Raoul Vaneigem – «Trattato sul saper vivere. Ad uso delle giovani generazioni», prefazione e traduzione di Sergio Ghirardi. Imparare a diventare umani è la sola radicalità.

Vaneigem Raoul_Sergio Ghirardi

Raoul Vaneigem, Trattato sul saper vivere. Ad uso delle giovani generazioni, prefazione e traduzione di Sergio Ghirardi, Castelvecchi, Roma 2006. L’edizione Castelvecchi  include anche l’interessante e attuale introduzione scritta da Raoul Vaneigem per la riedizione francese del 1992, oltre che l’aggiunta finale voluta da Raoul già nella seconda edizione Gallimard del 1972 [Toast aux ouvriers révolutionnaires], ignorata nell’edizione Vallecchi del 1973 e nei suoi cloni successivi.

Raoul Vaneigem incarna il tipo di uomo che preferisce il desiderio al dovere e all’ideologia, la gioia di vivere alle imposizioni e ai programmi. Il tentativo di un saper vivere al di fuori degli schemi e delle imposizioni dogmatiche, con un pensiero insieme «libertario» e «umano» fanno di questo trattato un testo ancora attuale.


Le Traité de savoir-vivre à l’usage des jeunes générations marque l’émergence, au sein d’un monde en déclin, d’une ère radicalement nouvelle. Au cours accéléré qui emporte depuis peu les êtres et les choses, sa limpidité n’a pas laissé de s’accroître. Je tiens pour contraire à la volonté d’autonomie individuelle le sentiment, nécessairement désespéré, d’être en proie à une conjuration universelle de circonstances hostiles. Le négatif est l’alibi d’une résignation à n’être jamais soi, à ne saisir jamais sa propre richesse de vie. J’ai préféré fonder sur les désirs une lucidité qui, éclairant à chaque instant le combat du vivant contre la mort, révoque le plus sûrement la logique de dépérissement de la marchandise. Le fléchissement d’un profit tiré de l’exploitation et de la destruction de la nature a déterminé, à la fin du XIXe siècle, le développement d’un néocapitalisme écologique et de nouveaux modes de production. La rentabilité du vivant ne mise plus sur son épuisement mais sur sa reconstruction. La conscience de la vie à créer progresse parce que le sens des choses y contribue. Jamais les désirs, rendus à leur enfance, n’ont disposé en chacun d’une telle puissance de briser ce qui les inverse, les nie, les réifie en objets marchands. Il arrive aujourd’hui ce qu’aucune imagination n’avait osé soutenir : le processus d’alchimie individuelle n’aboutit à rien de moins qu’à la transmutation de l’histoire inhumaine en réalisation de l’humain.

Raoul Vaneigem



 



Tra i libri di Sergio Ghirardi

Sergio Ghirardi


Raoul Vaneigem

Raoul Vaneigem

«Imparare a diventare umani è la sola radicalità».

Raoul Vanegeim

  1. Un autore dimenticato: Raoul Vaneigem

 

 «[…] il Traité rimane uno scossone, un urlo
[…] a fare un bilancio rispetto a ciò che rimane
della soggettività come desiderio,
come piacere, come relazione solidale».

Pasquale Stanziale

In questo breve contributo critico ci proponiamo di analizzare il pensiero di Raoul Vaneigem, nato a Lessines, in Belgio, nel 1934 e tuttora vivente; intendiamo soprattutto comprendere quanto della sua opera resti più che mai vivo ed urgente nell’odierna attualità.
Vaneigem, insieme a Guy Debord (1931-1994), fu uno dei membri principali dell’Internazionale Situazionista, che lascerà nel 1970, ed il suo testo di capitale importanza è senz’altro Trattato di saper vivere ad uso delle nuove generazioni (1967) [1]. È un libro, questo, che – ha scritto giustamente Pasquale Stanziale – rimane ancora uno scossone, un richiamo a cambiare prospettiva, un urlo contro ogni forma di soggettività negata.
Tuttavia, se negli ultimi anni v’è stato un interesse esponenziale verso gli scritti di Debord [2], è come se Vaneigem fosse invece passato inosservato, rimosso tanto dall’ambiente dell’accademia quanto dall’“opinione pubblica” tout court. Proprio per questa ragione desideriamo oggi regalare al lettore un’analisi in grado di restituire il giusto peso, il significativo spessore del pensatore belga. Di più: riteniamo, con una certa cognizione di causa, che le riflessioni vaneigemiane possano aiutarci a penetrare all’interno del «nuovo spirito del capitalismo»[3], a recepire fino in fondo le implicazioni strutturali della controrivoluzione neoliberista.
Procederemo, inoltre, inserendo qui e lì delle “intermittenze” musicali, parole di due cantautori, Claudio Lolli e Gianfranco Manfredi [4], che hanno espresso artisticamente le esigenze situazioniste, la tensione libertaria ivi presente, e che, come tali, costituiscono un valido ed inusuale supporto per una maggiore comprensione. È, forse, inevitabile il riferimento al mondo musicale, poiché – in quell’«orda d’oro» [5] rappresentata dal decennio ʻ68-ʻ77 – esso ha davvero dato voce ai sogni giovanili, allo «sciamare d’energie»[6] – per dirla con Capanna – che si liberava in tutte le direzioni, al bisogno incontenibile di essere irriducibili e di non sottostare al fatalismo della storia. [7]
L’orizzonte del ʻ68-ʻ77 segna dunque una grandiosa rivoluzione dell’immaginazione, «un’incruenta rivolta per affermare il diritto alla felicità» [8]. Esattamente quest’ultimo aspetto, la volontà cioè di far «retrocedere dappertutto l’infelicità» [9], è quanto caratterizza l’Internazionale Situazionista (1957-1972), formatasi a Cosio d’Arroscia (Imperia) nel 1957. Essa nasce come contestazione artistica, influenzata dal lettrismo e dal surrealismo, e s’allarga poi al terreno politico, s’afferma quale critica serrata nei confronti dell’alienazione e della passività esistenziale, mira ad una rivoluzione permanente della vita quotidiana e ad una costruzione di situazioni [10]. I suoi testi fondamentali di riferimento sono quello già citato di Vaneigem e La società dello spettacolo di Debord, entrambi del 1967. Noi ci confronteremo in particolare con il primo e con la sua pars destruens: il morbo della sopravvivenza.

 

 

  1. Il morbo della sopravvivenza

 

«Lo sai che siamo tutti morti e non ce ne
siamo neanche accorti, e continuiamo a dire
e così sia». 

Claudio Lolli      

 

Il Trattato di saper vivere ad uso delle nuove generazioni si caratterizza, in primis, per una «fenomenologia della soggettività negata» [11], vale a dire per l’amara comprensione della riduzione della ragione a mera e squallida esecutrice di ordini.
Questa fase storica – scrive Vaneigem – non è né quella legata al principio di dominio della società feudale, né quella propria del principio di sfruttamento della società borghese, bensì essa reca il trionfo del principio d’organizzazione tipico di una società cibernetica, ove la ragione si svuota di senso, oblia del tutto l’idea di una qualche normatività morale e d’una finalità delle proprie scelte individuali e sociali. Essere ragionevoli – per dirla con il Max Horkheimer di Eclisse della ragione – significa infatti non essere ostinati, adattarsi alla realtà così com’è, diventare una semplice cellula di risposta funzionale. [12] Ma vuol dire anche divenire grotteschi personaggi che assomigliano, schopenhauerianamente, a burattini caricati come orologi [13], senza sapere il perché di quello che fanno; vuol dire trasformarsi in automi lobotomizzati da una insulsa «cascata di gadgets» [14]. Così il proprio io non si sente più e sembra alla fine rivolgerci queste desolanti parole: «Sono merce che un estraneo/scambia in me/tra me e me» [15], sono un feticcio che non ha più sogni, che si bea nell’ accettazione rassegnata dell’esistente.
Il tempo stesso si svalorizza, si frantuma in istanti seriali, equivalenti, intercambiabili. È il tempo-merce, del lavoro, del consumo, del potere, che congela l’orizzonte storico nella stagnazione di un presente perennemente indaffarato: «Istante per istante, il tempo scava il suo pozzo, tutto si perde, niente si crea…» [16], ciascuno si insegue senza mai raggiungersi, cambia di continuo status, pelle, ruolo, ma non la sua alienazione, non la sua dormiente sopravvivenza.
Dimenticare la propria coscienza storica implica, ipso facto, scordare l’identità finita di cui siamo intrisi, comporta essere impossibilitati ad aprirsi all’incontro con l’alterità, significa diventare potenzialmente manipolabili e strumentalizzabili da chi è al governo. Non resta se non «l’illusione di essere insieme» [17], poiché non riusciamo più a guardare il volto dei nostri fratelli e risultiamo sospesi in un limbo d’indifferenza generalizzata, ex-tranei a noi stessi ed al prossimo [18]. Siamo corrosi dentro da orride “tonalità emotive”: l’invidia, l’acredine, il rancore, che non ci danno pace e misurano il grado della nostra umiliazione. [19] Ci si scopre accomunati solo da questa espropriante lacerazione, solo dal consumo alienato, da un’apatia disarmante nei confronti del “senso”. Commenta, a questo proposito, in maniera molto lucida il giovane filosofo Giacomo Pisani: «Si afferma in questo modo un individualismo assolutamente particolare, in cui l’individuo risulta isolato non solo dagli altri, ma dalla sua stessa storia, perdendo qualsiasi occasione di ricerca di un senso. La sua vita è un continuo errare per sfuggire a questo vuoto, per mantenersi in un terreno neutro, in cui possa vivere chiunque, in cui possa essere un “chiunque”». [20]
Vale la pena soffermarsi su queste parole, perché svelano amaramente il modo in cui si vivono i rapporti interpersonali nel morbo della sopravvivenza: non già attraverso una condivisione (seppur, a volte, conflittuale) di pensieri, di sogni, di speranze, bensì nella modalità della scissione e dell’isolamento. Si è sì tutti insieme, «ma ognuno sta per sé/la ricomposizione si sogna ma non c’è/ognuno nel suo sacco/o nudo tra il letame/solo come un pulcino,/bagnato come un cane.» [21]
Questa dissociazione dall’alterità, denunciata da Vaneigem nel 1967, costituisce la base dell’odierno ʻnarcinismoʼ[22], pervaso da un’ipersoggettivazione individualista fatta di logorante competitività, prestazione, sfruttamento.
Invero tutta l’analisi di Raoul Vaneigem – come possiamo ora meglio comprendere – è un potente mezzo ermeneutico che ci permette di cogliere – per utilizzare un’acuta espressione di Mauro Magatti – l’attuale «capitalismo tecno-nichilista» [23], che ha risucchiato l’intera sfera del legein nel teukein, nel fare ansioso della propria ristretta competenza. Ed è un capitalismo che, tanto secondo il filosofo belga quanto secondo Magatti, si riflette in un preciso spazio urbano. Difatti, per Vaneigem, le nostre esistenze vengono stipate in angusti uffici o in sporche fabbriche, nel grigio di città che respinge le sue ʻvite di scartoʼ nelle «tristi balere di periferie» [24] ed accalca disperati su disperati negli angoli bui delle sue stazioni[25]. È un grigio che immalinconisce, in cui «la luna ha una faccia da strega/e il sole ha lasciato i suoi raggi in cantina» [26], è un grigio che purtroppo ci sembra riproporre l’attuale dicotomia fra il perbenismo del centro cittadino e le banlieues parigine [27], ove ciascuno patisce un’opprimente sensazione di emarginazione e cova dentro di sé risentimento, livore, invidia. Ma la città – potremmo aggiungere con Magatti – è pure lo spazio estetico deterritorializzato (SED) [28], che distrugge luoghi antropologicamente sociali/relazionali/“spirituali”, per far posto alla neutralità ed al disimpegno di grandi centri commerciali, nei quali si è “avviluppati” da un vortice consumistico, dall’«economia libidica del plusgodere» [29]. Ciò che si perde – sia nelle banlieues sia in questo centro deterritorializzato [30] – è la propria umanità, il senso di essere una comunità. A tal riguardo, Vaneigem descrive la riduzione dell’uomo allo stato di cosa ricordando i quadri di De Chirico o Ulisse di Malevič [31], dipinti di estremo pregio e valore. Troviamo, però, interessante affiancare oggigiorno a questi (soprattutto in virtù di quello che s’è detto poc’anzi a proposito dello spazio urbano) i quadri di Dino Di Bonito [32], perché essi ben rappresentano le «folle solitarie» della post-modernità, disperse in seriali metropoli e ridotte a fantasmi, ad anonimi esseri scarnificati.
Il morbo della sopravvivenza, adesso analizzato in tutte le sue sfaccettature, è quindi più che mai vivo e vegeto; quel che resta della pars destruens di Vaneigem è ancora tanto, troppo. Eppure anche la sua pars construens, che avverte l’assoluto bisogno di salvare “l’umanità dell’umano”, acquista oggi una notevole importanza. Ha scritto infatti Enea Bianchi: «[…] uno degli obiettivi più nobili dell’I.S. è stato quello di ridare dignità al termine “sociale”, distorto dalla propaganda neoliberista, la quale intende il sociale principalmente come avvicinamento delle distanze e come facilitazione delle interazione fra le persone». [33]
Da questo senso nobile del “sociale” dovremo ora muovere per comprendere il rovesciamento di prospettiva (détournement) operato dal Nostro.

 

 

  1. Il valore sovversivo dell’eros

 

«[…] quando due persone si amano, sottraggono
terreno al Leviatano, creano spazi che egli non controlla».

Ernst Jünger

 

Il détournement dobbiamo immaginarlo come uno stadio radicalmente antitetico rispetto al morbo della sopravvivenza, uno stadio che comincia a partire da una profonda insoddisfazione nei confronti dell’esistenza rinunciataria e parassitaria. È come una scossa che ci risveglia dal nostro torpore, le cui parole iniziali urlano questo: «Sono vivo/fammi uscire/dal cadavere,/dal cadavere di me» [34], e reclamano, altresì, lo squartamento di quel limbo d’indifferenza, dove ogni cosa ci scivola via senza toccarci mai.
Si tratta, in altri termini, di recuperare la nostra volontà di vivere in grado di infilzare la sua lama nella materia molle dell’inerzia; si tratta di rivendicare l’attività ludica contro il travaglio di un irrequieto teukein. È inscritta nella natura del gioco una venatura sovversiva, poiché essa risponde alla libera creatività che disfa il livellante principio di prestazione/organizzazione della società cibernetica. Del resto, in quegli stessi anni, anche Herbert Marcuse esprimeva concetti analoghi: «Gioco e libera espansività, come principi di civiltà, non implicano una trasformazione del lavoro, ma la sua assoluta subordinazione al libero evolversi delle potenzialità dell’uomo e della natura. Ora si comincia a intravvedere la vera distanza tra i concetti di gioco e di libera espansività, e i valori di produttività e di prestazione: il gioco è improduttivo e inutile proprio perché esso cancella i tratti repressivi e sfruttatori del lavoro e dell’agio». [35]
C’è nel gioco uno «stormire di spontaneità» [36], che ingloba i caratteri della gioiosità, della partecipazione, della gratuità. La temporalità dell’homo ludens è, dunque, tutt’altra cosa rispetto a quella quantitativa dell’heautontimorumenos [37]: è gonfiata di passione, di innocenza, di amore. Ed all’amore Vaneigem guarda quale decisivo punto di svolta per sottrarsi a questo mondo voyeuristico ed inautentico. Amare vuol dire, infatti, aprirsi alla sfera dell’intersoggettività, voler incontrare il prossimo, lasciare un pezzo di sé nell’altro. L’eros implica intensità, illuminazione del presente, uscita dal guscio economicista dei ruoli, per cogliere così la propria insostituibilità ed unicità.
Per Vaneigem, quando si ama davvero, lo si fa incondizionatamente e senza poter eludere il corpo (Leib): è come se si fosse dentro la fiamma di un fuoco che reca in sé il brivido della morte, la dissipazione delle «paure di sempre» [38], il trionfo su «tutte le costruzioni titaniche» [39]. Da questo punto di vista, l’amore non è un semplice modo per soddisfare i propri pruriti pubici, bensì è forza propulsiva al cambiamento, è «condivisione di un piacere che ci porti, insieme, al di là di quest’oggi meschino, almeno per un momento, un sogno di libertà, di infinitezza, di gioventù» [40].
Ecco quindi nascere la triade unitaria dell’autenticità: realizzazione-comunicazione-partecipazione [41], con cui le nozioni di castigo e di supplizio vengono liquidate e subentra una nuova innocenza, una nuova grazia di vivere [42]. Aspetti, questi, che intendono sconfiggere – per dirla con Franco Berardi (Bifo) – il «totalitarismo senza totalità» [43], il quale sottomette il singolo ad una regola fredda ed esige da lui solo un’alienata (ma efficiente) prestazione.
L’innocenza non è ignoranza né tantomeno riproposizione del narcinismo, ma indica una riappropriazione del divenire e del proprio essere, una capacità di danzare sugli abissi e di sottrarsi ad ogni greve fatalismo. [44] Occorre abbandonare la pesantezza degli stolti ʻpredicatori di morteʼ [45], che si cullano in frasi stereotipate e nihilistiche del tipo “è la vita”, “va come deve andare”, “bisogna farsene una ragione”, per far sorgere un’etica dell’impegno e della partecipazione, in cui ci si “sporca le mani” in prima persona a favore della comunità (parola quanto mai dimenticata) di riferimento, si dice di sì ad uno «stato di dono e di disponibilità» [46].
In tempi come il nostro, nei quali troppo spesso si cavalca l’onda dell’antipolitica per chiudersi in se stessi e credere che nulla possa essere cambiato, Vaneigem può dunque rappresentare un pungolo a tentare, a rischiare un «colpo di mondo» [47], a non adagiarsi nell’alibi della rassegnazione. Ed il «valore sovversivo dei sentimenti» [48], l’effetto sregolante, al di là del bene e del male, dell’amore costituisce il primo passo per incominciare ad intaccare la corruzione delle istituzioni stesse.

Gabriella Putignano

Bibliografia

Aa.Vv., Contro l’infelicità. L’Internazionale Situazionista e la sua attualità, Ombre Corte, Verona, 2014;
Aa.Vv.,
Situazionismo. Materiali per un’economia politica dell’immaginario, trad. it. di P. Stanziale, Massari Editore, Bolsena, 1998;
N. Balestrini – P. Moroni, L’orda d’oro. 1968-1977: la grande ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed esistenziale, Feltrinelli, Milano, 1997;
F. Berardi (Bifo), Dell’innocenza. 1977: l’anno della premonizione, Ombre Corte, Verona, 1997;
L. Boltanski – È. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Milano, 2014;
M. Capanna, Lettera a mio figlio sul Sessantotto, Rizzoli, Milano, 1998;
J. Giustini, Claudio Lolli. La terra, la luna e l’abbondanza, Stampa Alternativa, Viterbo, 2003;
M. Horkheimer, Eclisse della ragione. Critica della ragione strumentale, trad. it. di E. Vaccari Spagnol, Einaudi, Torino, 2000;
E. Jünger, Oltre la linea, trad. it. di F. Volpi, Adelphi, Milano, 1998;
C. Lolli, Lettere matrimoniali, Stampa Alternativa, Viterbo, 2013;
M. Magatti, Libertà immaginaria. Le illusioni del capitalismo tecno-nichilista, Feltrinelli, Milano, 2009;
H. Marcuse, Eros e civiltà, trad. it. di L. Bassi, Einaudi, Torino, 2001;
F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, trad. it. di S. Giametta, Bur, Milano, 2004;
G. Pisani, Il gergo della postmodernità, Unicopli, Milano, 2012;
M. Recalcati, L’uomo senza inconscio. Figure della nuova clinica psicoanalitica, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2010;
A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, trad. it. di P. Savj-Lopez e G. De Lorenzo, Laterza, Bari, 2008;
P. Stanziale, Dalla soggettività radicale all’internazionale del genere umano, in R. Vaneigem, Trattato di saper vivere ad uso delle nuove generazioni, trad. it. di P. Salvadori, Massari Editore, Bolsena, 2004;
R. Vaneigem, Trattato di saper vivere ad uso delle nuove generazioni, trad. it. di P. Salvadori, Massari Editore, Bolsena, 2004;
Id., Noi che desideriamo senza fine, trad. it. di S. Ghirardi, Bollati Boringhieri, Torino, 1999.

 

Discografia

C. Lolli, Aspettando Godot, EMI Italiana, 1972;
Id., Un uomo in crisi. Canzoni di morte. Canzoni di vita, EMI Italiana, 1973;
Id., Canzoni di rabbia, EMI Italiana, 1975;
Id., Disoccupate le strade dai sogni, Ultima Spiaggia, 1977;
Id., Extranei, EMI Italiana, 1980;
G. Manfredi, Ma non è una malattia, Ultima Spiaggia, 1976;
Id., Zombie di tutto il mondo unitevi, Ultima Spiaggia, 1977.

 

Sitografia

N. Martino, Sulla felicità come opera in lotta nel lavoro della conoscenza, in http://effimera.org/sulla-felicita-come-opera-in-lotta-nel-lavoro-della-conoscenza-di-nicolas-martino/, 26 ottobre 2015;
G. De Michele, La banlieue come volontà e rappresentazione, in http://www.euronomade.info/?p=4517.

 

 

 

Note

[1] Sarà tradotto in Italia per la prima volta nel 1973.

[2] Questo si deve anche all’apertura dei sui archivi. Nondimeno tale interesse non sempre si è tradotto in una dispiegata comprensione del pensiero debordiano, spesso ridotto ad una mera critica mediatica.

[3] Cfr. L. Boltanski – È. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Milano, 2014.

[4] C. Lolli e G. Manfredi sono, infatti, due cantautori “simbolo” del decennio ’68-’77.

[5] Cfr. N. Balestrini – P. Moroni, L’orda d’oro. 1968-1977: la grande ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed esistenziale, Feltrinelli, Milano, 1997.

[6] M. Capanna, Lettera a mio figlio sul Sessantotto, Rizzoli, Milano, 1998, p. 39.

[7] Ha scritto F. Berardi (Bifo): «Io credo che ’68 si debba ancora apprendere la lezione più profonda. E che il ’77 sia il punto di vista migliore per comprendere quella lezione. Penso alla consapevolezza della irriducibilità dell’esistenza alla storia, penso all’autonomia intesa come carattere asimmetrico della traiettoria singolare rispetto al destino sociale e di genere. Penso alla libertà come attivo sottrarsi al divenire necessario del mondo.», Dell’innocenza. 1977: l’anno della premonizione, Ombre Corte, Verona, 1997, pp. 34-35.

[8] M. Bellocchio, citiamo da M. Capanna, op. cit., p. 137. Corsivo nostro.

[9] È il titolo di un ciclo d’incontri, curato da Stefano Taccone nel 2013, presso il BAD Bunker Art Division di Casandrino (NA). Gli Atti sono oggi disponibili con il titolo Contro l’infelicità. L’Internazionale Situazionista e la sua attualità, Ombre Corte, Verona, 2014.

[10] Difatti nel numero 9 (agosto 1964) dell’ IS – alla domanda su che cosa significhi essere «situazionisti» – si legge: «Definisce un’attività che vuole creare le situazioni, non riconoscerle, come valore esplicativo o altro. Questo a tutti i livelli della pratica sociale e della storia individuale. Noi sostituiamo alla passività esistenziale la costruzione di momenti di vita, al dubbio l’affermazione ludica.», oggi in Aa.Vv., Situazionismo. Materiali per un’economia politica dell’immaginario, trad. it. di P. Stanziale, Massari Editore, Bolsena, 1998, p. 219.

[11] P. Stanziale, Dalla soggettività radicale all’internazionale del genere umano, in R. Vaneigem, Trattato di saper vivere ad uso delle nuove generazioni, trad. it. di P. Salvadori, Massari Editore, Bolsena, 2004, p. 11.

[12] Cfr. M. Horkheimer, Eclisse della ragione. Critica della ragione strumentale, trad. it. di E. Vaccari Spagnol, Einaudi, Torino, 2000, p. 16.

[13] Cfr. A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, trad. it. di P. Savj-Lopez e G. De Lorenzo, Laterza, Bari, 2008, p. 352.

[14] R. Vaneigem, op. cit., p. 25.

[15] G. Manfredi, Puoi sentirmi?, in Ma non è una malattia (1976).

[16] R. Vaneigem, op. cit., p. 105.

[17] Ivi, p. 43. Corsivo nostro. Si veda su questo anche E. Bianchi, L’illusione di essere insieme, in Aa.Vv., Contro l’infelicità. L’Internazionale Situazionista e la sua attualità, pp. 34-43.

[18] Il termine ʻextraneiʼ allude ad un album di C. Lolli pubblicato nel 1980, che sancisce non solo il crollo degli ideali politici, ma anche lo sfacelo dei rapporti umani. Cfr. J. Giustini: «Anche i legami tra gli stessi uomini sono spariti. Si diventa inesorabilmente ex. Ma più che altro estranei a se stessi, incapaci di legarsi a niente.», Claudio Lolli. La terra, la luna e l’abbondanza, Stampa Alternativa, Viterbo, 2003, p. 14.

[19] Cfr. R. Vaneigem: «Invidio, dunque esisto. Cogliersi a partire dagli altri è cogliersi altro. E l’altro è l’oggetto, sempre. Sicché la vita si misura dal grado di umiliazione vissuta.», op. cit., p. 36.

[20] G. Pisani, Il gergo della postmodernità, Unicopli, Milano, 2012, pp. 35-36.

[21] G. Manfredi, Un tranquillo festival pop di paura, in Zombie di tutto il mondo unitevi (1977).

[22] Narcinismo è neologismo formato dalle parole “narcisismo” e “cinismo”. Si veda su questo M. Recalcati, L’uomo senza inconscio. Figure della nuova clinica psicoanalitica, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2010, ma si veda anche e soprattutto N. Martino, Sulla felicità come opera in lotta nel lavoro della conoscenza, in http://effimera.org/sulla-felicita-come-opera-in-lotta-nel-lavoro-della-conoscenza-di-nicolas-martino/, 26 ottobre 2015.

[23] M. Magatti, Libertà immaginaria. Le illusioni del capitalismo tecno-nichilista, Feltrinelli, Milano, 2009.

[24] C. Lolli, Hai mai visto una città, in Un uomo in crisi. Canzoni di morte. Canzoni di vita (1973).

[25] Si ascolti C. Lolli, Angoscia metropolitana, in Aspettando Godot (1972).

[26] C. Lolli, Incubo numero zero, in Disoccupate le strade dei sogni (1977).

[27] Si veda su questo, problema quanto mai attuale, G. De Michele, La banlieue come volontà e rappresentazione, in http://www.euronomade.info/?p=4517.

[28] M. Magatti, op. cit., pp. 80-88. Si veda anche G. Pisani, op. cit., pp. 30-32.

[29] Cfr. M. Magatti, op. cit., pp. 130-138.

[30] Si tratta, a ben vedere, di due facce della stessa medaglia.

[31] Scrive Vaneigem: «Il movimento Dada, il quadrato bianco di Malevič, Ulisse, le tele di de Chirico fecondano, con la presenza dell’uomo totale, l’assenza dell’uomo ridotto a stato di cosa», op. cit., pp. 167-168.

[32] D. Di Bonito è un artista tuttora vivente, nato a Pozzuoli e residente a Roma. Facciamo riferiamo, in particolare, alla sua prima personale intitolata “Metropolis”.

[33] E. Bianchi, art. cit., p. 43.

[34] G. Manfredi, Puoi sentirmi?

[35] H. Marcuse, Eros e civiltà, trad. it. di L. Bassi, Einaudi, Torino, 2001, p. 213.

[36] R. Vaneigem, Trattato di saper vivere ad uso delle nuove generazioni, cit., p. 246.

[37] Vaneigem utilizza questo termine, che riecheggia una commedia di Terenzio, per indicare il “punitore di se stesso”, ovvero l’uomo della sopravvivenza.

[38] C. Lolli, Donna di fiume, in Canzoni di rabbia (1975).

[39] E. Jünger, Oltre la linea, trad. it. di F. Volpi, Adelphi, Milano, 1998, p. 97.

[40] C. Lolli, Lettere matrimoniali, Stampa Alternativa, Viterbo, 2013, p. 97. Corsivo nostro.

[41] Cfr. R. Vaneigem, Trattato di saper vivere ad uso delle nuove generazioni, p. 212.

[42] Ivi, p. 310.

[43] F. Berardi (Bifo), op. cit., p. 105.

[44] Il tema dell’innocenza è, chiaramente, nietzscheano. Si ricordi su tutto il concetto di innocenza del divenire.

[45] Nel lessico nietzscheano ʻpredicatori di morteʼ sono coloro per i quali niente vale la pena, sono «i tisici dell’anima: non sono ancora nati che già cominciano a morire, e sono avidi di dottrine della stanchezza e della rinuncia.», Così parlò Zarathustra, trad. it. di S. Giametta, Bur, Milano, 2004, p. 45.

[46] R. Vaneigem, Noi che desideriamo senza fine, trad. it. di S. Ghirardi, Bollati Boringhieri, Torino, 1999, p. 117.

[47] A. Trocchi, Tecnica del colpo di mondo, in “Internationale Situationniste”, 8, janvier 1963, pp. 53.62; trad. it in Internazionale Situazionista 1958-69, Nautilus, Torino, 1994.

[48] P. Stanziale, art. cit., p. 12.

 

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Salvatore Bravo – Il disorientamento gestaltico e le parole valigia. Le parole valigia e lo spettacolo sempre in scena reificano il soggetto umano riducendolo a semplice funzione del gioco perverso della produzione.

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Il disorientamento gestaltico e le parole valigia

 

 

Il capitalismo assoluto non ha solo il monopolio della violenza, ma consolida la «gabbia d’acciaio» attraverso il controllo delle parole.
Noi siamo il nostro linguaggio, il linguaggio ci precede, attraverso di esso diamo significati al mondo, ordiniamo gerarchie, stabiliamo priorità: il mondo è un ordito di parole.
Il monopolio delle parole è dunque il mezzo di controllo delle menti come delle conseguenti scelte. Il linguaggio come essere del mondo, del vivere l’esperienza dell’esserci. Le parole sono la struttura della «gabbia d’acciaio»: l’ordine capitalistico delle parole investe il soggetto per farne un in-dividuo, un atomo, che vive contemporaneamente nella separazione-astrazione. Nel mentre si restringono gli spazi d’azione del pensiero e della prassi, si allargano gli spazi della «gabbia d’acciaio». La libertà – come movimento su larga scala – è inversamente proporzionale agli spazi liberi del pensare. La grande illusione è la libertà fondata sul movimento, sullo spostamento all’interno di spazi sempre più vasti, ma i cui paesaggi sono implacabilmente uguali: ovunque albergano le parole del turbocapitalismo. Si può permettere il libero spostamento, poiché tanto si torna a casa con le stesse parole, con gli stessi concetti, con gli stessi bisogni. La globalizzazione rafforza a livello ideologico il capitalismo assoluto con la patente della libertà che non spaventa, della libertà che non conosce il dubbio, della libertà in cui non vi è inquietudine. Un fine generale-universalistico non esiste, vi è solo il rafforzamento dell’eguale.
Il viaggio rappresentava un’importante esperienza formativa, il divertimento era divertere (ovvero, secondo l’etimologia, cambiare strada): si assaporavano altre parole, altri sguardi, ci si fermava per condividere altre possibilità comunitarie. Il ritorno segnava il momento in cui l’esperienza vissuta diventava parte della comunità in cui si era radicati.
La “libertà” al tempo della globalizzazione è invece regno dell’eguale, la partenza ed il rientro non comportano spostamenti gestaltici, non vi sono nuove parole significanti, nuove prospettive e rappresentazioni, ma solo un’ innumerevole quantità di immagini da propinare e fagogitare bulimicamente per soddisfare la propria vanità e ammaliare i conoscenti di turno con la narrazione dei viaggi organizzati.
Lo spettacolo, così, si autoriproduce senza nulla imporre: la società dello spettacolo è un enorme accumulo di immagini e spettacoli dal forte plusvalore. Il capitalismo digitale ha fatto dell’immagine la sua verità e la sua merce.
Naturalmente in un’epoca di contrazione delle parole, sempre più stereotipate (riproducenti slogan, e imperativi categorici del consumo e del fare per il fare), non sorge la domanda se l’immagine è la verità, se il suo retroscena celi innominabili interessi ed ingiustizie. Il ritorno è così uguale alla partenza, si è solo rafforzato il velo di Maya dell’immagine che separa, divide, atomizza soggetti come le parole usate. Il sole non tramonta mai sulla passività.
Dunque le parole in questo caso ordinano l’esperienza ma non l’esperienza vissuta. Walter Benjamin distingueva l’esperienza dall’esperienza vissuta, la prima è puramente passiva, la seconda è mediata dal simbolico. Le parole del capitalismo assoluto educano alla passività, mediante l’esemplificazione dei concetti, contenuti minimi, didattica breve, conoscenze specialistiche, problem solving. Le parole devono essere lo strumento con cui si accede al mondo per saccheggiarlo legalmente. Il tramonto dell’occidente è il tramonto delle parole, al loro posto solo immagini mute e mutile:

«Lo spettacolo si presenta contemporaneamente come la società stessa, come una parte della società, e come strumento d’unificazione. In quanto parte della società, è espressamente il settore che concentra ogni sguardo e ogni coscienza. Per il fatto stesso che questo settore è separato, esso è il luogo dello sguardo ingannato e della falsa coscienza; e l’unificazione che realizza non è altro che il linguaggio ufficiale della separazione generalizzata».[1]

Le immagini sono percepite ma non vissute. Per essere vissute devono essere ricostruite nella loro genesi olistica, invece si configurano come fotogrammi dell’astrazione, il cui significato resta a livello descrittivo denotativo. La passività è dunque un mondo di esperienze descritte con le stesse parole. Un immenso accumulo di stimoli visivi non guardati, ma percepiti e mostrati come l’ultimo trofeo per “amici” e “conoscenti”.
Il disorientamento gestaltico trova un alleato imprescindibile nelle parole valigia. Le parole – nel pulviscolo motorio – hanno perso ogni aderenza alla realtà, il loro significato è mosso da una sterile polisemia che disorienta ed annichilisce il significato reale. Parlare, argomentare, diventa inutile poiché ciò che è detto significa sempre altro. L’inautentico separa, avvilisce le energie creative. Società schizoide che spinge verso patologie mentali con i suoi terribili e perenni messaggi contradditori. Lewis Carroll in Attraverso lo specchio descrive le parole doppie, contratte, per cui significano parzialmente e vagamente qualcosa da un corno e altro dall’altro corno. È un mondo doppio in cui il vero ed il falso si confrontano senza la possibilità di accertare con sicurezza la verità. Platonismo del falso. Le parole hanno perso il mondo e con esso la verità. Significano quello che vogliono:

«Quest’ultimo verso è troppo lungo per una poesia; – ella aggiunse, quasi ad alta voce, dimenticando che Unto Dunto [Humpty Dumpty] la sentiva. – Non chiacchierare così sola, – le disse Unto Dunto, guardandola per la prima volta, – ma dimmi come ti chiami e che fai. – Mi chiamo Alice, ma… – Hai un nome molto sciocco! – la interruppe con impazienza Unto Dunto. – Che cosa significa? – Forse che un nome deve significare qualche cosa? – domandò Alice dubbiosa. – Altro che! – disse Unto Dunto con una breve risata: Il mio nome significa la forma che ho io … fra parentesi una forma graziosa e bella. Con un nome come il tuo si può avere qualunque forma o quasi». [2]

Si vive in un mondo in cui anche il vero è falso. Lo specchio è lo sdoppiamento, la divisione come fondamento del reale. Tutto può essere interpretato in mille modi, tutto è lecito e legittimato nel regno dell’irrilevanza. Il pensiero e l’essere si sono scissi, per cui la faglia irrompe nelle relazioni tra i soggetti, rendendo la comunicazione impossibile, delirio collettivo che, ritornando alla «gabbia d’acciaio», la vuole intrascendibile. Non vi è uscita senza i significanti che corrispondono al significato. La libertà ha come sostanza le parole ritrovate nel loro senso. Se le parole dicono altro rispetto al loro significato, ogni fiducia e razionalità decade. Le sbarre divengono mura, ma non si ha la rappresentazione delle mura, della prigione. Ogni comportamento teoretico è scoraggiato nella «gabbia d’acciaio», lo spettacolo – per andare perennemente in scena – deve restringere il campo della rappresentazione a puro rispecchiamento-adeguamento, senza speranza. Nella caverna di Platone (VII libro della Repubblica) la possibilità dell’uscita dalla caverna è garantita dalla struttura razionale del cosmo e dell’essere, la lingua conserva il senso profondo del fenomeno, mentre nella «gabbia d’acciaio» il politeismo etico, la cultura delle parole valigia rendono il soggetto debole, lo destrutturano in assenza di significati certi e razionali. Ci si lascia trascinare dal nichilismo passivo, si perde il senso di sé. Il proprio io come affermava Hume è un palcoscenico in cui avviene tutto ed il contrario di tutto. In tali condizioni la prassi è neutralizzata. Parola valigia è chiamare riforma del lavoro la controriforma, inclusione per omologazione, sviluppo per saccheggio del pianeta, lavoro flessibile per sfruttamento, alleanze per trasformismo… L’elenco è lungo e minaccioso, poiché come detto, destabilizza, indebolisce, deprime. La «gabbia d’acciaio» si cementifica con le parole valigia. L’esperienza storica attuale si trasforma così in ipostasi, in destino fatale e letale.
Dobbiamo dunque ridare significato alle parole per ridare dignità alle persone, per ritrovarci persone e non semplici replicanti di parole incomprensibili. Dobbiamo contrapporre alla confusione ideologica la chiarezza dei significati senza i quali ogni via di uscita ci è preclusa. Senza le parole non possiamo conoscere noi stessi. La maieutica è logos, pratica delle parole contro ogni sofistica.
Se le parole tacciono, se il loro significato è manipolato, con esse si perde il soggetto umano. Pensare è rappresentare ciò che non è percettivamente presente. Le parole valigia e lo spettacolo sempre in scena reificano il soggetto umano riducendolo a semplice funzione del gioco perverso della produzione.

L’esodo, l’uscita dalla «gabbia d’acciaio»» necessita della profondità di senso delle parole.

Salvatore Bravo

[1] G. Debord, La società dello spettacolo, Millelire, Stampa Aternativa, 1995, p. 6.

[2] Lewis Carroll, Attraverso lo specchio, capitolo VI. http://sabian.org/looking_glass6.php Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò o semplicemente Attraverso lo specchio (titolo originale Through the Looking-Glass, and What Alice Found There, ) è un romanzo fantastico del 1871 scritto dal matematico e scrittore inglese Charles Lutwidge Dodgson con lo pseudonimo di Lewis Carroll, come seguito de Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie. Il personaggio di Humpty Dumpty in Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò è protagonista di uno dei dialoghi più celebri dell’intero romanzo. Inoltre, Humpty Dumpty rivela ad Alice il suo approccio all’uso delle parole: “quando io uso una parola […] essa significa esattamente ciò che io voglio che significhi. […] Con impenetrabilità intendevo dire che di quel soggetto ne abbiamo avuto abbastanza e tanto varrebbe che tu mi dicessi cosa vuoi fare dopo”. All’osservazione di Alice che le parole possono avere tanti significati, Humpty Dumpty replica “quando faccio fare a una parola un simile lavoro […] la pago sempre di più”. Humpty Dumpty vuole “comandare” le parole per dar loro il significato che preferisce.

‘That last line is much too long for the poetry,’ she added, almost out loud, forgetting that Humpty Dumpty would hear her.
‘Don’t stand chattering to yourself like that,’ Humpty Dumpty said, looking at her for the first time, ‘but tell me your name and your business.’
‘My name is Alice, but —’
‘It’s a stupid name enough!’ Humpty Dumpty interrupted impatiently. ‘What does it mean?’
Must a name mean something?’ Alice asked doubtfully.
‘Of course it must,’ Humpty Dumpty said with a short laugh: ‘my name means the shape I am — and a good handsome shape it is, too. With a name like yours, you might be any shape, almost.’
‘Why do you sit out here all alone?’ said Alice, not wishing to begin an argument.
‘Why, because there’s nobody with me!’ cried Humpty Dumpty. ‘Did you think I didn’t know the answer to that? Ask another.’
‘Don’t you think you’d be safer down on the ground?’ Alice went on, not with any idea of making another riddle, but simply in her good-natured anxiety for the queer creature. ‘That wall is so very narrow!’
‘What tremendously easy riddles you ask!’ Humpty Dumpty growled out. ‘Of course I don’t think so! Why, if ever I did fall off – which there’s no chance of – but if I did – ‘ Here he pursed up his lips, and looked so solemn and grand that Alice could hardly help laughing. ‘If I did fall,’ he went on, ‘the King has promised me – ah, you may turn pale, if you like! You didn’t think I was going to say that, did you? The King has promised me with his very own mouth – to – to – ‘
‘To send all his horses and all his men,’ Alice interrupted, rather unwisely.

 

 

 

 



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