Pierangelo Sequeri – Agorà / Oltre il dialogo. Sfida congiunta alle passioni tristi: seguirei la stella, non il satellite

Pierangelo Sequeri

Pierangelo Sequeri

Dialogare è bene, ma lavorare è meglio. Parlare e ragionare delle cose in cui ne va di noi e dei nostri affetti più sacri e più cari, grazie a Dio, sono cose possibili – e rimangono necessarie – anche al di fuori degli schemi previsti dalle funzioni strumentali di determinati rituali dialogici: giuridici, psicologici, diplomatici, accademici, e via discorrendo.
Le raccomandazioni e le istruzioni a riguardo del dialogo non lo sostituiscono, del resto, se non c’è. Il dialogo è un valore naturalmente: tutto, pur di scongiurare la guerra. Quando sono ridotte al dialogo, però, la cultura e la politica finiscono per mandare in scena due spettacolini ripetitivi, seppur con diversa ambizione: il dibattito metodologico (interdisciplinare, multidisciplinare, o come si vuole) e il dibattito televisivo (con tutti i suoi omologhi politicamente ed ecclesiasticamente corretti). Troppo spesso, in entrambi i casi, solo chiacchiere e distintivo.
La retorica del dialogo, che finisce per sostituire interamente il lavoro del pensiero, e si nutre di svagata indifferenza per la verità nelle cose, soffoca anche il dialogo fra credenti e non credenti (o diversamente credenti, o pensanti, o come volete voi). Nel dialogo fra ragione e fede, infatti, qualunque cosa significhi, tutti gli esseri umani sono semplicemente implicati in qualcosa in cui è in gioco – e a rischio – semplicemente l’umano. Per quanto diversamente – e oppositivamente – si posizionino, in tutta coscienza e libertà (e nemmeno questo è scontato), gli umani hanno sempre a che fare con entrambe. È lì che viviamo, moriamo, e siamo. Questa è la storia dell’uomo. E così continua ad essere. Non c’è nulla di più interessante. Al di fuori di questo nesso – così intricato, così eccitante – nessun argomento ha sapore e attrazione all’altezza dell’umano. Nemmeno il cibo, nemmeno il sesso. Neppure oggi. Lo stesso esperimento della secolarizzazione a-teistica, non riesce ad affondare la società degli umani soltanto fino a che tiene alta la sua dialettica con le parole e i gesti della religione: della cui potenza simbolica, magari surrettiziamente, si nutre inequivocabilmente. Persino dibattiti altrimenti futili – o disperati – intorno alla qualità della vita, sono nobilitati dal fatto di essere innervati da quella dialettica. Diversamente, saremmo già ridotti all’ossessione predatoria per il dominio, alla lotta per le pozze d’acqua, all’eliminazione del più debole (lo so: c’è chi ci sta lavorando, ma non disperiamo di neutralizzarlo). Dell’umanesimo, scomparirebbe la passione e persino il linguaggio.

La mia idea sarebbe quella di fare un appello all’oltrepassamento del dialogo, per passare alla cooperazione. E chi c’è, c’è. Incominciamo dagli intellettuali, che ci hanno decostruito abbastanza. Siamo a pezzi. La vacanza del pensiero è finita e l’occidentale politicamente corretto è un po’ inebetito. Le nuove generazioni incominciano a domandarsi dov’era il trucco, e intanto si agitano alla rinfusa. Dove capita, decostruiscono anche loro, a loro modo. La colpa è nostra.
C’è del lavoro urgente da fare, a parte il dialogo: riguarda beni di prima necessità per l’ominizzazione, che il mercato ha dismesso. La ripresa di iniziativa culturale del cristianesimo chiede, d’altro canto, disincanto del mondo, cultura impeccabile e passione per la cosa. Non siamo nel peggiore dei mondi possibili: sempre nella creazione di Dio, abitiamo. Devoti ossessivi e sbeffeggiatori impudenti ricavano energie parassitarie dalla nostra radiazione malinconica di fondo, che ormai si diffonde “globalmente”. E le investono su opposti estremismi, in nome della fede o della ragione, confondendo molti. In un mondo che perde logos, la reazione a catena del polemos (della guerra, della violenza, dell’aggressività di tutti contro tutti) guadagna terreno e si fa incontrollabile.
In un mondo che rimane senza l’audace e creativa testimonianza della sua comune destinazione cristologica, il politeismo degli dèi razzisti e corporativi occupa la scena. Il tentativo di annichilire il cristianesimo lavora certamente per il nichilismo – dovunque accada. Lo svuotamento dell’incarnazione di Dio fa regredire la religione e l’ominizzazione: indisgiungibilmente. Per questo, noi per primi ci dobbiamo purificare col fuoco, pur di restituire all’evangelo il suo onore. Non solo la sua verità. L’Occidente, del resto, ha covato a lungo il suo uovo di serpente. Puntuale, arriva la sua morìa dei primogeniti. L’autorealizzazione narcisistica (ce n’è un’altra?) rende infelici. L’infelicità può reggere alla penuria di benessere: ma non all’incredulità nei confronti della differenza del bene e del male, o all’indifferenza della vita e della morte. È così fin dall’inizio.
Mi espongo all’azzardo. Il banco di prova che misura la serietà intellettuale della cooperazione di religione e pensiero si può condensare in quattro idoli da sfidare in campo aperto, come Elia, che non guarda in faccia alla sfrontatezza dei sacerdoti di Baal, né alla vigliaccheria di Acab, che vi espone il popolo di Dio. Non sono semplicemente temi da sviluppare, fra gli altri. Sono bastioni da abbattere, luoghi comuni da disinnescare con perfetta ironia del logos: senza “se” e senza “ma”. Pura deontologia dell’onestà intellettuale, con soave letizia dell’annuncio evangelico e della testimonianza contraria. Li enuncio sinteticamente.

Il primo idolo è l’esistenza separata di un mondo giovanile: con logiche proprie, desideri propri, organizzazione propria, irresponsabilità propria. In pochi decenni, questa invenzione (essenzialmente mercantile) ha generato, per contraccolpo, l’universo tignoso della competizione senile: incorporazione di un’adolescenza infinita, scarso interesse per il lavoro della generazione, ricerca di complicità nel godimento e difesa corporativa del potere. I giovani non hanno guadagnato nulla da questa scomposizione, in un primo momento oggetto degli ammiccamenti compiaciuti di una classe intellettuale frustrata dalle sue rivoluzioni mancate. I giovani hanno incominciato a rendersene conto. L’ammiccamento del mercato, almeno, adesso è più scoperto. È l’ora della desublimazione: l’ultima frontiera del freudismo alla rovescia. Essere giovani significa poter godere sessualmente, in qualsiasi forma: senza cura per la generazione e senza fatica della dissimulazione. Essere se stessi, come si dice, senza orpelli ideologici. Caspita. Un piccolo passo per un giovane, un grande balzo per l’umanità. Sulla soglia di questa regressione, per “rimanere giovani” a loro volta, si affollano pateticamente gli adulti (anche quelli apparentemente più pensosi). L’ultimo atto di questo abbandono dell’uomo senza età al mito dell’orda primitiva, è l’incorporazione del concepimento fra le variabili del desiderio di godimento (a certe condizioni “si rimane giovani” e ci si sente “adolescenti onnipotenti”, anche “facendo” un figlio). Di fatto, abbiamo incominciato a perdere il senso delle stagioni e dell’unità della vita: anzi della storia e della sua destinazione. E perdiamo il senso più pieno della libertà: mai così potente come quando si distacca da sé per incorporarsi irreversibilmente in un altro, destinato a non essere parte di me.

Il secondo idolo è il vincolo condizionale dell’economia utilitaristica. Quello secondo il quale si deve crescere sempre, a prescindere. Quello secondo il quale senza risorse finanziarie non si produce neppure cultura, o democrazia, perché tutto ha un costo. Quello secondo il quale l’essere umano è una macchina biologica del godimento predatore e del desiderio autoriferito. Non voglio nemmeno discutere, qui, di capitalismo o di mercato: l’intrascendibilità del fondamento economico-libidico della storia dell’uomo è un credo che unisce tutt’ora il capitalismo e i suoi oppositori. Parlo della potenza simbolica – religiosa, quasi teologale – accordata alla presunta ovvietà di questo strumento che si è fatto fondamento. E della gerarchia che i sussiegosi officianti dei suoi riti distribuiscono come inevitabile, sbeffeggiando gli ingenui che ne dubitano. Battaglia dura: inutile girarci intorno, bisogna mettersi di traverso. È questo che corrode la mente e svuota l’anima. Ora – è evidente – non siamo più neppure in grado di sacrificare vita e creature per la Bestia che promette di tenerci in vita. Siamo straccetti. E non possiamo reggere il gioco. E ci dicono pure che siamo noi che sbagliamo a consumare. Pezzi di interi continenti, con uomini e donne sopra, affondano di questo. Non per caso Gesù dice ai suoi che la sovranità di Cesare, a certe condizioni, può essere riconosciuta. Quella di Mammona, mai.

Il terzo idolo la struttura essenzialmente comunicativa del sapere. L’ossessione informativa, funzionale, strumentale del sapere, ha imposto la credenza nella sua giustificazione strettamente utilitaristica. Non è per la verità, è per la notizia: dopodiché (come dice l’assessore) sono fatti vostri. In uno spazio così angusto, che si dilata solo orizzontalmente, non c’è posto per nessuna profondità, nessuna grandezza d’animo, nessuna verità dell’arte, nessun realismo per la differenza dello spirito, nessuna potenza dell’affezione che allarga la mente, creando libertà e sfidando la morte. Esibizionismo linguistico, tutto fa spettacolo. Perdiamo metà del mondo e quasi tutto il suo cielo. Gli umani si parlano per essere più umani, non solo per comunicare meglio. Il pensiero e il linguaggio avvolgono spessori dell’essere-umano – e anche dell’essere mondano – che si arricchiscono di mille sfumature, dispiegano potenze nascoste, inturgidano la vita di grandezze incomparabili e imperdibili dell’anima. La parola del pensiero – anche quella silenziosa – crea spazi di eternità per la vita a disposizione dell’anima: è per la circolazione extra-corporea dell’anima, che arricchisce di colori caldi il pianeta uomo. Il godimento immediato è sempre un godimento mancato. L’espressione spontanea di sé rimane sempre vagito. Sempre più individui, giovani e sani, grugniscono e firmano con la x. La mente e l’anima chiedono cura. E invenzione e sintassi, circolazione di esperienze e affinamento del linguaggio, abilità nella modulazione delle sintonie e passione per l’attitudine a nuove composizioni che allargano i sensi, fino a renderli capaci di presa sull’eterno. La bellezza dell’anima è la nostra casa comune. Non per niente la qualità della musica è la spia perfetta della civiltà dei sensi spirituali che corrisponde alla formazione dell’umano in noi. I ragazzi, a scuola, anche quelli con l’anello al naso, aspettano solo testimoni competenti, impeccabili, appassionati di questo. Muoiono di rachitismo spirituale, le creature, prima che di violenza e di dosi eccessive.

Il quarto idolo è il carattere privato della nominazione di Dio. Nella cultura occidentale si è sviluppato un consistente pregiudizio a riguardo del senso comune della nominazione di Dio: sarebbe l’indicatore principale della superstizione, dell’inganno, della violenza. Di fatto, nella convinzione di doverla anzitutto sottrarre alla religione, la regolazione della nominazione di Dio è passata alla politica, poi alla scienza. Pur dichiarandosene incompetenti, la politica e la scienza non fanno che parlarne. A vanvera. Manca invece una seria cultura della teo-logia, che è certamente di interesse pubblico, in virtù della sua originaria disposizione alla mediazione del logos. Il cristianesimo dovrà essere, a sua volta, meno timoroso e più generoso: e adoperarsi perché la teo-logia diventi una rispettabile funzione del sapere critico e autocritico di pubblico interesse, non un gergo di mera appartenenza. Nella realtà, la disumanizzazione della nominazione di Dio, rimpicciolito alla misura del privato sentire delle politiche di parte o di etnìa, incoraggia una vera legione di piccoli padreterni. Piccoli, ma non innocui. “Dio” è meglio lasciarlo misteriosamente oltre il limite dei nostri desideri e dei nostri godimenti, piuttosto che riempirlo rozzamente o svuotarlo stupidamente di realtà. Il delirio di onnipotenza è il trascendentale della stupidità, non dell’autorealizzazione: e fa danni, persino in nome di Dio. Di certo, la privatizzazione del nome di Dio, che lo separa dall’universale rispetto per la verità che deve essere restituita alla giustizia – e non possiamo, noi – non ha prodotto nulla di buono. Nulla.

Troppo difficile? Per quel che vale, a questo punto, vi dico la mia opinione anche su questo. Pochi passi dietro la linea del talk show, ci sono fior di menti – che persino i teologi ignorano, a vantaggio dei più nominati in classifica – che non ne possono più dei quattro idoli che ci affogano le creature. Un soprassalto creativo che riapre il mondo ci serve, non la conta delle lenticchie che ci uniscono e ci dividono. Siamo in ostaggio, con tutta la carovana, di passioni tristi: autorefenziali e scettiche, in egual misura, nei confronti della verità che non patteggia con la morte e del desiderio di non abitare la terra invano. Mettere il cuore nell’intelligenza delle cose più vere e degli affetti più sacri, che ci tengono insieme per l’eterno (la generazione, l’amicizia, la grandezza dell’animo, il rispetto del mistero nascosto in Dio), è passione lieta, capace di creare comunanza e slancio, in grado di rimettere in moto la storia.
La bellezza attuale del cristianesimo, per come la vedo io, deve apparire in questo: con tutti i difetti e le incongruenze che porta, questa figura religiosa del Logos è l’unica in grado di proclamare, in nome di Dio, che la verità di Dio è riscatto e salvezza per l’ostinazione di essere umani. La nuova frontiera del dialogo è questa. Per la nuova evangelizzazione, seguirei la stella, non il satellite.

Pierangelo Sequeri

Già pubblicato in Koinè, Anno XVIII  –  NN° 1-3  –   Gennaio-Giugno 2011

Augusto Cavadi – Il saggio di N. Pollastri: «Consulente filosofico cercasi»

Augusto Cavadi

Come molti ricordano, Hegel notava con sottile ironia che chiunque voglia imparare un mestiere – ciabbatttino o medico – ritiene indispensabile sottoporsi ad apprendistato, mentre filosofi ci s’improvvisa scavalcando la fase dell’iniziazione. Oggi si potrebbe aggiungere che, nell’ambito degli studi filosofici, nessuno si sognerebbe di pronunziarsi su un pensatore o su una corrente di pensiero se non avesse letto almeno un titolo della bibliografia attinente. Questa elementare cautela viene allegramente scavalcata in un solo caso: quando ci si pronunzia sulla Philosophische Praxis di Gerd Achenbach e, più in generale, sul variegato mondo delle filosofie-in-pratica. Qui, infatti, è come se gli ultimi venticinque anni fossero due o tre settimane; come se centinaia di volumi e di articoli scientifici, in tutte le principali lingue del mondo, non fossero stati scritti. Sarebbe ridicolo, se non fosse patetico, constatare come serissimi docenti universitari, che non aprono bocca su un argomento quando non sono informati e aggiornati, sono prontissimi a sparare sentenze ogni volta che vengono richiesti di un parere sulla “consulenza filosofica” o su qualche altra pratica filosofica (di cui non hanno la minima cognizione diretta).
Da qualche mese questa superficialità non ha più scusanti: due precursori di questo nuovo ‘paradigma’ filosofico hanno pubblicato degli strumenti propedeutici che, in poche ma incisive pagine, riescono a diradare pregiudizi e fraintendimenti (almeno in chi sia animato da sinceri intenti di comprensione). Il primo saggio (D. Miccione, La consulenza filosofica, Xenia, Milano 2007, pp. 126) ha carattere più divulgativo e presenta, con uno sguardo davvero planetario, la mappa attuale delle diverse ‘scuole’. Il secondo, poi, a firma di Neri Pollastri, non è soltanto accessibile al vasto pubblico, ma anche dotato di notevole spessore teoretico. La tesi centrale dell’autore è inequivoca: la consulenza filosofica è «filosofia, e nient’altro. Non una professione d’aiuto, se non di mero aiuto al filosofare, cioè al pensare e al ricercare nuove forme di pensiero; non una professione d’ascolto, se non nel senso che, per dialogare, è sempre necessario anche ascoltare; non una terapia, perché anzi è il suo contrario, il suo radicale abbandono; non ‘cura di sé’, se non nel senso che, occupandosi del modo di pensare il mondo, si occuperà anche del modo in cui si pensa se stessi; non formazione, se non in un senso estremamente indebolito e allargato del termine; non una ‘tecnica’, perché priva di un obiettivo preciso e predeterminato, se non quello di cercare ciò che non si conosce. Dunque non rimane che ribadire quel che fin dalla sua origine si è intenzionalmente voluto che fosse: la consulenza filosofica è filosofia. E lo è a buon diritto, perché ne condivide i tratti caratteristici, salvo metterli in pratica su un terreno diverso da quello della filosofia tradizionale: nella realtà concreta e quotidiana; con individui particolari, e per giunta non filosofi; alla ricerca di una comprensione del senso degli aspetti minuti e particolari della realtà, più che delle universalità; ‘improvvisando’ creativamente in modo istantaneo, quindi producendo comprensioni del reale forse spesso meno profonde, ma sempre e comunque di tipo filosofico» (pp. 75 – 76).
Ma se è così, il movimento della filosofia-in-pratica lancia al mondo della filosofia una sfida, o meglio una richiesta: di essere contestata punto per punto come qualsiasi altra proposta filosofica (dunque opponendole argomentazione ad argomentazione), ma nel rispetto della sua specificità epistemologica. Le gare di nuoto sono regolamentari sia se si nuota sul dorso sia se si nuota a farfalla: nessuno si sognerebbe di rimproverare ad un atleta che opta per il primo stile di non adottare il secondo. Così fanno filosofia gli storici della filosofia, i teoretici sistematici e i filosofi-in-pratica: ma solo una spocchiosa intolleranza accademica (legata al paradosso di una disciplina che da alcuni secoli – a differenza di tutte le altre discipline dello scibile umano – non si preoccupa delle ricadute sulla società delle proprie acquisizioni) potrebbe tentare di negare cittadinanza filosofica a chi non accetta di situarsi, istituzionalmente, o come creatore di sistemi filosofici originali o come interprete dei sistemi elaborati altrove.

Elizabeth Bishop – L’arte di perdere

Elizabeth Bishop, L'arte di perdere

«Nella poesia di Elizabeth Bishop le cose oscillano tra essere come sono ed essere diverse da come sono. Quest’ambivalenza si manifesta talora con l’umorismo, talora con la metafora. In entrambi i casi si risolve invariabilmente in un salto paradossale: le cose diventano altre senza cessare di essere ciò che sono. Questo salto ha due nomi: immaginazione e libertà. L’immaginazione descrive l’atto poetico come un gioco gratuito; la libertà lo definisce comeuna scelta morale. Le poesie di Elizabeth Bishop hanno la levità di un gioco e la gravità di una decisione».

                                                                                                                        Octavio Paz

Elizabeth Bishop

L’arte di perdere.
Introduzione, traduzione e note di Margherita Guidacci.

Postfazione di Ilaria Rabatti:
L’occhio, l’orecchio e il cuore. Margherita Guidacci traduce Elizabeth Bishop.

ISBN 978-88-7588-113-9, 2013, pp. 160, formato 140×210 mm., Euro 15 – Collana “filo di perle” [8].

In copertina: Edward Hopper, Automat, olio su tela, 1927. Des Moines Art Center.

http://www.petiteplaisance.it/libri/201-220/206/sin206.html

Ilaria Rabatti
L’occhio, l’orecchio e il cuore
Margherita Guidacci traduce Elizabeth Bishop

(Incipit della Postfazione di I. Rabatti, curatrice del volume)

Di tutte le versioni effettuate da Margherita Guidacci nella sua feconda attività di traduttrice, che ha fatto da accompagnamento e contrappunto all’attività di creazione poetica, occupando negli anni, per passione e per necessità, una parte cospicua della sua esistenza, nessuna, forse, ha rappresentato un intenso “tour de force” come il confronto con la poesia di Elizabeth Bishop.

I motivi della “difficoltà” nella traduzione delle poesie di Elizabeth Bishop li enuncia, in più di un’occasione, e meglio di chiunque altro, la Guidacci stessa, che li ha vissuti, “attraversati”, con lo sforzo della sua acuta e tesa sensibilità interpretativa. Rilevando una componente scientifica nel temperamento della Bishop, la Guidacci sottolineerà come il lucido spirito analitico della poetessa americana sia alla base della tendenza ossessivamente descrittiva dei suoi testi poetici, caratterizzati da una perfezione metrica e formale impressionante, che la rendono eccentrica, “inattuale” rispetto alla pratica poetica del suo tempo:

«Flaubertianamente la Bishop non si appaga né desiste finché non abbia trovato per ciascuna idea o sensazione le mot juste. La poetica della Bishop è tutta nella puntigliosa, perseverante lotta contro le approssimazioni. Le sue enumerazioni, le sue progressioni di aggettivi (generalmente binarie o ternarie), le sue similitudini e metafore sono rigorosamente in funzione di un’esattezza a cui la poetessa tende con una passione che non sarebbe esagerato definire scientifica. (Non proponeva del resto Pound la scienza come modello dell’arte per la sua esigenza di rigore?) I risultati estetici della Bishop sono frutto di minuziosi esperimenti, compiuti con l’ostinazione di un chimico nel suo laboratorio. In questo modo ella ha conquistato la sua eccezionale padronanza tecnica, raggiungendo pari forza nell’uso del verso libero (ma sempre governato da una sapiente scansione ritmica) e nelle più difficili forme ereditate dalla tradizione, come la sestina o la “villanelle”».

E ancora, sottolineando la densità lessicale della Bishop, che keatsianamente prolifera in versi stipati di parole, la Guidacci, mettendo bene a fuoco quelloche è il problema principale nel tradurla, dirà :

«La Bishop si accanisce con metodica, implacabile ostinazione su dettagli vicini e apparentemente minimi del mondo in cui vive: li analizza e li suddivide in strati sottilissimi; ne mette in luce l’intima tessitura toccandone le segrete molecole, li smonta e li rimonta con un’abile, paziente tecnica che non lascia nessuna lacuna all’interno della cosa esaminata, nessun tratto sbavato o manchevole del suo ricostruito contorno. […] Le poesie della Bishop aborrono, letteralmente, dal vuoto; non vi è in esse fessura che non sia colmata, nulla che non sia accuratamente descritto, catalogato, definito. L’immaginazione del lettore può perfino in un primo momento sentirsi oppressa, come soffocata sotto questo puntiglioso accumularsi di particolari che sembra rifiutarle qualsiasi iniziativa, salvo il riconoscimento, reverente o infastidito, di tanto mirabile e quasi maniaca esattezza».

L’“esattezza”, il “nitore fiammingo” dei particolari è il limite nel quale respira l’oltre bishopiano e forse il gradino più arduo per un traduttore. L’attimo epifanico, il punto segreto da cui nella poesia della Bishop scaturisce la rivelazione è sempre toccato infatti attraverso particolari concreti, in una «contiguità e coesistenza e in certi casi identificazione dell’ordinario con lo straordinario», di «domesticity» e «otherwordly» che conferisce ai suoi versi una luce assolutamente singolare e inconfondibile. La sua lirica è un microscopio, su cui si china, con precisionee sincerità, un occhio impegnato a ricercare, tra le pieghe dell’ordinario e del familiare, il mistero che vi è indissolubilmente connesso. [Continua nelle pagine del libro …]

Edward Hopper, Automat, olio su tela, 1927. Des Moines Art Center.
Edward Hopper, Automat, olio su tela, 1927. Des Moines Art Center.

Indice del volume

Nota introduttiva di M. Guidacci

 

da Nord e Sud

Mappa

ICEBERG IMMAGINARIO

QUANTO PIÙ FREDDA L’ARIA

A WELLFLEET, CAMMINANDO NELL’ACQUA

L’UOMO-FALENA

AMORE GIACE ADDORMENTATO

ERBACCIA

L’INCREDULO

IL MONUMENTO

QUAI D’ORLÉANS

UN SONNO VERTICALE

GALLI

PICCOLO ESERCIZIO

IL PESCE

TARDA MELODIA

COOTCHIE

ANAPHORA

 

 

da Una fredda primavera

UNA FREDDA PRIMAVERA

LA BAIA

SOGNO D’ESTATE

I MAGAZZINI DEL PESCE

CAPE BRETON

VARICK STREET

INVITO A MISS MARIANNE MOORE

 

 

da Problemi di viaggio

Brasile

ARRIVO A SANTOS

PROBLEMI DI VIAGGIO

FIGLI DI SQUATTER

CANTO PER LA STAGIONE DELLE PIOGGE

L’ARMADILLO

LA MATTINA DELL’EPIFANIA o COME VOLETE

 

 

Altrove

SESTINA

PRIMA MORTE NELLA NUOVA SCOZIA

DAL DIARIO DI TROLLOPE

VISITE A ST. ELIZABETH

 

 

 

da Poesie nuove e mai raccolte

SOGNI DIMENTICATI

SOTTO LA FINESTRA: OURO PRETO

 

 

 

da Geografia III

SALA D’ATTESA

CRUSOE IN INGHILTERRA

L’ALCE

POESIA

Un’arte

 

 

 

 

Note

 

 

 

Postfazione

Ilaria Rabatti

L’occhio, l’orecchio e il cuore
Margherita Guidacci traduce Elizabeth Bishop

John Williams – La sostanza specifica dell’amore

John Williams

John Williams

«Una volta sola ebbe notizie di Katherine Driscoll. All’inizio della primavera del 1949 ricevette una circolare dall’ufficio stampa di una grande università dell’est. Annunciava la pubblicazione del libro di Katherine e dava qualche informazione sull’autrice. Insegnava in un buon isitituto di Arti umanistiche del Massachusetts, e non era sposata. Appena fu possibile Stoner si procurò una copia del libro. Quando lo ebbe tra le mani, gli parve che le sue dita si animassero. Tremavano al punto che quasi non riuscì ad aprirlo. Sfogliò le prime pagine e lesse la dedica: “A W.S.”.

Gli occhi gli si annebbiarono e per un lungo istante restò seduto e immobile. Poi scosse la testa, tornò a guardare il libro e non lo lasciò più finché non l’ebbe letto tutto.

Era un buon lavoro, come aveva immaginato che fosse. La prosa era elegante e la passione era dissimulata dalla freddezza e dalla lucidità dell’intelligenza. Stoner si accorse che, leggendolo, era lei che vedeva e si meravigliò di quanto riuscisse a farlo veramente. Di colpo era come se Katherine fosse nella stanza accanto e l’avesse lasciata solo qualche istante prima. Sentì un pizzicore alle dita, come se la stesse toccando. Il senso di quella perdita, che aveva rinchiuso così a lungo dentro di sé, straripò sommergendolo mentre lui si lasciava portare alla deriva, oltre il controllo della sua volontà, perché ormai non voleva più salvarsi. Poi sorrise di gioia, come sull’onda di un ricordo: pensò che aveva quasi sessant’anni e avrebbe dovuto essersi lasciato alle spalle la forza di una tale passione, di un tale amore.

Ma sapeva di non averlo fatto. Sapeva che non l’avrebbe fatto mai. Oltre il torpore, l’indifferenza, la rimozione, quell’amore era ancora lì, solido e intenso. Non se n’era mai andato. In gioventù l’aveva dato liberamente, senza pensarci; l’aveva dato a quella conoscenza che gli era stata rivelata – quanti anni prima? – da Archer Sloane. L’aveva dato ad Edith, nei primi, ciechi, folli anni del corteggiamento e del matrimonio. E l’aveva dato a Katherine, come se fosse stata la prima volta. Stranamente, l’aveva dato ad ogni momento della sua vita, e forse l’aveva dato più pienamente proprio quando non si rendeva conto di farlo. Non era una passione della mente e nemmeno dello spirito: era piuttosto una forza che comprendeva entrambi, come se non fossero che la materia, la sostanza specifica dell’amore stesso. A una donna o a una poesia, il suo amore diceva semplicemente: Guarda! Sono vivo!».

 

John Williams, Stoner, Fazi, 2012, pp.  288-290.

Giacomo Pezzano – Contributo alla critica della giuridsizione umanitaria del bene comune a partire dal diritto romano

giurisdizione umanitaria

Queste brevi note prendono spunto dalle questioni poste dal libro di Luca Grecchi Diritto e proprietà nella Grecia classica. Paralleli con il nostro tempo (Petite Plaisance, Pistoia 2011), e in particolare dal suo confronto con alcune posizioni di Oliviero Diliberto, il quale ha sostenuto che una determinata concezione del diritto è in grado di guidare (o accompagnare) la struttura di un modo di produzione sociale verso il comunismo. In particolare la concezione del diritto chiamata in causa dall’ex Ministro della Giustizia è quella del diritto romano, il quale viene invece da Grecchi criticato (in quanto diritto proprietario e contrattuale, jus utendi et abutendi, diritto all’uso e all’abuso sulle cose e sulle persone) in nome dell’anti-crematistico umanesimo greco, e della conseguente concezione greca del diritto. Cercheremo di contribuire alla critica del diritto romano che fa da sfondo all’intera opera di Grecchi, attraverso alcune riflessioni di Roberto Esposito e di Giorgio Agamben1.

1. Il paradigma politico moderno-contemporaneo:
il diritto di essere liberi individui proprietari

I. La politica moderno-contemporanea non solo non si fonda su alcun legame sociale, ma è addirittura possibile solamente a partire dal suo scioglimento, da quello «slegame» che s-lega i singoli, allontanandoli l’uno dall’altro per re-legarli in spazi individuali chiusi e asettici ob-ligandoli a obbedire a codici astratti. Il contratto (pactum unionis/associationis) è ciò che separa (nel senso letterale del ricondurre a se stessi) gli uomini proprio nel momento in cui li accosta e unisce (pactum societatis) come sommatoria di individui messi giuridicamente in relazione per consegnare al potere sovrano ogni forma di autorità e di controllo (pactum subjectionis).

II. Oggi si può affermare che dopo la morte di Dio è venuta quella del social-comunismo2, perché viviamo la politica come un regno di atomi gestiti da un potere centrale economicamente sovrano, viviamo il drammatico esito della «dimenticanza» (parafrasando Heidegger) di una distinzione che nel mondo greco continuava a essere fondamentale ancora dopo il periodo classico, quella tra economia (monarchica) e politica (poliarchica), tra oikos – dominio dell’idion nella sua occlusiva univocità nonché congrega di singoli uomini, letteralmente idioti – e polis – campo aperto del koinon nella sua irriducibile e molteplice diversità:
se il processo di unificazione viene spinto oltre a un certo punto, non vi sarà più alcuna polis. Una città è per natura un che di molteplice [plethos], e se diventa troppo una sarà un’oikia piuttosto che una polis e un anthropos piuttosto che un’oikia: in realtà dobbiamo ammettere che l’oikia è più una della polis e l’anthropos dell’oikia: di conseguenza chi fosse in grado di realizzare tale unità non dovrebbe farlo, perché distruggerebbe la polis (Aristotele, Politica, II, 2, 1261a 17-23).
L’economia e la politica differiscono non solo tanto quanto oikia e polis (queste in effetti ne costituiscono le rispettive materie), ma anche perché la politica [politikè] consta di molti capi [pollon archonton], l’economia [oikonomikè] invece è il governo di uno solo [monarchia] (Aristotele, Economico, I, 1, 1343a 1-4).

Come notava anche Hegel, la polis greca è stata lo spazio (concettuale e fisico) della continua mediazione tra uno e molteplice, e proprio per questo è stato il luogo di nascita della libertà europea, della libertà in quanto tale, della costruzione morale e politica che permette di battere la potenza distruttiva e nullificante di Kronos il divora figli3.

III. Il paradigma moderno della politica e della sovranità è contraddistinto da due aspetti fondamentali: la persona concepita come proprietaria e il sovrano (Re o Stato che sia) come colui che gestisce la vita degli individui. Il diritto, il cui fondamento è che «ciascuno difenda la sua vita e le sue membra per quanto è in suo potere» (Hobbes, De cive, I, 7)4, è il dispositivo chiamato a normare e a codificare tutto ciò: il diritto deve sancire la proprietà individuale (cfr. p. e. Locke, Secondo trattato sul governo, V, 25-51)5 e dichiarare il potere sovrano statuale come gestore unico, vero e proprio Leviatano (cfr. p. e. Hobbes, Leviatano, XVII-XVIII)6. L’aspetto che qui ci preme evidenziare è che è stato il diritto romano a codificare per primo in maniera sistematica e politicamente performativa questi due aspetti, come cercheremo brevemente di mostrare seguendo rispettivamente Esposito e Agamben. Questo non significa negare discontinuità, magari anche radicali, rispetto alla concezione giuridica moderna (maggiormente incentrata sul soggetto piuttosto che sulla persona, per esempio), ma semplicemente segnalare la persistenza, più o meno sotterranea, nella modernità di una visione della vita in comune degli esseri umani (visione sostanzialmente antiumanistica e – anzi: in quanto – anticomunitaria) la cui incarnazione giuridico-politica è stata resa possibile dallo jus romano (d’altronde, il soggetto giuridico moderno è pensabile proprio a partire dalla persona giuridica romana).
IV. In altri termini, la tesi che intendiamo sostenere è che è nel diritto romano che hanno trovato una prima fondamentale fondazione e codificazione alcuni tratti fondanti la soggettività personale giuridica moderna, espressione della capacità di penetrazione ideologica del capitale, come ben aveva colto Marx laddove notava che, anche attraverso il diritto, «la proprietà privata viene incorporata nell’uomo stesso, e lo stesso uomo si riconosce come l’essenza [Wesen] della proprietà»7, proprietà privata concepita «in quanto attività che è per sé, in quanto soggetto, in quanto persona»8: l’individuo soggetto del diritto è oggetto di una drammatica Trennung tanto rispetto al Mensch quanto al Gemeinwesen9. Infatti, per Marx nel diritto «si tratta della libertà dell’uomo in quanto monade isolata e ripiegata su se stessa […]. Il diritto dell’uomo alla libertà si basa non sul legame dell’uomo con l’uomo, ma piuttosto sull’isolamento [Absonderung] dell’uomo dall’uomo. È il diritto a tale isolamento, il diritto dell’individuo limitato, limitato in se stesso»10: «l’utilizzazione pratica del diritto dell’uomo alla libertà è il diritto dell’uomo alla proprietà privata»11, la libertà concepita come arbitrium si configura come «il diritto di godere a proprio arbitrio (à son gré), senza considerare gli altri uomini, indipendentemente dalla società, del proprio patrimonio e di disporre di esso, il diritto dell’egoismo»12. Il diritto tenta di realizzare l’estrema astrazione, senza però rendersi conto che in realtà gli uomini non possono essere atomi e non lo sono mai, in quanto l’uomo non abita nella divina (o animale) indifferenza, come aristotelicamente evidenziato da Marx ed Engels:
la proprietà caratteristica dell’atomo consiste nel non avere alcuna proprietà e perciò nessuna relazione [Beziehung] […]. L’individuo egoistico della società civile si può gonfiare […] fino a diventare l’atomo […]. Ma, poiché il bisogno del singolo individuo non ha senso evidente di per sé per l’altro individuo egoistico che possiede i mezzi per soddisfare quel bisogno […], ogni individuo è quindi costretto a creare questa connessione […]. Sono quindi la necessità naturale, le proprietà umane essenziali, per quanto alienate [entfremdet] possano apparire, l’interesse, che tengono uniti i membri della società civile; il loro legame reale è la vita civile, e non la vita politica […], essi sono atomi solo nella rappresentazione [Vorstellung], nel cielo della loro immaginazione – il fatto che nella realtà [Wirklichkeit] sono esseri fortemente distinti dagli atomi, cioè non sono egoisti divini, ma uomini egoistici13.

Gli uomini, dunque, proprio in quanto uomini, sono necessariamente in rapporto con gli altri, non sono indipendenti: non c’è individuo che non dipenda dal legame sociale per realizzare persino il proprio utile e l’interesse privato; è la natura umana, l’essere bisognoso proprio dell’uomo, a fare degli individui umani esseri non autosufficienti e non assoluti – né animali né dei14. Das menschliche Wesen, ricorda Marx nella Tesi su Feuerbach, è das ensemble der gesellschaftlichen Verhältnisse (VI), e la vita sociale è essenzialmente Praxis (VIII), umwälzende in quanto sinnlich menschliche Tätigkeit (I)15. Questo, in estrema sintesi, è quanto il diritto romano ha cercato di mettere da parte attraverso il suo capillare dispositivo normativo e normalizzante, che ha dato vita a una paradossale coimplicazione tra individualismo e assolutismo, perché la realizzazione dei diritti individuali, la garanzia della loro sicurezza, viene connessa alla subordinazione a un’obbligazione politica che possiede un carattere di assolutezza, all’alienazione di tutti i diritti, persino alla donazione della vita.

2. Persona, libertà e proprietà: il dispositivo individualizzante del diritto

I. Il diritto romano viene da Esposito considerato un vero e proprio dispositivo, per il suo ruolo performativo, ossia produttivo di effetti reali: esso distingue la persona, intesa come entità artificiale portatrice del diritto, dall’uomo, inteso come essere naturale «cui può convenire o meno uno statuto personale» (TP, p. 13). Ciò significa che per il diritto, vero e proprio «meccanismo di disciplinamento sociale» (ibidem), l’uomo può essere considerato tanto persona quanto cosa, come si evidenzia nel caso dello schiavo, che abita la zona di transito tra cosa vivente e persona reificata. Non solo: qualcuno può essere considerato pienamente persona (essere incluso da parte del dispositivo del diritto) solamente se qualcun altro viene spinto verso i confini della cosa (viene escluso da parte del diritto). In poche parole, il diritto possiede un carattere «privativo ed escludente» (ivi, p. 20), esclude colui che è privato del diritto, mentre include colui che è ammesso dal diritto soltanto in quanto privato cittadino, proprietario della sua persona prima ancora che delle cose che lo circondano e di cui fa uso.

II. La persona, dunque, viene intesa nel diritto romano come una maschera, come una vera e propria finzione, come l’assunzione di un ruolo economico-sociale: il diritto romano ha trasferito lo scarto singolare tra corpo e persona (tra ciò che nell’uomo è da considerare ulteriore e separato rispetto alla sua semplice corporeità) «dall’ambito singolare dell’individuo alla trama complessiva dei rapporti tra gli uomini» (ivi, p. 94). La generalità del diritto unisce gli uomini proprio tramite ciò che li divide, essi «sono divisi dalla forma che li collega in un unico destino» (ivi, p. 95), destino che li allontana dall’esistenza concreta e dalla densità corporea per dar vita a categorie astratte di esclusione/inclusione: schiavi e liberi, suddivisi a loro volta in ingenui (liberi per nascita) e liberti (liberi per affrancamento). Il diritto rende gli esseri umani soggetti nel senso che li assoggetta, li rende cioè oggetti in quanto li definisce in base a uno status che li codifica: «servi, filii in potestate, uxores in matrimonio, mulieres in manu, liberi in mancipio, ma anche addicti, nexi, auctoritati, sono tutte classi di esseri umani alieni iuris» (ibidem), sottoposti alla potestà del pater familias, «unico tipo di vivente sui iuris» (ibidem).

III. Lo schiavo, notavamo, è una figura particolarmente rivelatrice in quanto «eternamente sospeso tra la condizione di persona e quella di cosa, cosa con un ruolo di persona e persona ridotta allo stato di cosa, a seconda che si guardi ai compiti effettivi che assolve nella società romana oppure alla sua classificazione strettamente giuridica» (ivi, pp. 95 s.). Infatti, da un lato, egli è quasi la non-persona nella persona, la cosa all’interno della persona, è proprietà del padrone alla stregua di cose e animali, è strumento certo «parlante» ma pur sempre strumento da utilizzare e «in piena balia di colui cui appartiene nei suoi atti e nel suo corpo» (ivi, p. 96), è letteralmente dominato dal suo dominus. Eppure, dall’altro lato, «può, in alcuni casi, rappresentare legalmente il dominus assente o addirittura amministrare un peculium» (ibidem), così come, seppur destituito di ogni personalità giuridica, può «essere sottoposto a pena, purché particolarmente crudele e infamante o anche, sotto tortura, testimoniare davanti a un giudice» (ibidem). Qualora fosse stato ucciso non dal padrone (sempre legittimato a farlo), il suo assassino poteva essere, sempre a seconda della volontà del padrone, condannato per omicidio («come accade quando si procura la morte di una persona»: ibidem), o tenuto al risarcimento pecuniario al proprietario («come se gli avesse sottratto qualsiasi altro bene materiale»: ibidem). La stessa ambiguità la si ritrova nel rituale della vindicatio in servitutem, nel passaggio dalla schiavitù alla libertà o viceversa, caratterizzato da una serie di stati intermedi che rendono «mai definitivamente compiuto e sempre reversibile» (ibidem) il transito da persona a cosa. Se si prende infatti, per esempio, la manumissio, l’affrancamento dello schiavo, si nota che essa, sempre connessa alla volontà sovrana del proprietario, può assumere le tre forme vindicta, testamento e censu:

nella prima l’emancipazione scaturisce dalla circostanza che alla vindicatio in libertatem di colui che, d’accordo col dominus, veste i panni dell’adsertor libertatis, non corrisponde una contravindicatio da parte del padrone. Nella seconda, per testamento, la liberazione avviene solo alla morte di quest’ultimo, con la conseguente estinzione degli obblighi patronali che negli altri casi continuano a vincolare il liberto. Nella terza, infine, la manumissio consiste nella iscrizione, sempre da parte del dominus, dello schiavo nelle liste del censo, e dunque nella sua iscrizione al novero dei cittadini liberi. Ma ciò che caratterizza, in tutte le forme, la procedura di manomissione è sempre la sua incompiutezza – vale a dire la distanza residua, graduata secondo precise misure, rispetto alla condizione di libertà effettiva (ivi, pp. 96 s.).

In altri termini, la liberazione restava sempre in sospeso, lo schiavo veniva considerato statuliber, non semplice liber, o addirittura gli restava preclusa la possibilità di fare testamento, in quanto tornava schiavo al momento della morte. Esisteva persino un istituto, la diminutio capitis (minima, media o maxima) volto alla «depersonalizzazione»: ciò mostra che la libertà, sempre e comunque nella disponibilità del padrone, era limitata nella forma, nell’estensione e nel tempo, venendo intesa «non come una condizione originaria, bensì derivata, cui l’uomo poteva accedere, temporaneamente e occasionalmente, attraverso un processo artificiale di personificazione» (ivi, p. 97).

IV. Non si deve pensare che tutto ciò valesse solo per lo schiavo, perché per il diritto romano nessun uomo era in quanto tale – per natura – persona: persino il liber per divenire pater doveva comunque passare «per lo stato di filius in potestate» (ivi, p. 98), vale a dire che prima di poter rivendicare lo jus vitae ac necis in quanto soggetto di diritto egli doveva essere stato a sua volta oggetto di analoga rivendicazione. Lo statuto di filius nel diritto mostra più di una consonanza con quello dello schiavo, o forse era persino peggiore di quello di quest’ultimo, in quanto – per esempio – il figlio abbandonato o venduto dal padre non diventava nemmeno proprietà del nuovo pater, perché restava in quella del padre naturale (cfr. ivi, pp. 98 s.). La persona, codificata dal diritto come centro individuale, si distingue dalla res in quanto sua proprietaria; il diritto romano compie una prestazione fondamentale che la giurisprudenza moderna non farà che accogliere, riarticolare e riallargare, quella della «separazione presupposta, all’interno dell’essere umano, tra un elemento naturale, corporeo, meramente biologico e un altro trascendente, costituito di volta in volta in centro di imputazione giuridica, razionale, morale» (ivi, p. 118)16. Come aveva intuito Simone Weil, cui Esposito si riallaccia, il diritto romano è diritto di usare e abusare, è legato a una divisione, a uno scambio e una quantità che ne fanno qualcosa di commerciale e legato all’esercizio della forza17: il diritto personale-individuale, sin dalla sua codificazione romana anzi grazie a essa, è un vero e proprio privilegio, qualcosa che include solamente laddove può escludere, è qualcosa di «privato e privativo» (ivi, p. 123), ha un carattere «di per sé particolaristico» (ibidem). È dunque contrario alla comunità e all’uguaglianza: «il privilegio per definizione è diseguale»18, e la diseguaglianza è per sua natura anticomunitaria.

3. L’homo sacer e l’eccezione sovrana

I. Secondo Agamben il fondamento del potere sovrano moderno non va cercato tanto nella libera cessione, da parte dei sudditi, del loro diritto naturale, quanto piuttosto nella conservazione, da parte del sovrano, del suo diritto naturale di fare qualsiasi cosa rispetto a chiunque, di punire chiunque (cfr. HS, p. 118): il sovrano moderno è come il pater romano, il quale non tanto prende in carico dai dominati (schiavi o figli che siano) il loro (supposto, o comunque sempre provvisorio, come notato) diritto personale, quanto piuttosto è l’unico a poter continuamente esercitare il proprio diritto di proprietà e di controllo rispetto a essi. Gli uomini che vengono sottoposti al potere sovrano vengono considerati uguali proprio come i dominati che vengono sottoposti all’autorità della persona romana venivano considerati uguali: in quanto a disposizione, persino in quanto uccidibili (cfr. p. e. Hobbes, De cive, I, 3)19. Nei termini di Agamben, la sovranità moderna considera politica la vita solamente in quanto vita sacra, ossia uccidibile ma insacrificabile (uccidibile proprio in quanto insacrificabile e viceversa).

II. Per definire la figura della sacralità connessa alla vita umana Agamben si rifà proprio a una figura del diritto romano arcaico: «at homo sacer is est, quem populus iudicavit ob maleficium; neque fas est eum immolari, sed qui occidit, parricidi non damnatur; nam lege tribunicia prima cavetur “si quis eum, qui eo plebei scito sacer sit, occiderit, parricida ne sit”. Ex quo quivis homo malus atque improbus sacer appellari solet» (HS, p. 79)20. Sacro viene dunque definito dal diritto romano quell’uomo la cui uccisione resta impunita ma il cui sacrificio resta interdetto: se è vietato violare qualsiasi cosa sacra, è invece non sacrilego uccidere l’uomo sacro, se ogni uccisione viene punita dalla legge, è invece lecito uccidere l’uomo sacro. L’uomo sacro si pone così all’interno del diritto come colui che è al di fuori tanto dello ius divinum (non può essere sacrificato secondo le prassi rituali) quanto dello ius humanum (è uccidibile da tutti senza punizione): lascia entrambi in sospeso proprio nel momento in cui ne conferma l’esistenza in maniera più radicale. In altre parole, l’homo sacer, restando a metà tra giurisdizione divina e umana, si pone in una zona di indistinzione tra il diritto e la sua applicazione, nel senso che attraverso di lui il diritto è all’opera attraverso la sua disattivazione: il diritto viene messo letteralmente in sospeso attraverso una duplice eccezione (cfr. ivi, pp. 80-82 e 90 s.). «La vita insacrificabile e, tuttavia, uccidibile, è la vita sacra» (ivi, p. 91): essa occupa lo stato di eccezione, appartiene a Dio nella forma della non sacrificabilità ed è inclusa nella comunità nella forma dell’uccidibilità, laddove l’appartenenza a Dio è normalmente definita dalla sacrificabilità e l’inclusione nella comunità dalla non uccidibilità.

III. L’homo sacer, suggerisce Agamben, va considerato come la figura originaria «della vita presa nel bando sovrano» (ivi, p. 92), ciò che è catturato in esso è «una vita umana uccidibile e insacrificabile: l’homo sacer» (ibidem), il suddito in quanto tale. Ciò significa che il diritto romano ha codificato la struttura essenziale della sovranità moderna, la quale ha in carico la gestione delle vite dei singoli proprio in quanto può negarle: «sovrana è la sfera in cui si può uccidere senza commettere omicidio e senza celebrare un sacrificio e sacra, cioè uccidibile e insacrificabile, è la vita che è stata catturata in questa sfera» (ibidem). La legge conosce un caso in cui essa manifesta in tutta la sua potenza la sua capacità di applicazione: quando si applica disapplicandosi, come accade nel caso dell’eccezione, momento in cui la legge si consegna a una pura vigenza senza alcun significato (Geltung ohne Bedeutung), in cui avviene il pieno abbandono al bando sovrano, che accosta e lega al proprio controllo con più forza proprio ciò che considera bandito rispetto all’ordine sociale (cfr. ivi, pp. 34, 59, 68, 122 s.)21. In tale momento la sovranità rivela il suo volto, la sua capacità di includere per esclusione e di escludere per inclusione: «sovrano è colui rispetto al quale tutti gli uomini sono potenzialmente homines sacri e homo sacer è colui rispetto al quale tutti gli uomini agiscono come sovrani» (ivi, pp. 93 s.).

IV. Potremmo anche dire: il sovrano è il pater dei sudditi considerati quali «figli adottivi» del padre imperator22. Foucault affermava che uno dei privilegi caratteristici del potere sovrano è stato sempre la vitae necisque potestas: ebbene, tale potestà è stata originariamente definita dal diritto romano, come «incondizionata potestà del pater sui figli maschi» (ivi, p. 97). Nel diritto romano vita è un concetto non giuridico, indica cioè il semplice fatto di vivere o un particolare modo di vita, tranne che proprio nell’espressione vitae necisque potestas, in cui diventa un vero e proprio terminus technicus. Per Agamben questo mostrerebbe come nel diritto romano la vita appare solo «come controparte di un potere che minaccia la morte» (ibidem), di un potere dunque assoluto, quello che «scaturisce immediatamente e unicamente dal rapporto padre-figlio» (ivi, p. 98), che fa sì che il cittadino maschio libero si trovi di per sé in una condizione di «uccidibilità virtuale» (ivi, p. 100), di sacralità rispetto al pater, potere esteso in seguito all’intera sfera pubblica: «l’imperium del magistrato non è che la vitae necisque potestas del padre estesa nei confronti di tutti i cittadini» (ivi, p. 99). La vita considerata politicamente dal diritto romano è dunque quella sacra, perennemente esposta alla morte eppure proprio per questo non sacrificabile e non punibile: attraverso il diritto romano la vita «si politicizza attraverso la sua stessa uccidibilità» (ibidem), ossia soltanto tramite «l’abbandono a un potere incondizionato di morte» (ivi, p. 101). È solo a partire dall’orizzonte aperto dal diritto romano, sostiene Agamben, che nella modernità il potere supremo potrà essere concepito come «la capacità di costituire sé e gli altri come vita uccidibile e insacrificabile» (ivi, p. 113): persino il sovrano stesso si ritroverà investito della sacertà, di modo che la sua uccisione – crimine di lesa maestà – verrà considerata non un semplice omicidio (qualcosa di più, nel suo caso), e proprio per questo non potrà avvenire semplicemente seguendo i riti ordinari e le forme sancite (cfr. ivi, pp. 114 s.)23.

V. La politica moderna potrà prendere così in gestione la vita sacra in quanto nuda vita, sostiene Agamben, quella stessa nackte Leben che per Engels è quanto resta – e a malapena – dopo l’Auflösung der Menschheit in monadi da parte dello Scheidungprozess del capitalismo, modalità di produzione e di organizzazione sociale che dichiara apertamente la soziale Krieg, il bellum omnium contra omnes tanto temuto da Hobbes: «ognuno sfrutta l’altro, e ne deriva che il più forte si mette sotto i piedi il più debole, a malapena resta la nuda vita»24, in una situazione in cui «ciascuno vede nel suo prossimo un nemico da togliere di mezzo o tutt’al più uno strumento da sfruttare per i propri fini»25, e «questa guerra di tutti contro tutti non può stupirci, poiché non è altro che la concreta attuazione del principio già insito nella libera concorrenza»26. La vita viene così totalmente denudata e privata della sua essenza umana, quasi sino a scomparire – appaiono ancora tristemente valide alcune cupe parole di Adorno: «quella che un tempo i filosofi chiamavano vita, si è ridotta alla sfera del privato, e poi del puro e semplice consumo, che non è più se non un’appendice del processo materiale della produzione, senza autonomia e senza sostanza propria. […] Lo sguardo aperto sulla vita è trapassato nell’ideologia, che nasconde il fatto che non c’è più vita alcuna»27.

Note

1 Faremo riferimento in particolar modo a R. Esposito, Terza persona. Politica della vita e filosofia dell’impersonale, Einaudi, Torino 2007 (d’ora in poi TP in corpo testo) e G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995 (d’ora in poi HS in corpo testo).
2 È l’affermazione del Nobel per l’Economia del 1986 James M. Buchanan in: Il socialismo è finito, il Leviatano vive (1990), tr. it. di G. De Santis, in AA. VV., Le libertà dei contemporanei. Conferenze “Fulvio Guerrini” 1984-1993, presentazione di P. Ostellino, Centro di Ricerca e Documentazione “Luigi Einaudi”, Torino 1993, pp. 161-172.
3 Cfr. G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia (1840), vol. I, a cura di E. Codignola e C. Sanna, Sansoni, Firenze 1947, pp. 182 e 279 s.
4 Cfr. T. Hobbes, De cive. Elementi filosofici sul cittadino (1649), a cura di T. Magri, Editori Riuniti, Roma 2005, p. 25.
5 Cfr. J. Locke, Due trattati sul governo e altri scritti politici (1690), a cura di L. Pareyson, UTET, Torino 1982, pp. 247-263.
6 Cfr. T. Hobbes, Leviatano (1651), a cura di R. Santi, Bompiani, Milano 2001, pp. 275-303.
7 K. Marx, Manoscritti economici-filosofici del 1844, a cura di N. Bobbio, Einaudi, Torino 2004, p. 102.
8 Ivi, p. 101. Altrove Marx affermava che gli individui sussunti alla forma-merce «si riconoscono reciprocamente come proprietari, come persone la cui volontà permea le loro merci. Qui entra in ballo il momento giuridico della persona, e della libertà nella misura in cui vi è contenuta» (K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (1857-1858), 2 voll., tr. it. di E. Grillo, La Nuova Italia, Firenze 1997, p. 231).
9 cfr. K. Marx, La questione ebraica (1844), in B. Bauer – K. Marx, La questione ebraica, a cura di M. Tomba, Manifestolibri, Roma 2004, pp. 173-206: 193.
10 Ibidem.
11 Ibidem.
12 Ivi, p. 194.
13 K. Marx- F. Engels, La Sacra famiglia, ovvero Critica della critica critica. Contro Bruno Bauer e soci (1845), in K. Marx – F. Engels, Opere, IV: 1844-1845, a cura di A. Scarponi, Editori Riuniti, Roma 1972, pp. 3-234: 134 s. Come ha scritto Charles Taylor, non solo «vivere in società è una condizione necessaria dello sviluppo della razionalità, in uno dei possibili sensi di questa proprietà, o della trasformazione [becoming] in un agente morale nel senso pieno del termine, o in un essere autonomo pienamente responsabile» (C. Taylor, Atomism, in Id., Philosophical Papers II: Philosophy and the Human Sciences, Cambridge University Press, Cambridge 1985, pp. 187-210: 191), ma persino «essere un individuo non equivale a essere un Robinson Crusoe; significa piuttosto essere collocato in un certo modo tra gli altri uomini» (C. Taylor, L’età secolare (2007), tr. it. di P. Costa e M. C. Sircana, a cura di P. Costa, Feltrinelli, Milano 2009, p. 206): persino l’asocialità è socialmente determinata ed è resa possibile solo a partire da un orizzonte sociale di fondo.
14 Marx ed Engels possono così scrivere: «solo nella comunità [Gemeinschaft] con altri ciascun individuo ha i mezzi per sviluppare in tutti i sensi le sue disposizioni; solo nella comunità diventa possibile la libertà personale […]. Nella comunità reale gli individui acquistano la loro libertà nella loro associazione [Assoziation] e per mezzo di essa» (K. Marx – F. Engels, L’ideologia tedesca. Critica della più recente filosofia tedesca nei suoi rappresentanti Feuerbach, B. Bauer e Stirner, e del socialismo tedesco nei suoi vari profeti (1845-1846), tr. it. di B. Codino, introduzione di C. Luporini, Editori Riuniti, Roma 1975, pp. 54 s.). Proprio per questo nella kommunistische Gesellschaft lo sviluppo originale e libero degli individui non può che essere condizionato dalla Zusammenhang fra essi (cfr. ivi, p. 430), vale a dire che la società comunista certo non nega l’individualità, ma riconosce che la società non è costituita da individui, quanto piuttosto dalle relazioni materiali tra di essi (questo è il cum del comunismo): la vita individuale «abbraccia una grande cerchia di molteplici attività [Tätigkeiten] e relazioni [Beziehungen] pratiche con il mondo» (ivi, p. 245); «la società non consiste di individui [Individuen], bensì esprime la somma delle relazioni [Beziehungen], dei rapporti [Verhältnisse] in cui questi individui stanno l’uno rispetto all’altro» (K. Marx, Lineamenti fondamentali, cit., p. 242). In caso contrario si dà vita a vere e proprie Robinsonaden, «robinsonate» per le quali il punto di partenza viene considerato l’einzelne und vereinzelte individuo (cfr. ivi, pp. 3 s.), mentre persino l’interesse privato è configurabile solamente come elemento sociale, vale a dire che è possibile pensarsi come individui solo all’interno di una società che ha già posto i presupposti per farlo, ed è per questo che Marx poteva scrivere: «si tratta di interesse dei privati; ma il suo contenuto, come la forma e i mezzi della sua realizzazione, sono dati da condizioni sociali indipendenti da tutti. La mutua e generale dipendenza degli individui reciprocamente indifferenti [der gegeneinander gleichgültigen Individuen] costituisce il loro nesso sociale» (ivi, pp. 96 s.). Per un approfondimento di queste tematiche rimandiamo a L. Basso, Socialità e isolamento: la singolarità in Marx, Carocci, Roma 2008.
15 Cfr. K. Marx, Tesi su Feuerbach (1845), in K. Marx – F. Engels, Opere, V: 1845-1846, a cura di F. Codino, Editori Riuniti, Roma 1972, pp. 3-5.
16 Non deve allora sorprendere, sottolinea Esposito, che oggi alcuni tra i più importanti bioeticisti liberali (come Engelhardt o Singer) facciano esplicitamente riferimento al diritto romano, e in particolare alle figure di transito tra persona e cosa della manumissio e della municipatio, per articolare la loro concezione della persona (cfr. ivi, pp. 118-122).
17 Il riferimento di Esposito è allo scritto La persona e il sacro, dove tra le altre cose leggiamo: «la nozione di diritto è legata a quella di divisione, di scambio, di quantità. Ha qualcosa di commerciale. Evoca di per sé il processo, l’arringa. Il diritto non si sostiene che col tono della rivendicazione; e quando questo tono è adottato, la forza non è lontana, è subito dietro, per confermarlo, se no sarebbe ridicolo. […] Lodare l’antica Roma per averci trasmesso la nozione di diritto è singolarmente scandaloso. Perché se si vuole esaminare ciò che tale nozione era in origine, al fine di determinarne la specie, si vede che la proprietà era definita dal diritto di usare e abusare. E in effetti la maggior parte di quelle cose di cui ogni proprietario aveva il diritto di usare e abusare erano esseri umani. […] La nozione di diritto trascina naturalmente dietro di sé, per via della sua stessa mediocrità, quella di persona, perché il diritto è relativo alle cose personali. È situato a questo livello. Aggiungendo alla parola diritto quella di persona, il che implica il diritto della persona a ciò che si chiama la propria realizzazione, si farebbe un male ancora più grave» (in R. Esposito (a cura di), Oltre la politica. Antologia del pensiero impolitico, Mondadori, Milano 1996, pp. 75-78).
18 S. Weil, La persona e il sacro, cit., p. 78.
19 Cfr. T. Hobbes, De cive, cit., p. 23.
20 «Uomo sacro è, però, colui che il popolo ha giudicato per un delitto; e non è lecito sacrificarlo, ma chi lo uccide, non sarà condannato per omicidio; infatti nella prima legge tribunizia si avverte che “se qualcuno ucciderà colui che per plebiscito è sacro, non sarà considerato omicida”. Di qui viene che un uomo malvagio o impuro suole essere chiamato sacro».
21 Stato in cui, come negli ultimi mesi accade sempre più spesso in Italia ma non solo, a essere considerata normale è l’emergenza (nonché, con essa, il rischio e il pericolo).
22 Situazione che noi in Italia stiamo vivendo in maniera drastica negli ultimi mesi: colui che controlla governo, principali mezzi di comunicazione e di informazione e gran parte del movimento economico del nostro paese si ritrova a essere considerato come dispensatore personale (e spesso nei confronti di persone perlomeno poco raccomandabili) di ricchezze, di posti di lavoro, di abitazioni, persino di incarichi politici, come padre padrone di parlamentari, «attrici», politici, imprenditori, come vero e proprio detentore di un potere totale sulle vite di questi, costretti ad accettare la totale dipendenza per poter aspirare a una qualche forma di (evidentemente menzognera) indipendenza.
23 Analogamente a come un processo nei confronti dei parlamentari italiani deve passare attraverso il filtro dell’immunità e della votazione del Parlamento, o a come un processo per prostituzione minorile rivolto nei confronti di un esponente del Governo italiano (o, come ben sappiamo, del Capo di esso) può dover essere istituito presso lo specifico Tribunale del Consiglio dei Ministri.
24 F. Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra (1844), in K. Marx – F. Engels, Opere, IV, cit., pp. 235-514: 263.
25 Ivi, p. 362.
26 Ibidem.
27 T. W. Adorno, Minima moralia. Meditazioni sulla vita offesa (1951), tr. it. di R. Solmi, introduzione e nota di L. Ceppa, Einaudi, Torino 1994, p. 3.

Costanzo Preve – Recensione a: Carmine Fiorillo – Luca Grecchi, «Il necessario fondamento umanistico del “comunismo”», Petite Plaisance, Pistoia, 2013

 

 

Il necessario fondamento umanistico del comunismo

http://www.petiteplaisance.it/libri/151-200/198/int198.html

 

Ho letto ed annotato con estrema attenzione il saggio di Fiorillo e di Grecchi, e ritengo di averne capito non solo la lettera e lo spirito, ma anche l’elemento qualitativo differenziale che lo distingue da altri consimili saggi dedicati al comunismo.
Personalmente condivido integralmente questo elemento qualitativo differenziale, assolutamente estraneo e scandaloso per la stragrande maggioranza dei pochi che ancora oggi si dichiarano “marxisti”, e cioè la necessità di trovare l’unico serio fondamento del comunismo nella natura umana, opportunamente definita e ricostruita. Per questa ragione espongo qui alcune note personali, non complementari ma convergenti. Il lettore si accorgerà da solo se vi saranno eventuali differenze (il diavolo si nasconde sempre nel dettaglio!).

In Marx si incontra nella stessa persona un filosofo idealista ed un sociologo materialista, passato anche attraverso una critica della economia politica. Come rileva correttamente il saggio, è fuorviante (e faccio ammenda io stesso) parlare per Marx di “cantiere in costruzione”, senza contare l’orribile espressione di “cassetta degli attrezzi”. A modo suo, infatti, Marx ha coerentizzato il suo pensiero, mentre non ha assolutamente coerentizzato quello che poi fu chiamato “marxismo”, la cui coerentizzazione fu compiuta per committenza esterna ed indiretta della socialdemocrazia tedesca nel ventennio 1875-1895. Si trattava però di una coerentizzazione contraddittoria ed instabile, che non permette di trovarvi una fondazione filosofica del comunismo.
Marx fu un filosofo idealista implicito, in cui l’idealismo esisteva in penombra come ricostruzione narrativa della storia universale intesa come teatro del riconoscimento dei soggetti, laddove era invece negato e rimosso sul piano esplicito, attraverso la propria errata auto-interpretazione di materialista scientifico e post-filosofico.
Marx fu un sociologo materialista, in cui la “materia” era metaforizzata attraverso il modello storico-economico discontinuo e non narrativo di modo di produzione. Questo “materialismo”, metafora infelice e fuorviante di riferimento scientifico-strutturale alla creatività dei modi di produzione, era indebolito da elementi deterministici, necessitaristici e teleologici che attribuivano di fatto (erroneamente) al modo di produzione capitalistico una tendenza evolutiva immanente necessaria in direzione della produzione comunista.
Questa tendenza evolutiva immanente non esiste, ed i quasi due secoli trascorsi da allora lo hanno abbondantemente mostrato. Al massimo è possibile parlare, ed anche qui con molte riserve, di “potenzialità immanente”, nel senso del termine aristotelico di dynamei on. Oltre non si può proprio andare. E da qui deve ripartire la discussione.

Il fallimento del comunismo storico novecentesco realmente esistito, evidente sia in Russia che in Cina, richiede una spiegazione storica, che a mio avviso è largamente compatibile con la teoria marxiana delle classi, delle forze produttive e dei rapporti sociali di produzione.
Nato in modo assolutamente aleatorio nel 1917 (non esisteva nessuna legge storica da cui ricavarlo, anche se l’ideologia comunista successiva lo fece), esso fu costruito sotto una cupola geodesica protetta (chiamata “totalitarismo” dai suoi critici liberali) e supplì alla scandalosa e manifesta incapacità di egemonia strategica delle classi degli operai di fabbrica e dei contadini poveri con una struttura dispotica accentrata, erroneamente definita “burocrazia” sia dai critici liberali che dai critici anarchici e trotzkisti, che non capirono mai che questa presunta (ed inesistente) burocrazia era soltanto il modo demonizzante di chiamare la totale incapacità di autogoverno politico diretto e di autogestione economica diretta della presunta classe messianico-salvifica operaia, salariata e proletaria (e contadina in Cina). Le ossa di uno scheletro furono scambiate per zecche e parassiti.
In forme diverse ma convergenti in Russia ed in Cina si realizzò una maestosa controrivoluzione sociale delle nuove classi medie “comuniste”, che portò in Russia ad una piena restaurazione del capitalismo ed in Cina ad un riassestamento su basi capitalistiche del vecchio modo di produzione asiatico, mai del tutto tramontato (si confrontino le tesi di M. Bontempelli in propostito). Lungi dall’essere stata la prova del fallimento del metodo di Marx, gli avvenimenti degli ultimi decenni ne sono una paradossale conferma.
Il comunismo storico novecentesco è un fenomeno storicamente legittimo ma anche epocalmente chiuso, e cioè conchiuso.

A differenza della interpretazione che ne vede il fallimento e l’integrazione nel capitalismo in un progressivo abbandono della originaria matrice “di sinistra”, il socialismo europeo realizzò questa integrazione subalterna proprio attraverso l’accoglimento e l’inserimento nella dicotomia Destra/Sinistra. Questa dicotomia era assolutamente estranea a Marx, che non fu mai “di sinistra” e non si dichiarò mai tale. La parlamentarizzazione del socialismo avvenne invece con l’adozione di una stratificata eredità illuminista, positivista e “progressista”, risvolto subalterno della ideologia borghese allora dominante. La “sinistra” è una sorta di emulsione valoriale, che dà luogo a tipi antropologici di massa altamente instabili, perché dipendenti da un fattore esogeno fuori del loro controllo chiamato “modernizzazione”. Ciò fu segnalato precocemente da George Sorel, e se ne può trovare un aggiornamento ai tempi nostri nelle opere di Jean-Claude Michéa.
L’emulsione valoriale instabile chiamata “sinistra” non poteva “chimicamente” resistere ai maestosi processi di integrazione culturale e sociale del capitalismo, che marxianamente definirei l’unico movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti. Questo avrebbe dovuto portare in tempi ragionevoli, a proposito del pensiero di Marx, non certo ad interminabili ricostruzioni filologiche, ma ad un radicale riorientamento gestaltico e soprattutto all’inserimento di Marx in una sequenza metafisica alternativa. Questo non avvenne, e non poteva avvenire, perché coloro che il popolo considerava erroneamente “intellettuali marxisti” erano semplicemente un settore rissoso degli “intellettuali di estrema sinistra”. È bene quindi utilizzare il saggio di Fiorillo e Grecchi come una occasione per riprendere da capo una discussione sul comunismo.

Il carattere normativo della natura umana è necessariamente “ideale”, perché è di evidenza empirica che concretamente tutti gli uomini sono diversi l’uno dall’altro. Non si deve però pensare che questo carattere normativo della natura umana sia solo un contingente arbitrio opinabile di alcuni candidati al dominio ed alla manipolazione, anche se ovviamente la storia delle ideologie classiste è piena di casi del genere. Il carattere normativo della natura umana, per usare il linguaggio di Karl Polanyi, non è altro che il risvolto filosofico dell’inserimento organico dell’imprescindibile fattore economico nella riproduzione sociale complessiva. E infatti oggi, in cui per la prima volta nella storia comparata della umanità l’economia appare integralmente autonomizzata da qualunque normatività sociale, il riflesso filosofico indiretto di questo fenomeno è il relativismo ed il nichilismo (più esattamente il relativismo etico ed il nichilismo ontologico). Una volta compreso questo nesso, la via per una corretta comprensione del saggio di Fiorillo e Grecchi è aperta.

Il carattere normativo della natura umana stava alla base del pensiero greco classico, ed è anzi il più rilevante elemento comune fra la filosofia di Platone e quella di Aristotele, diverse sotto molti aspetti. E questo non è un caso, perché il pensiero greco non derivava da una corretta interpretazione di una rivelazione monoteistica trascendente, ma si autofondava integralmente sul logos, termine che significa certamente anche linguaggio e ragione, ma indica soprattutto il calcolo sociale equilibrato del potere e della ricchezza. L’autofondazione sul logos portava così automaticamente il pensiero greco ad una concezione normativa della natura umana. I maestri greci non erano certamente “maestri del sospetto”, come frettolosamente un pur benemerito (ma confusionario) filosofo francese definì Marx, Nietzsche e Freud, e non pensavano certamente che una teoria normativa della natura umana portasse a strategie di disciplinamento e di addomesticamento autoritario, come pensava il benemerito (ma confusionario) Foucault. L’elemento paradossale sta in ciò, che l’autonomizzazione cannibalica della economia (nel linguaggio dei nostri autori, la crematistica) è in realtà il vero fattore di disciplinamento e di addomesticamento sociale manipolatorio, mentre una razionale teoria del carattere normativo della natura umana ne sarebbe l’antidoto ed il raddrizzamento.
La trasformazione della filosofia da luogo della saggezza comunitaria a luogo del sospetto reciproco non è ovviamente solo un “errore” di benintenzionati confusionari come Ricoeur e Foucault. Si tratta, in linguaggio marxiano, del riflesso sovrastrutturale di uno svuotamento della razionalità filosofica comunitaria da parte di un’economia automatizzata. Nel linguaggio di Bertolt Brecht, il condannato a morte dubbioso, già sotto la mannaia del boia, si chiede se alla fine anche il boia non sia un uomo.

A proposito della religione cristiana, di cui non discuto le tre varianti cattolica, protestante ed ortodossa, il problema fondamentale non sta tanto nel fatto che essa abbia predicato la collaborazione di classe (lo stesso comunismo storico novecentesco si è basato su questo stesso principio, ad esempio nei fronti popolari e nelle alleanze antifasciste), quanto nel fatto che essa ha troppo spesso predicato la sopportazione di classe. Ora, la sopportazione di classe, e cioè la sopportazione di ingiustizie distributive insopportabili, non può fondarsi su di una teoria del carattere normativo della natura umana, ma solo su teorie di tipo diverso, come il peccato originale ebraico o la predestinazione calvinista, e fra le due non so quale sia la più odiosa ed infondata.
Personalmente, avevo sopravvalutato la tendenza di Ratzinger a tornare ad una concezione aristotelica di natura umana, indubbiamente buona e razionale, sottovalutando il processo di incorporazione della chiesa cattolica nelle strategie di dominio geopolitico dell’impero americano. Con questo, non nego la correttezza del rimando al carattere umanistico di fondo del cristianesimo, e mi schiero così con Hegel e non con Nietzsche.

A proposito di Hegel, faccio riferimento ad una nota del libro, in cui è citato un noto accademico “comunista” che sostiene che il termine hegeliano di “sapere assoluto” è presuntuoso e metafisico (sic!), perché oggi noi sappiamo che ogni sapere è relativo, perché storicamente determinato. Vi sono molti aspetti da considerare, ma qui mi fermerò ad esaminarne due.
In primo luogo, Remo Bodei ha a suo tempo parlato di “interpretazioni manicomiali” di Hegel. In questo caso il termine di “sapere assoluto” nel senso hegeliano autentico del termine non può essere presuntuoso e metafisico, ma semmai il contrario, perché ab-solutus, secondo lo stesso etimo latino, significa sciolto da ogni determinazione oggettiva. Se così non fosse stato, Hegel avrebbe posto lo Stato nella sfera della assolutezza, e non in quella della oggettività.
Hegel conosce perfettamente il carattere storico delle diverse forme di arte, religione e filosofia, ma non vuole vincolarne il carattere veritativo alla relatività di determinati momenti spazio-temporali. In ogni caso, il fraintendimento di Hegel da circa due secoli è un fatto sociale totale (per dirla con Durkheim), legato proprio al fatto che la sovranità assoluta dell’economia crematistica sulla società deve sistematicamente diffamare il pensatore che più di tutti gli altri nella modernità ha rivendicato la sovranità della filosofia nella riproduzione comunitaria. Il fraintendimento manicomiale di Hegel è quindi del tutto fisiologico e strutturale.
In secondo luogo, a proposito delle note sulla interpretazione hegeliana di Roberto Fineschi (cui potrei aggiungere l’atteggiamento ambiguo verso Hegel del Lukács della Ontologia dell’essere sociale), è interessante che il buon marxista politicamente corretto, anche nel caso che sia largamente disposto a riconoscere i debiti di Marx verso Hegel non limitandoli agli anni prima del 1845, sente alla fine una irresistibile coazione a “staccare” lo scientifico Marx dal metafisico Hegel, avendo introiettato l’esigenza di purezza della vera scienza sociale contro la contaminazione metafisica. Non scendo qui nei particolari, che sarebbero numerosi e tutti pittoreschi. Basterà ricordare ancora una volta che tutte le strategie di “decontaminazione anti-metafisica” di Marx falliscono inevitabilmente, dato il carattere profondamente metafisico (sia pure reticente ed implicito) dell’autore stesso.
Alla fine, chi vuole il comunismo senza la metafisica non avrà probabilmente la metafisica, ma non avrà neppure sicuramente il comunismo.

Il riferimento a Hegel permette anche di soffermarsi sulla teoria marxiana della estinzione dello Stato, che gli autori del saggio respingono come incompatibile con il principio della pianificazione economica comunitaria. Dal momento che sono d’accordo nell’essenziale con questa tesi (gli autori ricordano opportunamente i nomi di Losurdo e di Zolo), ne approfitto per cercare di individuare genealogicamente le due fonti principali di questa insostenibile concezione marxiana. Esse sono, in breve, Fichte e Saint Simon.
Per Fichte lo Stato è una necessità che risponde alla peccaminosità umana, superabile in via di principio ma non ancora storicamente superata. In un mondo non peccaminoso, quindi, si potrebbe e si dovrebbe vivere senza bisogno dello Stato. Nel frattempo, aspettando il superamento dell’epoca della compiuta peccaminosità, Fichte sostiene uno Stato commerciale chiuso, che prefigura l’autarchia economica di molti Stati comunisti novecenteschi, e che è comunque lontanissimo dalla teologia bocconiana liberale di Draghi e di Monti.
Per Saint Simon una automatica “amministrazione delle cose”, priva di ogni carattere politico determinato, sostituirà in futuro lo Stato politico. Ed io penso che la teoria marxiana della estinzione dello Stato, dipendente da una cattiva utopia della trasparenza e dell’abbondanza entrambe illimitate, sia il frutto inconsapevole di una fusione fra l’elemento romantico-idealistico di Fichte e l’elemento proto-positivistico di Saint Simon. Il tutto, sovrapposto alla dinamica dello sviluppo del modo di produzione capitalistico, porta ad un inquinamento del carattere “scientifico” che i vari Fineschi vogliono ad ogni costo riservare al loro beniamino.

Voglio però affrontare l’aspetto forse più problematico del saggio, il rilievo fatto a Marx ed Engels (a partire dal loro Manifesto del 1848) di essere eccessivamente conflittualisti. Si tratta di un rilievo che può sembrare a prima vista simile alla critica della dottrina sociale della chiesa cattolica alla centralità nel comunismo della lotta di classe, e simile anche a certe dottrine orientali basate sulla rinuncia e sulla armonia, che la conflittualità necessariamente impedisce o rende difficili.
So bene che l’impronta generale del saggio non intende assolutamente delegittimare la lotta di classe. D’altra parte, nei casi storici (rari) in cui si manifesta in modo esplicito, la lotta di classe è un fatto, non un’opinione. Cosa ben diversa è la mentalità conflittualista, cui a volte nel senso comune popolare i comunisti vengono associati, provocando sospetto ed avversione in chi cerca spesso soltanto una modesta tranquillità.
La teoria originale del conflitto di Marx deriva a mio avviso al cento per cento da quella di Hegel, che sunteggerò in questo modo: il conflitto è immanente ed ineliminabile dalla storia, perché tende al riconoscimento da parte dei soggetti sfavoriti; finché questo riconoscimento non avviene (o non avviene adeguatamente), la conciliazione è impossibile, e non è neppure auspicabile, perché si baserebbe sulla ingiustizia; non esiste però e non può esistere una conciliazione finale e definitiva, perché essa coinciderebbe con la fine della storia.
Come si vede, una adeguata analisi della teoria del conflitto in Marx presuppone chiarezza sul fatto che in Hegel non esiste una teoria della fine della storia. La conciliazione ideale può avvenire soltanto sul piano ideale della Scienza della Logica, che non è però un coperchio di una pentola sovrapposta alla storia umana reale; l’unica storia è quella tracciata dalla Fenomenologia dello Spirito, nel senso che non esistono figure “definitive”, ma l’ultima figura è sempre provvisoria, e prolungandosi nel futuro di due secoli, ce ne saranno almeno altre quindici ancora inedite.
Il comunismo, quindi, non può essere inteso come la fine della storia. Polemizzare correttamente contro la metafisica del conflittualismo permanente, risultante probabilmente dalla confluenza della mentalità sindacalistica con quella delle avanguardie storiche anti-borghesi “distruttrici” non significa e non deve significare una adesione implicita a concezioni della armonia sociale finalmente raggiunta, come i due autori sanno bene.

Se ho un rilievo filosofico da fare a questo saggio, esso sta nel fatto che a mio avviso è di fatto sottovalutata la differenza qualitativa fra Platone ed Aristotele, in primo luogo, e fra la dialettica di Pitagora e Platone e la dialettica di Hegel e Marx, in secondo luogo. Naturalmente, so bene che gli autori sono bene informati su queste differenze, ma altro è essere informati ed altro è tenerne realmente conto metabolizzandole nel proprio pensiero. Gli autori intendono sottolineare il fatto che il problema del comunismo attraversa l’intera storia umana, e non nasce dalla genialità miracolosa di Marx ed Engels nel 1848. E tuttavia, un eccessivo “continuismo” può pregiudicare l’effetto di straniamento che i due autori si ripromettono. Per questo, qualche nota aggiuntiva non sarà forse inutile.
Platone ed Aristotele erano entrambi ispirati dall’umanesimo anticrematistico, anche se in loro (a mio avviso) non poteva esserci una vera filosofia della storia, che presuppone logicamente e storicamente l’unificazione omogena della temporalità risultante da una forma di monoteismo (del tutto assente negli antichi). L’insistenza delle numerose opere di Grecchi su questo punto è decisiva, e per ora è non casualmente ignorata o ammessa a mezza bocca per poterla depotenziare (magari con la scusa che tutti i filosofi sono anticrematistici, avendo deciso di passare la vita a leggere libri inutili anziché diventare speculatori di borsa). E tuttavia fra l’umanesimo anticrematistico di Platone e l’umanesimo anticrematistico di Aristotele, esiste una differenza qualitativa gigantesca, perché il secondo rifiuta il pitagorismo geometrizzante del primo applicato alla modellistica politica ideale. Non si tratta di una differenza da poco. Mettere al posto della causa formale geometrizzante la causa finale del “vivere bene” (eu zen) della comunità comporta il tener conto praticamente dei modi in cui tutti i cittadini concepiscono le forme della loro convivenza. So bene che in sede di storia della filosofia Platone era “comunista” mentre Aristotele non lo era (era al massimo per una economia regolata contro una crematistica sregolata). E tuttavia se vogliamo rinunciare l’idea di comunismo bisogna essere aristotelici, non platonici. Meglio una disuguaglianza moderata ed una piccola economia mercantile sotto controllo comunitario (e cioè di uno Stato democratico-comunitario) piuttosto di una progettualità matematizzante destinata a mio avviso alla catastrofe finale.
È noto che Platone e Hegel erano entrambi idealisti. Ma qui non si tratta di superare un esame universitario sui dettagli del loro pensiero, quanto prendere atto del fatto che la dialettica hegeliana (a mio avviso al cento per cento simile a quella marxiana, anche se ragioni di spazio mi sconsigliano di fornirne una adeguata dimostrazione) rompe con il modello geometrico-piatgorico, ed introduce una potenziale “interminabilità” del flusso storico che si determina bensì, ma non si determina mai una volta per tutte.

Il principio generale della evoluzione (di cui il saggio non parla mai, ma che mi permetto di introdurre) ci dice che anche la natura umana, insieme con il suo carattere normativo, evolve. So benissimo che si tratta del grande argomento di ogni relativismo, ma a mio avviso per poter svuotare questo argomento bisogna prima prenderlo in considerazione e non evitarlo. Io parto dal fatto che in tutte le civiltà umane (indo-europei, cinesi, indiani, incas, ecc.) esistono costanti di comportamento, che nel corso del tempo furono definite “umanesimo”, a fianco di comportamenti storici e religiosi molto diversi, la cui diversità è però spesso un valore da riconoscere, e non un “ritardo” da eliminare, come per secoli lo ritenne il pregiudizio occidentalistico, prima religioso e poi “laico”. Il carattere normativo della natura umana, base del comunismo, deve quindi essere inteso processualmente come universalizzazione contraddittoria e (necessariamente) agonistica, e non come restaurazione di una origine nel frattempo decaduta e perduta. So bene che questa non è la posizione degli autori del saggio, ma l’equivoco può facilmente farsi strada. Pensiamo a come Lucio Colletti ebbe buon gioco nel liquidare l’intero marxismo comunista come restaurazione utopica di un intero originario perduto.

Una breve riflessione incidentale sull’utopia, o meglio sull’elemento utopico del comunismo. Il saggio vi dà un certo spazio, e ricorda anche le poco note utopie stoiche antiche (L. Bertelli). Personalmente sarei più cauto, per ragioni che cercherò sommariamente di segnalare.
Ogni coerentizzazione del pensiero originale di Marx, compiuta al di fuori dei “tifosi” che vogliono a tutti i costi farlo diventare “scientifico” nonostante la presenza di fastidiosi residui metafisici hegeliani, porta alla conclusione che Marx realizzò un ossimoro insostenibile, e cioè una scienza utopica. Per non diventare schiavi delle parole bisogna a mio avviso tagliare decisamente il nodo gordiano, e concluderne che una scienza utopica o bisogna lasciarla com’è, ma allora è inutilizzabile, oppure bisogna disarticolarla, e cioè ridefinirne radicalmente sia il presunto elemento scientifico che il presunto elemento utopico.
A proposito della scienza, con buona pace di Engels e di Althusser (e di cento altri), il comunismo di Marx non è una scienza, né nel senso di scienza filosofica di Hegel (perché non crede esplicitamente nella veritatività sistematica della filosofia idealistica), né nel senso previsionale, empirico e sperimentale delle scienze naturali moderne, in quanto non può prevedere scientificamente assolutamente nulla, e duecento anni di false previsioni “marxiste” lo dimostrano ampiamente. Interrogato su come lo si potrebbe chiamare, resterei dubbioso, e mi risolverei provvisoriamente a chiamarlo una forma di sapere filosofico sulla totalità storica e naturale.
A proposito dell’utopia, è vero che si sono trovate anche utopie greche di tipo stoico (Bertelli), ma la Repubblica di Platone non è affatto una utopia (già Hegel lo aveva capito benissimo), perché il pensiero utopico era del tutto estraneo ai greci. Del resto, i due principali rivalutatori novecenteschi marxisti del pensiero utopico (Benjamin e Bloch) erano ebrei messianici secolarizzati, del tutto estranei al pensiero greco classico in ogni sua forma.
Il comunismo non ha bisogno né di scienza né di utopia. Il comunismo ha bisogno di soli due ingredienti, la storia e la natura umana, che si tratta però di combinare in modo adeguato. Una concezione storicistica della storia è fuorviante, perché necessariamente porta al relativismo, al nichilismo ed alla cancellazione di ogni fondamento ontologico. Una concezione pitagorico-platonica della natura è ugualmente fuorviante, perché riduce necessariamente il comunismo a “modello da applicare”, e le generazioni successive inevitabilmente distruggeranno il modello ereditato, fosse pure in modo parmenideo il migliore possibile.

Può resistere il termine “comunismo” al generalizzato discredito in cui è caduto nell’ultimo trentennio? A mio avviso a breve termine no, e per questo non credo alla opportunità di ricostruire (o rifondare) piccoli e marginali partiti comunisti. In mancanza di una seria fondazione filosofica e di una prospettiva storica essi sarebbero condannati a vegetare come nicchie identitarie di estrema sinistra, e oggi l’estrema sinistra non è che una emulsione valoriale instabile caratterizzati da elementi della cultura radicale post-moderna.
L’Italia ha portato alla guida di due partiti “comunisti” due accaniti anticomunisti  (Walter Veltroni e Fausto Bertinotti), e si tratta di un vero e proprio unicum mondiale, difficile da spiegare non solo a marziani ed a venusiani, ma anche solo a francesi e tedeschi. Il comunista D’Alema ha bombardato la Jugoslavia nel 1999. Il comunista Napolitano ha insediato Monti, il governo oligarchico più “di destra” della storia post-unitaria. Gran parte di chi si dichiara ancora “comunista” in Italia è semplicemente un anti-berlusconiano con retorica pauperistica e sociale. Pochi termini come quelli di “comunismo” sono stati tanto svuotati. Oggi i pochi “comunisti” devono sopportare la concorrenza elettorale di Vendola, Di Pietro e Beppe Grillo, e tutti i sondaggi li inchiodano ad irrilevanti prefissi telefonici.

Appare chiaro che chi ritiene di dover conservare il termine di “comunismo” non solo deve andare contro la corrente del linguaggio contemporaneo politicamente corretto, e contro l’innocua incorporazione in una estrema sinistra residuale (lo ripeto: una emulsione valoriale altamente instabile, perché priva di fondamenti veritativi), ma deve anche scommettere sia sul presente che sul futuro.
Chi rivendica oggi il termine di “comunista” deve collocarsi in un bilancio di millenni di storia, e deve prima di tutto impadronirsi di un adeguato concetto di comunità e di comunitarismo. È un vero peccato che questi due nobili termini nel chiacchiericcio politico italiano semi-colto vengano interpretati come “di destra”. Ovviamente non è così. Chi non capisce che il comunismo non è né di destra né di sinistra, è al di qua degli elementi minimi di comprensione del problema. Il comunismo è stato per un secolo “di sinistra”, ed anche per questo è fallito.
Il saggio termina correttamente con il concetto di pianificazione comunitaria. A mio avviso oltre non si può andare, perché si andrebbe in una prefigurazione pitagorica. La prefigurazione ci deve essere, e gli autori polemizzano correttamente con coloro che rifiutano per principio ogni prefigurazione, mostrando così di non avere alcuna concezione normativa di quanto stanno dicendo.

Gli autori del saggio non si limitano a proporre un riorientamento gestaltico del comunismo, affiancando alla storia la natura, ma inseriscono il comunismo in una sequenza metafisica alternativa alle teorie “progressiste” classiche di origine illuministica e positivistica. Per quel poco che conosco le (residue) comunità che si dicono comuniste, questa proposta è del tutto irricevibile.
Occorre quindi cercare nuovi interlocutori, non necessariamente soltanto giovani, ma comunque non “bruciati” dalle polemiche degli ultimi decenni.
Del resto, dovremmo fare tesoro di una esperienza secolare. Si è cercato il fondamento del comunismo o in una concezione progressistica della storia completamente illusoria, oppure in una modellistica pseudo-scientifica dei modi di produzione. Entrambi i fondamenti si sono svuotati nei decenni, fino a portare al silenzio ed alla afasia. Chiunque cerchi di rompere questa afasia dovrebbe essere ringraziato, e questo è proprio il caso di ciò di cui stiamo parlando.

Alessandro Monchietto – «Da capo senza fine. Il marxismo anomalo di Georges Sorel»

Copertina Da Capo senza fine

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La funzione fondamentale di un’immagine del mondo è quella di costituire l’orizzonte ultimo – irraggiungibile, ma allo stesso tempo inaggirabile – rispetto al quale si definisce ogni condotta pratica. È l’immaginario di volta in volta adottato a definire i limiti e i confini di ciò che rientra nel nostro potere d’azione, di ciò che si può modificare e di ciò che, invece, è percepito come semplicemente fatale.

Uno dei filosofi che più fecondamente seppe dedicare il proprio itinerario intellettuale all’analisi di tale plesso tematico fu Georges Sorel. Elaborando la nozione di mito, Sorel intendeva creare uno strumento in grado di «legare» una comunità, per quanto minoritaria, fornendo a essa identità e coesione. A suo dire la macchina mitologica doveva produrre un «senso comune» – quel sentire che non deve essere identificato con la capacità che tutti gli uomini possiedono, ma con il senso che fonda la comunità – il quale fosse in grado di orientare (in modo quasi irriflesso) la prassi politica delle classi dominate.

Sorel fu uno dei pochissimi pensatori marxisti che cercarono di disgiungere il principio del progresso da quello dell’emancipazione; a partire da tali suggestioni soreliane il saggio mira a sviluppare la tesi secondo cui il principio ideologico del progresso e il principio filosofico dell’emancipazione debbano essere non solo distinti, ma separati, evidenziando la necessità di abbandonare il primo senza rinunciare a una prospettiva emancipativa.

Presentazione

                                        di   Vittorio Morfino

In un passaggio del Quaderno 4 Gramsci scrive a proposito di Sorel:

occorre ristudiare Sorel, per cogliere, al di sotto delle incrostazioni parassitarie deposte sul suo pensiero dagli ammiratori dilettanti e intellettuali, ciò che vi è di più essenziale e permanente1.

Gramsci scrive queste righe agli inizi degli anni Trenta. Tra le incrostazioni parassitarie che sono state ‘deposte’ sul pensiero di Sorel forse la più importante è quella di Mussolini che ne ha fatto un pensatore proto-fascista, mossa che deve aver pesato come una pietra tombale se Althusser in una lettera scritta a Franca Madonia a metà degli anni Sessanta può aver scritto che «chez nous on connait seulement de Sorel qu’il a inspiré Mussolini»2.

Di un tipo di lettura di questo genere è di nuovo Gramsci a fornirci una critica estremamente chiara:

Nella «Critica Fascista» del 15 settembre 1933 Gustavo Glaesser riassume il recente libro di Michael Freund (Georges Sorel. Der revolutionäre Konservatismus, Klostermann Verlag, Francoforte am Main, 1932) che mostra quale scempio possa fare un ideologo tedesco di un uomo come Sorel. È da notare che, se pure Sorel possa, per la varietà e incoerenza dei suoi punti di vista, essere impiegato a giustificare i più disparati atteggiamenti pratici, tuttavia è innegabile nel Sorel un punto fondamentale e costante, il suo radicale «liberalismo» (o teoria della spontaneità) che impedisce ogni conseguenza conservatrice delle sue opinioni3.

Dello spontaneismo di Sorel Gramsci fece una precisa e misurata critica4, nulla a che vedere con le condanne generiche e senza appello di Lukács nella Distruzione della ragione e di Sartre nella prefazione ai Dannati della terra di Frantz Fanon: irrazionalismo e apologia della violenza, di nuovo: protofascismo!

Il libro di Alessandro Monchietto ci permette di andare al di là di questi pregiudizi, fornendoci una chiara e dettagliata ricostruzione del pensiero di questo autore la cui importanza è innegabile per la storia del marxismo a cavallo del Novecento. Tuttavia, la ricostruzione storica del contesto e delle relazioni culturali e politiche è accompagnata dallo sforzo teorico di mettere in luce gli elementi fondamentali che conferiscono coerenza ad un pensiero che si presenta ad un primo sguardo come frammentario e ondivago.

Monchietto ci propone la seguente periodizzazione:

il periodo del socialismo ortodosso che va dal 1893 al 1897;

il periodo del revisionismo dal 1898 al 1903;

quello più conosciuto, il cui centro sonole Riflessioni sulla violenza, dal 1904 al 1919;

infine gli ultimi anni, 1919-1922.

Questo percorso, osservato da lontano, presenta continuità e discontinuità: il merito di Monchietto è quello di andare oltre questi piatti schematismi per mostrarci la complessità del pensiero di Sorel, mettendo in rilievo come alcuni centri di interesse acquistino peso e colorazione differente nei diversi periodi. Così il rilievo dato ai fattori sovrastrutturali, l’interesse per il cristianesimo primitivo come modello di una rivoluzione totale, la separazione tra le classi ed il proletariato concepito come forza giuridica e morale nuova, la fondazione psicologica degli eventi sociali, costituiscono, come suggerisce Monchietto, temi che accompagnano l’intero percorso di Sorel, e tuttavia entrano ogni volta in modo originale nella sua strategia. Stesso discorso può essere fatto per le fonti, Marx fra tutte, ma anche Vico e Bergson, verso cui Sorel evidenzia un rapporto di estrema libertà: esse sono usate, giocate l’una sull’altra, talvolta l’una contro l’altra, tuttavia sempre al servizio del proprio cammino di pensiero e mai come autorità o garanzia.

Monchietto sottolinea come il primo periodo sia dominato da un interesse scientifico per il marxismo in cui ha un ruolo fondamentale la polemica antipositivistica: Sorel rifiuta ogni piatto determinismo che traduca in schemi puramente meccanicistici la realtà storico-sociale, per pensare il materialismo storico come una teoria materialista della sociologia. La realtà sociale non deve essere concepita come sistema impersonale, ma come ambiente artificiale trasformato dall’homo faber in quanto lavoratore sociale. Se Durkheim pensa l’ambiente come persona nazionale pietrificandone di fatto la realtà, il marxismo, attraverso il concetto di lotta di classe, introduce nell’ambiente il movimento.

Il marxismo diviene allora scienza di un cambiamento sociale non governato da un telos, da un fatale progresso determinato dalla struttura economica, ma scienza del campo d’azione di uno scontro di classe che non si svolge solo sul terreno economico, ma, certo a partire da esso, su quello giuridico: la lotta di classe è lotta di diritto contro diritto, lotta per la conquista di diritti della classe operaia, conquista a cui è legata la questione fondamentale dell’educazione delle masse come preparazione di un ordine nuovo in cui il proletariato sappia ergere il proprio interesse a interesse pubblico: questa educazione non nasce da idee astratte imposte alle masse, ma deve avere per base le stesse abitudini di fabbrica, dando luogo ad associazioni operaie che si sottraggono ad una mera finalità materiale o di resistenza. Si tratta, attraverso i sindacati, di creare una nuova visione del mondo radicalmente separata da quella borghese, coltivando i sentimenti di giustizia nelle masse operaie.

Dentro questo quadro Sorel pensa il socialismo in termini gradualistici, come sostituzione progressiva di una forma giuridica ad un’altra, e, attraverso questa, di un mondo di valori ad un altro: la rivoluzione sociale è pensata in questo periodo come lenta e profonda trasformazione dei costumi dal basso, in antitesi tanto con il determinismo socialista che la pensa in termini meccanici, quanto con l’astratto utopismo che la vuole imporre dall’alto, quanto con il giacobinismo che vuole imporre l’astratta virtù contro i costumi storici. Le istituzioni proletarie agiscono dal basso, lo sciopero crea una libera solidarietà che crea un nuovo diritto, una nuova morale e, con ciò, nuovi rapporti di produzione. Da qui nasce il rifiuto soreliano di ogni gerarchia, l’affermazione della superiorità delle istituzioni proletarie su quelle borghesi, la preferenza accordata alle Trade unions inglesi, che subordinano la politica alle istituzioni del proletariato, rispetto alla socialdemocrazia tedesca, in cui invece il socialismo avanza attraverso l’istituzione parlamentare. È in questo quadro che emerge nel pensiero di Sorel il concetto di scissione accompagnato dal riferimento storico al cristianesimo primitivo e al suo atteggiamento catacombale.

Su questi temi e problemi si inserisce l’interesse per Vico da cui Sorel trae gli strumenti concettuali per leggere in modo nuovo Marx. Si tratta di un Vico pensato in modo estremamente libero, un Vico di cui è lasciato cadere l’aspetto provvidenzialistico, la storia ideale eterna, per accentuare, nel quadro del materialismo storico, le determinazioni culturali delle classi sociali: il socialismo non può nascere dall’esclusiva evoluzione delle forze produttive, ma dall’evoluzione psicologica delle classi lavoratrici. E qui Sorel sottolinea un limite della riflessione vichiana che ha pensato l’evoluzione della coscienza secondo un piano unico, mentre in realtà le evoluzioni si producono in tutte le epoche e sono mescolate nella società nel modo più confuso, cosicché questa non è pensabile come blocco omogeneo, ma come ‘viluppo’ e ‘incrocio’: su questi complessi intrecci agiscono le condizioni economiche e i rapporti sociali, favorendo certi sviluppi piuttosto che altri. Ma in Vico Sorel trova anche altri temi che rafforzano e arricchiscono il percorso precedente: la valorizzazione della consuetudine (che viene dal basso) contro la legge (imposta dall’alto), la riconduzione delle leggi di evoluzione del diritto a quelle di evoluzione del linguaggio, l’importanza dell’aspetto prelogico, emozionale, fantastico nell’organizzazione sociale. Con questi nuovi strumenti Sorel si scaglia contro l’ortodossia marxista e il suo fatalismo economico-rivoluzionario, nel tentativo di separare da questo l’autentico pensiero di Marx: il marxismo infatti non può essere una filosofia della storia, non può predire il corso della storia deducendolo logicamente.

Tuttavia, questo tentativo di salvare Marx dal marxismo ortodosso, lascia spazio, nella periodizzazione di Monchietto, ad una revisione del pensiero di Marx operata sulla scorta di Bernstein. Si tratta di rinunciare allora ad ogni determinismo economico, dominante nel marxismo francese e non solo, che conduce ad una concezione catastrofista della storia. Il fatalismo marxista nasce secondo Sorel da una falsa ipotesi di carattere scientifico, da una storia pensata per stadi di sviluppo: la necessità del futuro non è per Sorel che la falsa veste scientifica dell’utopia. Da qui l’attacco al materialismo dialettico come falsificazione in senso deterministico del marxismo, e da qui la critica a Engels, Kautsky e Plekhanov i quali hanno trasformato in leggi storiche quelle che in Marx erano indicazioni per l’azione: il rifiuto della rivoluzione come colpo di mano di pochi. La storia per Sorel non può essere dedotta logicamente perché essa è il campo d’azione della libertà e del caso (hazard), perché le rivoluzioni, le accumulazioni di fatti decisivi, i grandi uomini, si sottraggono ad ogni visione deterministica, perché l’emergenza di fasi nuove non si può prevedere, perché, ancora, «il concatenarsi di potenti fattori produce risultati di nuovo genere»5.

In questa fase è interessante il rapporto che Sorel instaura con Hegel: da una parte egli rifiuta in modo radicale l’idea di Weltgeschichte come giudizio universale intramondano, le cui epoche non sono che tappe preparatorie al fine ultimo, al regno della libertà (di cui Marx non avrebbe fatto altro che fornire la versione materialista), dall’altro riprende il concetto di società civile come intreccio dell’elemento economico, giuridico e politico, in cui le contraddizioni non sono semplici antagonismi passivi, ma condizioni attive (spirituali, giuridiche, politiche), attraverso cui è possibile costruire una concezione del socialismo come ‘integrale visione della storia’ non guidata da forze impersonali, ma da forze collettive operanti.

Attraverso la ricostruzione di questo percorso Monchietto giunge all’esposizione del Sorel più noto, quello delle Riflessioni sulla violenza. Il rifiuto della concezione unilineare del tempo storico e dell’idea di progresso, il rifiuto delle leggi della storia conseguono dalla singolare mossa soreliana di giocare Vico (il suo Vico) contro Hegel (e il marxismo che da Hegel non ha saputo liberarsi): la storia è il campo d’azione del caso, della contingenza e dei conflitti, la storia è rinascita e decadenza, la dialettica che l’attraversa deve comprendere il movimento, ma anche l’arresto. Di qui il recupero del concetto di catastrofe non come verità ultima dello sviluppo economico, ma come mito sociale; di qui tutta una serie di coppie concettuali che risentono profondamente dell’influsso bergsoniano (e delle coppie linguaggio/intuizione e tempo spazializzato/durata): utopia/mito, giacobinismo/sciopero generale, socialdemocrazia/sindacalismo, e ovviamente, quella più celebre forza/violenza. E di nuovo il cristianesimo primitivo diviene un importante termine di paragone: così come per il cristianesimo nascente l’evento fondamentale è stata la credenza nella risurrezione, l’evento fondamentale dei tempi moderni è il mito della catastrofe rivoluzionaria che Marx ha fornito al proletariato.

Di questo percorso tracciato da Sorel attraverso i suoi scritti Monchietto ci restituisce con sensibilità storica e teorica la complessità e la profondità. Ma non di semplice ricostruzione si tratta: in realtà non è difficile percepire in tutto lo scritto il tentativo di riattivare un passato rimosso o sconfitto, un passato che possa ridivenire presente, certo, in una forma nuova. E se in questo testo ciò appare tra le righe e ai margini, lasciando il centro alla bella ricostruzione storica del pensiero di Sorel, in un altro testo dell’autore è detto in modo più aperto ed esplicito: tentare di pensare oltre la critica postmoderna di ogni filosofia del tempo unico e del progresso, che Sorel ha anticipato con grande acutezza, una filosofia della storia altra,

costruita non per ‘telos’, non per ‘compimento’, ma costruita per ‘alternative’, succedersi di alternative, succedersi di opportunità e di occasioni che al tempo stesso aprono e chiudono nuove opportunità. Una Geschichtesphilosophie senza una trazione anteriore, senza un’attrazione del fine, ma una filosofia della storia dove ci sia spazio per la contingenza e per un orizzonte di possibilità6.

1 A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 1975, p. 470.

2 L. Althusser, Lettres a Franca, édité par Y. Moulier et F. Matheron, Paris, Stock/Imec, 1998, p. 623.

3 A. Gramsci, Quaderni del carcere, cit., p. 1923.

4 Ivi, pp. 330-332. Altrettanto acuta del resto è la critica dell’antispontaneismo astratto: «Trascurare e peggio disprezzare i movimenti così detti ‘spontanei’, cioè rinunziare a dar loro una direzione consapevole, ad elevarli ad un piano superiore inserendoli nella politica, può avere spesso conseguenze molto serie e gravi. Avviene quasi sempre che a un movimento ‘spontaneo’ delle classi subalterne si accompagna un movimento reazionario della destra della classe dominante, per motivi concomitanti: una crisi economica, per esempio, determina malcontento nelle classi subalterne e movimenti spontanei di massa da una parte, e dall’altra determina complotti dei gruppi reazionari che approfittano dell’indebolimento obbiettivo del governo per tentare dei colpi di Stato. Tra le cause efficienti di questi colpi di Stato è da porre la rinunzia dei gruppi responsabili a dare una direzione consapevole ai moti spontanei e a farli diventare quindi un fattore politico positivo. […] La concezione storico-politica scolastica e accademica, per cui è reale e degno solo quel moto che è consapevole al cento per cento e che anzi è determinato da un piano minutamente tracciato in antecedenza o che corrisponde (ciò che è lo stesso) alla teoria astratta. Ma la realtà è ricca delle combinazioni più bizzarre ed è il teorico che deve in questa bizzarria rintracciare la riprova della sua teoria, «tradurre» in linguaggio teorico gli elementi della vita storica, e non viceversa la realtà presentarsi secondo lo schema astratto. Questo non avverrà mai e quindi questa concezione non è che una espressione di passività» (Ivi, pp. 331-332).

5 Infra, p. 96.

6 A. Monchietto, Per una filosofia della potenzialità ontologica, Pistoia, Petite Plaisance, 2011, p. 45.

INDICE

Presentazione

di Vittorio Morfino

 

Introduzione

Tradizione e rivoluzione

Capitolo I

La crisi del codice deterministico

e la genesi psicologica dei fenomeni sociali

1. L’iniziale interesse sociologico

2. Le idee giuridiche nel marxismo

3. La scoperta delle istituzioni proletarie

Capitolo II

Fra ortodossia ed eresia marxista

1. Vico e la «dimensione condivisa dell’immaginazione»

2. Necessità e fatalismo nel marxismo

3. «Crisi del marxismo» e revisionismo soreliano

Capitolo III

Il lavoro del mito: per una nuova semantica collettiva

1. Progresso e deresponsabilizzazione

2. Il ruolo catartico dell’azione e la moralità della violenza

3. Immaginari sociali e immagini motrici

 

 

Conclusione

Bibliografia

Opere di Sorel

Raccolte di testi e Antologie

Carteggio

Opere su Sorel

Altre opere consultate

 

 

Indice dei nomi e delle opere
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1. Ghostbuster
2.  La veste scientifica della speranza
3. L’“infuturamento” della filosofia hegeliana
4. Una fenomenologia della schiavitù:
l’eterno ritorno dell’uguale
5. Una storia spogliata dalla propria forma storica
6. Metamorfosi della storia in destino
7. Marx pensatore della libera individualità?
8. L’«auto-soppressione» del capitalismo
9. Un Marx disinnescato
10. Il rabdomante
11. Ritirarsi nella sfera del lasciar stare
12. Avvenire rinviato per scarsa affluenza di pubblico
13. Una filosofia dell’impotenza
14. Combattere la morta positività del mondo
15. Le illusioni del progresso
16. Variare il coefficiente di inevitabilità:
una filosofia della potenzialità ontologica
17. Conclusione

http://www.petiteplaisance.it/libri/151-200/180/int180.html

Albert Einstein – Perché il socialismo? Why Socialism?

Albert Einstein

(Questo testo di Einstein fu pubblicato dalla rivista Monthly Review di New York nel 1949. Fu ripubblicato varie volte e particolarmente in Pensieri degli anni difficili dello stesso Einstein. Fu ripubblicato sul Monthly Review, edizione in spagnolo del 1977).

È consigliabile per chi non sia un esperto di problemi economici e sociali esprimere delle opinioni sulla questione del socialismo? Per un complesso di ragioni credo di sì.
Consideriamo in primo luogo la questione dal punto di vista della conoscenza scientifica. Potrebbe sembrare che non vi siano delle differenze metodologiche essenziali fra l’astronomia e l’economia: in entrambi i campi gli scienziati tentano di scoprire leggi di validità generale entro un ordine circoscritto di fenomeni, in modo da rendere quanto più possibile comprensibile connessioni fra questi fenomeni. In realtà, però, differenze di metodo esistono. La scoperta di leggi generali nel campo economico è resa difficile dal fatto che nei fenomeni economici osservati intervengono spesso molti fattori che è assai difficile valutare separatamente. Inoltre, l’esperienza accumulatasi fin dall’inizio del cosiddetto periodo civile della storia umana è stata, come è noto, fortemente influenzata e limitata da cause che non sono affatto di natura esclusivamente economica. Per esempio, la maggior parte degli stati più importanti dovettero la loro esistenza alla politica di conquista. I popoli conquistatori si imposero legalmente ed economicamente, come la classe privilegiata del paese conquistato. Essi si riservarono il monopolio della proprietà terriera e crearono una casta sacerdotale con membri appartenenti alla loro stessa classe. I sacerdoti, avendo il controllo dell’educazione, trasformarono la divisione in classi della società in una istituzione permanente ed elaborarono un sistema di valori a mezzo del quale, a partire da allora, il popolo fu guidato, in larga misura senza che ne avesse consapevolezza, nel suo comportamento sociale.
Ma la tradizione storica è, per cosi dire, cosa di ieri; in nessuna parte del mondo abbiamo di fatto superato quella che Thorstein Veblen chiamò “la fase predatoria” dello sviluppo umano. I fatti economici che ci è dato osservare appartengono a tale fase, e le stesse leggi che possiamo eventualmente ricavare da tali fatti non sono applicabili ad altre fasi. Dato che il vero scopo del socialismo è precisamente quello di superare e di procedere oltre la fase predatoria dello sviluppo umano, la scienza economica, al suo stato attuale, può gettare ben poca luce sulla società socialista del futuro.
In secondo luogo, il socialismo è volto a un fine etico-sociale. La scienza, però, non può stabilire dei fini e tanto meno inculcarli negli esseri umani; la scienza, al più, può fornire i mezzi con i quali raggiungere certi fini. Ma i fini stessi sono concepiti da persone con alti ideali etici; se questi ideali non sono sterili, ma vitali e forti, vengono adottati e portati avanti da quella gran parte dell’umanità che, per metà inconsciamente, determina la lenta evoluzione della società.
Per queste ragioni dovremmo stare attenti a non sopravvalutare la scienza e i metodi scientifici quando si tratta di problemi umani; e non dovremmo ammettere che gli esperti siano gli unici ad aver il diritto di pronunciarsi su questioni riguardanti l’organizzazione della società.
Da un po’ di tempo innumerevoli voci affermano che la società umana sta attraversando una crisi, che la sua stabilità è stata gravemente scossa. Caratteristico di una tale situazione è il fatto che gli individui si sentano indifferenti o addirittura ostili verso il gruppo sociale, piccolo o grande, al quale appartengono. Per illustrare ciò che intendo dire, voglio ricordare qui un’esperienza personale. Recentemente discutevo con una persona intelligente e di larghe vedute sulla minaccia di una nuova guerra che, secondo me, comprometterebbe seriamente l’esistenza dell’umanità, e facevo notare che solo un’organizzazione sopranazionale potrebbe offrire una forma di protezione da questo pericolo. Allora il mio interlocutore, con voce molto calma e fredda, mi disse: “Perché lei è così profondamente contrario alla scomparsa della razza umana?”
Sono sicuro che solo un secolo fa nessuno avrebbe fatto una domanda del genere con tanta leggerezza. È l’affermazione di un uomo che ha lottato invano per raggiungere un equilibrio interno e ha perduto, più o meno, la speranza di riuscirvi. È l’espressione di una solitudine e di un isolamento dolorosi di cui soffrono moltissimi in questi tempi. Quale ne è la causa? Esiste una via d’uscita?
È facile sollevare tali questioni, ma è difficile dare loro una risposta con un qualche grado di sicurezza. Debbo tentare, tuttavia, come meglio posso, anche se sono perfettamente consapevole del fatto che i nostri sentimenti e i nostri sforzi sono spesso contraddittori e oscuri, e non possono venir espressi mediante facili e semplici formule.
L’uomo è, allo stesso tempo, un essere solitario e un essere sociale. In quanto essere solitario, egli cerca di proteggere la propria esistenza e quella di coloro che gli sono più vicini, di soddisfare i propri desideri personali, e di sviluppare le proprie qualità naturali. In quanto essere sociale, egli cerca di guadagnarsi la stima e l’affetto dei suoi simili, di condividere le loro gioie, di confortarli nel loro dolore, e di migliorare le loro condizioni di vita. Soltanto l’esistenza di questi sforzi diversi, frequentemente contrastanti, spiega il carattere particolare di un uomo, e la loro particolare combinazione determina la misura nella quale un individuo può raggiungere un equilibrio interno e contribuire al benessere della società. È perfettamente possibile che la forza relativa di queste due tendenze sia sostanzialmente determinata dall’eredità. Ma la personalità che alla fine ne emerge è in gran parte formata dall’ambiente in cui un uomo viene a trovarsi durante il suo sviluppo, dalla struttura della società in cui egli cresce, dalla storia di quella società, e dal giudizio che essa dà dei differenti tipi di comportamento. Il concetto astratto di “società” significa, per l’essere umano individuale, la somma totale di queste relazioni dirette e indirette con i suoi contemporanei e con tutti gli uomini delle generazioni precedenti. L’individuo può pensare, sentire, lottare, e lavorare da solo; ma egli dipende dalla società, nella sua esistenza fisica, intellettuale ed emotiva, tanto che è impossibile pensare a lui, o comprenderlo, al di fuori della struttura della società. È la “società” che fornisce all’uomo il cibo, i vestiti, una casa, gli strumenti di lavoro, la lingua, le forme di pensiero, e la maggior parte dei contenuti di pensiero; la sua vita è resa possibile dal lavoro e dalle realizzazioni dei molti milioni di uomini del passato e del presente che si nascondono dietro quella piccola parola: “società”.
È evidente, perciò, che la dipendenza dell’individuo dalla società è un fatto naturale che non può venir abolito, proprio come nel caso delle api o delle formiche. Tuttavia, mentre l’intero processo vitale delle formiche e delle api è determinato fin nei più minuti particolari da rigidi istinti ereditari, lo schema sociale e le interrelazioni degli esseri umani sono assai variabili e suscettibili di mutamento. La memoria, la capacità di realizzare nuove combinazioni, il dono della comunicazione orale, hanno reso possibili fra gli esseri umani degli sviluppi non dettati da necessità biologiche. Tali sviluppi si manifestano nelle tradizioni, istituzioni, e organizzazioni, nella letteratura, nelle scoperte scientifiche e tecniche, nelle opere d’arte. Questo spiega come succede che, in un certo senso, l’uomo possa, attraverso il comportamento, influenzare la propria vita, e che in questo processo possano avere una funzione il pensiero e la volontà coscienti.
L’uomo riceve ereditariamente, alla nascita, una costituzione biologica che dobbiamo considerare fissa e inalterabile, e che comprende le esigenze naturali che sono caratteristiche della specie umana. Inoltre, nel corso della vita, egli acquisisce una costituzione culturale, che gli viene dalla società attraverso la comunicazione diretta e attraverso molti altri tipi di influenze. È questa costituzione culturale ad essere, nel corso del tempo, soggetta a mutamenti e a determinare in larga misura i rapporti fra l’individuo e la società. La moderna antropologia ci ha insegnato, attraverso lo studio comparato delle cosiddette culture primitive, che il comportamento sociale degli esseri umani può essere molto diverso, a seconda degli schemi culturali predominanti e dei tipi di organizzazione che prevalgono nella società. È su questo fatto che coloro che lottano per migliorare il destino dell’uomo possono fondare le loro speranze: gli esseri umani non sono condannati, a causa della loro costituzione biologica, a distruggersi l’un l’altro o ad essere, ad opera delle proprie mani, alla mercé di un fato crudele.
Se ci domandiamo in qual modo la struttura della società e l’atteggiamento culturale dell’uomo dovrebbero essere modificati al fine di rendere il più possibile soddisfacente la vita umana, dovremmo essere coscienti del fatto che esistono certe condizioni che non possiamo modificare. Come abbiamo ricordato prima, la natura biologica dell’uomo non è suscettibile di mutamenti a ogni fine pratico. Inoltre, gli sviluppi tecnologici e demografici degli ultimi secoli hanno creato delle condizioni destinate a perdurare. In popolazioni stabili relativamente dense, dotate dei beni che sono indispensabili alla continuazione della loro esistenza, sono assolutamente necessarie una estrema suddivisione del lavoro e un apparato produttivo altamente centralizzato. È passato per sempre il tempo, che a volgersi indietro sembra cosi idilliaco, in cui gli individui o i gruppi relativamente piccoli potevano essere completamente autosufficienti. Non si esagera molto dicendo che l’umanità già oggi costituisce una comunità planetaria di produzione e di consumo.
Giunto a questo punto del discorso posso indicare brevemente ciò che secondo me costituisce l’essenza della crisi del nostro tempo. Si tratta del rapporto dell’individuo con la società. L’individuo è diventato più consapevole che mai della propria dipendenza dalla società. Egli però non sperimenta tale dipendenza come un fatto positivo, come un legame organico, come uno forza protettrice, ma piuttosto come una minaccia ai suoi diritti naturali, o addirittura alla sua esistenza. Inoltre, la sua posizione nella società è tale che gli impulsi egoistici del suo carattere vengono costantemente accentuati, mentre i suoi impulsi sociali, che per natura sono più deboli, si deteriorano progressivamente. Tutti gli esseri umani, qualunque sia la loro posizione nella società, soffrono di questo processo di deterioramento. Inconsciamente prigionieri del loro egotismo, essi si sentono insicuri, soli, e spogliati della ingenua, semplice e non sofisticata gioia di vivere. L’uomo può trovare un significato nella vita, breve e pericolosa come è, soltanto dedicandosi alla società.
L’anarchia economica della società capitalista, quale esiste oggi, rappresenta secondo me la vera fonte del male. Vediamo di fronte a noi un’enorme comunità di produttori, i cui membri lottano incessantemente per spogliarsi a vicenda dei frutti del loro lavoro collettivo, non con la forza, bensì tutto sommato in complice ossequio a regole stabilite in forma legale. In questo senso è importante rendersi conto che i mezzi di produzione, vale a dire l’intera capacità produttiva necessaria per produrre sia i beni di consumo che i beni capitali addizionali, possono essere con pieno crisma legale, e per la maggior parte lo sono, proprietà privata di singoli.
Per ragioni di semplicità, nella discussione che segue indicherò con la parola “lavoratori” tutti coloro che non partecipano alla proprietà dei mezzi di produzione, anche se ciò non corrisponde pienamente all’uso normale del termine. Il proprietario dei mezzi di produzione è in grado di acquistare la forza-lavoro del lavoratore. Usando i mezzi di produzione, il lavoratore produce nuovi beni che diventano proprietà del capitalista. Il punto essenziale di questo processo è la relazione fra quanto il lavoratore produce e quanto egli è pagato, entrambe le quantità misurate in termini di valore reale. Fintantoché il contratto di lavoro è “libero”, ciò che il lavoratore riceve è determinato non dal valore reale dei beni che produce, ma dalle sue necessità di sopravvivenza e dalla domanda di forza-lavoro da parte del capitalista, rapportata al numero di lavoratori che sono in concorrenza per i posti di lavoro. È importante comprendere che anche in teoria il salario del lavoratore non è determinato dal valore del suo prodotto.
Il capitale privato tende a concentrarsi nelle mani di pochi, in parte a causa della concorrenza fra i capitalisti, in parte perché lo sviluppo tecnologico e la crescente suddivisione del lavoro incoraggiano la formazione di più grandi complessi di produzione a spese dei minori. Il risultato di questi sviluppi è un’oligarchia del capitale privato il cui enorme potere non può essere efficacemente controllato neppure da una società politica democraticamente organizzata. La verità di ciò è determinata dal fatto che i membri dei corpi legislativi vengono scelti dai partiti politici, ampiamente finanziati o in altro modo influenzati dai capitalisti privati i quali, a ogni fine pratico, separano l’elettorato dal corpo legislativo. La conseguenza è che i rappresentanti del popolo non proteggono, di fatto, in modo sufficiente gli interessi degli strati meno privilegiati della popolazione. Inoltre, nelle condizioni attuali, i capitalisti privati controllano inevitabilmente, direttamente o indirettamente, le fonti principali d’informazione: stampa, radio, educazione. È quindi estremamente difficile e anzi, nella maggior parte dei casi, del tutto impossibile, che i cittadini pervengano a delle conclusioni oggettive e facciano un uso intelligente dei loro diritti politici.
La situazione dominante in un’economia basata sulla proprietà privata del capitale è perciò caratterizzata da due principi fondamentali: primo, i mezzi di produzione (capitale) sono proprietà privata e i proprietari ne dispongono a loro piacimento; secondo, il contratto di lavoro è libero. Naturalmente non esiste, in quanto tale, una società capitalista pura in questo senso. In particolare, occorre notare che i lavoratori, attraverso lunghe e amare lotte, sono riusciti ad assicurarsi una forma in certo modo migliorata del “contratto libero di lavoro” per certe loro categorie. Peraltro, considerata complessivamente l’economia dei nostri tempi non differisce molto dal capitalismo puro.
Si produce per il profitto, non per l’uso. Non vi è alcun provvedimento grazie al quale tutti coloro che possono e vogliono lavorare ne abbiano sempre la possibilità; esiste quasi sempre un “esercito di disoccupati”. Il lavoratore ha sempre la paura di perdere il proprio posto di lavoro. Dato che i disoccupati e i lavoratori mal retribuiti non rappresentano per i beni di consumo un mercato vantaggioso, la produzione di tali beni ne risulta limitata, con un conseguente grave danno. Il progresso tecnologico si risolve frequentemente in un aggravamento della disoccupazione piuttosto che in un alleggerimento della quantità di lavoro per tutti. Il movente del profitto, congiuntamente alla concorrenza fra i capitalisti, è responsabile di una instabilità nell’accumulazione e nell’impiego del capitale, che conduce a depressioni sempre più gravi. La concorrenza illimitata porta a un enorme spreco di lavoro, e a quelle storture della coscienza sociale nei singoli individui, di cui ho parlato prima.
Queste storture nell’individuo, secondo me sono la tara peggiore del capitalismo. Tutto il nostro sistema educativo soffre di questo male. Un atteggiamento esageratamente concorrenziale viene inculcato nello studente, abituandolo ad adorare il successo, come preparazione alla sua futura carriera.
Sono convinto che vi è un solo mezzo per eliminare questi gravi mali, e cioè la creazione di un’economia socialista congiunta a un sistema educativo che sia orientato verso obiettivi sociali.
In una tale economia i mezzi di produzione sono proprietà della società stessa e vengono utilizzati secondo uno schema pianificato. Un’economia pianificata, che equilibri la produzione e le necessità della comunità, distribuirebbe il lavoro fra tutti gli abili al lavoro e garantirebbe i mezzi di sussistenza a ogni uomo, donna e bambino. L’educazione dell’individuo, oltre a incoraggiare le sue innate capacità, si proporrebbe di sviluppare in lui un senso di responsabilità verso i suoi simili anziché la glorificazione del potere e del successo, come avviene nella nostra società attuale.
È necessario, tuttavia, ricordare che un’economia pianificata non rappresenta ancora il socialismo. Una tale economia pianificata potrebbe essere accompagnata dal completo asservimento dell’individuo. La realizzazione del socialismo richiede la soluzione di alcuni problemi sociali e politici estremamente complessi: in che modo è possibile, in vista di una centralizzazione di vasta portata del potere economico e politico, impedire che la burocrazia diventi onnipotente e prepotente? In che modo possono essere protetti i diritti dell’individuo, assicurando un contrappeso democratico al potere della burocrazia?



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