Giorgio Riolo – Nota introduttiva a Fëodor M. Dostoevskij, «Delitto e castigo».

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Giorgio Riolo
NOTA INTRODUTTIVA A FËODOR M. DOSTOEVSKIJ, DELITTO E CASTIGO

 

I.

Una nota iniziale sui classici, soprattutto in relazione ai grandi russi Dostoevskij e Tolstoj. Molti classici sono “inattuali”, troppo inattuali. Al massimo grado questi scrittori e pensatori. Sorti, formati, plasmati in una realtà e in una storia affatto particolare come la Russia. Totalmente aliena rispetto al nostro tempo e alla nostra realtà.
Ma i classici, e in particolare Dostoevskij e Tolstoj, sono per ciò stesso più attuali che mai. Sono attuali perché ci scuotono e ci gettano brutalmente addosso, in faccia in certi casi, la semplice verità. Che il mondo in cui siamo immersi e in cui ci culliamo, beatamente in molti e molte, con le nostre false certezze, sicumere, arroganze, anche ammantato sotto il generale “disincanto” e il generale “postmoderno”, non è l’ultima parola della storia. Non è il migliore dei mondi possibili.
Ci “relativizzano”. Esistono altri mondi e altre storie, non necessariamente migliori, anzi molto peggiori come quelle della Russia di cui adesso parliamo, ma queste relativizzazioni ci fanno crescere, maturare. E la cultura è relazione, relativo, nesso, ponte verso altro. Così come avviene nel potente processo di “decolonizzazione”.
“Decolonizzare la mente”, il potente processo, assieme al potente processo di emancipazione sociale e politica, così propugnato e descritto dal grande Frantz Fanon. Non solo per il colonizzato che vuole, e deve, emanciparsi. Ma soprattutto per il colonizzatore, per noi, eredi delle malefatte del colonialismo. E l’Occidente, anche e soprattutto capitalistico, è irrimediabilmente colonizzatore.
Come può un contesto ormai votato al “disincanto”, al postmoderno, al “non esistono più grandi narrazioni”, al “non esistono più pensieri e valori forti”, se non, sottaciuti, impliciti, i valori forti del consumismo, del narcisismo, dell’individualismo totalizzante, capire il contesto di una Russia dove il mare del popolo russo era costituito da contadini poveri, la quasi totalità analfabeti, dove la religione cristiana, ortodossa o scismatica (i Vecchi Credenti) o di eretici egualitari come i Duchobory (vedremo con Tolstoj) ecc., svolgeva un ruolo fondamentale e dove l’attesa messianica di redenzione, in vario modo, era operante, nel contesto soprattutto di una Chiesa ortodossa ufficiale vero supporto spirituale e materiale dello zarismo?
Dove esisteva il fenomeno, per noi incomprensibile, dei pellegrini, degli sbandati e dei vagabondi (Padre Sergio di Tolstoj è anche questo). Dove la miseria era dominante anche e soprattutto nei contadini emancipati dalla servitù della gleba, dopo il 1861-1863, e inurbati nelle grandi città, Pietroburgo e Mosca in primo luogo, dove l’alcolismo era così diffuso, vera piaga sociale e antropologica, dove la miseria e l’alienazione era grande nella classe dei “decaduti” (impiegati, funzionari dell’enorme apparato burocratico zarista, nobili, intellettuali, artisti ecc.), dove molti studenti erano giovani energici, ardenti di conoscenza e di azione (Herzen e Lavrov e “andare al popolo”, Il divino e l’umano di Tolstoj è anche questo, e Dostoevskij nella sua vita e Raskolnikov…).
Dove infine il dispotismo e l’oscurantismo zarista e la sua polizia non lasciavano spazio a visioni e pratiche “riformistiche” e allora l’attesa di una “rivoluzione” palingenetica si imponeva, era la via obbligata per chi non sopportava più quello stato di cose. Dai primi rivoluzionari, narodniki o populisti russi, al successivo movimento rivoluzionario guidato dai marxisti e “socialdemocratici” di allora.
“Da dove nascono le rivoluzioni?”. La semplice domanda di un grande storico francese a proposito della rivoluzione francese. La domanda di sempre da porre ai “disincantati”, molti a sinistra, il grande esercito degli ex.

 

II.

Nato a Mosca nel 1821, Dostoevskij muore a San Pietroburgo nel 1881. Assieme a Tolstoj, è uno dei grandi della letteratura russa e della letteratura di ogni tempo. Inizia presto a scrivere e a pubblicare (Povera gente, Il sosia, Le notti bianche). Entra da giovane nel circolo dei socialisti fourieristi a San Pietroburgo, attorno a Petraševskij. Arrestato e rinchiuso nel 1849 con i suoi compagni alla Fortezza Pietro e Paolo, subisce il terribile trauma, che aggraverà in seguito le sue crisi di epilessia, della finta esecuzione. Dopo la deportazione in Siberia e l’esperienza e la conoscenza dei carcerati e del popolo russo (Memoria di una casa di morti), compie alcuni viaggi in Europa e riprende l’attività di scrittore.
Nella febbrile produzione letteraria scriverà grandi romanzi come Delitto e castigo, I demoni, L’idiota, Il giocatore, I fratelli Karamazov e splendidi racconti o romanzi brevi come La mite, L’eterno marito, Memorie del sottosuolo ecc. Nel 1881, poco prima della morte, tiene il discorso in onore di Puskin nel centenario della nascita. L’enorme folla alla commemorazione lo acclamerà come uno dei maggiori esponenti della vita e della cultura russe.

 

III.

Non si comprenderanno mai i grandi scrittori russi e in particolare Tolstoj e Dostoevskij se non si conosce il contesto della Russia, si diceva prima. Il contesto significa la sua storia, la società, la sua morfologia sociale, la sua cultura profonda, la cultura dello “alto” e la cultura del “basso” ecc.
La peculiarità dello sviluppo storico della Russia, la sua arretratezza, la presenza dell’autocrazia dispotica zarista e quindi la mancata modernizzazione della stessa nel decisivo secolo XIX, il mancato sviluppo capitalistico, il mancato sviluppo della classe sociale, portatrice di questo sviluppo, la moderna borghesia ecc. fecero sì che l’intellettualità (scrittori, filosofi, critici letterari, studenti) assumesse in Russia una funzione sociale formidabile.
Lo scrittore russo, da Puškin a Cechov, a Gorkij, attraverso i due giganti Tolstoj e Dostoevskij, svolse in Russia un ruolo di guida e di critica sociale e politica totalmente sconosciuto in qualsiasi paese dell’Occidente europeo. Lo scrittore, l’intellettuale di quella Russia si sentono “chiamati” all’impegno in tante forme. E spesso non possono che essere scrittori d’opposizione.
Anton Cechov, in un’occasione, disse che compito del letterato era di far prendere coscienza e di impostare correttamente i problemi. Altri avrebbero dovuto poi attivarsi per risolverli. Tolstoj fu riformatore sociale anche perché, oltre a porre i problemi, li ha voluti affrontare e tentare di risolverli, facendo leva sul mondo contadino russo, a partire dalla sua utopia (in senso positivo) patriarcale contadina. Dostoevskij cercò anch’egli a suo modo di dare delle risposte. Molte sbagliate, anche reazionarie.
Come il fare affidamento non solo al cristianesimo dei Vangeli, come sosteneva Tolstoj, ma anche alla Chiesa istituzionale ortodossa (“l’idea slava”). Essendo il socialismo il suo cruccio costante (una sorta di pentimento e di rivalsa per le sue scelte giovanili nel circolo Petraševskij, con le terribili conseguenze a cui andò incontro). Ma fu soprattutto un eccezionale esploratore, un profeta, per la capacità di porre lucidamente un intero spettro di problemi esistenziali, psicologici, culturali, sociali e politici alle quali le generazione a lui posteriori dovevano, e devono tuttora, dare risposta, cercare di risolvere.
Uno solo, tra i tanti, che molto ci sta a cuore. Con I demoni, soprattutto nelle parole di Šigalëv, Dostoevskij anticipa profeticamente i caratteri dello “assoluto” di cui si sente portatore il cosiddetto rivoluzionario. Quando questi in realtà è il portatore di un terrore verso i propri compagni. Verso i comunisti stessi, non contro i veri nemici, come avvenne tragicamente nello stalinismo. E come avviene in altri contesti e con altre denominazioni, addirittura supposte o sedicenti contrarie, antistaliniste, ma il cui modello, il cui metodo, il cui archetipo è lo stalinismo stesso.
Nella sua enorme produzione letteraria, Dostoevskij intese sempre svolgere, in vario modo, i problemi esistenziali e i problemi politico-filosofici che erano emersi nel corso della sua vita. Dalla sensibilità precoce per il male nel mondo (la lettura del Giobbe della Bibbia), per la violenza, soprattutto sui bambini e sugli innocenti, fino alla religione, ai problemi posti dal cristianesimo-cattolicesimo e il ruolo della figura di Cristo, del Gesù vivente, fino al rapporto della Russia con l’Occidente. Dalla “eterna idea slava” e dalla “anima russa” al fermo convincimento che dal destino della Russia e del suo popolo dipendesse il destino del mondo intero, dell’umanità intera.
Da qui la sua ossessiva lotta contro il socialismo, il progressismo, il nichilismo e il razionalismo-scientismo ottocenteschi. A suo modo di vedere, prodotti “artificiosi” dell’Occidente e non originari, non radicati nel profondo “suolo” russo.
Thomas Mann aveva stabilito un parallelo. Tra Goethe e Schiller e tra Tolstoj e Dostoevskij. Goethe e Tolstoj, figli della “salute” e della natura, Schiller e Dostoevskij, figli della “malattia”, della continua tensione dell’anima e delle contraddizioni che inevitabilmente ne scaturiscono. Solidi esponenti dell’aristocrazia agiata i primi, di origini borghesi ma con tratti plebei i secondi. Anche per le traversie e per le angustie della vita che ebbero a sperimentare. Dostoevskij anche periodi di vera e propria fame.
Mentre Tolstoj è “omerico” e i suoi personaggi sono a loro modo conchiusi, rotondi, completi, Dostoevskij è “drammatico” e i suoi personaggi sono complessi, contraddittori, problematici, ambivalenti, aperti a sviluppi imprevedibili.
Dostoevskij a Majkov “Mi chiamano psicologo, è falso. Io non sono che un realista in senso più alto, cioè descrivo tutti gli abissi dell’anima umana”. “Dovunque e in tutto arrivo al limite estremo, in tutta la mia vita ho sempre oltrepassato il limite”. Il problema del bene e del male e della “polifonia” della natura umana (spesso, nella stessa persona, al contempo l’abiezione, “la nostalgia del fango” e la ricerca del sublime, l’elevatezza morale e spirituale, la mitezza, la generosità). E “romanzo polifonico” è spesso caratterizzato ogni suo romanzo. “Romanzo totale”, romanzo sociale, romanzo filosofico, romanzo psicologico, romanzo politico. Così anche Delitto e castigo. Con in più anche “romanzo poliziesco”.
Dostoevskij nella sua vita, dopo l’esperienza socialista e il trauma della finta esecuzione, scoprì nel cristianesimo ortodosso dei semplici dell’intatto e bambino popolo russo, la via per la salvezza umana. “Se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori dalla verità e se fosse effettivamente vero che la verità non è in Cristo, ebbene io preferirei restare con Cristo piuttosto che con la verità”. Depositaria di tutto ciò è comunque la Chiesa ufficiale ortodossa russa. Altra via sarà indicata da Tolstoj e da qui la sua scomunica da parte della suddetta Chiesa nel 1901.
Dostoevskij nega il socialismo, ma tutto invoca il socialismo, l’emancipazione, una società di liberi ed eguali, la fraternità umana realizzata. Il potente simbolo, l’archetipo, è il discorso dell’eroe positivo Alëša Karamazov alla “pietra” del bambino Iljušečka nel finale de I fratelli Karamazov.
Nel tempo di Dostoevskij e nel nostro tempo. L’eterno problema del rapporto tra individuo e società, tra individuo e comunità. L’eterno problema della dialettica, in Dostoevskij spesso compresenza, del bene e del male. Anche e soprattutto nell’esasperazione di individui così “isolati” nel loro travaglio psichico e morale, nella loro tormentata continua messa a prova della loro anima (“I go to prove my soul” di Robert Browning, non è solo quando noi leggiamo e ci confrontiamo con il mondo dell’opera, del grande romanzo).
Il principe Miškin, Rogozin, Ivan Karamazov, Mitja Karamazov, Stavrogin, Verchovenskij, Kirillov, Rodion Raskolnikov e tutta la genia di personaggi creati dal genio di Dostoevskij, ognuno a suo modo vive questa continua e mai risolta dialettica, nella società e nella comunità degli uomini e delle donne e nello sconfinato spazio interiore, morale e intellettuale.

 

IV.

Nel 1865-1866, dopo l’improvvisa morte del fratello e i debiti per sostenere la famiglia del morto e i debiti per le riviste e le attività editoriali intraprese col fratello stesso. In una fase travagliata della sua vita eppure così creativa, Dostoevskij scrive il grande romanzo pietroburghese. Parigi è la città-mondo per eccellenza ed è il grande teatro nel quale molta parte della produzione letteraria di Balzac, ma anche di Stendhal, Hugo, Flaubert, si dispiega. Così Pietroburgo, città-mondo nella Russia del tempo.
La miseria dei caseggiati, delle stanzucce, delle bettole, dei vicoli di Pietroburgo. La miseria di una umanità così variegata. Il giovane, ex studente di legge ma che ha abbandonato gli studi perché povero, Raskolnikov, memore, forse inconsciamente di tutto ciò, della promessa tipicamente ottocentesca e napoleonica che ogni giovane fornito di grande talento, ma che è povero, non ha mezzi, ha comunque “nello zaino il bastone da maresciallo”, dopo la Rivoluzione per eccellenza, può e deve uscire dalla sua condizione. Erede dei tanti Julien Sorel (Stendhal), Rastignac, Lucien Chardon ecc. (Balzac). E allora una vecchia usuraia può e deve essere derubata e uccisa perché il fine non è semplicemente individualistico, ma allude ad altro.
I duelli e i confronti, anche intellettuali e morali, tra Raskolnikov e Porfirij Petrovič, questo particolarissimo, curioso giudice istruttore, il quale nella sua apparente trascuratezza, comprende e riesce a entrare nel mondo intellettuale e morale del giovane assassino fino a indurlo alla aperta confessione.
L’ex impiegato, ora decaduto e alcolizzato, Marmeladov e la sua famiglia. La pura, generosa, sacrificata Sonja (a suo modo, una Crista, come i tanti Cristi di Dostoevskij, non ultimo il principe Miškin). La quale deve prostituirsi per sostenere la povera sua famiglia e che nell’incontro con Raskolnikov trova un essere umano su cui esercitare la sua purezza, la sua intatta fede, la sua speranza di redenzione. Ed è proprio Sonja che induce il giovane a ravvedersi e a pentirsi e che lo seguirà in Siberia nella deportazione per espiare la pena comminata dopo il processo.
In mezzo ai tanti personaggi del romanzo (Dunja, Lebezjatnikov, Razumichin, Lužin, i Marmeladov ecc.), Svidrigajlov ha una sua parte importante. L’ambivalenza tipicamente dostoevskiana. Gaudente, carnale, libidinoso, pedofilo ecc. Ma anche a suo modo generoso e aiuta i figli di Marmeladov ormai orfani di entrambi i genitori.
“Romanzo polifonico” per eccellenza.

 

BIBLIOGRAFIA MINIMA – FËODOR M. DOSTOEVSKIJ – DELITTO E CASTIGO

Retroterra storico

Storia contemporanea della Russia in un buon manuale di storia per le scuole superiori. Si indica in primo luogo:

Bontempelli-Bruni, Storia e coscienza storica, Trevisini Editore, Milano (in tre volumi, quindi le parti contenute nel terzo, dalla rivoluzione decabrista al populismo russo e ai movimenti rivoluzionari di fine Ottocento e di inizio Novecento).
Una bella monografia sulla storia della Russia è quella di Valentin Gitermann, Storia della Russia, La Nuova Italia.

Monografia e saggi su Dostoevskij

Arnold Hauser, Storia sociale dell’arte, Einaudi (nel vol. IV, le parti dedicate ai russi e a Dostoevskij in particolare nel capitolo “Il romanzo sociale in Inghilterra e in Russia”). Opera classica e da tenersi in casa, ora ristampata.

Fausto Malcovati, Introduzione a Dostoevskij, Laterza

György Lukács, Saggi sul realismo, Einaudi (il capitolo dedicato a Dostoevskij), Michail Bachtin, Dostoevskij, Einaudi.

 

Edizioni italiane del romanzo Delitto e castigo

Nelle edizioni economiche Classici Einaudi Tascabili, Classici Feltrinelli, Bur Rizzoli, Oscar Mondadori e Newton Compton. Consiglio una delle prime due traduzioni menzionate (con relative introduzioni). L’edizione Einaudi Tascabili contiene come introduzione un bellissimo saggio di Leonid Grossmann, uno dei massimi studiosi di Dostoevskij.

Giorgio Riolo


Giorgio Riolo – Leonardo Sciascia e la letteratura come smascheramento del mondo e delle trame del potere

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Giorgio Riolo – Leonardo Sciascia e la letteratura come smascheramento del mondo e delle trame del potere

Leonardo Sciascia - Giorgio Riolo
Giorgio Riolo

Leonardo Sciascia e la letteratura
come smascheramento del mondo
e delle trame del potere

Non è solo un anniversario (essendo nato a Racalmuto il 8 gennaio 1921) a muoverci e a ricordare Leonardo Sciascia. Ci sono letterati e intellettuali che hanno una presenza permanente, che ci accompagnano e ci aiutano a decifrare la nostra Italia, e, in senso lato, il mondo, in ogni dimensione, politica, culturale e antropologica. Ricordo qui solo Sciascia e Pasolini, soprattutto anche per il loro piglio profetico. Ma molti altri e molte altre potremmo ricordare.
La letteratura nella concezione di questi intellettuali possiede una carica totalizzante, conoscitiva e oppositiva, critica e costruttiva al medesimo tempo, che, più passa il tempo e più la realtà contemporanea diventa così degenerata, così povera di figure intellettuali di tal fatta, più ne sentiamo il bisogno, più emerge la sua importanza.
Qui, in questo breve intervento, si indicano alcuni punti, alcuni passaggi, e alcune opere sue, solo come esempi da cui poter trarre l’importanza di questa letteratura e di questo genere di intellettuali, veri, autentici.

I.

Le parrocchie di Regalpetra è il luogo d’origine di tutti i temi, di tutti i contenuti di pensiero e narrativi di Sciascia. Sono i temi che egli svilupperà e articolerà in varie opere fino alla morte avvenuta nel 1989.

Apparsa nel 1956, a partire dal primo nucleo delle Cronache scolastiche scritte nel 1954, in essa si concentrano le grandi questioni che contrassegnano la “eterna sconfitta della ragione” e quindi la scaturigine del necessario nuovo illuminismo, della chiamata civile e d’impegno dello scrittore, quale novello philosophe della grande tradizione illuministica. Il potere e le sue trame, le imposture e le congiure ordite da esso, la mafia, il rapporto organico, consunstanziale, di mafia e politica, la Democrazia cristiana, l’uso delle istituzioni e dell’apparato pubblico ai fini clientelari, mafiosi e politici. La Chiesa, gerarchie in primo luogo, ma anche i preti tipici del Sud e della Sicilia, collusa con il potere, mafioso e politico. L’Italia come luogo d’elezione dello “spagnolismo” (Sciascia e prima l’amato Manzoni, come fustigatori di questa modalità di servilismo, di esibizione barocca e teatrale del potere, dell’essere “forti con i deboli e deboli con i forti” ecc.), della doppiezza e dell’ipocrisia, in politica e nella vita sociale, della mancata Riforma protestante, del mancato 1789 ecc.

Nella bella e densa Prefazione della riedizione del 1967 presso Laterza (assieme a Morte dell’Inquisitore) l’autore spiega bene il retroterra culturale di tutto ciò e la sua visione della missione del letterato. Esplicita bene l’origine dell’opera, dalle Cronache scolastiche, appunto, ai vari capitoli che compongono questa preziosa e concentrata antologia, a mo’ di requisitoria critica, storica, sociologica, politica, antropologica.
Ma esplicita bene anche la sua professione di fede nella forma stilistica di questo impegno. L’inconfondibile stile sciasciano, la sua prosa secca, concisa, scarna, profondamente antiretorica, fatta di frasi brevi, con il sapiente e proprio uso delle parole. Mai ridondante, aderente alla “cosa”, ai fatti, ma che risulta nondimeno di grande godimento estetico. Il suo non preoccuparsi del “corso delle teorie estetiche”, ma di “seguire piuttosto l’evoluzione del romanzo poliziesco”. E molti suoi celebri romanzi, di forte e denso contenuto storico, politico, sociologico, culturale ecc. sono, formalmente, esemplati sul romanzo poliziesco, Il giorno della civetta, A ciascuno il suo, Il Consiglio d’Egitto, Il contesto, Todo modo, ecc.

Le parrocchie sono composte di vari capitoli e costituiscono un documento di prim’ordine per conoscere la realtà meridionale, nello specifico, siciliana. La composizione sociale e le culture e le subculture delle feroci e incolte classi possidenti, nel capitolo Il Circolo della Concordia, il ruolo dei partiti e del clientelismo politico, il voto di scambio e le relative truffe elettorali nel capitolo Diario elettorale.
Il capitolo centrale delle Cronache scolastiche (Sciascia era maestro di scuola elementare a Racalmuto, Regalpetra nel titolo) costituisce un documento sociologico importante della condizione della scuola, della povertà e del lavoro minorile, della scuola cosiddetta di classe, del bisogno di un’altra didattica e di un altro sapere che veramente potessero contribuire all’emancipazione di quei ragazzi poveri, affamati, subalterni. Tutto ciò detto dieci anni prima del documento del rivolgimento copernicano della concezione della scuola e del sapere, la fondamentale Lettera a una professoressa di Don Milani e della Scuola di Barbiana del 1967.

È l’opera che mostra la stupefacente continuità della storia italiana, il passaggio, quasi indolore al Sud (ma anche nel resto d’Italia) dal fascismo al cosiddetto antifascismo, il trasformismo molecolare e politico (i tanti fascisti, monarchici, liberali ecc. poi confluiti nel vero attrattore di tutto ciò, luogo della confluenza, la Democrazia Cristiana, vero Moloch onnicomprensivo, onnivoro). E quindi il ruolo della Chiesa e dei preti, collusi con la mafia, con il potere, con la Dc ecc. Chiesa e preti di allora, oggi al Sud e in Sicilia spesso in prima fila contro mafia, ‘ndrangheta, camorra ecc.
E poi, a mo’ di pionieristica inchiesta e denuncia della condizione dei lavoratori, la descrizione della vita dei salinari, operai delle miniere di salgemma, degli zolfatari, dei braccianti agricoli, delle malattie cosiddette “professionali”, dei salari da fame. Insomma le Parrocchie costituiscono il compendio enciclopedico delle malefatte del potere al Sud e nella Sicilia, dello Stato e della Chiesa collusi, della condizione e della rassegnazione e del fatalismo delle classi subalterne, della insipienza e della ferocia delle classi dominanti.

II.

Seguendo e denunciando l’eterna “sconfitta della ragione” (e relativa sconfitta della giustizia sociale e politica), nel 1971 Sciascia sentì il bisogno di imprimere una svolta alla sua attività di scrittore, di intellettuale, di polemista. La parabola della sconfitta della ragione parte dalle Parrocchie del 1956 fino alla Recitazione della controversia liparitana, dedicata a A.D. (Alexander Dubček) del 1969, attraverso, tra gli altri, i notissimi romanzi polizieschi Il giorno della civetta e A ciascuno il suo, sulle condizioni sociali e politiche della Sicilia, sul rapporto mafia e politica, sul malgoverno Dc ecc. Il discorso ruotava sì attorno alla Sicilia, ma ormai occorreva un discorso universale, sull’Italia e sul mondo. Poiché la Sicilia era, ed è, metafora dell’Italia e del mondo.

Le imposture e le trame del potere occorreva descriverle e smascherarle nei suoi luoghi d’elezione. Ed è la politica nazionale, anche se la finzione letteraria ci porta a un paese apparentemente latinoamericano. Un paese “dove non avevano più corso le idee, dove i principi – ancora proclamati e conclamati – venivano quotidianamente irrisi, dove le ideologie si riducevano in politica a pure denominazioni nel giuoco delle parti che il potere si assegnava, dove soltanto il potere per il potere contava”.

È Il contesto, uscito alla fine del 1971. “Una parodia”, come recita il titolo. Ma in realtà “un apologo sul potere nel mondo”. Potere e politica che sempre più vengono a configurarsi come “mafiosi”, oscuri, apparentemente indecifrabili. Una dinamica autonoma di varie uccisioni di magistrati a opera dell’ex farmacista Cres intercetta un’altra dinamica parallela di complotto vero e proprio, una vera e propria “strategia della tensione”, a opera del partito al governo e dei suoi apparati per perpetuare e consolidare vieppiù il proprio potere. Senonché il diligente ispettore Rogas che ha scoperto il complotto e che vuole rivelarlo ad Amar, segretario del partito d’opposizione, il Partito Rivoluzionario Internazionale, viene ucciso assieme ad Amar. L’intellettuale Cusan, al quale Rogas aveva rivelato tutto e che aveva consigliato all’ispettore di riferire al segretario del suo partito, scopre con orrore, parlando con il vicesegretario del PRI, che questo epilogo è quello voluto anche dal partito di opposizione, sedicente “rivoluzionario”. “- Siamo realisti, signor Cusan. Non potevamo correre il rischio che scoppiasse una rivoluzione -. E aggiunse – Non in questo momento”.
Nel racconto, a un certo punto, ci si imbatte nella aperta confessione del Ministro dell’Interno secondo il quale il proprio partito ha malgovernato per trent’anni il paese e che si malgovernerebbe meglio, assieme, se a sedere nella propria poltrona ci fosse il segretario del partito di opposizione.
La polemica divampò subito. Venendo all’Italia, e con qualche forzatura da parte di Sciascia, ma le forzature servono in letteratura e nel pensiero a meglio intendere l’assunto che si vuole far valere. L’apologo mostrava chiaramente come Dc e Pci tendessero, nell’apparente e/o reale scontro, a essere collusi. Partito al governo e partito all’opposizione che svolgono un gioco delle parti. E la sinistra extraparlamentare variamente utilizzata dai servizi e dalle forze repressive per i propri fini, sempre al fine del consolidamento del potere. Intellettuali ed esponenti del Pci reagirono e attaccarono frontalmente Sciascia e così Giovanni Raboni sui Quaderni piacentini, diciamo dal versante extraparlamentare.

Profeticamente Sciascia anticipava i tempi e i dilemmi del compromesso storico, dove il dialogo comunisti-cattolici non solo avveniva al vertice, tra partiti, Pci-Dc, e non alla base, ma dove in realtà non esisteva la base dal lato Dc poiché “non esistevano le masse cattoliche”. Anticipava i tempi e i dilemmi dei posteriori governi di unità nazionale, dell’uso eterodiretto dei gruppi clandestini, sempre soggetti a essere infiltrati e in qualche modo manovrati dai servizi e dagli apparati dello Stato.
Il lato della Democrazia Cristiana e del suo retroterra profondo, l’eterna ipocrisia, l’eterno “spagnolismo” e l’eterna doppiezza della Chiesa cattolica, in un paese dove occorreva parlare piuttosto di “cattolici” e non di “cristiani”, Sciascia lo affrontò con il romanzo Todo Modo, apparso alla fine del 1974. È la resa dei conti finale con il sistema di potere democristiano. “Giallo metafisico”, “sottile metafora degli ultimi trent’anni di potere democristiano” lo definì acutamente Pasolini nella sua recensione del romanzo. È un giallo senza soluzione. “Giallo metafisico” poiché dei tre omicidi commessi in quel albergo, durante il soggiorno per gli esercizi spirituali, solo quello di don Gaetano si potrebbe ascrivere al pittore.
Un famoso e ricco pittore laico si trova a pernottare in un albergo dove annualmente si ritrovano i classici notabili democristiani per compiervi gli “esercizi spirituali”. Ministri, deputati, amministratori di aziende di stato, direttori di giornali ecc., con tanto di mogli e di amanti al seguito, compiono questo dovere formale sotto la guida di don Gaetano, prete colto, intelligente, sottile, luciferino. Un prete esplicito nei serrati e acuti colloqui con il pittore nel mostrare l’arcano della Chiesa, e quindi della Democrazia Cristiana. Il titolo “Todo modo” viene da un precetto di Ignazio di Loyola. “Con ogni mezzo, per cercare la volontà divina”. Con ogni mezzo, anche l’assassinio. Così come intimamente hanno pensato e giustificato il loro operato molti alti dirigenti Dc nella reale storia italiana del secondo dopoguerra.

Il romanzo offre il retroterra per comprendere ancor più l’altra opera di Sciascia del 1978. L’affaire Moro dimostrò definitivamente come un letterato della finezza intellettuale del nostro possa comprendere immediatamente quale dramma celasse la vicenda di Moro. Vittima egli stesso del sistema di potere del quale fu uno dei maggiori artefici. Anche con l’uso di un linguaggio alieno rispetto ai canoni della ragione e della verità, ma ampiamente comprensibile entro la visione barocca della doppiezza, dell’allusione, del dire e non dire, del linguaggio del potere fine a se stesso.
Sciascia aveva replicato, negli interventi polemici dopo l’uscita de Il contesto, a un furioso Scalfari che egli non aveva il dono della prudenza e dell’opportunità. Nel paese per eccellenza del trasformismo e dell’opportunismo. Così come dimostrò nei fatti quando si provò a svolgere attività politica diretta, sempre come indipendente, prima al Consiglio Comunale di Palermo e poi alla Camera dei deputati. Nei due casi Sciascia denunciò come il vero potere non risiedesse nei luoghi deputati, appunto i consigli e i parlamenti. Come disse allora “il potere è sempre altrove”.
Oltre il teatrino della democrazia rappresentativa, della competizione elettorale, dell’attività pubblica e palese, del visibile. Il “segreto”, l’invisibile essendo la vera chiave per capire come si svolge la politica, come si esercita il potere. La mafia, la politica svolgono la loro attività vera dietro le quinte, nei gruppi ristretti, nelle massonerie, nelle consorterie, nelle combutte, nei salotti, nei circoli ecc. E lì si compie il misfatto. Il potere per il potere. Esponenti di governo ed esponenti di opposizione. Destra, sinistra, centro oggi nel grande frullatore della “circolazione delle élite”, nell’epoca del trionfo del neoliberismo e della degenerazione finale del senso della politica e del fare politica.
Oggi questo è chiaramente visibile, a una mente lucida e non obnubilata da pregiudizi di parte. Allora, in Sciascia, era visione profetica. Proprio perché “scrittore di cose” e non “scrittore di parole”. Proprio perché “scrittore di opposizione”, come fu Pasolini. E dobbiamo alla sua mente lucida e alla sua prosa tersa, affilata, essenziale, insomma alla “letteratura come verità”, da lui tenacemente perseguita, questa visione, questo dono prezioso per noi, ancora oggi.

III.

Sciascia non è stato un semplice letterato, è stata una delle poche coscienze critiche che la storia italiana abbia avuto (nel dopoguerra, assieme a Pasolini, come si diceva sopra) e come tale ha svolto il suo dovere civile e politico. I suoi romanzi, i suoi scritti su vari argomenti storici, letterari, culturali rappresentano le pietre miliari di questo impegno. Ma il suo acume critico, investigativo quasi, di reperimento e di inchiesta, a partire da pochi dati, da pochi documenti, mostrano come spesso un letterato veda più in là dello storico (Morte dell’Inquisitore, per fare un solo esempio). Veda più in là del filosofo e dello storico della scienza (La scomparsa di Majorana). Veda più in là del critico e dello storico della letteratura (le varie raccolte di saggi La corda pazza, Fatti diversi di storia letteraria e civile, Pirandello e la Sicilia, per non elencare altro). Veda più in là di giornalisti, politici, storici (L’affaire Moro).
A ogni pie’ sospinto Sciascia ha onorato il suo assunto iniziale. Il suo voler essere erede, e quale erede!, della battaglia culturale illuministica di emancipazione umana. Buon epigono di Voltaire, di Diderot. La penna dello scrittore può essere un’arma, se usata bene, una spada al servizio della ragione e quindi lo scrivere non è ornamento, orpello culturalistico, buono per i salotti e per le amene conversazioni dei suoi frequentatori. La battaglia culturale è cosa seria, al pari della battaglia sociale e politica. Nessuna gerarchia è tollerata (e ricordiamoci in tal senso le vicende di Vittorini, Pavese, Calvino ecc.). E se la ragione è eternamente sconfitta, tuttavia è possibile contrastare le trame e le congiure del potere. E le collusioni di chi dovrebbe opporsi fieramente a ciò, e da qui i suoi molti dissapori, e financo scontri, anche violenti da ambo le parti, con il Pci, per esempio.

In Nero su nero, sorta di diario intellettuale, a un certo punto Sciascia cerca una definizione di letteratura e non trova di meglio che la lapidaria definizione: la letteratura è verità.

E Sciascia, come il Calvino delle Lezioni americane, si ritrova a concepire la letteratura come luogo del potenziamento delle capacità conoscitive, del “sistema di sistemi”, della possibile visione di una totalità, aperta, mai conchiusa, sempre multilaterale e multidimensionale, che nessuna scienza o arte particolare possiede o può dare.

Ripeto, tutto ciò entro una concezione formale e stilistica che personalmente considero tra le più efficaci e affascinanti, che ci aiuta a riconciliarci con il mondo. Anche se “molto offeso” è questo mondo. Mondo che Sciascia ci ha aiutati a decifrare, a cogliere, a smascherare. Ripeto, senza veli, senza orpelli, nella sua nuda e impietosa crudezza. Soprattutto per le tante vittime del potere, dell’arroganza, dell’ingiustizia.

Giorgio Riolo

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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