Carlo Rocchetta – La tenerezza è forza, segno di maturità e vigoria interiore, e sboccia solo in un cuore libero, capace di offrire e ricevere amore. Si offre come componente costitutiva per una piena realizzazione dell’umanità della persona.

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«"Ecco il mio segreto. È molto semplice:
non si vede bene che con il cuore.
L'essenziale è invisibile agli occhi,
lo si vede solo con gli occhi del cuore".
"L'essenziale è invisibile agli occhi",
ripeté il piccolo principe per ricordarselo"».


A. De Saint-Exupéry, Il piccolo principe

 

«Ubi amor, ibi oculos».
Dove regna l'amore,
lì vi sono occhi che sanno vedere.

Riccardo di San Vittore (1110-1173), Benjamin minor, c. 13.

 

«Come la respirazione esige un'atmosfera,
così l'amore chiede un'erosfera.

J. Guitton, L'amore umano, 1989, p. 88.

 

«Alcuni pensano che la tenerezza
sia un sentimemo marginale della personalità.
Appartiene invece al nostro stesso essere:
la sua assenza è il segno
di una natura incompleta.
M. Canciani, La tenerezza, 1993, p. 15.

 

«La tenerezza è forza, segno di maturità e vigoria interiore, e sboccia solo in un cuore libero, capace di offrire e ricevere amore» (p. 9).

«La tenerezza, nella sua identità più profonda, si collega a due esigenze fondamentali e permanenti, inscritte nel cuore umano, desiderare di amare e sapere di essere amati; come tale, essa attinge a tutte le sfere della persona – uomo e donna – da quella biologica a quella psicologica e spirituale […], e si realizza come scelta e stile di vita in ordine a una piena maturità […]. Un sentimento da intendere, dunque, come vissuto complessivo, radicato nella realtà profonda dell’io spirituale-corporeo e del suo esistere “in relazione con” e “in relazione per”, e non solo come uno stato d’animo passeggero. La tenerezza suppone la capacità di partecipare, corpo e anima, alla celebrazione delle innumerevoli sinfonie del mondo, alle sue gioie e ai suoi dolori, vivendo con l’alterità relazioni cordiali (cor/cordis, cuore), di scambio, di reciprocità paritaria e di bellezza. Letta in questa ottica, l’attitudine alla tenerezza corrisponde a un’esigenza incancellabile dell’animo, ne dice la nobiltà e la grandezza, e si offre come componente costitutiva per una piena realizzazione dell’umanità della persona. Non è pensabile che un uomo o una donna, in qualunque condizione di vita si trovino […] possano essere persone adulte senza un’attivazione effettiva di questo sentimento; è certo, in ogni caso, che saranno persone profondamente sole e infelici.
Fra tutti i sentimenti che l’uomo ha sviluppato durante la sua storia, non ne esiste uno che superi la tenerezza come qualità tipicamente umana e umanizzante. E di fatto, una persona non può dirsi adulta se non si sforza di acquisire questo sentimento che la rende “affettuosa”, “compartecipe”, “colma di rispetto” e di meraviglia di fronte al  cosmo e ad ogni forma di vita, da quella di un bambino a quella di un fiore o di una farfalla […]» (p. 10).

«Dire “tenerezza” è dire la vita nei suoi molteplici aspetti e nelle sue più sublimi altezze, vivendola con “passione” e “gioia di essere”, spontaneità, “condivisione” e “convivialità”. L’alternativa è il vuoto, con la negazione delle dimensioni più profonde della nostra interiorità e delle sue più alte istanze. Lasciarsi sfuggire la tenerezza è lasciarsi sfuggire la vita. E come non c’è vita senza rischi, così non c’è tenerezza senza rischi. Ma il rischio più grande è di non vivere la tenerezza. […]
È  diffusa l’idea che la tenerezza rappresenti una connotazione quasi solo femminile o comunque scarsamente “virile”: “qualificante” per la donna e “squalificante” per l’uomo. Si tratta di un pregiudizio infondato, che va smascherato con energia. […] Il sentimento della tenerezza riguarda in realtà, in modo totale e incancellabile, sia l’uomo che la donna, la loro umanità e la loro vocazione all’amore e alla comunione. Vi può essere – e probabilmente vi è – una specificità nel modo di manifestare questo sentimento; ma non si può pensare a un’esclusività di genere. Si deve anzi ritenere che solo riunificando l’animus e l’anima della tenerezza, il maschile e il femminile, in un’armonica integrazione, si è in grado di pervenire a una sua comprensione personale e personalizzante» (p. 11).

«La tenerezza rappresenta questa avvolgenza dell’amore, questo clima di attenzione e di effusione affettiva entro cui soltanto l’amore si può compiutamente manifestare e attuare. […] La tenerezza tende per sua natura a plasmarsi come philia, amicalità/amicizia […]
Sotto entrambi gli aspetti (di éros e di philìa), la tenerezza implica il pathos, il sentimento, e non solo il lògos, la ragione; implica il “sentire” profondo dell’essere, e rimanda a un saper amare col cuore e a un sentirsi amati di cuore, che assume il nostro essere corporeo al maschile o al femminile e quindi la sua stessa dimensione sessuata come realtà costitutiva, e non come sola genitalità. La tenerezza non appartiene all’ordine del mero cogito, ma a quello della sensibilità, una sensibilità carica di affetto e di partecipazione, una dilectio che appella alla mobilitazione di tutta la persona […]» (p. 14).

«Il sostantivo italiano “tenerezza” (dal latino teneritia) evoca l’idea di un qualcosa di morbido, privo di durezza o di rigidità, e rimanda a un affetto interiore vissuto con partecipazione viva, affettuosa e dinamica. Non meno interessante è l’aggettivo “tenero” (tenerum, da tendere, estendersi verso, proiettarsi), il quale suppone e implica un’attitudine che orienta a uscire dall’io per incontrarsi con il tu, tendendo verso di lui, in un rapporto reale di dedizione e di reciprocità. Sotto entrambi gli aspetti, la tenerezza si oppone a due atteggiamenti esistenziali piuttosto diffusi e quasi sempre connessi fra loro: la durezza di cuore, intesa come barriera, muro, rigidità, chiusura mentale, e il ripiegamento su di sé come egocentrismo, incapacità a volgersi all’altro da sé, rifiuto di dialogo e di scambio. La tenerezza, al contrario, è flessibilità, permeabilità, apertura di cuore, disponibilità al cambiamento, e si costituisce come volto concreto di una dilezione affettiva che si fa benevolenza e amorevolezza» (pp. 27-28).

«La tenerezza appartiene alla struttura ontica dell’essere umano […] La tenerezza è inscritta in questa struttura profonda della persona come l’esserci di un io-incarnato-in-un-corpo che chiede di sentirsi amato e di sentirsi capace di amare. […] Tutto questo fa già intuire la profonda differenza che si pone tra la tenerezza-come-sentimento e il sentimentalismo-della-tenerezza: la prima appartiene all’esperienza radicale dell’essere persona, del suo in-esserci e co-esserci, e si realizza come apertura al tu, verso l’altro/Altro, e rimanda a un ‘operatività creativa, coinvolgente e interpersonale; il secondo dice piuttosto ripiegamento sul proprio io, egocentrismo, ricerca di sé, chiusura, spreco di un’affettività fine a se stessa e, alla fine, incapacità a protendersi verso gli altri e la storia. La prima è dialogo, la seconda è monologo. Una differenza netta ed essenziale» (p.29).

«La tenerezza ha bisogno di incontrarsi con la ricerca della maturità, e viceversa. L’una sostiene l’altra e la manifesta. Solo assumendo la tenerezza in un’ottica di questo genere è possibile evitare il pericolo di viverla come una compensazione affettiva o un’acquiescenza ai vuoti del cuore umano, oppure ridurla a dipendenza psicologica o strumentalizzarla a fini di potere sull’altro/a da sé» (p. 32).

«Ecco i molteplici aspetti che entrano in gioco nel vissuto della tenerezza:
– “una disposizione affettiva dell’animo“: la tenerezza appartiene alla struttura più profonda dell’essere umano e riguarda la sensibilità della persona, le sue potenzialità di desiderio (éros) e di amicizia (philia), nel quadro di quelle facoltà superiori che distinguono
la persona da ogni altro essere e la rendono capace di autodeterminazione;
– “disposizione che muove intuitivamente a voler bene“: la tenerezza è un modo di sentire, una disposizione profonda che orienta a una percezione positiva del reale, a meno che non sia distolta o deformata;
– “intuitivamente” in quanto è spontanea e precede, di per sé, l’atto della deliberazione, anche se non ne prescinde; anzi, pur sgorgando dalla sensibilità, esige di essere assunta in modo cosciente e sottoposta ogni volta al vaglio dalla ragione in rapporto alle opzioni di vita e alla gerarchia dei valori cui ci si richiama;
– “e ad apprezzare una situazione, qualcuno o qualcosa, come realtà buone, amabili e a cui interessarsi con partecipazione“: l’apprezzamento come attitudine di pensiero e di prassi e l’amabilità rappresentano i due tratti caratteristici fondamentali della tenerezza; entrambi suppongono il coinvolgimento personale che porta ad avvicinarsi agli avvenimenti e alle persone non da lontano, ma vivendo questi incontri in prima persona e facendosene carico;
– “valutando ogni incontro o circostanza con gli occhi del cuore, prima che con quelli della mente“: la capacità “visiva” della tenerezza, prima che dalIa “ragione pratica”, sgorga dal cuore […]» (p.33).

«Il primo passo è di percepire la bellezza del mondo e lasciarsi incantare da essa. Quando si è capaci di bellezza, tutto è riletto con gli occhi dell’amore, e niente è più indifferente, ordinario o di routine. La tenerezza suppone la via della bellezza (via pulchritudinis), e la fonda. […] La tenerezza è emanazione di bellezza e sua forma riflessa, come uno “stupore coscientizzato”, consapevole. Tra stupore e tenerezza sussiste, di fatto, un profondo rapporto di reciprocità, al punto che l’uno non può stare senza l’altra: lo stupore è dono della tenerezza, la tenerezza dono dello stupore. In entrambe le direzioni, la capacità di provare tenerezza manifesta un modo di pensare e di guardare all’esistenza umana con bene-volenza (voler-bene) […]» ´p. 34)

«La crescita nella vita di relazione è direttamente proporzionale alla crescita nella tenerezza, così come lo sviluppo della tenerezza rappresenta la strada maestra per l’attuazione di una vita di relazione tendenzialmente matura e soddisfacente. […] Il problema della tenerezza e del suo sviluppo non rappresenta dunque un problema di ordine solo psicologico o di pedagogia familiare; è di natura antropologica, e da esso dipende – in buona parte -la condizione di felicità o di infelicità della persona umana. […] Il discorso della tenerezza si colloca entro queste profondità della persona come componente indispensabile del suo processo di integrazione e di maturazione. La felicità, come la tenerezza, non appartiene semplicemente alla logica dell’avere, ma dell’essere, ed esprime la struttura metafisica della persona e della sua aspirazione profonda e indistruttibile al sentimento dell’amore. Per questo motivo, solo quando il percorso evolutivo della relazionalità si incrocia con l’esperienza effettiva della tenerezza, l’individuo è in grado di realizzare – in maggiore o minore misura – il suo desiderio di felicità» (p. 36).

Carlo Rocchetta, Teologia della tenerezza, EDB, 2000, pp. .


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György Lukács (1885-1971) – Considerazioni su «Marx, il cinema e la critica del film», un libro di Guido Aristarco (1918-1996). La tendenza generale è il dominio della manipolazione, a cui in misura sempre più vasta si va assoggettando anche, e tutt’intero, il campo dell’arte.

Resistere alla manipolazione copia

Marx, il cinema e la critica del film

 

«Se vuoi godere dell'arte, devi essere una persona educata all'arte».


Karl Marx

 

«Di fronte al compito, per me certo lusinghiero, di scrivere un’introduzione per il Suo nuovo libro, non nasconderò il mio imbarazzo e le inibizioni che mi colgono. Esse nascono da ben fondata consapevolezza della mia incompetenza quando si tratti di formulare giudizi concreti in concrete discussioni sui problemi del cinema.

Vero che dei problemi del cinema io mi sono occupato già nella giovinezza. Se, anche oggi, non posso che considerare come unilaterale e d’occasione lo scritto che allora vi dedicai, pure esso resta testimonianza di un vitale interesse alla nascita di un nuovo genere d’arte, e in un’epoca in cui erano ancora pochi, anche tra i produttori e critici, a credere che un’arte nuova fosse nata. Da allora ho continuato a seguire l’evoluzione del cinema con grande interesse, benché la mancanza di tempo e il campo centrale della mia attività non mi abbiano permesso mai di addentrarmi concretamente in problemi particolari, cosa che mi sembra l’unico modo per acquisire una competenza autentica e non fittizia. Ultimamente, nella prima parte della mia estetica (Die Eigenart des Aesthetischen), ho tentato di prender posizione su quelli che mi paiono essere i problemi per principio più importanti di un’estetica del cinema. E anche in quell’occasione cercando di non farmi passare per un competente nelle questioni particolari, che sono quelle in definitiva che in sede artistica rivestono spesso importanza eccezionale, e senza la possibilità di esaminare partitamente l’evoluzione storica della nuova arte. Devo dire che allora credevo – e lo credo ancor oggi – che i più rilevanti problemi sociali ed estetici connessi con l’arte cinematografica potessero esser colti nel loro insieme anche da chi, non potendo diversamente, si ponesse a considerarli da un punto di vista astratto.

La nascita e anche l’ulteriore evoluzione del cinema furono e sono determinate molto più fortemente, molto più intensamente da invenzioni di natura meramente tecnica, di quanto non sia il caso di ogni altro genere d’arte più antico, ad eccezione forse dell’architettura. Ciò ha avuto per necessaria conseguenza che la letteratura sul cinema, da un certo tempo già assai vasta, si sia venuta informando all’analisi di queste innovazioni tecniche e, nel migliore dei casi, ai loro effetti psicologici. E, in confronto, soltanto rare sono state le ricerche sul significato sociale della nuova arte, e molto più rari ancora i tentativi di coglierne l’essenza estetica. Scaturiva questa tendenza non unicamente dall’accennata genesi tecnica dei nuovi mezzi espressivi del cinema, sì anche, e forse soprattutto, dalla tipica maniera di riguardare oggi l’arte, dall’assoluto predominio di singoli problemi tecnicistici rispetto alle questioni estetiche di fondo. E tuttavia, in ultima analisi, questa non è una questione immanente all’estetica, come non lo è la questione della Weltanschauung, radicandosi essa invece e molto più nella tendenza generale della nostra epoca, in quel generale dominio della manipolazione, a cui in misura sempre più vasta si va assoggettando anche, e tutt’intero, il campo dell’arte. Che questo dominio, nel caso del cinema, non possa che palesarsi con particolare pregnanza, non occorre dire. Se la produzione cinematografica è in mano a grandi potenze capitalistiche, e con un’immediatezza e completezza di gran lunga maggiore che nel caso di qualsiasi altra arte, il cinema, per sua natura e certo più di ogni altra arte, è destinato esclusivamente ad esercitare effetti immediati di massa.

Il problema della manipolazione non si limita tuttavia a questioni tecniche; la manipolazione ha anche come conseguenza spontanea – talvolta anche consapevole – di deviare l’esclusiva o almeno larga preminenza accordata alle questioni tecniche dal contenuto umano e sociale della manipolazione. Questo processo, l’intima connessione esistente tra primato della tecnica e persuasione che la manipolazione sia inarginabile, non va semplificato e trivializzato, benché sia agevole constatare che il kitsch più banale può esser rabberciato e travestito e inestinguibilmente smerciato in dosi massive e massificanti. È peraltro incontestabile che in entrambe le dimensioni si è realizzata una convergenza di queste tendenze. Si pensi soltanto all’effetto shock. Lo shock è oggi uno degli strumenti essenziali della manipolazione. A parte il suo effetto propagandistico in quanto irruzione dell’inatteso, sovvertimento, sensazione ecc., esso può esser provocato nel modo più facile e sicuro con un nuovo trucco tecnico, e va ancora da sé che la semantica tecnicistica del giudizio critico si fermi soddisfatta a questa coincidenza. Tanto più che è nell’essenza dello shock di provocare una scossa nervosa momentanea, che, sia nell’origine che nelle conseguenze, in nessun modo perviene toccare gli sfondi e i sottofondi pia riposti. E in tal modo – si voglia o no, si sappia o no – tale scossa corre in aiuto dell’ideologia della manipolazione: lo shock, il suo effetto esplosivo, il carattere inusitato del suo manifestarsi danno a chi lo subisce, e a maggior ragione a chi lo provoca, l’illusione di un atteggiamento non conformistico, senza che ne scaturisca una qualsiasi opposizione decisa, sul piano teoretico o su quello etico, all’essere manipolati, senza che si manifesti un non conformismo autentico.

Tutto questo può nascere sul piano tecnico-artistico in perfetta buona fede. Può persino dilatarsi a Weltanschauung, basta per questo che lo stato di manipolazione in cui l’uomo si viene a trovare venga concepito come “condition humaine”, vuoi esistenzialistica vuoi di psicologia del profondo. Una opposizione siffatta può innalzarsi anche a livello estetico sino alla negazione radicale di ciò che esiste, può realizzarsi come antiromanzo, antidramma ecc. senza per questo sottrarre un solo uomo alla manipolazione. Consegue però, da tale sottomissione, spesso in buona fede e volontaria, la forza inarrestabile della manipolazione, nonché il suo riflesso soggettivo, l’alienazione? A mio parere, no.

E ritengo di no sia per quanto riguarda il piano sociale obiettivo sia per quanto concerne il piano umano soggettivo. Certo, a questa duplice negazione va connessa la spiacevole conseguenza del delinearsi di un’opposizione reale. E qui le cose si fanno serie. Delle conseguenze materiali di un eventuale trovarsi esclusi dal numero di quelli che “contano”, qui non parleremo (sebbene si tratti di una faccenda socialmente non senza rilievo), se non che anche il ritrovarsi soli con se stessi, con le proprie convinzioni ideologiche e morali, è in definitiva una seria occasione di porre a cimento il carattere. È un rischio che si deve correre, qualora non si voglia accogliere completamente passivi questa schiacciante realtà della manipolazione.

L’irresistibilità della quale non è tuttavia che apparente. Non c’è giorno, non ora anzi che la vita non offra occasioni di resistere realmente; è però al tempo stesso nell’essenza della manipolazione dell’opinione pubblica che in tutte le pubblicazioni di stampa e letterarie, a non parlare del cinema, questa opposizione si esprima in modo senza paragone più debole. Un asserto questo che per i giorni nostri è difficile documentare in modo probante. Ma si pensi per esempio al fascismo, che ormai appartiene alle cose di ieri: quante opere d’arte (comprese quelle della pubblicistica) ci sono che possano reggere il confronto, quantitativamente e qualitativamente, con le ultlime lettere degli antifascisti condannati a morte, con il diario di Fucik, ecc.? (Il cinema italiano a tale riguardo è quello che vanta i risultati migliori). L’impressione complessiva però è, ad essere sinceri, tale da spaventare. E con ogni probabilità, lo stesso giudizio sul nostro presente dovrà dare un futuro non troppo lontano.

Se si deve arginare la manipolazione, voluta o no, volontaria o imposta che sia, della cultura e quindi del cinema, compito della teoria e della critica almeno, cioè delle sfere che per natura loro più difficilmente della produzione in quanto tale si prestano ad essere industrializzate e commercializzate, è di assolvere il loro dovere di resistere. Resistere in prima fila non è però lotta direttamente politica o propagandistica; la maggior parte tuttavia dei complici della manipolazione culturale sono artisti che nell’arte credono, gente in buona fede, tutti sinceramente presi dalla loro filosofia e dalla loro estetica, non di rado assai dotati, a volte anche pensatori in proprio e critici. Contro la loro falsa Weltanschauung, e la loro falsa estetica, contro la loro stravolta intenzione d’arte, è necessario porre una teoria autentica, convinta e capace di convincere.

Il superamento del tecnicismo nella teoria e nella prassi del cinema, la dimostrazione che dietro ad ogni questione in apparenza meramente formale stanno gravi e ingenti problemi della vita umana, che influiscono attraverso il mezzo della configurazione artistica sul trovarsi o sul perdersi dell’uomo: questo il compito centrale del critico cinematografico che oggi voglia meritare questo nome. Le cognizioni specifiche, la fine sensibilità estetica sono, s’intende, premesse necessarie, ma non più che premesse, non la cosa stessa. Ciò che ne scaturisce – additando il giusto cammino o invece da esso sviando – ha il suo fondamento in tale rapporto con la vita dell’uomo. “Essere radicali”, dice Marx, “significa andare alla radice delle cose. Per l’uomo, però, la radice è l’uomo stesso”. Chaplin non è mai stato un marxista. Ha tuttavia mostrato nelle più diverse forme quanto si possano mettere a frutto le nuove possibilità tecniche del cinema nel fissare, come egli indimenticabilmente ha fissato, l’immagine dell’uomo in pericolo, della sua lotta per conservarsi a se stesso, dello smascheramento di quanto quell’umanità contrasta ed insidia. Al cinema e alla critica cinematografica che si muovono sul piano esteriorizzante del tecnicismo, va contrapposta una critica capace di interiorizzazione e di approfondimento estetico, e che se in spirito di verità e di esattezza saprà andare sino in fondo, non potrà che pervenire all’uomo, all’uomo reale, che soffre e lotta socialmente tra uomini e contro altri uomini.

Per quanto poco mi consideri competente in fatto di cinema, quanto poco sia a conoscenza della Sua produzione complessiva – anche per quello che mi è noto non sono in grado di verificare i Suoi giudizi, spesso per ignoranza dei modelli a cui Lei si richiama – ho tratto nondimeno dai Suoi scritti la salda convinzione che Lei è un critico cinematografico teso a percorrere la giusta via. Per questo ho reputato un dovere e un onore la possibilità di scrivere queste righe di introduzione al Suo libro. Auguro a quest’opera di suscitare controversie accese ed aspre e di riuscire a effetti chiarificatori sui problemi del cinema, tali che, se autentici, nel chiarire questi problemi sappiano andar oltre, sappiano cioè invitare al chiarimento dei problemi dell’umanità».

György Lukács

Badapest, aprile 1965

Lukács

G.Lukács

 


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Guido Aristarco

«Se lo statuto per cosi dire generale dell’arte è quello della sovrastruttura, la fondazione marxiana di una teoria della critica non può che stabilirsi attraverso un puntuale raccordo di nuclei strutturali con quelli sovrastrutturali. Perché solo nell’articolazione di questi due piani, la critica può porsi come “mediazione” tra un prodotto e un destinatario e, al tempo stesso, rinvenire i dati della sua specificità scientifica che consentono appunto una successiva e più gelosa “mediazione”: quella tra un testo (o scrittura) e la cultura. In questo senso, rovesciando una posizione tradizionale, può non solo dirsi che una metodologia è sempre immanente a una teoria, ma addirittura che l’una e l’altra finiscono con l’identificarsi. In una tale prospettiva dialettica, assunto metodologico e dettato teorico si articolano in un discorso in cui l’enunciato filosofico cerca costantemente la sua verifica pratica nell’esame di opere, autori, correnti, per rifluire poi in un ambito speculativo che eleva a sistema l’oggetto particolare dello studio: in questo caso, il cinema. La critica cinematografica assunta come sistema, dunque. L’unica occasione scientifica, d’altra parte, che si offre al critico affinché non alieni al fenomeno che studia i suoi caratteri appena lo inserisce nella totalità più vasta dell’ordine estetico. Perché la teoria della critica non esclude ma presuppone un ordine estetico, né a questo vuole o può sostituirsi. Perciò mi pare opportuno operare un altro rovesciamento: l’esegesi critica non conduce alla totalità ma parte da questa; e così, nel delineare le coordinate del sistema teorico, si moltiplicano i piani di indagine, si dispiegano in una successione di livelli dialettici, ciascuno dei quali mantiene caratteri di perfetta autonomia ma non di indipendenza, appunto perché la totalità se è un punto di partenza è anche un punto di arrivo. Ne deriva una concezione complessa, articolata, problematica; una concezione in cui il marxismo mostra tutta la sua capacità epistemologica e si fa insieme soggetto e oggetto di verifica».

 

Guido Aristarco, Marx, il cinema e la critica del film, Feltrinelli, 1979, pp. 11-15 (Introduzione di G. Lukács) e p. 149.


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