«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
«Il capitalismo è la sola macchina sociale che si è costruita come tale su dei movimenti decodificati, sostistuendo a codici intrinseci un insieme di elementi assiomatici in forma di denaro».
Gilles Deleuze – Felix Guattari, L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, Einaudi, Torino 1975, p. 278.
Natura umana e finanza L’insocievole socievolezza nel secolo dell’economicismo è ormai la verità entro cui leggere e comprendere l’integralismo economico contemporaneo. Vi è la pressione all’individualizzazione di ogni comportamento, dietro cui si vela la riduzione di ogni rapporto alla sola categoria dell’utile economico. La reificazione si palesa nella forma seducente dell’immagine, della microfisica del controllo e della stimolazione al desiderio consumante. Si impedisce, in tal modo, alle personalità di fiorire secondo la celebre immagine di Aristotele. Lo sfruttamento non riguarda solo la forza lavoro, ma si concretizza nella forma della negazione dell’indole individuale. Il passaggio dalla potenza all’atto (ἐνέργεια) è inficiato con il concretizzarsi di nuove forme di sfruttamento e violenza.
L’amicizia filosofica contro l’economicismo Nella Repubblica (Πολιτεία, Politéia) Platone ha dimostrato che giustizia è rispetto della natura di ciascuno, per cui l’ingiustizia totalitaria contemporanea consiste nella perenne negazione della natura universale dell’essere umano e della sua espressione soggettiva. L’assedio alla vita, dapprima con le scienze sperimentali, oggi con l’economia finanziaria, opera attaccando frontalmente la Filosofia in quanto disciplina del pensiero, dell’ordine del senso. La Filosofia umanizza, poiché è educazione (dal lat. Educĕre trarre fuori, allevare), portar fuori la natura universale con le potenzialità del soggetto: essa è formatrice di comunità. Nel regno dell’economia, ma è preferibile dire della crematistica, nel caos del mercato, deve regnare il solo rumore delle transazioni finanziarie sempre più fitte, sempre più incontrollabili. Ortega Y Gasset ha ben descritto il senso di oppressione e limitazione a cui le vite sono sottoposte, sempre meno libere, sempre meno vitali, e sempre più oggetto dell’imperio della quantificazione. La negazione della filosofia coincide con la nientificazione dell’umano:
«La Filosofia restò schiacciata, umiliata dall’imperialismo della fisica e impoverita dal terrorismo intellettuale dei laboratori. Le scienze naturali dominavano l’ambiente e l’ambiente è un ingrediente della nostra personalità, come la pressione atmosferica è uno dei fattori che compongono la nostra forma fisica».[1]
Ovunque vi è Filosofia vi è amicizia. La dialettica filosofica è confronto tra eguali, è ascolto, poiché nessuno dei dialoganti possiede il sapere, ma lo ricerca per condividerlo. L’ostilità dell’economicismo nei confronti della Filosofia trova la sua ragione più profonda nella considerazione che la Filosofia è pratica di verità e di amicizia, mentre la parola d’ordine dell’economia della finanza (della crematistica) è competizione, plusvalore e controllo, pertanto è negazione del senso di comunità insito nella prassi filosofica:
«Con il Simposio, l’etimologia della parola philosophia, “amore, desiderio di saggezza”, diventa il programma stesso della filosofia. Si può dire che con il Socrate del Simposio la filosofia assuma, definitivamente nella storia, una colorazione ironica e tragica. Ironica, perché il vero filosofo è colui che sa di non sapere, che sa di non essere saggio e che dunque non è né saggio né non-saggio, che non si sente al suo posto né nel mondo degli stolti, né nel mondo dei saggi, né totalmente nel mondo degli uomini, né totalmente in quello degli dei; che è dunque un non catalogabile, un senza fissa dimora, come Eros e come Socrate. Tragica, perché quest’essere bizzarro è torturato, straziato dal desiderio di raggiungere la saggezza che gli sfugge e che ama».[2]
L’economicismo ha, nel controllo, la sua essenza: esso deve addomesticare, ridisegnare comportamenti e gestualità. L’automa è l’ideale del nuovo integralismo: per controllare il lavoro deve sussumere il corpo, l’anima e le relazioni. La Filosofia è emancipazione dalle ipostasi come dalla tradizione, si pone in un movimento opposto rispetto al potere dell’economicismo. Per Bauman la sostanza della Rivoluzione industriale è nel controllo, e tale matrice si storicizza e si trasmette fino all’attuale assetto economico:
«Così il problema cui si trovarono di fronte i primi imprenditori non era l’uomo preindustriale ostinatamente pigro, sordo all’appello della ragione economica; e la soluzione del problema da loro ricercata non consisteva nell’instillare una pia disposizione al lavoro nell’animo di gente non abituata a uno sforzo continuo. Il problema era piuttosto la necessità di costringere gente abituata a dare un significato al proprio lavoro, controllandolo, a spendere la sua forza e capacità nell’assolvere mansioni controllate da altri e pertanto prive di significato».[3]
Entificazione dell’umano Se l’essere umano vive e progetta nelle comunità e nelle circostanze che gli sono date, Dasein, la pressione anomala a cui è esposto ne impedisce la progettualità autentica riducendolo ad ente tra gli enti, ed è studiato come un qualsiasi ente. La pressione alla quantificazione sviluppa il metodo della parcellizzazione, della divisione incapace di cogliere il fondamento del tutto. Le scienze, come l’economia, rinunciano in modo aprioristico alla verità per l’esattezza, per la misurazione. La superstizione scientista è il fondamento attuale del potere tecnocratico, non vi è riflessione collettiva sulla teleologia delle scienze come delle tecnologie, esse sono “il bene” senza che vi sia pubblica discussione: pertanto le si persegue con determinazione scevra da ogni dialettica. Esse producono conoscenze sicuramente utili, ma non migliorano necessariamente la qualità della vita. La Filosofia deve avere il coraggio dell’universale, dell’assoluto, non può supinamente adattarsi all’attitudine delle scienze, rinunciando a se stessa; senza la conoscenza dell’universale l’essere umano è straniero a se stesso ed al mondo, è consegnato all’atomistica delle solitudini, è potenza passiva:
«Per questa ragione propongo che, nel definire la filosofia come conoscenza dell’Universo, intendiamo un sistema integrale di attitudini, nel quale si organizza metodicamente l’aspirazione alla conoscenza assoluta».[4]
Filosofia e verità Nessun dogmatismo, nessun integralismo. La Filosofia ha il compito di ricercare la verità, di fare appello alla sua inesauribile creatività e paziente attività filologica per ricercare il fondamento universale. La Filosofia è amica del concetto, è generazione di vita nella forma dell’universale condiviso, è processo di avvicinamento alla verità con le categoria della totalità, la rinuncia alla verità è rinuncia all’umanità. L’umanità, se abdica alla verità, si limita a vivere nella pochezza dei giorni, soddisfa desideri immediati, è travolta dalle circostanze a cui non riesce a dare il senso. In assenza di verità, tutto è possibile, tutto è ammesso. La verità come problema è assunzione di consapevolezza e responsabilità di una sfida necessaria per umanizzarsi nella dialettica, nell’argomentare logico ed intuitivo. La verità in quanto totalità è cogliere con lo sguardo della mente. Non gli enti nella loro malinconica separazione atomistica, ma nel loro sorreggersi l’un l’altro, nel loro ritrovarsi in relazione al tutto che li accoglie per svelare l’eterno nella storia. La Filosofia unisce dove la scienza separa:
«Intendo per Universo tutto quanto è. Ciò significa che al filosofo non interessa ognuna di quelle cose che esistono per sé, nella loro esistenza particolare diciamo privata, ma invece gli interessa la totalità di quanto esiste e, conseguentemente, di ciascuna cosa che è di fronte o accanto alle altre, la sua posizione, il suo aspetto e rango nell’insieme di tutte le cose: diciamo pure la vita pubblica di ogni cosa, ciò che si rappresenta e vale nella superiore dimensione pubblica della coesistenza di tutti gli esseri».[5]
Verità relazione La verità è dunque nella relazione. Ogni ente non vive la condizione dell’abbandono atomistico, ma la sua verità è la relazione con il suo contesto. Nella ricerca della verità l’essere si scopre come comunità, vive in modo consapevole la prassi della verità, il reale è razionale nella relazione veritativa, e l’essere umano è parte di tale realtà relazione, le dà voce, e dunque diviene creatore di comunità fondate nella verità dialogica con se stesso e la comunità. La scienza circoscrive l’oggetto, lo soppesa, lo isola, lo approfondisce in una solitaria attività d’indagine, perché separata dalla relazione con la vita. La Filosofia non nell’esattezza, ma nella vita, scopre la verità. Ogni astrazione dal tutto è astrarre linfa dalla vita, è un’esperienza che uccide per misurare. La verità della Filosofia è l’universale concreto:
«Che cos’è la vita? Non cercate lontano, non si tratta di ricordare conoscenze apprese. Le verità fondamentali devono essere sempre a portata di mano: solo in questo modo possono essere fondamentali. […] Vita è ciò che siamo e ciò che facciamo: è inoltre, fra tutte le cose, la più vicina a ciascuna».[6]
La Filosofia contro l’inerte Vivere è dunque comprendersi, intuirsi, disporsi in quanto parte di un tutto, ma specialmente vivere in perenne relazione con il tutto. I nemici della Filosofia sono palesi nel loro intento: favorire l’inerte sulla vita, la separazione sulla totalità, la quantificazione sulla qualità. Senza il contatto con la vita non vi è dialettica, il logos si frantuma in scientismo integralista negando se stesso. L’epoca della negazione dell’umano è negazione del logos, dell’unità che integra le differenze ponendo le condizioni dell’incontro. Il logos come razionalità del controllo, del dividere per definire, stimolare e manipolare è solo razionalità calcolante senza la sostanza vitale della parola che approssima i dialoganti senza coincidenze, in quanto la prassi della parola senza sovrapposizione è la contraddizione vitale che permette il dialogo eterno nella comunità. I nemici della Filosofia, del logos sono i detrattori della vita, la vorrebbero chiudere in categorie, consegnarla alla fine della storia per eternizzare un presente senza futuro e senza passato. Tra i nemici della Filosofia, vi sono i Filosofi analitici, coloro che riducono la Filosofia a pura imitazione dei metodi scientifici. Solo l’abituale relazione con la vita conduce alla domanda che scompagina le naturalizzazioni, gli stereotipi e gli universali sclerotizzati nella loro liturgia. Vivere è relazione con sé, il conoscersi per aprirsi al mondo con le nostre domande, con le nostre terribili aporie, anch’esse verità del nostro esserci:
«“Incontrarsi”, “informarsi di sé”, “essere trasparente” è la prima categoria della nostra vita, e, ancora una volta, non si dimentichi che a questo punto il sé non è solo il soggetto ma anche il mondo. Prendo coscienza di me nel mondo, di me e del mondo, questo è, in modo immediato, “vivere”».[7]
Fuga dall’agorà Dunque siamo nel mondo, relazione con il mondo da ciò non può che conseguire il nostro impegno nel mondo. La fuga dal mondo, dal pubblico, per il privato godereccio, è “ideologicamente” voluto, organizzato. La pressione economica e scientifica sulle esistenze ha dunque una verità che la Filosofia può svelare: la separazione dell’io dal mondo, la fuga dall’agorà per consentire il trionfo scientista e finanziario. La responsabilità della Filosofia è nel testimoniare l’impegno per la qualità della vita. Vita e pensiero sono sincronici, la vita è trasformazione, prassi, solo se c’è pensiero; affinché ciò possa essere è necessario ristabilire l’universale, ovvero la relazione tra l’in sé ed il per sé:
«Né certamente il pensare è anteriore al vivere, poiché il pensare vede se stesso come parte della mia vita, come un suo atto particolare».[8]
Vivere è attività in cui il presente ed il passato sono forme plastiche per il futuro. Lo scientismo economico, il regno animale dello spirito con la logica della sola produzione è assenza della dimensione del futuro. Dove regna la separazione e la quantificazione la vita si consuma e si logora nell’utile, nell’attimo senza prospettiva, nell’offesa alla dignità dell’essere umano divenuto sempre più mezzo, e sempre meno soggetto di relazione.
Salvatore Bravo
[1] José Ortega y Gasset, Cos’è la filosofia?, Marietti, Torino1973, p. 38.
[2] Gilles Deleuze e Félix Guattari, Che cos’è la filosofia?, Einaudi, Torino 2010, p. 48.
[3] Zygmunt Bauman, Memorie di classe, Einaudi, Torino 1987, pp. 80-81.
L’opera di Gilles Deleuze – Felix Guattari, Che cos’è la filosofia?, ci invita ad una riflessione sul senso della filosofia e della pratica filosofica. La filosofia è sotto assedio, sembra arretrare, i suoi spazi divengono sempre più limitati e, in taluni casi, il posticcio cerca di occupare lo spazio da essa lasciato libero. Il ripiegamento dei filosofi nella dimensione normo-temperata degli ambienti accademici, l’assenza del logos filosofico nella politica, sta consentendo non solo l’omologazione, ma soprattutto la regressione sociale e, con essa, il riemergere di immagini del mondo in cui la tensione del logos è sostituita dalla dismisura della glebalizzazione–globalizzazione. La Filosofia vive dell’antitesi, la sua apertura diventa riposizionamento verso lo stato presente, è prassi trasformatrice mediante i concetti vissuti. Creare nuovi piani d’immanenza, di pensiero, significa ridisegnare la cartografia dei significati. La Filosofia diventa in tal modo prassi trasformatrice. Deleuze e Guattari denuncino il tentativo di sostituirla con modesti succedanei: sociologia, epistemologia, psicanalisi ecc. al fine di neutralizzarne la carica rivoluzionaria e critica. La si accoglie, la si spettacolarizza per anestetizzare il pensiero divergente: «Più recentemente la filosofia si è imbattuta in molti nuovi rivali. Furono prima le scienze dell’uomo, e in particolare la sociologia, a volerla rimpiazzare. Ma poiché la filosofia aveva trascurato sempre più la sua vocazione a creare concetti per rifugiarsi negli Universali, non si sapeva bene quale fosse la sua funzione» (G. Deleuze – F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, Einaudi, Torino, 1996, introduzione p. XVIII) . Nega così la sua vocazione, ovvero: creare concetti, dialettizzarli, ripensare il presente. Ogni concetto ripensato e razionalizzato come l’araba fenice rinasce a nuova vita e diviene volano per nuove prospettive. La filosofia necessita del coraggio del pensiero: pensare significa ridisporsi in uno spazio altro, rompere con il conformismo omologante dei facili successi, accettare il rischio della solitudine come un’opportunità per capire. Creare concetti significa vivere il caos dionisiaco e gioioso della vita e delle sue infinite possibilità per operare in esso il taglio come lo definiscono i due filosofi, ovvero una concettualizzazione, un atto creativo con il quale ridefinire la contingenza e l’immagine del mondo: «Il piano d’immanenza prende in prestito dal caos le determinazioni con cui compone i suoi movimenti infiniti, i suoi tratti diagrammatici. Si può, si deve quindi supporre una molteplicità di piani, poiché nessuno di essi potrebbe da solo abbracciare tutto il caos senza ricadervi; oltretutto, ciascuno ritiene solo i movimenti che si lasciano piegare insieme» (ibidem, p. 40). I piani d’immanenza sono infiniti e stratificati, le possibilità del pensiero sono innumerevoli e nessun taglio potrà mai impedire nuove concettualizzazioni. La filosofia è libera, perché esplora sempre nuovi piani; le sue mani conoscono continuamente l’atto della liberazione dalle catene dell’ignoranza come lo schiavo nella caverna di Platone. Denuncia, con il solo suo esserci, ogni riduzionismo: oggi deve confrontarsi con il capitalismo assoluto, il quale nega la possibilità del pensiero, sostituito dalla sola libertà delle merci e dei corpi. Il sistema capitale, con la dismisura, ipostasi del liberismo, assolutizza solo un piano di immanenza: la mercificazione di tutto, la riduzione a quantità di ogni evento per poterlo controllare; ogni piano d’immanenza altro è marginalizzato, ridotto al silenzio. La filosofia, ciò malgrado, vive. L’epoca delle passioni tristi è l’epoca dell’asfissia della speranza, la pressione mediatica e politica nelle sue forme degenerate verso il ‘’si dice’’ ‘’si pensa’’, e dunque la chiacchiera, mostra la sua fragilità negli effetti depressivi che provoca e specialmente nell’incapacità dell’immanenza del pensiero unico a risolvere le sue innumerevoli contraddizioni.
È la corrente calda che E. Bloch paragonava al rosso caldo contrapposto al rosso freddo della corrente gelida, sterile e portatrice del pensiero verticale. La filosofia emancipa e, come tale, partecipa alla vita, la vivifica con la sua rivoluzione attiva: «Il concetto è il contorno, la configurazione, la costellazione di un evento a venire. I concetti in questo senso appartengono a pieno titolo alla filosofia, perché è essa che li crea e non smette di crearne. Il concetto è evidentemente conoscenza, ma conoscenza di sé: esso conosce il puro evento, che non si confonde con lo stato delle cose nelle quali si incarna. Quando la filosofia crea dei concetti, delle entità, il suo scopo è sempre di cogliere un evento dalle cose e degli esseri. Allestire il nuovo evento delle cose e degli esseri, dare loro sempre un nuovo evento: lo spazio, il tempo, la materia, il pensiero, il possibile come eventi…» (ibidem, pp. 22-23).
La sua processualità, mentre crea, fa riaffiorare il tempo della speranza senza identificarsi con il concetto. Essa, in quanto attività creatrice e critica, non si identifica con lo stato irrigidito delle cose, dei concetti del sistema, ma è sempre oltre, è attività vitale che ripensa il già stato per dargli nuovi significati.
Possiamo comprendere l’ostilità del sistema capitale verso una forma di conoscenza che dalla rinuncia alla verticalità, alla gerarchizzazione passiva, trae la dinamicità plastica per percorsi consapevolezza. La Filosofia, precisano gli autori non è l’arte di criticare i concetti; è molto di più, pone le condizioni per concettualizzazioni alternative, per nuovi piani di pensiero: «Criticare significa soltanto constatare che un concetto svanisce, perde alcune sue componenti o ne acquisisce altre che lo trasformano nel momento in cui viene immerso in un nuovo concetto. Ma coloro che criticano senza creare, che si limitano a difendere ciò che è svanito senza potergli dare le forze per ritornare in vita, costoro sono la piaga della filosofia. Questi polemisti, questi comunicatori sono animati dal risentimento. Non parlano che di se stessi lasciando che si affrontino delle vuote generalità. La filosofia ha orrore delle discussioni, ha sempre altro da fare» (ibidem, p. 19).
I mezzi di comunicazione vorrebbero il requiem della filosofia, quando illustri accademici o pseudofilosofi rendono omaggio, con la loro presenza acclamata, alla commedia della democrazia: criticano, ma non propongono nulla, non trasformano la critica nella speranza che mobilita verso l’uscita della caverna. Sono la piaga della filosofia perché fortificano la retorica democratica con la benedizione della filosofia addomesticata, usata in funzione del potere e dunque ombra della sua autentica finalità.
La filosofia è uno scandalo perché aspira alla conoscenza, e fa della parola motivo d’incontro con sé e con chi è disposto alla ricerca. Il piano d’immanenza è luogo della comunità nel quale le tensioni sono l’apertura al pubblico, alla vita nelle sue dimensioni, che presuppongono l’identità dell’io, sottratto alla liquidità dei nostri tempi: perché nel pensiero si conosce, e dunque scolpisce la sua statua interiore, come affermava Plotino. La filosofia deterritorializza e riterritorializza i concetti, denuncia lo stato presente del capitalismo assoluto in cui i diritti individuali convivono con le violenze più inaudite. La filosofia con la concettualizzazione è la resistenza di cui si sente sempre più nostalgia: «Quantunque la filosofia si riterritorializzi sul concetto, non ne trova la condizione nella forma presente dello Stato democratico o in un cogito di comunicazione ancora più dubbio del cogito di riflessione. Non ci manca certo la comunicazione, anzi ne abbiamo troppa; ci manca la creazione. Ci manca la resistenza al presente. La creazione dei concetti fa appello di per sé a una forma futura, invoca una nuova terra e un popolo che non esiste ancora» (ibidem, p. 101).
La filosofia è resistenza che magnifica i piani d’immanenza nell’incontro del presente con il passato aprendosi al futuro. Deve tornare ad essere cerniera tra le moltitudini ed i movimenti che accolgono le urgenze del presente ma sono privi di un progetto politico alternativo al presente in modo da unire la comunità verso una nuova possibilità, verso un nuovo tempo in cui raccogliersi per pensare.
Salvatore Antonio Bravo
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