«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
Da quando il denaro […] ha iniziato a venire in onore, il reale valore delle cose è caduto in discredito, e noi [siamo] diventati ora mercanti ora merce in vendita.
Seneca
«Fare soldi è un arte, lavorare è un arte.
Un buon affare è il massimo di tutte le arti»
Andy Warhol
Great Seal of the United States, Diritto dello stemma.
Great Seal of the United States, Rovescio dello stemma.
Sul Great Seal (Grande Sigillo) degli Stati Uniti e sul dollaro furono scritte dai “Padri Fondatori” degli Stati Uniti tre frasi in Latino invece che in Inglese. Due di esse furono tratte liberamente da Virgilio. Si sentivano gli eredi di Augusto, e comunque si autocebravano con questa ascendenza che li legittimava alla loro “missione storica”.
Annuit coepitis è la versione affermativa (“Dio è favorevole all’impresa”) della preghiera troiana a Giove “Audacibus annue coepitis” (Eneide, IX, 625); e “Novus ordo s[a]ec[u]lorum” viene dalla Egloga IV di Virgilio, significativamente quella in cui si troverebbe una anticipazione del cristianesimo. E guarda un po’: l’Eneide esprime un programma ideologico che corrisponde al programma politico di Ottaviano detto Augusto, l’iniziatore dell’Impero romano.
Quando si parla della “vocazione imperiale” degli USA!
E Joseph Robinette Biden Jr., al di là delle evidenti macroscopiche difformità con lo «stupido e infantile Trump» (come lo definisce Michael Wolff), a cosa si sente “vocato”? Muterà forse il fine del dollaro “umanizzando” il suo corso e rendendolo meno “imperiale”?
Carmine Fiorillo
«Fare soldi è un’arte, lavorare è un’arte.
Un buon affare è il massimo di tutte le arti».
Andy Warhol
«Da quando il denaro, che tanti magistrati e tanti giudici tiene avvinti, che addirittura crea magistrati e giudici, ha iniziato a venire in onore, il reale valore delle cose è caduto in discredito, e noi, diventati ora mercanti ora merce in vendita, non esaminiamo più la qualità, ma il prezzo. Per interesse siamo onesti, per interesse siamo disonesti, e inseguiamo la virtù fin tanto che c’è la speranza di guadagnarci, pronti a cambiare rotta se il vizio promette di più. I nostri genitori ci hanno inculcato l’ammirazione per l’oro e l’argento, e la cupidigia, instillata in noi fin da piccoli, ha messo radici profonde ed è cresciuta con noi. Cosi il popolo intero, in tutte le altre cose discorde, su questo soltanto conviene: questo ammirano, questo si augurano per i loro cari, questo consacrano agli dèi, come espressione massima delle cose umane […]. I costumi si sono ridotti a un livello tale che la povertà è considerata maledetta e infamante, disprezzata dai ricchi, invisa ai poveri».
Lucio Anneo Seneca, Lettere a Lucilio, 115, 10-11; trad. di C. Nonni.
La figura del finto artista (il fake) e la copertura ideologica necessaria alla sua ascesa sociale
In un tempo in cui tutto sembra dover rispondere alle logiche del mercato, ci troviamo a fare i conti con un fenomeno sempre più diffuso: l’affermarsi di finti artisti che, sfruttando la generale mancanza di capacità critica da parte del pubblico, producono finte opere d’arte, ottenendo la consacrazione sociale necessaria al conseguente successo commerciale. Per comprende meglio le origini di questo meccanismo sono utili le parole del filosofo britannico Roger Scruton, che così riassume quelle che sembrano ormai essere le modalità per veicolare le nuove tendenze artistiche: «Prendi un’idea, mettila su un piedistallo, chiamala arte e sbattila in faccia al mondo». Il Novecento ha introdotto nuovi parametri per definire il concetto d’opera d’arte: Marcel Duchamp dipinge i baffi alla Gioconda e, così facendo, dimostra che tecnica, studio e dedizione non saranno più elementi necessari all’artista del mondo nuovo, ormai certo che un’intuizione valga più di molte ore di duro lavoro. La potenza dell’idea, che immediatamente si è espressa nella forma della provocazione, e il suo posizionarsi centralmente nel processo creativo della produzione artistica del primo Novecento, sembra aver segnato l’inizio di un percorso che sta avendo proprio in questi ultimi anni i suoi più grotteschi sviluppi.
Non essendo mia intenzione non riconoscere il valore di molte esperienze di rottura e d’avanguardia, come appunto quelle che segnarono l’inizio del secolo scorso, mi limito a far notare come lo scollamento del valore di un’opera d’arte dalla sua dimensione estetica e immanente (in cui si misurano la tecnica, l’intuizione compositiva, la sostenutezza formale, ecc.), ha portato ben presto allo sviluppo di uno spazio fluido, in cui il valore dell’opera è determinato dal valore dell’idea che essa esprime. Se a un generale relativismo nella valutazione, essendo la dimensione delle idee meno oggettivamente valutabile di quella dell’estetica, uniamo il fatto che il mercato, con i suoi schemi e le sue richieste ideologiche, ha ormai totalmente inquinato la ricerca artistica, non stupisce come la ricevibilità dell’idea da parte di esso diventi una condizione fondamentale per stabilire il valore di mercato di un’opera. Ecco che si possono dunque ben capire i presupposti della sempre più diffusa figura del finto artista, il fake come lo definì Scruton, colui cioè che crede a tal punto nei suoi falsi ideali da immedesimarsi totalmente con essi fino ad annichilire ogni forma di sincerità e originalità. Un falsificatore di ideali, una figura che ha scelto di rifiutare il sacrificio e il duro lavoro necessari per essere originali (e di duro lavoro si parla anche quando si devono avere idee intelligenti), per cavalcare l’onda della facile commerciabilità. La figura del fake trova poi la necessaria legittimazione nella societas sceleris che unisce l’artista al critico, a colui cioè che è il solo in grado di garantire a quello la fondamentale copertura ideologica necessaria alla sua ascesa sociale. Le due figure, poi, si legano in un pericoloso circolo vizioso, in cui anche la sopravvivenza della stessa figura del critico dipende sempre più da quella dell’artista, con gli evidenti problemi che ne conseguono.
Tempo fa (ottobre 2018) un noto esponente della street art contemporanea, Banksy, si rese protagonista di una trovata ritenuta da molti addirittura geniale. In numerosi articoli di giornale si leggeva a proposito dell’autodistruzione improvvisa di una versione di un suo noto disegno, Ballon Girl, avvenuta durante una sessione d’asta nel preciso momento in cui stavano aggiudicando l’opera a un cliente. Un trita-documenti nascosto nella spessa cornice si era infatti azionato tagliando a strisce il foglio con il disegno. Qualche giorno dopo l’avvenimento apparve, sul profilo Instagram dell’artista, un filmato che riproduceva il momento in cui si era azionato il marchingegno, trasformando l’opera fra lo sbigottimento generale del pubblico e dello staff di Sotheby (la casa d’aste che lo aveva in carico). La didascalia sotto al video riportava una famosa frase di Michail Bakunin (che verrà poi ripresa da Pablo Picasso) secondo cui «the urge to destroy is also a creative urge». Osservando l’opera autodistrutta possiamo però notare come niente sia lasciato al caso: la metà inferiore del disegno pende dalla cornice, tagliata in tante piccole strisce simmetriche e ordinate. Non si ha certo l’impressione di qualcosa di distrutto; nell’insieme il tutto risulta molto preciso e ordinato, e si ha ancora piena contezza di essere davanti a un quadro. Ripensando alla frase di Bakunin, a cui lo stesso Banksy faceva riferimento, verrebbe dunque da chiedersi dove sia la distruzione e dove la creatività. Tra l’altro, poco tempo dopo l’avvenimento, circolava la prevedibile notizia riguardo all’aggiudicazione dell’opera per quasi 200.000 sterline in più rispetto alla cifra d’acquisto precedente all’autodistruzione.
Qual è stato dunque l’obbiettivo di Banksy? Voleva forse comunicare al mondo che la sua arte non è fatta per rispettare le logiche del mercato? Il suo gesto era forse un attacco alle grandi case d’asta, o è semplicemente l’ennesima forma di finto anticonformismo perfettamente tollerato e anzi incentivato da quello che sempre più sembra assumere i contorni di un vero e proprio sistema dell’arte contemporanea? Nel mare dei punti interrogativi una cosa è certa: tutto si poteva dire di quell’opera tranne che si era autodistrutta, e il suo aumento di valore era prevedibile e scontato. Il “ribelle” e “anticonformista” Banksy ha di fatto creato un’opera d’arte di finta protesta che, mentre sembrava scagliarsi contro le leggi del mercato si inginocchiava a queste nel modo più abietto. Nonostante l’evidenza dei fatti, gran parte della critica ha sentito il bisogno di osannare l’artista, calcando la portata “rivoluzionaria” e “provocatoria” della sua azione. Significativo anche come, a poca distanza dall’asta, è apparso un video in cui Banksy stesso (excusatio non petita…) ci mostrava come nelle sue intenzioni ci fosse quella di recare molti più danni al quadro, cosa che non era stata possibile ottenere a causa di un imprevisto, quanto provvidenziale (almeno per l’economia della casa d’asta), malfunzionamento dello strumento che avrebbe dovuto danneggiare la tela. Resta difficile credere a quest’ultima parte della storia che appare come un goffo tentativo di autodifesa da parte di Banksy, e sembra suggerire che forse, nell’oceano delle critiche positive mosse nei suoi confronti, qualcuno abbia avuto la lucidità di storcere il naso. Pensando con una certa nostalgia, ad esempio, alle geniali manifestazioni dadaiste del secolo scorso, veri e propri assalti al buon costume, dove casualità e provocazione giocavano un ruolo fondamentale, viene da pensare che probabilmente nello sviluppo artistico degl’ultimi anni qualcosa sia andato storto. Sembra in effetti che sia sempre più difficile creare arte di protesta e sempre più facile fare un’arte da salotto assolutamente tollerata e tollerabile. Curioso poi come, poco tempo dopo l’episodio di Sotheby, una mostra tenuta al Mudec di Milano titolava The Art of Banksy. A visual protest. Se, almeno in quest’ultimo caso, non possiamo affermare con certezza che Banksy non abbia fatto dell’arte, sicuramente possiamo dire che non ha fatto protesta, nonostante gli venga attribuito proprio questo merito. In un certo senso si potrebbe considerare la trovata dello street artist come un’opera d’arte solo nella misura in cui non sia tale ma abbia fatto credere al mondo di esserlo. Vorrei dire che se questa versione di Ballon with Girl merita la promozione al livello d’opera d’arte, lo fa solo nel modo in cui si rende rappresentante dello Zeitgeist contemporaneo. Come quando, per fare uno dei numerosi esempi che possono essere citati, la Pop Art di Andy Wharol mostrava al mondo i simboli di un immaginario nuovo che stava pervadendo la nostra vita (incidenti d’auto, sedie elettriche, scatole di prodotti preconfezionati, ecc.), così Banksy, certamente in modo involontario, e quindi dimostrando ancora una volta la componente profetica dell’arte, sembra svelarci i meccanismi alla base della nostra società: ipocrisia, truffa e autoinganno collettivo.
Forse è stata proprio l’onestà la grande assente di questa vicenda, quella onestà che ci dobbiamo aspettare dalle opere di ogni grande artista. Piuttosto che rifilarci la patetica storiella del guasto tecnico, Banksy, o chi per lui, avrebbe senz’altro fatto meglio a cogliere l’occasione per spiegarci come nel XXI secolo si possa dare vita ad un’opera nuova durante una sessione d’asta, tra lo stupore e il divertimento degli astanti; e forse ci avrebbe fatto un’utile e divertente lezione di marketing, dimostrando come un danneggiamento programmatico e ben pubblicizzato possa far lievitare il prezzo di un’opera. Ma l’arte autentica e l’autentica protesta sono altro.
«Andy Wharol mi sta molto simpatico. Cerco di leggere tutto ciò che lo riguarda con la stessa passione con cui cerco di evitare ogni esposizione di sue opere. Un tempo non era così: nel 1989, per esempio, andare a visitare la mostra Le cento opere di Andy Warhol fu per me d’obbligo come un pellegrinaggio al Divino Amore. Ma nonostante l’equivalenza nella devozione al Palazzo della Permanente di Milano il miracolo non si verificò. Cento opere: pensavo di dover camminare per ore attraverso sale e sale. Mi ero anche portato i panini avvolti nella stagnola. E invece la mostra era concentrata in un unico stanzone tutto diaccio e umido. Fu in quell’occasione che iniziai a detestare le mostre su Wahrol. Mi aggiravo per la sala e mi sentivo inappagato. Anche appoggiando il naso contro il vetro che proteggeva una Marilyn non provavo alcuna impressione. Sfiorai fugacemente e di nascosto dai custodi la superficie serigrafata di un Mao. Ancora nulla. Lo stesso brividozero che provo appoggiandomi, in metropolitana, a un manifesto della Philips sapendo di poterlo ritrovare identico in tutte le stazioni, da Molino Dorino a Sesto F.S. Rifeci un’altra volta il giro dell’esposizione, tanto per dare un senso alle 5.000 del biglietto, e mi resi conto di una cosa: quasi rovinato dagli anni di scuola e da certi atteggiamenti accademici, tra quei quadri colorati simili alle pubblicità di tinte per capelli nei coiffeurs pour dames, io cercavo l’Artista aulico e non la sua vera essenza Insomma, volevo trovare i quadri e convincermi a ogni costo che quelle non erano pubblicità di tinte per capelli da coiffeurs pour dames. Per fortuna mi salvai in tempo. Lanciai una rapida maledizione all’Assessorato alla Cultura del Comune di Milano che aveva rinchiuso la forza pop in un ambiente asettico e prestigioso e capii che in Warolh (ma dove va l’h?), al di là di tutte le pose, cuore e corpo coincidevano. Mi resi soprattutto conto di quanto, dentro e fuori, Wharol fosse meravigliosamente coatto (sostituire le ultime sei lettere con maranzo se si è a Lodi, tamarro se si è a Milano e dasai se si è a Tokio). Il suo cognome per noi due volte esotico (il ceco Warhola americanizzato in Warhol) non nascondeva che una consistenza spirituale da apprendista edile bergamasco. Checché ne dicano i non-revisionisti, Andy non era figlio di Duchamp. Hwarol era fratello di Eros Ramazzotti, del quale condivideva, per fortuna, l’atteggiamento antiintellettualistico. La Weltanschauung di Warolh era la stessa dei seguaci del primo Jovanotti, riconducibile alla formula lavoro-paga-discoteca-sesso. Certo il lavoro di AW oggi è esposto nei musei, la paga era scritta con una $ seguita da numeri a molti zeri, la discoteca era l’esclusivo Studio 54 dei tempi d’oro e cambiava specularmente l’oggetto del sesso. Ma la filosofia di base era quella. Come doveva godere il nostro artista pop quando si patinava (diceva proprio così) e arrivava in qualche posto con la limousine presa in affitto, in compagnia di Debbie Harris o di Grace Jones! Esattamente come gode il coatto celebrato dagli 883 in Sei un mito che, cosparso di deodorante musk acquistato alla Coop, arriva con i tappetini nuovi e l’arbre magique nella Golf, al fianco di una commessa ben zinnuta e con le calze a rete. Insomma Andrea era un provincialotto, tale e quale il suo concittadino Vudi Alen e i giornalisti dei quotidiani di NY, per i quali il resto del mondo deve essere fantascienza. Ripensandoci, forse Andy era ancora meno di un coatto. Per esempio, viveva in una zona ben determinata dell’urbanistica newvorchese dalla quale usciva poco volentieri. Aveva notizie frammentarie di ciò che avveniva all’estero. Almeno i coatti nostrani d’estate vanno in Grecia o a Ibiza. Uorol parlava solo l’inglese, e anche piuttosto male. Un coatto, al confronto, è quasi un poliglotta: oltre all’italiano e al dialetto locale conosce l’inglese quanto basta per dire Dis is de ritm of de nait e per affrontare disinvoltamente anche le canzoni straniere nei locali karaoke. Allo stesso modo dei coatti, però, Warhol non aveva prospettiva storica, non sapeva con precisione cos’era avvenuto prima di lui. Così, non potendo ispirarsi a un passato storico, si ispirò a un passato di verdura, quello della Campbell’s. Ne derivò un’ingente fornitura di zuppe in scatola, un successo mondiale e numerosi tentativi di imitazione. D’altronde, se date in mano una matita a un coatto credete che vi sforni una Madonna con Bambino? No. Disegnerà un’auto, un personaggio televisivo, una scatola di dadi. Andy partiva dallo stesso livello, ma grazie alla sua profonda conoscenza dell’imbecillità dei critici, decise di fare più soldi possibile con i suoi quadri coatti, la cui ispirazione nasceva nei supermercati e dalla stampa. Ce la fece benissimo perché era un grande. Perché Andy come coatto era comunque un numero uno, una specie di capo banda, quello con l’auto più veloce e il car stereo più potente. Quello che tutti cercano di imitare. Negli ultimi anni di vita, ci fanno sapere i suoi Diari, Warol (tolgo l’h e non ci penso più) era angustiato dall’AIDS. Proprio come i coatti che vanno in giro col condom nel portafogli. Ma, invece di diventare sieropositivo, Andy divenne Xeroxpositivo, ossia oggetto di infinite imitazioni. Peccato che tutti questi emulatori trascurino il suo aspetto più vero e amabile, quello borgataro. Anzi, insieme a chi gli dedica le mostre, i cataloghi e le analisi storico-artistiche, quegli emulativo falliti fanno di tutto per creargli (e crearsi) un ingiustificato alone di aulicità e internazionalità, intellettualismo e raffinatezza. Una volta ho visto persino una Campbell’s Soup Can usata come illustrazione di copertina per un libro di saggi di Roland Barthes…».
Tommaso Labranca, Andy Warhol era u coatto. Vivere e capire il trach, Castelvecchi, 2005.
Il trash, o cultura di serie B, o spazzatura, è un fenomeno dalle molte facce, e non sempre è possibile circoscriverlo: sono trash le ragazzine che imitano Madonna, i presentatori delle Tv locali che si rifanno a Pippo Baudo, ma anche il Tg4 quando emula i notiziari in diretta della Cnn. Cos’è che li accomuna? È, in sintesi, il fallimento nell’imitazione di un modello «alto», quale che esso sia. Il trash è un’erba che attecchisce ovunque, e nessuno di noi può dirsene immune: qualunque cosa facciamo o diciamo, ci sarà sempre chi è «più a Nord di noi», pronto a deriderci. Che fare, dunque? Abbandoniamo il pregiudizio estetico, la boria accademica, l’illusione della purezza: come ci ha insegnato il genio «meravigliosamente coatto» di Andy Warhol, nel supermarket della cultura di massa possiamo sopravvivere solo se, non badando alle marche, alle firme o ai prezzi, compriamo liberamente ciò che ci piace.
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