realizzati mediante i raggi Rontgen. Gli ottimisti, che sono già all’opera nella costruzione dei relativi linguaggi, asseriscono che tutti gli esseri intelligenti hanno in comune i rapporti numerici. Quest’affascinante problema, che arricchirebbe di nuovi elementi il dibattito odierno sul linguaggio, potrà essere tuttavia risolto empiricamente solo in avvenire, quando l’uomo potrà entrare di fatto in rapporto con esseri intelligenti di altri pianeti.
Se tiriamo le somme della nostra analisi, possiamo dire che la teoria del rispecchiamento è caratterizzata dall’interazione del lato oggettivo e di quello soggettivo nel processo gnoseologico. La conoscenza umana deriva sempre da qualche cosa che esiste oggettivamente e si pone di fronte all’intelletto conoscente. Il processo di rispecchiamento è però anche soggettivo, in quanto si produce nel soggetto dato, i cui tratti individuali (carattere dell’apparato percettivo, grado di cultura, ecc.) determinano le peculiarità del rispecchiamento. Esso è inoltre soggettivo perché si compie in una lingua data, che è al tempo stesso pensiero, perché le sue caratteristiche, dipendenti anch’esse dall’esperienza sociale, esplicano un influsso determinato sul carattere del rispecchiamento. Come la verità acquisita mediante la conoscenza, anche il rispecchiamento è oggettivo-soggettivo. Solo se ci rendiamo conto di questo fatto, siamo in condizione di comprendere la tesi propria del marxismo circa il carattere processuale della conoscenza e della verità. Nei processi di rispecchiamento della realtà nello spirito umano dobbiamo quindi analizzare la funzione del fattore soggettivo e, in special modo, l’influsso esplicato dalla lingua. In tal modo potremo impostare su una nuova base i problemi della sociologia della scienza e vedere con occhio nuovo la questione della funzione attiva della lingua nel processo gnoseologico.
[…]
Per concludere, ritorniamo sulla questione posta all’inizio. «E la lingua a creare l’immagine della realtà?»: la risposta non può che essere decisamente negativa nel quadro del sistema da noi accettato. «La lingua crea la realtà o è invece il rispecchiamento della realtà oggettiva?»: anche qui la risposta non può che essere negativa. Dall’intero corso della nostra analisi risulta che la lingua non crea in senso letterale l’immagine della realtà e non è neanche, sempre in senso letterale, il rispecchiamento di tale realtà. Si tratta di un rispecchiamento che ha sempre un lato di soggettività, il quale dunque «crea» (nel senso moderato del termine) l’immagine della realtà. Il rispecchiamento della realtà oggettiva e la creazione soggettiva della sua immagine nel processo conoscitivo si integrano tra loro e formano un tutto. Questa visione è adeguata al carattere soggettivo-oggettivo del processo gnoseologico e costituisce un buon punto d’avvio per l’esame della funzione attiva del linguaggio in tale processo.
L’esame del rapporto linguaggio-pensiero ci ha condotto alle seguenti conclusioni: parlare è sempre pensare nel senso che i significati verbali hanno sempre la forma dei concetti o delle rappresentazioni che li accompagnano: il linguaggio, in quanto struttura astratta di pensiero, è ex definitione pensiero in potenza, perché il segno linguistico significa ex definitione. Il linguaggio è pertanto un linguaggio che è al tempo stesso pensiero. Il pensiero, o meglio il pensiero umano (e non la capacità umana di orientarsi nel mondo, di cui dispone il neonato e anche l’adulto in condizioni patologiche), si realizza sempre per parte sua in un linguaggio dato, perché il pensiero concettuale non può esistere senza i segni della lingua fonetica o una sua trascrizione in altra forma. Da ciò non segue tuttavia che il pensiero umano sia riducibile ai soli concetti, che sono sempre connessi col segno linguistico: nel pensiero umano è infatti presente, a livello sia genetico che attuale, un complesso di immagini che, pur dipendendo sempre in varie forme dal linguaggio, non si identifica tuttavia con esso. Il rapporto pensiero-linguaggio ha quindi un carattere complesso, e i due elementi, benché siano indissolubilmente connessi, non possono essere identificati. L’affermazione secondo cui il pensiero umano è indissolubilmente legato al linguaggio non ha carattere analitico.
Su questa base la tesi della funzione attiva del linguaggio nel processo conoscitivo può assumere quanto meno tre sensi.
- a) Nel primo senso diciamo che senza linguaggio, come sistema segnico determinato (cioè come sistema di norme grammaticali e semantiche, senza di cui non si potrebbe parlare di un sistema di segni linguistici), il pensiero concettuale sarebbe imposs1bile. In altri termini, possiamo affermare che i sistemi segnici detti linguaggi sono portatori del pensiero concettuale. La nostra tesi può essere quindi ricondotta alla constatazione fondamentale che la presenza del linguaggio è conditio sine qua non del pensiero concettuale. Che cosa ciò significhi possono spiegarlo la fisiologia, la psicologia, la linguistica, ecc.
- b) Il senso essenziale, specifico della tesi del ruolo attivo del linguaggio nel processo conoscitivo è però un altro. Noi riscontriamo infatti che il linguaggio, in quanto prodotto di tipo particolare, costituisce la piattaforma sociale del pensiero individuale. Il linguaggio è innato nell’individuo umano normale solo in quanto facoltà di imparare a parlare. Ciò è connesso alla struttura ereditaria del cervello, dell’apparato vocale, ecc. Ma il linguaggio come tale non è innato e non si sviluppa senza l’intervento della mediazione linguistico-sociale. Ora, poiché il pensiero concettuale è impossibile senza il linguaggio, l’uomo nel processo della sua educazione sociale non impara soltanto a parlare, ma anche a pensare. Egli apprende, accogliendo dalla società una struttura compiuta, il linguaggio, che è contemporaneamente pensiero, come esperienza fissata nelle categorie del linguaggio e accumulata nella filogenesi, come ciò che la società sa del mondo. Ebbene, questa cristallizzazione dell’esperienza sociale è il punto di partenza e la piattaforma di ogni pensiero individuale, una piattaforma che la società trasmette all’individuo in un modo imperativo, che sfugge al controllo dell’individuo e che in genere non viene da lui percepito, tranne i rari casi di un’autoriflessione particolarmente penetrante. Il pensiero individuale è creativo e si rinnova continuamente: non sarebbe altrimenti possibile il progresso della scienza e della cultura. Ma l’individuo singolo raramente è in condizione di riconoscere – e raramente è incline a farlo – che sta guardando il mondo con gli occhi delle generazioni precedenti, che, con tutte le sue novità, si situa su un terreno ben delimitato, da cui nessuno può staccarsi del tutto, se non di rado e in piccola misura.
Il linguaggio, in quanto punto d’avvio del pensiero individuale, è l’elemento mediatore tra il dato sociale, tramandato, e quello individuale, creativo, nel pensiero umano. E ciò vale non soltanto nel senso che esso trasmette ai singoli uomini l’esperienza e il sapere delle generazioni passate, ma anche nel senso che avoca a sé incondizionatamente i nuovi risultati del pensiero individuale, per trasmetterli, già sotto forma di prodotto sociale, alle generazioni future.
Così il linguaggio si trasforma, nel processo del pensiero umano, in un fattore creativo. In tale processo esso funziona come trasmissione sociale della filogenesi, che si attualizza nell’ontogenesi dell’individuo umano. Il contenuto della trasmissione non è arbitrario, poiché nelle esperienze delle generazioni precedenti è racchiusa una somma di cognizioni oggettive sul mondo, senza le quali l’uomo non potrebbe adattarsi al suo ambiente, agire in modo adeguato ad esso e continuare a esistere come specie. Imparando a parlare, e contemporaneamente a pensare, ci appropriamo con relativa facilità il retaggio spirituale che ci è stato tramandato, non dobbiamo scoprire ogni volta l’America (con il che sarebbe esclusa ogni possibilità di progresso intellettuale e culturale). Ma anche questo retaggio agisce potentemente, in modo dispotico, sulla nostra visione del mondo, a partire dall’articolazione di esso nella percezione sensoriale fino alla coloritura emozionale del nostro pensiero conoscente. Ripetiamolo, per precauzione, ancora una volta: non è questo l’unico fattore da cui sia determinato il pensiero, e tuttavia è un fattore di enorme importanza e di grandissima efficacia.
Quando parliamo di un senso specifico della funzione attiva del linguaggio nel processo del pensiero, intendiamo dire che il linguaggio socialmente trasmesso all’individuo umano crea il fondamento indispensabile per il suo pensiero: il fondamento che collega l’individuo con gli altri componenti della comunità linguistica e su cui si svolge l’attività spirituale creativa dell’individuo stesso. Se si accantona il misticismo dello «spirito nazionale», dell’«energia vitale nazionale», ecc., concetti che vengono spesso messi in campo quando si spiega questo fenomeno, si riscoprono in quanto si è appena detto alcune idee che percorrono come un filo rosso le scienze morali europee a partire da Herder e Humboldt. In ciò che abbiamo detto sinora è racchiuso infatti il nucleo razionale della tesi secondo cui il linguaggio è l’elemento mediatore tra l’individuo umano e il mondo degli oggetti, nonché della tesi secondo cui ogni lingua contiene una data «visione del mondo », uno schema o struttura del modo di vedere il mondo delle cose. Liberate dal misticismo, queste concezioni forniscono indicazioni geniali sul ruolo del fattore soggettivo nel pensiero umano.
- c) Su questo sfondo il terzo senso della tesi che stiamo analizzando assume contorni più precisi. Si tratta, per così dire, di una modificazione o di un caso particolare del secondo senso, ma, in considerazione della sua portata, si rende tuttavia indispensabile una sua analisi specifica. Il linguaggio non è soltanto il punto d’avvio e la piattaforma del pensiero individuale, in quanto agisce anche allivello a cui questo pensiero può giungere nell’astrazione e nella generalizzazione.
E ben noto che lingue si differenziano tra loro non soltanto per la fonetica, la morfologia, la sintassi, il lessico, ma anche per la qualità di questo lessico, per il suo carattere di rispecchiamento più o meno generalizzato del mondo. Se ci domandiamo quale lingua abbia raggiunto un alto grado di sviluppo e quale invece sia ancora primitiva, non ci è facile dare una risposta, perché una valutazione di questo genere presuppone sempre un punto di riferimento, che cambia a seconda del sistema scelto. È tuttavia indubbio che le lingue possono essere distinte tra loro a seconda del carattere dei nomi di cui dispongono e che alcune di esse mancano di designazioni più generali, che sono sostituite da serie di nomi concreti. Anche la sintassi, com’è noto, può operare in questa direzione, agevolando o intralciando il discorso su determinate cose, attività, ecc. Si manifesta qui l’influsso attivo della lingua sul pensiero, ma di tale influsso si può avere una comprensione effettiva solo quando si sappia che geneticamente il pensiero e il linguaggio sono un prodotto della prassi umana.
Una nuova problematica si apre quando dalla considerazione del pensiero in generale si passi a quella della conoscenza, cioè di un pensiero qualificato in modo specifico. Per conoscenza intendiamo qui un processo di pensiero e il suo prodotto, ossia la descrizione della realtà, e per descrizione della realtà intendiamo un’informazione non solo sui fatti singoli, ma anche sui loro molteplici nessi, tra cui sono da annoverare anche i rapporti nomici coesistenti e dinamici. Il problema della funzione attiva del linguaggio si situa nel punto focale nel momento stesso in cui viene messo in relazione con la conoscenza.
Il processo conoscitivo è legato indissolubilmente e in vari modi con la prassi. Il cammino della conoscenza comincia dalla prassi o, più esattamente, dai bisogni pratici e dalla necessità di conoscenza che ne scaturisce. Spesso si rintraccia in questo campo un legame immediato, ma perfino nei settori più astratti e automatizzati della ricerca scientifica si può dimostrare l’esistenza di un legame genetico, quanto meno indiretto, con la prassi. È evidente che per questa via stabiliamo non solo in che modo si generi la conoscenza, ma anche quale sia il suo scopo: la conoscenza serve – direttamente o indirettamente – alla prassi umana, anche se alcuni pensa tori non sempre se ne rendono chiaramente conto e addirittura rifiutano una simile possibilità. Tuttavia, in questa sede c’interessa un altro tipo di collegamento tra la conoscenza e la prassi, un collegamento che è il più occulto proprio perché è il più diffuso, il collegamento che si realizza tramite il linguaggio.
Torniamo così di nuovo all’idea che proprio nella lingua sono racchiuse e conservate l’esperienza e il sapere delle generazioni passate: ovviamente nella lingua, in quanto è al contempo pensiero, in quanto sistema dei veicoli materiali di determinati significati, ossia in quanto sistema di norme grammaticali e semantiche che collegano a determinati suoni o ad altri veicoli materiali significati determinati. In tal senso la lingua è, per così dire, una prassi condensata, che per questa via semplice e suggestiva penetra nella nostra conoscenza attuale.
La lingua influenza anzitutto il modo in cui percepiamo la realtà. Come risulta da quanto abbiamo detto sopra, oggi esistono molti dati sperimentali a sostegno della tesi secondo cui il nostro modo di percepire la realtà è soggetto all’influsso innegabile della lingua in cui pensiamo. Questo significa soltanto che la lingua, che è una particolare forma di rispecchiamento della realtà, è a sua volta la creatrice della nostra immagine del mondo: e lo è nel senso che il nostro articolare il mondo, perlomeno fino a un certo grado, è una funzione non soltanto dell’esperienza individuale, ma anche di quella sociale, trasmessa all’individuo mediante l’educazione e soprattutto mediante la lingua. La questione è però più complicata di quanto non sembri, perché l’esperienza cosiddetta individuale è in effetti ordinata secondo schemi e strutture di origine sociale. Formulando il problema in questo modo, rendiamo pertanto ragione dell’influsso della lingua sulla percezione sensibile, senza cadere tuttavia negli estremi opposti del soggettivismo del realismo ingenuo. Se, come si è detto, l’esquimese vede molte specie di neve, mentre il nostro montanaro ne vede soltanto alcune e l’abitante dei paesi meridionali uno solo, ciò non significa che ognuno di essi si crei un’immagine soggettiva del mondo, ma semplicemente che egli opera un’articolazione diversa del mondo oggettivo, basata sulla prassi sociale e individuale. È però vero che l’esquimese percepisce il mondo in modo diverso e più concreto dell’abitante dei tropici. Lo fa, tra l’altro, sotto l’influsso della lingua che gli è stata insegnata e che lo costringe a un’articolazione così complicata, mettendo a sua disposizione, invece di un nome unico, generale, tutta una serie di nomi concreti per vari tipi di neve. La nostra affermazione dev’essere certo precisata accuratamente con argomenti contrari al soggettivismo, ma la funzione attiva della lingua nel processo della conoscenza emerge qui in modo chiaro e convincente.
Una situazione analoga si ha per ciò che concerne la sintassi. È noto, per esempio, che nelle lingue di alcune tribù indiane d’America non si può dire genericamente che uno viaggia, uccide selvaggina, ecc., perché bisogna caratterizzare più concretamente l’espressione, ad esempio con complementi di tempo, luogo, modo, ecc. Com’è evidente, qui non si tratta solo del tipo di espressione, ma anche del modo di percezione della realtà, inscindibilmente connesso col modo in cui se ne parla. Poiché il nostro indiano d’America pensa in una data lingua, che, attraverso le sue norme grammaticali, lo costringe a osservare la realtà in modo da rilevare in essa una serie di particolarità concrete, che per solito rimangono inavvertite per chi faccia parte di una comunità linguistica europea, egli non solo parla, ma anche percepisce in modo diverso.
In questo non c’è tuttavia niente di misterioso o di arbitrario. La lingua si è infatti formata socialmente in base a una determinata prassi sociale. Essa è il rispecchiamento di una data situazione di fatto e insieme la risposta alle necessità pratiche derivanti da tale situazione. Una volta che si sia formata, la lingua esercita il suo influsso sulla conoscenza umana, svolgendovi una funzione attiva.
Adam Schaff, Linguaggio e conoscenza, Editori Riuniti, 1973, pp. 160-173.
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