Salvatore Antonio Bravo – «Viva la Revoluciòn» di E. Hobsbawm.

Eric Hobsbawm01
Viva la revolución. Il secolo delle utopie in America Latina copia

Viva la revolución. Il secolo delle utopie in America Latina copia

Viva la Revoluciòn di E. Hobsbawm è un resoconto delle potenzialità critiche e rivoluzionarie dell’America Latina. Lo storico de Il secolo breve analizza le condizioni storiche che hanno fatto dei paesi dell’America latina un laboratorio politico nel quale esperimenti sociali si coniugano con potenzialità rivoluzionarie e riformiste inespresse. L’attenta e documentata rassegna dei diversi movimenti sono esaminati cogliendo le contraddizioni ed i limiti che hanno imbrigliato le possibilità politiche e rivoluzionarie. Leggendo il testo non si possono non cogliere analogie con l’attuale condizione italiana ed europea. Lo sguardo cognitivo rivolto verso l’America latina ci offre strumenti per capire la condizione dell’Occidente. Nell’anomia dell’informazione e della politica abbiamo necessità di capire, il diritto a capire e ad agire politicamente è stato sostituito dal flusso delle informazioni senza concetti, in tal modo non resta che il “panta rei”, per cui tutto scorre, ma nulla resta di concettualizzato ed elaborato per l’azione: si assiste al divenire senza l’essere metafora della politica.

Hobsbawm evidenzia quanto lo stesso sviluppo economico dell’America latina produca un sistema neofeudale. I nuovi schiavi sono tali perché le classi subalterne sono completamente asservite agli interessi dei nuovi proprietari feudali. L’economia, divenuta complice della politica, l’ha resa sua serva, in assenza di limiti politici e mossa dalla necessità di produrre ad infinitum. Lo sviluppo economico neofeudale ha quale effetto, contadini e classi medie passivizzate e sempre più funzionali al nuovo sistema economico. Politica ed economia si confondono nel neofeudalesimo descritto da Hobsbawm. Lo sviluppo economico dev’essere demitizzato per essere compreso. Il dogma dello sviluppo economico, del Pil quale parametro unico di valutazione cela tra le sue pieghe contraddizioni vissute ma non consapevoli. Il neofeudalesimo dell’America latina è speculare al neofeudalesimo finanziario dei nostri giorni. Il sistema di sviluppo agricolo di La Convenciòn ha tutti i tratti del neofeudalesimo tra corvè e sfruttamento: «La Convenciòn impartisce un’ultima lezione allo studente di sviluppo economico, sebbene forse gli sia piuttosto familiare: dimostra una volta di più che la crescita stessa del mercato mondiale capitalista sulla frontiera dello sviluppo, in determinate fasi, produce, o riproduce, forme arcaiche di dominazione di classe. Le società schiaviste dell’America del XVIII e XIX secolo erano il prodotto dello sviluppo capitalista, e così – benché su scala più modesta e localizzata – è stato anche il neofeudalesimo che prevalse a La Convenciòn fino al suo crollo, speriamo definitivo, grazie alla rivolta dei contadini».[1]

Tali osservazioni furono scritte nel 1969: è implicita la critica al modo di studiare economia accademico, alla falsa oggettività con cui gli studenti di economia si confrontano e trasformano l’economia in una religione del progresso che ha nella quantificazione il paradigma unico della lettura dei fenomeni economici. L’economia, sembra dirci Hobsbawm, quella reale, è differente dall’economia naturalizzata delle accademie universitarie. Dinanzi al delinearsi di forme di neofeudalesimo nell’America Latina, ed a potenziali condizioni per la Rivoluzione spesso si assiste o a forme di spontaneismo rivoluzionario o a rassegnazione e fatalismo: «È ovvio che la Colombia, come tutti gli altri Paesi latino-americani – a eccezione, forse, di Argentina e Uraguay – contenga la materia prima per una rivoluzione sociale sia dei contadini sia dei poveri delle aree urbane. Come in altre nazioni del continente, infatti, il problema non è trovare “materiale infiammabile”, ma capire perché non abbia già preso fuoco». [2]

Hobsbawm sembra parlarci, quando afferma che le condizioni per una rivoluzione, o per una politica riformista, non son solo attraverso le diffuse ingiustizie sociali; o meglio, per poterle definire tali, vi dev’essere la consapevolezza di sé, della classe sociale a cui si appartiene mediata dalla coscienza che la miseria non è un fatto naturale ma il prodotto di una sperequazione sociale voluta ed intenzionale: non si nasce poveri, non si nasce schiavi, si pensi alla dinamica servo-padrone di Hegel nella Fenomenologia dello Spirito, ma lo si diventa quando si rinuncia a lottare ed a pensare: «Innanzitutto, il gruppo attualmente privo di terra, il proletariato rurale, è di norma uno dei gruppi agrari meno dinamici e facili da organizzare sul piano politico (tranne forse dove c’è un’economia di piantagione avanzata) attraverso i metodi quasi urbani del sindacalismo. È il contadino – e non necessariamente quello che ha una quantità di terra insufficiente – a costruire l’elemento esplosivo più immediato. In secondo luogo, il minifondismo o la povertà non sono in se stessi sufficienti a produrre agitazioni agrarie: di norma è la giustapposizione del contadino all’hacienda (soprattutto l’hacienda la cui struttura e le cui funzioni stanno cambiando, per esempio con il passaggio dall’uso estensivo a quello intensivo delle terre, o dalla piantagione diretta allo sfruttamento attraverso contratti d’affitto o di mezzadria) a produrre miscela politicamente infiammabile».[3]

Hobsbawm ribadisce più volte che il passaggio dalla potenza all’atto non è meccanico. In assenza di un partito comunista che talvolta è diffuso, ma i cui aderenti vi partecipano in vista di un generico e non chiaro desiderio di riforma, a cui si accompagnano forti divisioni interne nell’area di sinistra, il neofeudalesimo può avanzare, malgrado gli improvvisi scoppi di rabbia e le politiche di riforma parzialmente ottenute: «Purtroppo anche la sinistra marxista, che non fu mai una forza politica rilevante se non in un numero ristretto di Stati, oggi nella maggioranza delle repubbliche è forse troppo debole e divisa per fornire un efficace contesto nazionale d’azione o una forza politicamente decisiva dal punto di vista della leadership. Anzi, l’effetto concreto degli anni Sessanta è stato, per una varietà di motivi, quello di indebolirla e frammentarla più che mai, rendendo la sua unificazione e la sua normale azione molto problematici. Ciò non esclude le grandi trasformazioni sociali, anche rivoluzionarie, ma fa in modo che, probabilmente, a mettervisi a capo, almeno da principio, siano altre forze».[4]

La sinistra divisa, ridotta in fazioni in lotta per briciole di potere, è ciò a cui assistiamo oggi. Ciò permette alle forze autoritarie in economia e travestite da libertarie in campo etico e dei diritti civili di naturalizzare il liberismo. Si diffonde l’idea della impossibilità dell’alternativa mortificando gli animi degli sfruttati per rafforzare potentati economici sempre più feudali. Nel vuoto di spazio politico autentico si generano movimenti anche violenti, ma privi di progettualità.

In assenza di forze aggreganti mosse da un radicamento nel territorio in America Latina il banditismo è divenuto il facile e sanguinoso surrogato dell’assenza di un progetto autenticamente emancipativo e dunque condiviso e partecipato: «Tuttavia, riformista o rivoluzionario che sia, il banditismo in sé non costituisce un movimento sociale. Può essere un suo surrogato, come quando i contadini ammirano i Robin Hood come propri campioni per sopperire alla mancanza di una propria attività positiva diretta». [5]

Hobsbawm sembra guidarci verso la comprensione del presente post ’89 mediante l’analisi dei movimenti rivoluzionari dell’America Latina. La nostra condizione è ancora più difficile, poiché le cosiddette “sinistre” non sono solo divise, ma ciò che più temono è proprio di essere percepite come vicine comunismo e socialismo. Di qui il moltiplicacarsi del fatalismo attuale, che diventa elemento germinatore dello stesso neofeudalesimo. La chiarezza filosofica – che si saldi con la prassi – è invece aggregante poiché svela la possibilità di un oltre, e può sottrae le coscienze degli oppressi dal gorgo nichilistico in cui vengono quotidianamente precipitate.

Salvatore Antonio Bravo

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[1] E. Hobsbawm, Viva la Revoluciòn. Il secolo delle utopie in America Latina, Rizzoli, Milano 2016, pag. 119.

[2] Ibidem, pag. 59.

[3] Ibidem, pag. 219.

[4] Ibidem, pag. 237.

[5] Ibidem, pag. 124.

 


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