Fernanda Mazzoli – Quei nostri morti: Angelo Appiani, Arturo Chiappelli, Arturo Malagoli, Roberto Rovatti, Ennio Garagnani, Renzo Bersani. Modena 9 gennaio 1950
Gianni Rodari, nel 1950 giovane cronista,
scrisse su «L’Unità» del 11/1/1950:
Un’azione di guerra condotta con fredda ferocia.
La polizia sparò dalle terrazze sugli operai che alzavano le mani.
Fernanda Mazzoli
Quei nostri morti:
Angelo Appiani, Arturo Chiappelli, Arturo Malagoli, Roberto Rovatti, Ennio Garagnani, Renzo Bersani.
Modena 9 gennaio 1950
Dalla facciata del settecentesco Grande Spedale degli Infermi, poi a lungo Ospedale cittadino ed ora sede di un polo culturale, sei facce d’altri tempi guardano scorrere il traffico di passanti e biciclette sulla Via Emilia centro. Non molto lontano da lì, in una fredda mattina di gennaio di settantun anni fa, il loro tempo incrociò, davanti alle Fonderie Riunite di Modena, le fucilate tirate dalla polizia di Scelba e si arrestò bruscamente.
Certo, non passavano di là per caso, avevano scelto di esserci per portare la loro concreta solidarietà agli operai delle Fonderie che protestavano contro la serrata della fabbrica ed i 500 licenziamenti stabiliti dalla direzione, seguiti dalla decisione di assumere ex novo 250 dipendenti non sindacalizzati.
Erano là perché sapevano che la lotta dei lavoratori delle Riunite era la loro e che questa lotta era in continuità con quella che si era da poco conclusa contro gli occupanti tedeschi ed i loro alleati fascisti. Tre di loro avevano preso parte alla Resistenza, tutti erano comunisti con la determinazione, la generosità e l’ingenuità con la quale si poteva essere comunisti nel 1950 a Modena, città nella quale la lotta di liberazione aveva avuto una forte base di massa e aveva alimentato speranze e domande di radicali trasformazioni sociali, confluite poi negli anni immediatamente successivi in un deciso protagonismo operaio, forte di uno stretto legame con le campagne, percorse dalle agitazioni dei braccianti e dei mezzadri. È un’intera comunità politica e territoriale che non accetta di ritornare diligentemente ad occupare quei ruoli subordinati in cui pretendono di confinarla le nuove classi dirigenti dell’Italia repubblicana, in sostanziale continuità con il passato prefascista. Essa rivendica con orgoglio il proprio diritto ad occupare la scena pubblica, diritto che si è conquistata a duro prezzo durante gli anni della guerra di liberazione. Le fabbriche sono state salvate dai lavoratori, con le armi in pugno, e le sentono loro, rappresentano qualcosa di più di un semplice luogo di lavoro, devono diventare uno spazio di socialità aperto al quartiere e alla comunità.
Solo a Modena il PCI conta più di 70.000 iscritti e in Emilia la CGIL ne registra quasi un milione: il conflitto sociale e politico è alto, i rapporti di forza sono pericolosamente sbilanciati a favore di quella che fonti delle forze dell’ordine chiamano la parte cattiva della popolazione.
Serve una lezione che stronchi velleità democratiche di partecipazione e controllo operaio e mostri chi veramente comanda, tanto più che sul piano nazionale si è ormai avviata la normalizzazione con la sconfitta del Fronte popolare alle elezioni del 1948 e la formazione del governo De Gasperi.
Il padrone delle Fonderie Riunite, il commendatore Orsi – un passato fascista che ha consentito alle sue aziende di prosperare ed un presente da uomo d’ordine – alle prese con la necessità di riconversione industriale del dopoguerra, vuole imporre la riduzione della mano d’opera, il ritorno al cottimo individuale e l’attribuzione ai lavoratori dei costi della mensa. Si apre così una dura vertenza sindacale che porterà il proprietario alla serrata della fabbrica e all’assunzione di nuovi operai e la FIOM ad organizzare scioperi e picchetti.
Il 9 gennaio è il giorno previsto per la riapertura dello stabilimento voluta da Orsi; quel mattino, la Camera del Lavoro proclama lo sciopero generale e una dimostrazione davanti alle Fonderie – presidiate da consistenti forze di polizia, così come tutto il quartiere – per impedire l’accesso ai “crumiri”. È probabile che l’apertura non sia veramente in programma: all’interno della fabbrica ci sono solo una cinquantina fra poliziotti e carabinieri, molti altri sono disposti all’ingresso e sui tetti, mentre la città è disseminata di posti di blocco. Verso le 10, un corteo di oltre 10.000 manifestanti, provenienti da tutta la provincia, si avvicina alle officine, aggirando i posti di blocco attraverso i campi, oppure facendo pressione sui cordoni di polizia disposti in modo frammentato.
Quando un gruppetto di scioperanti riesce ad attraversare il passaggio a livello ferroviario che li separa dalla fabbrica, la polizia inizia a sparare: tre lavoratori restano uccisi, diversi feriti. Questore e prefetto – raggiunti da una delegazione composta da due parlamentari comunisti e da un sindacalista – intimano di sciogliere la manifestazione, avvertendo che «sarà un macello», perché «abbiamo tanta forza da sterminarvi tutti».
Intanto, nelle vie adiacenti alle Fonderie si è scatenato il panico, molti cercano scampo dalla sparatoria in una fuga disordinata o bussando ai portoni delle case vicine, tanti finiscono accerchiati dai poliziotti e malmenati con i calci dei fucili. La mattinata si conclude con altri tre morti e centinaia di feriti, tutti dalla parte dei dimostranti, qualche contuso fra le forze dell’ordine.
Nel corso degli scontri 93 persone vengono arrestate e rilasciate nel giro di tre giorni, per mancanza di concreti elementi a loro carico; il 20 marzo si avvia un procedimento penale nei confronti del responsabile della commissione interna delle Fonderie Riunite e di altri 33 lavoratori (che si concluderà dopo un lungo e travagliato iter processuale con l’assoluzione degli imputati ed un risarcimento ai familiari delle vittime), mentre una veloce indagine condotta dagli stessi funzionari di polizia in servizio il 9 gennaio ha come esito il non luogo a procedere nei confronti di prefetto e questore.[1]
Settanta anni dopo, nell’ambito di un nutrito e meritorio calendario di iniziative commemorative,[2] le gigantografie in bianco e nero dei sei caduti hanno sovrastato per tutto il 2020 il Largo Sant’Agostino dove l’11 gennaio passò, percorrendo la Via Emilia, l’imponente corteo funebre, hanno ricoperto la facciata contro la quale si accalcarono quel giorno centinaia di persone venute a salutare per l’ultima volta i loro morti.
Gianni Rodari, Un’azione di guerra condotta con fredda ferocia. La polizia sparò dalle terrazze sugli operai che alzavano le mani, «L’Unità», 11/1/1950.
Le loro fotografie furono scagliate contro i banchi del Governo – come un’arma di denuncia, di sdegno e di rivendicazione di giustizia brandita a nome dei disarmati – dove sedevano De Gasperi e Scelba dalla deputata comunista modenese Gina Borellini, medaglia d’oro della Resistenza, che accompagnò il gesto con un’accusa precisa: in quel banco siedono degli assassini.
Sono le fotografie di quelli che il Presidente del Consiglio, appena un mese dopo, chiamerà sprezzantemente i vostri morti, dimostrando sicuramente scarsa sensibilità umana, ma una precisa coscienza del carattere antagonistico insito nelle agitazioni operaie e contadine dell’Emilia rossa di quegli anni.
Questi nostri morti hanno facce serie e vere che parlano di lavoro, fatica, stenti, guerra, dignità, non sorridono, guardano l’obiettivo con la fissità un po’ stupita di chi non è abituato a farsi fotografare, ci parlano di un Paese non ancora investito dalla mutazione antropologica degli anni Sessanta, così lontano dallo scintillio dei salotti televisivi, dal vociare compiaciuto dei social, dall’arroganza e dalla volgarità del self made man di successo, dall’opaca rassegnazione dei vinti.[3]
Angelo Appiani ha ventinove anni, una moglie e un figlio, lavora presso le Officine meccaniche Martinelli, è stato nella Resistenza ed è un attivista comunista. La fronte alta sormontata dai capelli gettati all’indietro suggerisce una certa fiducia nell’avvenire. Viene raggiunto per primo da un colpo sparato dal tetto delle Fonderie Riunite occupato dalla polizia che continua a sparare sulla folla dei dimostranti, uccidendone due e ferendone altri.
Arturo Chiappelli ha 42 anni, è stato partigiano, è attivista comunista, ha lavorato come spazzino, ora è disoccupato, ha tre figli. La bocca è una linea sottile che gli taglia il viso magro, la vita non deve essere stata tenera con lui.
Arturo Malagoli ha 20 anni, è figlio di contadini, è il primo della famiglia ad essere andato a lavorare in città come operaio; malgrado la giovane età, si è già dato da fare nel 1948 per il Fronte popolare ed un mese prima di morire ha fatto conoscenza con la galera per avere partecipato ad una manifestazione.[4] Sulla foto sembra un bambino; come gli altri due ventenni uccisi poco dopo ha nello sguardo una luce quasi infantile, come scrisse il giorno dei funerali Gianni Rodari, allora giovane cronista dell’Unità.[5] Allo scrittore i tre ragazzi sembrano ancora vivi e la terribile espressione dei loro volti pare dovuta «ad un sogno angoscioso e passeggero».
Trenta minuti dopo l’inizio della sparatoria, Roberto Rovatti, 35 anni, operaio, partigiano e militante comunista, con un cartello in mano e la sua solita sciarpa rossa al collo, a cinquecento metri di distanza dalle Fonderie viene circondato da un gruppo di carabinieri, picchiato con il calcio dei fucili, buttato in un fosso e poi freddato da un colpo sparato a bruciapelo. Ha uno sguardo fiero che deve avere indispettito i suoi aguzzini, forse non potevano reggerlo, forse smuoveva qualcosa nel fondo del loro animo che era meglio lasciare perdere.
Le ore passano, già due ne sono trascorse dall’inizio della strage, la Camera del lavoro ha già annunziato un comizio per il pomeriggio ed è anche arrivata l’autorizzazione, ma le forze dell’ordine continuano a sparare.
Ennio Garagnani ha vent’anni, lavora come carrettiere con il padre che gli ha consigliato di starsene in casa per quel giorno, ma lui non lo ascolta, è un attivista comunista e con i suoi amici va alla manifestazione. Si sta allontanando dalla zona degli scontri, ma non abbastanza in fretta da evitare la mitragliatrice dell’autoblindo della compagnia autocarrata dei carabinieri di Bologna. È un bel ragazzo, l’aria vagamente sognante, un po’ malinconica. Viene colpito, di spalle, alla testa.
Anche Renzo Bersani si sta allontanando, ma incrocia un carabiniere che si inginocchia nel mezzo della strada, lo prende di mira e lo colpisce mortalmente, alle spalle. Ha ventun anni, è un militante comunista, lavora in fabbrica, prima ha fatto il calzolaio. I tratti del volto lasciano trasparire una sorta di caparbietà fanciullesca, fatica e disillusione hanno risparmiato per sempre il suo volto di ragazzo del dopoguerra, quando si cresceva in fretta.
Le loro fotografie vennero appese dappertutto a Modena e in provincia, in quei giorni, e continuarono a circolare a lungo. Dovevano fare paura, tanto che ancora tre anni dopo una nota dell’Ufficio politico si rivolge al Prefetto, informandolo che la parte sana della popolazione di Spilamberto (paese distante una ventina di chilometri dal capoluogo) lamentava che le autorità non avessero ancora tolto dai portici del comune il quadro con le foto dei sei operai uccisi il 9 gennaio.[6]
La loro memoria è sopravvissuta come un torrentello carsico che scorre sotto le arterie dell’opulenta città, storica vetrina del modello emiliano, un po’ appannato ora dai perversi intrecci affaristici all’ombra delle cooperative.[7] Chi allora era giovane non ha dimenticato quei giorni di stupore, (sembrava di essere tornati in guerra, a detta dei testimoni), di rabbia e di paura e continua a raccontare a figli e nipoti; a scuola, qualche professore di storia vi accenna; ogni anno, attorno al cippo eretto a memoria, si tiene una manifestazione promossa da quei sindacati che così poco hanno saputo e voluto difendere i lavoratori dal massacro sociale neoliberista.
L’episodio, che ebbe rilevanza nazionale, in quanto segnò una svolta nella storia sindacale e politica della giovane repubblica italiana in direzione di una progressiva normalizzazione del conflitto sociale e della carica rivoluzionaria della base e dei quadri intermedi del PCI, non trova generalmente posto nei manuali scolastici di storia ed è ancora oggi insufficientemente oggetto di studio da parte della storiografia. L’acceso dibattito interno a sindacato e partito che seguì i fatti di Modena rappresenta una tappa importante nell’approdo del PCI verso le sponde della socialdemocrazia e dovrebbe, dunque, essere materia di analisi e riflessione non solo per gli storici di professione, ma per quanti cercano di comprendere, da una prospettiva di parte, come furono assorbite e neutralizzate le potenzialità rivoluzionarie e antagonistiche di una parte significativa della
Quel mondo – in cui una tradizionale cultura del lavoro aveva incrociato istanze politiche di radicale cambiamento sociale – non c’è più da tempo, spazzato via da pesanti processi di ristrutturazione capitalistica, dal trionfo della società dei consumi, dal crollo del comunismo storico novecentesco, dalla deregolamentazione e frammentazione del lavoro. Quelle facce non si incontrano più nelle nostre strade, percorse da una folla anonima, uniformata da mode e parametri estetici democraticamente imposti dallo spettacolo mediatico, dalla pubblicità, dagli influencer.
Di fronte a tali e tanti sconvolgimenti, la nostalgia non è che una tentazione meramente consolatoria, una fragile ancora sballottata dalle ondate violente e capricciose della società liquida che non conosce pensiero forte ed identità strutturate.
Eppure, a settant’anni di distanza, quei volti si impongono con la forza di uno schiaffo, o di un sasso lanciato nella palude dell’assuefazione e della rassegnazione che accompagnano come un’ombra anche noi, che di quella storia continuiamo a sentire nel profondo il cuore vivo, pulsante, noi che sappiamo che le loro ragioni sono, oggi più che mai in un regime di sfruttamento capitalistico sicuramente diverso, ma non meno brutale, l’humus in cui cresce una vita umana degna di essere vissuta. È simpatia che essi chiedono, soffrire, sperare e trepidare con loro per ciò che è stato e ciò che non è stato.
Fernanda Mazzoli
***
[1] Per un’accurata ricostruzione della vicenda ed una approfondita analisi del contesto locale e nazionale in cui essa si inserisce, cfr. L. Bertucelli, All’alba della Repubblica. Modena, 9 gennaio 1950. L’eccidio delle Fonderie Riunite, Ed. Unicopli, Milano, 2012 e F. Tinelli, Era il vento non era la folla. Eccidio di Modena, 9 gennaio 1950, Bébert edizioni, Bologna, 2015, che fornisce un’interessante documentazione prodotta dalla magistratura.
[2] L’iniziativa, promossa, in occasione del settantesimo dall’eccidio, dai sindacati, dall’Istituto storico, dal Centro documentazione Donna e dal Comitato comunale per la storia e la memoria del Novecento, ha proposto una ricca mostra fotografica, un concerto ed una bella narrazione ad opera di Carlo Lucarelli che si può seguire su «youtube»: Fonderie, 9 gennaio 1950. Un racconto di Carlo Lucarelli.
[3] Con buona pace delle vestali del politicamente corretto e della nuova narrazione del capitalismo inclusivo, il miliardario statunitense Warren Buffet, con onesto cinismo, ha riconosciuto che la lotta di classe esiste, ma che è la classe ricca che sta facendo la guerra e che la sta vincendo.
[4] Lo ricorda la sorella Marisa, all’epoca bambina di sei anni, che fu poi adottata da Togliatti: https://sites.google.com/site/sentileranechecantano/schede/morire-per-il-lavoro/l-eccidio-di-modena-nei-ricordi-di-marisa-malagoli.
[5] G. Rodari, 300.000 lavoratori ai funerali delle 6 vittime, «L’Unità», 11/1/1950.
[6] La nota è riportata in F. Tinelli, op. cit., p. 28.
[7] Uno scorcio sulla realtà sociale, fatta di sfruttamento, precariato, connivenza tra imprese ed istituzioni, che si nasconde dietro il mito del miracolo emiliano è proposta da Giovanni Iozzoli in https://www.sinistrainrete.info/politica-italiana/18651-giovanni-iozzoli-maxiprocessi-zamponi-e-tortellini.html