Albertine Sarrazin (1937-1967) – Un fiammifero controvento. Non conoscevo Albertine. Ho letto «L’astragalo», seguendo il consiglio di Patti Smith, che ne firma la prefazione.
«Per la prima volta non ho voglia di conoscere il seguito e nemmeno la fine di quest’avventura. Sono lì, nuda, sulla poltrona, a guardare Julien che dorme; vorrei rimanere così, stagnante, tiepida, nel silenzio rotto soltanto dal nostro respiro regolare, senza più dover fare i gesti, dire le parole che ci trasformano e ci tradiscono; quel minuto è vero e vivo, e lo faccio diventare eterno».
Albertine Sarrazin, L’astragalo
Ilaria Rabatti
Un fiammifero controvento
Non conoscevo Albertine. Incuriosita dal titolo, ho letto L’astragalo, seguendo il consiglio di Patti Smith che ne firma la prefazione nella quasi nuova edizione Bompiani (2016), curata da Fabrizio Ascari. Albertine Sarrazin (1937-1967) è un “personaggio” splendido e straziante. Se nel nome è scritto il destino, tra Proust e Balzac, Albertine fa bene la propria parte. Dolorosamente, maledettamente bene. La vita breve non le risparmia i graffi più feroci, i colpi più duri. Lascio a chi vorrà incontrarla leggendone i libri e le poesie (divenute canzoni, bellissime, ma quasi intraducibili) scoprire la sua storia. Stregata dallo sguardo, ho osservato a lungo il suo volto in copertina tra le volute di fumo di una Gauloise. Accennando un sorriso, Albertine sembra così consapevole del vuoto che le si spalanca intorno. Un’immensità di speranza e di nulla. In fuga sempre, dalla prigione e dalla vita…
«Il cielo si era allontanato di almeno dieci metri. Rimanevo seduta, tranquilla. L’urto doveva aver rotto le pietre, nel buio la mia mano destra sentiva dei frammenti. Via via che riprendevo fiato, il silenzio attenuava l’esplosione di stelle le cui cascate mi crepitavano ancora nella testa. Gli spigoli bianchi delle pietre illuminavano debolmente l’oscurità: la mia mano, staccandosi dal suolo, passò sul braccio sinistro, risalì fino alla spalla, scese lungo le costole fino al bacino: niente. Ero intatta, potevo continuare» (incipit de L’astragalo).
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Può forse sembrare disdicevole parlare di se stessi scrivendo di un’altra persona, ma mi chiedo proprio che ne sarebbe stato di me senza Albertine. Senza la sua guida, avrei fatto la sbruffona nello stesso modo, avrei fronteggiato le avversità con la stessa tenacia? Senza I.’astragalo come libro prediletto, le mie poesie giovanili sarebbero state così mordaci?
L’ho scoperta per caso girando per il Greenwich Village il giorno di Ognissanti del 1968, come ho annotato poi nel mio diario. Benché avessi fame e voglia di un caffè, ero andata prima a dare un’occhiata alle promozioni della libreria sull’Ottava Strada. Sui tavoli si accatastavano copie dell’ Evergreen Review e traduzioni oscure pubblicate dall’Olympia e dalla Grove Press, nuovi testi sacri rifiutati dalla plebaglia. Cercavo qualcosa che avrei dovuto assolutamente possedere: un libro che fosse più di un libro, pieno di indizi in grado di orientarmi verso un cammino ignoto. Fui attirata dal volto singolare (un’ombra viola su uno sfondo nero) sulla copertina polverosa del romanzo di questo “Genet al femminile”. Costava 99 centesimi, il prezzo di un toast con prosciutto e formaggio e un caffè al Waverly Diner, sulla Sesta Avenue, di fronte. Avevo in tasca un dollaro e un biglietto della metropolitana, ma mi bastò leggere le prime righe per innamorarmi … una fame ne scacciò un’altra e comprai il libro.
Il libro s’intitolava L’astragalo, e il volto sulla copertina apparteneva ad Albertine Sarrazin. Aprendo la mia copia sciupata nella metro che mi riportava a Brooklyn, ho appreso che era nata ad Algeri, che era orfana, era stata in prigione, aveva scritto tre libri, due dietro le sbarre e uno in libertà, ed era morta di recente, a pochi mesi dal suo trentesimo compleanno nel 1967. Perdere una potenziale sorella nel momento stesso in cui la trovavo mi ha profondamente colpita. Stavo per compiere ventidue anni, ero abbandonata a me stessa, lontano da Robert Mapplethorpe. L’inverno si preannunciava duro, avevo lasciato il calore di un abbraccio per altri, più incerti. Il mio nuovo amore era un pittore, che arrivava senza avvertire, mi leggeva dei brani di Nostra Signora dei Fiori, mi scopava e poi spariva per settimane.
Tutte quelle notti tumultuose, passate ad attendere la mia musa e lui, mi procuravano un tormento delizioso. Caduta nella mia stessa trappola, non trovavo nulla che riuscisse a placare la mia agitazione. Le mie parole non bastavano, solo quelle di un’altra potevano trasformare il mio sgomento in fonte d’ispirazione.
Le parole le ho trovate ne L’astragalo, un romanzo scritto da una ragazza più grande di me di otto anni e già morta. Il suo nome non figurava nei dizionari di letteratura, toccava dunque a me rincollare i pezzi della sua vita attraverso ogni sua sillaba (come avevo fatto per Genet), ben consapevole che la verità di un poeta si scopre al di là delle sue menzogne. Mi sono preparata del caffè, ho sprimacciato i cuscini del mio letto e ho iniziato la lettura. Con L’astragalo, la realtà e la finzione finalmente si fondevano.
[…]
Un giorno mi recherò sulla sua tomba con un thermos di caffè nero. Mi siederò accanto a lei e cospargerò di profumo di mughetto la sua lapide a forma di astragalo, come aveva voluto Julien. Quanto l’amavo, la mia Albertine! I suoi occhi scintillanti mi hanno permesso di superare i tormenti della mia giovinezza. È stata la mia guida in quelle notti tumultuose.
Patti Smith, Prefazione a: Albertine Sarrazin, L’astragalo, Bompiani, Milano 2016, pp. 5-6 e 11.