Salvatore Antonio Bravo – L’industria culturale capitalistica utilizza solo autori che interpretino K. Marx in senso riduttivo, proprio per evitare possibilità di sviluppo teorico progettuale con una conseguente prassi rivoluzionaria.
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«E infine la divisione del lavoro offre anche il primo esempio del fatto che fin tanto che gli uomini si trovano nella società naturale, fin tanto che esiste, quindi, la scissione fra interesse particolare e interesse comune, fin tanto che l’attività, quindi, è divisa non volontariamente ma naturalmente, l’azione propria dell’uomo diventa una potenza a lui estranea, che lo sovrasta, che lo soggioga, invece di essere da lui dominata. Cioè appena il lavoro cominci a ad essere diviso ciascuno ha una sfera di attività determinata ed esclusiva che gli viene imposta e dalla quale non può sfuggire: è cacciatore, pescatore, o pastore, o critico, e tale deve restare se non vuol perdere i mezzi per vivere; laddove nella società comunista, in cui ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere, la società regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico».
L’idelogia tedesca, 1846.
L’epoca ideologica per antonomasia è proprio l’epoca attuale, nella quale il dicitur mediatico – a tambur battente – ci annuncia che le ideologie sono morte. Da tale postulato si deduce che viviamo nell’epoca dell’oggettivo, la verità è stata svelata e dunque è inutile sporgersi oltre l’orizzonte attuale.
Marx ci aiuta, con i suoi fendenti dialettici e con il suo apparato concettuale, a non cadere nella trappola ideologica: ogni produzione culturale è condizionata dalla struttura e, in ragione di tale necessitato condizionamento, è finalizzata ad occultarne la storicità. La produzione culturale è interna ai rapporti (Verkehr) di produzione. L’odierno successo del pensiero di Hannah Arendt dovrebbe muovere al sospetto che tale successo, malgrado la pensatrice, sia tutto interno ad una postura ideologica del turbocapitalismo: è una delle formule dell’adaequatio ad rem. L’opera della Arendt assimila, in un’unica categoria interpretativa, il Totalitarismo, sia l’esperienza sovietica che nazista. La semplificazione, o meglio, il riduzionismo interpretativo messo in atto, favorisce l’uso ideologico del pensiero della Arendt. Nei suoi scritti inoltre, al riduzionismo esemplificante della categoria di Totalitarismo, si aggiunge la sua discutibile interpretazione del pensiero di Marx. Nell’opera Le origini del Totalitarismo non è messo in opportuna evidenza la relazione tra i totalitarismi e l’economia liberista, ovvero l’arretramento dello Stato dinanzi alla crisi economica del 1929. L’atomismo su cui avrebbero agito i totalitarismi sono l’effetto delle politiche internazionali volte al saccheggio finanziario ed umano dei popoli. I totalitarismi sono l’effetto di una malattia, il suo epifenomeno. La malattia è il liberismo capitalista con le sue sperequazioni e contraddizioni che si acuiscono nei periodi di crisi economica. Le crisi economiche mostrano la sostanza del liberismo, è il regno animale dello Spirito (G.W. Hegel, Fenomenologia dello Spirito), nel quale si perseguono unicamente gli interessi particolari a discapito della comunità: è il regno dell’atomismo sociale. Ciò che appare come “male minore”, il liberismo, se si effettua un’operazione di cambio di prospettiva mediante la quale i fenomeni storici sono letti in modo olistico, può svelarsi come la causa del problema, piuttosto che la soluzione. Come non legare l’ascesa del nazionalsocialismo all’austerità del governo Bruning e lo stalinismo come la corrente fredda favorita dall’aggressione internazionale verso il comunismo sovietico. La genetica della storia dimostra scientificamente l’azione annichilente del liberismo, novello e perverso Prometeo scatenato, che lasciando i popoli alla mercé violenta dell’economia, induce a reazioni di difesa estrema. È il sistema della paura, delle solitudini dinanzi al precariato ed alla flessibilità.
La contemporaneità è segnata dai neologismi ideologici del regno animale dello Spirito, allo scopo di occultare il vero, mediante una sovrastruttura di false rappresentazioni. Il cittadino globale è dato in olocausto al liberismo: si pensi all’emigrazione forzata, allo sradicamento di intere generazioni dai luoghi di origine, così come dal proprio futuro. Le vite dei cittadini globali sono paradigmatiche, caratterizzate come sono dall’eterno presente del precariato. La vita materiale di ciascuno diviene il luogo dove si annidano paure ed aggressività pronte a seguire il pifferaio magico di turno che intona motivi di ideologica ir-razionalità: si fa appello ad un modello di pseudo razionalità presentato nello splendore della sua oggettività, ma che in realtà è solo ideologia. Si induce a seguire un percorso predeterminato negli interessi di pochi, ma rappresentato come universale: e ciò nell’applicazione di una razionalità (irrazionale) sempre strumentale e mai veramente oggettiva. Terrorizzare, diffondere un senso di insicurezza, è una manovra per impedire percorsi alternativi e congelare la dialettica democratica:
«Intervistato recentemente dalla televisione britannica, un alto funzionario dei servizi di sicurezza sudafricani ha messo le carte in tavola: l’A.N.C. costituisce un pericolo reale, a suo parere, non per i propri atti di sabotaggio – per quanto spettacolari o dannosi – ma perché potrebbe indurre la popolazione nera, o gran parte di essa, a trasgredire “la legge e l’ordine”; se ciò avvenisse, anche i migliori servizi di informazione e le più potenti forze di sicurezza sarebbero impotenti (una previsione confermata di recente dall’esperienza dell’Intifada). Il terrore resta efficace finché la bolla d’aria della razionalità non viene squarciata. Il più sinistro, crudele, sanguinario dei tiranni deve restare un devoto predicatore e difensore della razionalità, o perire. Nel rivolgersi ai propri sudditi egli deve “parlare alla ragione”. Deve proteggere la ragione, lodare le virtù del calcolo dei costi e degli effetti, difendere la logica dalle passioni e dai valori che, irragionevolmente, non tengono conto dei costi e si rifiutano di obbedire alla logica. Tutti i governanti possono contare, in buona misura, sul fatto che la razionalità è dalla loro parte. I nazisti, inoltre, manipolarono la posta in palio in modo che la razionalità della sopravvivenza rendesse irrazionali tutte le altre motivazioni dell’azione umana. All’interno del mondo creato dai nazisti la ragione era nemica della morale. La difesa razionale della propria sopravvivenza richiedeva la non resistenza alla distruzione dell’altro. Questa razionalità spingeva i perseguitati gli uni contro gli altri e cancellava la loro comune umanità. Inoltre, li trasformava in una minaccia e in un nemico per tutti coloro che non erano ancora stati condannati a morte e ai quali veniva garantito, momentaneamente, il ruolo di spettatori. Il nobile credo della razionalità assolveva benevolmente sia le vittime sia gli spettatori dall’accusa di immoralità e dal senso di colpa. Avendo ridotto la vita umana al calcolo dell’autoconservazione, la razionalità la derubava della sua umanità»[1]
Bauman coglie appieno il falso dispositivo di razionalità, utilissimo a cementare sistemi con la paura ed il terrore dell’alternativa. Il pensiero della Arendt è interno al dispositivo di potere, è divenuto uno dei mezzi con i quali si chiude la discussione sull’alternativa a tale sistema. Serve ad omaggiare il liberal-liberismo come unica possibilità pensabile; il resto, è stato solo Terrore, pertanto non vi è alternativa al presente. Lo stivale sul volto dei popoli è anche l’industria della cultura, gli autori utilizzati come mezzo per necrotizzare il pensiero divergente. Si orientano le scelte facendole apparire come fatali, ritagliando lo spazio d’intervento dell’attività della mente. Si omette quanto il secolo precedente sia stato una possibilità non realizzata, perché in esso hanno convissuto una pluralità di potenziali modelli economici che oggi appaiono stigmatizzati tutti sotto la voce “utopici” o “male assoluto”.
La Arendt fa dunque parte dell’industria ideologica del capitalismo, “cultura di regime”. Si presta a tale logica l’analisi che la Arendt fa del pensiero di Marx. Sostiene infatti – e mi soffermo solo su questo punto – che Marx ha posto le condizioni per l’abbrutimento dell’uomo, poiché ha posto l’essenza dell’uomo nel lavoro, nella trasformazione della natura, in tal modo ha fatto dell’uomo una parte della natura, lo ha sottoposto ai cicli naturali, necrotizzando l’agere, la libertà, la creazione ex novo. Il materialismo dialettico nasce con un peccato originale, nega la libertà del genere umano, e dunque si presta ad essere lo sgabello ideologico di ogni dittatura. Una tale erratissima visione, spiega la motivazione del successo della Arendt, la quale educa ad associare al comunismo il Totalitarismo. Così si esprime la Arendt:
«Marx e le conseguenze. Poiché la scoperta centrale di Marx consiste nella descrizione dell’uomo come essere che lavora – da cui la posizione centrale della classe dei lavoratori e del cosiddetto materialismo (metabolismo con la natura), egli concepisce l’uomo come essenzialmente isolato. Colui che lavora, concepito e descritto secondo l’antico modello greco del fabbricante, in effetti è in linea di principio solo con ciò che produce; gli altri appaiono unicamente come aiutanti (mastro e assistente). Le categorie di mezzo-fine, che sono pienamente adeguate all’uomo alla fabbricazione, nel processo lavorativo si estendono all’uomo; da nessuna parte è tanto evidente e in un certo senso legittimo trattare gli uomini come mezzi quanto nl processo lavorativo»[2].
Si comprende quanto sia stata ribaltata la realtà. Per Marx l’essenza dell’uomo è generica: qui invece diventa strettamente legata alla produzione, in modo atemporale e meccanico. Marx, nel Frammento sulle macchine, ipotizza l’uso delle tecnologie per liberare gli uomini dal bisogno, per permettere l’espressione delle potenzialità infinite della mente di ciascuno. Ciò che secondo Marx è l’essenza dell’uomo, diviene nel discorso della Arendt unicamente e soltanto il lavoro legato alla necessità economica. Trasforma e rappresenta così il materialismo storico in un un materialismo adialettico ed acefalo. Marx, invece, concepisce la storia come dialettica evolutiva; pertanto, al di là di alcune derive naturalistiche e positivistiche, si struttura per una trasformazione progressiva quantitativa e qualitativa: la storia si evolve da uno stato di necessità ad uno di libertà mediante la mediazione dell’evoluzione storica, dalla legge della giungla produttivista e dello sfruttamento al regno dell’umano. Il genere umano pone nella storia le condizioni per la propria liberazione, per la scoperta consapevole di sé. La verità dunque si svela con una processualità che porta alla libertà, al superamento dell’estraniamento di sé. Il genere umano è parte della natura come della storia, ma non appartiene completamente ad esse, si rende libero con la processualità dialettica, la quale vuole il lavoro sociale come condizione imprescindibile per un processo evolutivo di liberazione del genere umano. Anzi, è in tale processo che si svela gradualmente quanto l’essere umano non abbia, come gli altri esseri viventi, una natura specifica, ma poliedrica, per cui il fine dell’evoluzione materialistica è la concretizzazione di tale disposizione tarpata dai processi di sfruttamento e di necessaria sopravvivenza. Marx è esplicito nell’affermare che la natura umana è generale e creativa:
«regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi viene voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico»[3].
La Arendt afferma che l’essere umano ridotto a fabbricante, a homo faber, diviene un essere isolato. Il fraintendimento è qui notevole poiché per Marx la natura sociale dell’essere umano è libertaria e sociale. Non è un caso che nel Capitale, l’autore più citato è Aristotele. La tesi di laurea dello stesso Marx, Differenze tra le filosofie delle nature di Democrito ed Epicuro, è una contrapposizione tra il determinismo e l’indeterminismo, a favore di quest’ultimo. In tale tesi ricorre frequentemente il termine “autocoscienza”: nel linguaggio idealistico utilizzato da Marx, tale termine è speculare non all’homo faber ma alla libertà ed alla prassi.
Costanzo Preve, autore non utilizzabile a livello ideologico, delinea nei suoi testi lo spessore libertario ed emancipativo della natura generica e sociale di Marx:
«La socialità dell’uomo, che viene appunto alienata da questo processo di espropriazione, viene così delegata alle merci ed allo scambio sul mercato. Il rapporto sociale tra le persone si presenta per così dire rovesciato, come rapporto sociale fra le cose e non più fra gli esseri umani (reificazione, Verdinglichung). La merce assume così il ruolo di feticcio (feticcio delle merci, Warenfetizismus), in quanto appare dotata di valore autonomo ed originario, rimanendo così occulti i rapporti sociali umani che tale valore hanno prodotto (cfr. Il Capitale, I, La merce, 4), il che comporta un programma pratico di rovesciamento “dialettico” di questa situazione storica»[4].
Costanzo Preve coglie il pensiero di Marx nella sua pienezza emancipativa (ed ecco allora perché si tende a “silenziare l’elaborazione teorica di C. Preve, in quanto disfunzionale rispetto all’industria culturale). L’esame critico delle fonti deve educarci a vagliare, ancor più in tale contesto, l’uso ideologico degli autori.
Malgrado la contemporaneità sia presentata come laica e razionale, viviamo in un’epoca non solo fortemente ideologica, ma specialmente superstiziosa, poiché l’educazione alla passività, alla sudditanza ideologica totemica, diseduca al pensiero come attività consapevole di verifica. L’industria culturale, o a voler usare il linguaggio di Preve, il clero orante ed ideologico, utilizza i suoi spazi per diseducare alla prassi come alla speranza.
Marx è un autore che inquieta, che ci pone dei problemi, ed ipotizza soluzioni al plurale. Nell’industria culturale odierna pertanto sono utilizzati solo autori che lo interpretino in senso riduttivo, proprio per evitare possibilità di sviluppo teorico progettuale con una conseguente prassi rivoluzionaria. Alla Miseria dello Storicismo di Popper, altro autore utilizzato in senso ideologico, dovremmo contrapporre le miserie ideologiche dell’attuale sistema superstizioso e feticistico. In contrapposizione alla cultura conformista ed ideologica, dovremmo mettere in atto un’epochè culturale sostenuta dagli autori che svelano e rilevano la densità ideologica dei nostri giorni. In Ateismo nel cristianesimo, E. Bloch riporta l’aneddoto metaforico dei baffi di Hindenburg, il quale non avendo consistenza pilifera sul labbro superiore, cercava di coprire la pochezza pilifera con la messa in scena di baffi sempre più teatrali, rivolti verso l’alto[5]. Ora l’industria culturale asservita, alla stessa maniera, copre il vuoto con la vendita massiccia di taluni autori, che servono a coprire il volto truce e violento del nulla dei giorni del mero presente.
Salvatore Antonio Bravo
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[1] Z. Bauman, Modernità ed Olocausto, Il Mulino, 1992, p. 198.
[2] H. Arendt, Nel deserto del pensiero, Beat, 2015, p. 70.
[3] K. Marx, Ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma, 1983, p. 24.
[4] C. Preve, Storia della dialettica, Petite Plaisance, Pistoia, 2006, pp. 102-103
[5] E. Bloch, Ateismo nel cristianesimo, Feltrinelli, 1968: «I poveri che non possono parlare ad alta voce sono costretti a farlo in disparte; mentre invece quei ricchi, che pur non avendo nulla voglio tuttavia rappresentare qualcosa, agiscono sempre a voce spiegata […]. Estendendo, migliorando, talvolta anche falsificando tutto quanto hanno a disposizione e facendolo apparire tutt’altro, essi lo ricoprono delle penne di un pavone che nel migliore dei casi non c’entra per nulla. Un esempio, se si vuole un po’ sciocco ma pur sempre allegorico, lo abbiamo nei baffi di Hindenburg. Costui volendo essere baffuto ed essendo troppo scarsa la forza pilifera nel suo labbro superiore, convogliò in quella zona una parte dei peli delle guance, spazzolandoli verso l’esterno per meglio ingannare. Ecco nato così un surrogato, qualcosa che certo non fu succhiato col latte materno, un abbellimento esterno che ricorre ad elementi estranei. E per liberarci di Hindenburg, dissolvendo nel contempo la patria tradizione in una rossa realtà un tempo antitetica, dobbiamo ricordare che il surrogato è utile solo quando sia vuota del tutto l’antica culla che certo è artistica, ma manca pur sempre di sogni e di visioni. Abbiamo così il vantaggio di illuminare e comprendere sinceramente, lasciando apparire le cose come sono, il giusto che si è fatto sciocco».
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