Alessandro Monchietto – «L’euro come metodo di governo. Il ciclo di Frenkel, le ragioni degli squilibri dell’eurozona e la mezzogiornificazione delle periferie europee»

Euro come metodo di governo

 

Euro come metodo di governo

 

1. Nella produzione di un ordine del discorso dominante, le notizie vengono selezionate, accorpate, differenziate: alcuni casi di cronaca vengono messi in risalto, altri lasciati in ombra o taciuti. Tutto si muove all’interno di una dinamica che sta a noi comprendere e districare, per non farci travolgere da un’ingiusta lettura del presente. C’è oggi nel mondo un discorso dominante, o che piuttosto si avvia a diventare dominante, relativo all’attuale crisi. Nella sostanza esso sostiene che l’odierna condizione di precarietà economica che caratterizza il continente europeo dipenda dai debiti pubblici, dalla loro quantità troppo elevata, dall’eccessivo rapporto fra debito e Pil. Il problema viene presentato come “crisi dei debiti sovrani”, in particolare di alcuni membri (i cosiddetti PIIGS) ordinariamente descritti come incapaci di controllare l’eccesso di spesa pubblica e la conseguente spirale debitoria; questo dato spaventerebbe gli investitori, determinando una diminuzione della fiducia del mercato azionario che – per questo motivo – comincerebbe a richiedere interessi sempre più alti. Per “tranquillizzare i mercati” occorrerebbero dunque drastiche scelte che migliorino il bilancio pubblico: aumento delle tasse e riduzione delle uscite (ergo tagli alla spesa sociale), privatizzazione dei beni e dei servizi pubblici, e una riforma del mercato del lavoro che introduca maggiore flessibilità, diminuzione delle tutele sindacali, facilità di licenziamento, in modo da favorire la riduzione del rischio d’impresa e l’aumento della produttività. La forza di questi ragionamenti sta nel senso di mortificazione che stimolano negli individui, e nello sfondo di “naturalezza” che danno a qualsiasi avvenimento negativo. In questo breve testo cercheremo di gettare luce su alcuni meccanismi del discorso dominante, nel tentativo di proporre un cambio di prospettiva.

2. Occorre innanzitutto mettere a fuoco cosa accade quando si riuniscono Paesi diversi in una unione monetaria. Questo tipo di analisi è stata egregiamente svolta da Roberto Frenkel e Martin Rapetti, due economisti argentini che hanno preso in esame vari episodi di crisi economico-finanziaria (dal Cile della fine degli anni ‘70, alla crisi asiatiche della seconda parte degli anni ‘90, sino alla crisi Argentina dell’inizio degli anni 2000), e ne hanno estratto uno schema comune. Sostanzialmente la vicenda ha due protagonisti: un paese sviluppato (il “centro”), con una forte base finanziaria e industriale, e un paese, o un gruppo di paesi, relativamente arretrato (la “periferia”). Il centro “suggerisce” alla periferia la liberalizzazione dei movimenti di capitale e l’adozione di un tasso di cambio fisso. In tal modo ottiene due vantaggi: in periferia i tassi di interesse sono più alti che in patria[1], e il centro può prestarle i propri capitali (i movimenti di capitali sono stati infatti liberalizzati) lucrando la differenza senza patire rischio di cambio (il cambio è fisso); inoltre, drogando coi propri capitali la crescita dei redditi della periferia, il centro si assicura un mercato di sbocco per i propri beni. Le economie periferiche perdono competitività rispetto a quelle del Centro, e questo si traduce in un peggioramento della bilancia commerciale: nella competizione con i paesi più forti, che presentano inflazione più bassa, gli Stati periferici vedono ridursi le esportazioni e aumentare le importazioni. La periferia si gonfia così come una bolla: l’accesso al credito facile fa salire l’inflazione, e se all’inizio ci si rivolgeva all’estero essenzialmente per comprare beni di lusso, col tempo i prodotti esteri diventano competitivi anche sulle fasce più basse, il deficit commerciale si approfondisce, e occorrono nuovi capitali esteri per finanziarlo. Questo fa sì che l’economia, nonostante la crescita, diventi più fragile. A un certo punto per un motivo X(ad esempio lo scoppio di una recessione) il centro comincia a dubitare della capacità della periferia di rimborsarlo: esige il pagamento di interessi più alti a copertura del rischio, lo spreaddecolla, e i paesi periferici vedono le proprie economie crollare e precipitare verso una spirale distruttiva da cui faticano sempre più a uscire[2].

3. All’interno di un’unione monetaria ci sono infatti degli elementi che impediscono il normale riequilibrio delle situazioni di crisi. Facciamo un esempio pratico, per chiarire: immaginiamo che Italia e Germania abbiano le loro monete nazionali, e che in un dato momento il cambio lira-marco sia uno a uno (un marco per una lira). Immaginiamo poi che, pian piano, la Germania accresca la sua competitività e quindi le sue merci vengano richieste maggiormente. Assieme alle merci verranno richiesti anche i marchi per pagarle, e quindi aumenterà anche la domanda di moneta tedesca. La valuta è infatti una merce, e in quanto tale è sottoposta alla legge della domanda e dell’offerta: attraversi tale meccanismo si determinerà dunque un aggiustamento del cambio, cioè un apprezzamento del marco e/o una svalutazione della lira. Ora vediamo cosa accade all’interno dell’euro. Italia e Germania hanno la stessa moneta, e quindi il cambio è sempre uno a uno (un euro per un euro). Nonostante i divari di inflazione e di competitività, il cambio resta fisso, anche quando, in realtà, la moneta italiana dovrebbe perdere valore rispetto a quella tedesca. Se il rapporto di cambio corretto, dati gli sbilanci commerciali, sarebbe due a uno (due lire per un marco), allora restare nell’euro (mantenendo un rapporto di cambio uno a uno) significa frenare l’apprezzamento del marco, e mantenere la divisa tedesca al di sotto del valore che dovrebbe avere, aumentandone la competitività[3]. Questa – come vedremo – è la logica del “regime di accumulazione” sulla quale si basa l’UE.

4. Il discorso dell’attuale crisi – dominante nei media come nell’accademia – sembrerebbe suggerire la tesi secondo cui il successo della Germania sia essenzialmente dovuto alla sua “capacità di innovare”, che le permetterebbe di vincere la “sfida della globalizzazione”. I dati tuttavia raccontano una storia diversa. Dal 1999 al 2007 la Germania ha avuto un deficit crescente verso i paesi emergenti e in particolare nei confronti dei BRIC (quello verso la Cina è ad esempio aumentato di circa 20 miliardi di dollari), mentre i 239 miliardi di aumento del surplus tedesco da inizio secolo sono spiegati per due terzi dagli scambi con i paesi europei[4]. L’innovazione c’entra ben poco: queste dinamiche sono spiegate dalla competitività di prezzo. E la dinamica favorevole dei prezzi in Germania è dovuta soprattutto al fatto che – negli ultimi dieci anni – gli aumenti di produttività non sono finiti nelle tasche dei lavoratori. In sostanza il segreto della “locomotiva tedesca” è una politica di moderazione/deflazione salariale, per cui a produttività crescente corrispondono salari reali calanti[5]. Non è dunque un problema di paesi “virtuosi” contro paesi “”cattivi”, come i tutori dell’ordine simbolico cercano ideologicamente di contrabbandare. La Germania ha infatti realizzato politiche del lavoro che hanno tenuto relativamente bassa la propria inflazione[6], e grazie a ciò è riuscita a impedire l’aumento dei propri prezzi, aumentando tuttavia a dismisura i problemi dei partner più deboli. La Germania ha pertanto immensamente squilibrato l’eurozona con la sua politica di depressione della domanda interna[7]. Di qui discende la necessità di una politica di compressione salariale in tutti i PIIGS: se non si copia quello che ha fatto la Germania, si continuano ad accumulare deficit commerciali, finanziati con afflussi di capitali (cioè con debiti), e si tratta di una situazione chiaramente insostenibile. [8]

5. Ha però senso accettare tali sacrifici? La nostra risposta è un secco NO. Una politica d’austerità e moderazione salariale generalizzata a tutta l’Europa farebbe cadere l’intero continente nella stagnazione, a causa dell’indebolimento della domanda. Se tutti paesi dell’eurozona adottassero le stesse politiche depressive, chi potrebbe infatti comprare le loro merci[9]? L’austerità non appare più dunque come un passaggio necessario per superare la crisi, ma si palesa come un meccanismo mirato a scaricare i costi della crisi sui soggetti deboli, siano essi i ceti popolari europei (che si vedono privati di diritti conquistati decenni addietro e che mano a mano si avvezzano alla nuova realtà di impoverimento diffuso) o i “capitalismi deboli” dei PIIGS. L’indebolimento causato dalle politiche di austerità potrà infatti rivelarsi la premessa per una politica di acquisizioni da parte dei soggetti forti del continente. Si è a proposito parlato di vera e propria «Mezzogiornificazione» europea[10]. Secondo questa ipotesi i PIIGS sono destinati a diventare zone depresse, così come avvenne paradigmaticamente al sud Italia nel corso del XIX e XX secolo: le leve di comando del capitale si concentreranno sempre più nelle aree centrali dell’unione, le periferie saranno colpite da fenomeni di desertificazione produttiva e migrazione di massa e le loro economie si conserveranno esclusivamente in funzione degli interessi e dei fini dei paesi forti del Nord.

6. Queste osservazioni permettono di rispondere a una possibile obiezione: si potrebbe infatti pensare che la Germania – con l’imposizione delle sopracitate politiche di austerità – stia segando il ramo sul quale è seduta, poiché in tal modo starebbe inevitabilmente restringendo la capacità di assorbimento delle merci alemanne da parte dei propri mercati di sbocco. È tuttavia ragionevole ritenere che essa abbia intrapreso questo percorso proprio perché tali politiche di austerità renderanno sempre più facile la conquista economica dell’euro-periferia da parte dei paesi centrali. Queste dinamiche, certamente ben note ai ceti dirigenti tedeschi, probabilmente rappresentano uno degli elementi su cui essi contano: la possibilità di investire acquisendo imprese locali a costi di saldo potendo operare con lavoratori privati di tutele e diritti, al fine di ridurre l’intera periferia del continente a una specie di “Cina dell’Europa”.

7.1 Cerchiamo ora di sintetizzare. Come si è visto, l’Ue è stata creata per imporre la massima apertura degli Stati alla libera circolazione di merci e capitali e per impedire ogni intervento statale che ostacoli la concorrenza e protegga le economie interne. È la decisione di aprire l’economia alla libera circolazione di merci, servizi e capitali che determina la necessità di regimi a cambi fissi, o ancor meglio di unioni monetarie. Senza di essi gli investimenti internazionali a medio-lungo termine sarebbero stati scoraggiati dal rischio di cambio[11], fattore assai limitante e inviso ai propugnatori del principio ideologico della “libera circolazione”.

7.2 L’unione europea non è che una realtà giuridica nata da circa un paio di decenni grazie all’adesione di alcuni Stati a determinati trattati internazionali. Sono questi documenti specifici (dal trattato di Maastricht – il cui spirito costitutivo e costituzionale è chiaro: meno Stato, ergo più mercato – al recentissimo Fiscal Compact) a definire cosa è l’Ue. Le politiche antipopolari, neoliberiste e iper-capitalistiche sono pertanto iscritte nei trattati stessi che definiscono l’Unione europea. Questi aspetti non sono linee di politica economica scelte da una maggioranza politica, che possono quindi cambiare in base al diverso colore politico dei governi. Essi sono il fondamento stesso dei trattati che definiscono l’Ue, ne permeano ogni pagina, e rappresentano l’intima essenza dell’Unione, delle sue istituzioni, della sua ragion d’essere. Decidendo di entrare a far parte della Ue (o di non uscirne), è alla teoria politico-economica liberista che si aderisce. Non c’è infatti nessuna possibilità all’interno del suo quadro istituzionale – interamente intriso dell’ideologia liberista – di realizzare politiche di segno diverso[12].

7.3 L’offerta di prestiti da parte di banche desiderose di collocare eccedenze finanziarie (risultato come visto dei surplus commerciali drogati dall’euro) ha indiscutibilmente favorito la “domanda” delle merci del centro. Banche che – consapevoli dell’esistenza di un rischio di insolvenza – hanno comunque indotto i cittadini e le imprese dei PIIGS a indebitarsi. Non sono stati dunque i cittadini greci, spagnoli o portoghesi a vivere al di sopra dei propri mezzi. Sono state le banche tedesche a farlo. Non sono stati i cittadini greci, spagnoli, portoghesi o italiani a pensare che qualcuno avrebbe pagato per loro: sono state le banche tedesche a sapere che qualcuno avrebbe comunque pagato per loro.

7.4 L’euro ha creato le condizioni di un afflusso di capitali che ha portato ad un forte indebitamento privato. Il fattore causale della crisi non è dunque la politica fiscale dello Stato, ma il peggioramento dei rapporti economici con l’estero[13]. Le misure di austerità non risolveranno pertanto nulla, dato che non determinano nessun miglioramento rispetto ai problemi strutturali dell’eurozona.

8. La nostra tesi è che l’uscita dall’euro sia condizione necessaria per impostare politiche economiche di giustizia sociale e sostenibilità ecologica. Non intendiamo tuttavia asserire che essa sia condizione sufficiente: non vogliamo cioè sostenere che l’uscita dall’euro comporti, di per sé, una maggiore giustizia sociale o l’inversione delle tendenze distruttive che il capitalismo sta mostrando. Sosteniamo però che tali problemi sono impossibili da risolvere, ed anzi sono certamente destinati ad aggravarsi di continuo, se si rimane nell’euro[14].

Note

[1] «Nella periferia normalmente i tassi di interesse sono più alti e questo per un dato fisiologico dell’economia, perché un’economia che è un po’ più arretrata, se vogliamo, offre delle importanti opportunità di investimento. Insomma, se in un’economia ci sono le autostrade, tutti i porti, tutte le strutture, le fabbriche, eccetera, e in un’altra ancora non ci sono, è chiaro che il capitale si dirigerà verso dove ancora non ci sono perché lì sarà più produttivo. Questo è un po’ la situazione così come te la racconterebbe un economista di estrema ortodossia» [A. Bagnai, Ce lo chiede l’Europa. Intervista a Alberto Bagnai a cura di Claudio Messora, http://www.byoblu.com/post/2012/07/06/alberto-bagnai-ce-lo-chiede-leuropa.aspx].

[2] Cfr. a riguardo http://goofynomics.blogspot.it/2012/11/il-romanzo-di-centro-e-di-periferia.html.

[3] «Da tutto ciò si evince che è la struttura dell’euro a rappresentare, essa sì, una svalutazione competitiva: la svalutazione competitiva della Germania contro i paesi più deboli di lei, contro i PIIGS e la Francia. […] la nostra proposta non è finalizzata a rilanciare le svalutazioni competitive, bensì a difendere il nostro paese dalla svalutazione competitiva operata dalla Germania grazie all’euro» [M.Badiale, F.Tringali, La trappola dell’euro. La crisi, le cause, le conseguenze, la via d’uscita, Asterios,Trieste 2012, p. 106].

[4] http://goofynomics.blogspot.it/2011/11/i-salvataggi-che-non-ci-salveranno.html

[5] In una cornice di coordinamento e collaborazione tra i paesi europei, la maggiore domanda a favore dei beni e del lavoro dell’industria tedesca avrebbe dovuto condurre a corrispondenti aumenti salariali. Questi si sarebbero trasferiti agli altri comparti che non hanno sperimentato rialzi di efficienza, determinando un’accelerazione delle dinamiche inflazionistiche rispetto a quelle dei partner: il rialzo delle retribuzioni, arrivato dal settore beneficiario del boom di produttività, sarebbe stato il motore del riequilibrio complessivo. Le cose, in Germania, sono andate in senso esattamente opposto. Il salario industriale, lungi dall’aumentare con la produttività, è bensì sceso: del 14,5 per cento in rapporto al valore del prodotto medio del lavoro tra il 2002 e il 2007. cfr. http://archivio.lavoce.info/articoli/-europa/pagina1001966.html; http://goofynomics.blogspot.it/2012/08/i-salari-reali-alamanni-sono-scesi-del-6.html.

[6] Sul rapporto tra moneta, inflazione e conflitto sull’attribuzione delle risorse cfr. http://www.youtube.com/watch?v=hhwtFGuvmvs

[7] Il punto decisivo non è il livello dei prezzi e dei salari, ma la loro variazione. I costi unitari della manodopera (ossia i salari rettificati in base alla produttività) sono aumentati del 35% nell’Europa meridionale, contro un aumento del 9% in Germania. Il nucleo si è alimentato così a spese della periferia, causandone il dissesto finanziario, e accumulando crediti esteri per oltre 1000 miliardi di dollari dal 1999 al 2009. Il problema di fondo del eurozona è pertanto quello della competizione interna, con la Germania e i paesi forti del Nord che accumulano surplus commerciali nei confronti di quelli del sud. Cfr. http://www.voxeu.org/article/should-we-believe-german-labour-market-miracle ; http://orizzonte48.blogspot.it/2012/12/per-chinon-guardasse-solo-google-e.html .

[8] La teoria delle aree valutari ottimali insegna che per evitare problemi, l’abbandono della flessibilità del cambio deve essere compensato introducendo altre flessibilità, come una maggiore mobilità dei fattori di produzione, una maggiore flessibilità dei salari e una maggiore diversificazione produttiva (che aiuta a superare difficoltà specifiche in un determinato settore). Occorre inoltre che i tassi di inflazione fra i paesi membri convergano, e se questo non si riesce ad ottenere diviene necessario progettare istituzioni per ovviare “a valle” a tali squilibri. Questo obiettivo si può raggiungere innanzitutto apportando un sistema di trasferimento di risorse dalle zone in espansione a quelle in recessione (integrazione fiscale) e inducendo a politiche espansive chi accumulato risorse tramite surplus, affinché agisca da locomotiva per il resto dell’unione (il cosiddetto coordinamento delle politiche fiscali). Non si può infatti essere in surplus se nessuno in deficit, e ai tagli nei paesi in deficit deve accompagnarsi un’espansione della domanda nei paesi in surplus. Su questi temi e sulla proposta avanzata da E. Brancaccio riguardo uno “standard retributivo europeo” per ridurre lo sbilanciamento tra paesi in surplus e paesi in deficit commerciale si veda http://csdle.lex.unict.it/archive/uploads/up_680855042.pdf

[9] Una Europa “germanizzata” non potrebbe generare al proprio interno la domanda a sostegno della produzione, mentre – almeno nel medio termine – non ci si può aspettare che tale domanda provenga dall’esterno.

[10] Cfr. E. Brancaccio e M. Passarella, L’austerità è di destra. E sta distruggendo l’Europa, Il Saggiatore, Milano 2012, pp. 89 ss.; http://www.emilianobrancaccio.it/2012/11/30/dalla-crisi-della-moneta-unica-alla-critica-del-liberoscambismo-europeo-brevi-note-sulla-mmt/

[11] Cfr. http://goofynomics.blogspot.it/2012/11/il-romanzo-di-centro-e-di-periferia.html ; http://goofynomics.blogspot.it/2013/06/postfazione-europa-kaputt-di-am-rinaldi.html

[12] «L’Ue è l’unione degli Stati europei definita dai trattati di Maastricht e di Lisbona, di cui il “fiscal compact” del 2012 è la naturale evoluzione. Chi vi aderisce accetta quella “Europa”. Pensare di aderire ad essa e contemporaneamente chiederne il rivolgimento sarebbe come aderire ad un’associazione di tiro con l’arco e poi chiedere di buttare via archi e frecce per dedicarsi agli scacchi. È ovvia l’insensatezza. Chi desidera giocare a scacchi farà bene a entrare in una associazione di scacchisti» [M.Badiale, F.Tringali, La trappola dell’euro, cit., p. 111].

[13] «Se il problema fosse il debito pubblico, dal 2008 la crisi avrebbe colpito prima la Grecia (debito al 110% del Pil), e poi l’Italia (106%), Belgio (89%), Francia (67%) e Germania (66%). Gli altri paesi dell’eurozona avevano debiti pubblici inferiori. Ma la crisi è esplosa prima in Irlanda (debito pubblico al 44% del Pil), Spagna (40%), Portogallo (65%), e solo dopo Grecia e Italia. Cosa accomuna questi paesi? Non il debito pubblico (minimo nei primi paesi colpiti, altissimo negli ultimi), ma l’inflazione» e l’indebitamento privato [cfr. http://goofynomics.blogspot.it/2011/11/luscita-delleuro-redux-la-realpolitik.html].

[14] «L’approccio “neo-mercantilista” tedesco sfrutta la moneta unica e la maggiore competitività delle proprie industrie per rubare quote di mercato agli altri paesi, non è così diverso dalla politica inglese dell’ottocento, che sfruttando la superiorità della propria produzione meccanizzata, si faceva alfiere del libero scambio (che permetteva alle sue merci di arrivare dappertutto) e del “gold standard” (che assicurava stabilità ai cambi) perché in quelle condizioni essi rappresentavano dei vantaggi per l’industria inglese. Ma il predominio dell’industria inglese rendeva difficile lo sviluppo industriale di paesi ad essa legati. In questo modo il predominio economico britannico durante l’ottocento ha contribuito alla creazione di ciò che più tardi si è chiamato “Terzo Mondo”.  Non è un caso che gli Stati Uniti abbiano adottato, per tutto o quasi l’ottocento, politiche di tipo protezionistico, proprio per proteggere la propria nascente industria dalla concorrenza inglese. Gli storici dell’economia hanno coniato, per la politica inglese ottocentesca nei confronti dei paesi sotto la propria influenza, ma non controllati politicamente in modo diretto, l’espressione “imperialismo del libero scambio» [M.Badiale, F.Tringali, La trappola dell’euro, cit., p. 53].

Eugène Minkowski – Il tempo vissuto – L’azione etica apre l’avvenire davanti a noi perché resiste al divenire: è la realizzazione di quanto vi è di più elevato in noi

Eugène Minkowski

La ricerca dell’azione etica

Ci resta da porre l’ultima pietra al nostro edificio. […] Intendo parlare del fattore etico nella nostra vita.
Quanti pensieri risveglia questa parola e quanti problemi ci pone! Fenomeni quali la responsabilità, la condanna, il dovere e soprattutto la libertà […]. E la ricchezza stessa di questi problemi sembra indicare tutta l’importanza che deve avere nella nostra vita il fattore etico […]. Qui ci limiteremo a esaminare il fenomeno etico soltanto nella misura in cui partecipa alla struttura generale del tempo e più particolarmente dell’avvenire.
[…] Costituisce il pilastro principale sul quale si basa la vita. Senza di esso non soltanto saremmo esseri amorali […], ma tutta la nostra vita risulterebbe singolarmente modificata nella sua struttura; immersi nelle tenebre, non vedremmo più l’avvenire aprirsi ampiamente davanti a noi; il nostro sguardo non saprebbe più scrutare l’orizzonte per attingervi le forze vive di tutta la nostra esistenza; a malapena potrebbe scoprire davanti a sé, urtandovi contro, qualche ombra scialba verso cui si dirigerebbero la nostra attività e i nostri desideri, ammettendo che tali desideri e tale attività possano sussistere ancora senza questo slancio verso il bene.
L’avvenire si restringerebbe così stranamente davanti a noi; esisterebbe ancora appena, spento, scialbo e privo di vita. Certo, la ragione ci parla dell’avvenire infinito e poco si preoccupa delle sorgenti cui questo avvenire attinge tutta la sua grandezza […]. Da questo punto di vista solo la tendenza all’azione etica, per quanto eccezionale nella vita quotidiana, apre ampiamente, nel modo più ampio possibile, l’avvenire davanti a noi. Ci sono dei fenomeni che si impongono per la loro grandezza e non per la loro frequenza; uno di questi è la tendenza verso l’azione etica.
“Molti vivono così e muoiono senza avere conosciuto la vera libertà”, dice Bergson. Ciò è fin troppo esatto. Ma questo non contraddice l’affermazione che l’azione etica, pur essendo del tutto eccezionale nella vita empirica, rappresenta tuttavia uno degli elementi costitutivi essenziali, se non il piu essenziale,della vita tout court. […] È, per sua stessa essenza, alla portata di tutti. Non c’è essere umano del quale oseremmo dire che mai una scintilla divina ha illuminato la sua anima; questo vorrebbe dire che in lui non c’è niente, ma proprio niente di umano.
[…] Laddove assistiamo a un’azione etica, non vediamo una manifestazione che ha radici in una qualsiasi particolarità individuale della persona in questione, ma solo una realizzazione attraverso di essa di quanto di “umano“ c’è in noi, di quanto di virtualmente comune vi è in noi, di quanto anima tutta la nostra vita: […] per quanto riguarda il lato etico dell’essere umano, in quello che ha di veramente “umano”, non ha niente a che vedere né con il numero, né con la statistica, né con l’empirismo. Base comune sulla quale la vita si svolge nelle sue manifestazioni particolari, impersonale più che personale e accessibile a tutti, sempre potente e sempre presente, si realizza qua e là solo come un lampo tramite gli esseri umani, lampo passeggero, fugace, eccezionale, se tentiamo di situarlo nella vita comune, così raro che si è tentati di negarne l’esistenza, ma che nondimeno costituisce lo scaturire di una fiamma eterna che si libra sempre al di sopra della vita e che pur ne rappresenta l’essenza stessa.
[…] Lo slancio verso il bene o la ricerca dell’azione etica non può essere cioè ricondotta alle particolarità di carattere considerate positive nella vita quotidiana, come l’onestà o la bontà. Questo slancio risiede altrove; esso, per così dire, non ha valore commerciale.
L’onestà può farsi rigida e fredda, la bontà sdolcinata; come tali forse esse varranno dal punto di vista sociale anche più dei loro contrari, ma resteranno poco attendibili; talvolta, riunite insieme, mancheranno del tutto di questa “grandezza d’animo”, appannaggio esclusivo del lato etico del nostro essere, e se ne troveranno così molto al di sotto. Fin troppo umane per le loro debolezze, non lo saranno però abbastanza per la mancanza di contenuto vivente, di grandezza, di ricerca reale, d’orizzonte, di propulsione verso l’avvenire. Le nostre pretese qualità, ancorate al presente, possono sbarrarci a volte l’orizzonte quanto le nostre cattive tendenze.
[…] In altri termini, non si tratta soltanto di fare una scelta e di andare a destra o a sinistra; sentiamo in più, e in maniera immediata, che impegnandoci in una di queste due direzioni ci eleviamo, mentre, scegliendo l’altra, non possiamo che decadere. […] Vedere davanti a sé il “diritto” cammino si accompagna a un senso di elevatezza; sapersi impegnare in esso ci porta verso il cielo. L’aspetto del bene ha sempre in sé qualcosa di sublime, il male è veramente “infernale”. […] quando entra in gioco il fattore etico non c’è scelta (tra bene e male) poiché, in fondo, la scelta è già fatta; non si sceglie assennatamente tra il bene e il male; non c’è neanche decisione, perché o soccombo e mi lascio trascinare e cadere o sento scaturire dal fondo del mio essere una forza che mi supera di molto; quanto alle conseguenze, l’azione etica in fondo non ne prevede, non ne comporta nessuna se non quella di aprire davanti a noi tutto l’avvenire e di permetterci di abbracciare, nello spazio di un istante, in un colpo d’occhio, tutta la grandezza, tutto il valore, tutta la ricchezza della vita.
[…] L’azione etica non ci conduce da nessuna parte se non al di là di noi stessi; non prevede, come dicevamo, altra conseguenza che aprire, in tutta la sua potenza, l’avvenire davanti a noi; non comporta nessuna ricompensa se non la consapevolezza di esserci potuti avvicinare al sublime nella vita.
[…] Il male conta solo a partire dal momento in cui diventa effettivo, il bene invece ha un valore tutto spirituale; esso conta a partire dal momento in cui troviamo in noi stessi la forza sufficiente per impegnarci sulla via che giudichiamo buona. Se circostanze impreviste ci fermano, indipendentemente da noi, sulla china che ci porta verso il male, ci diremo che siamo “salvi” e parleremo di un “caso felice”; per il bene, senza rimpianti, diremo che abbiamo fatto quanto abbiamo potuto e non ne guadagneremo meno nel nostro intimo, purché la nostra ricerca dell’azione etica sia stata sincera e senza “trucchi”.
Dunque l’azione etica è inafferrabile, si libra al di sopra della vita, risiede nelle sfere eteree, a volte resta ignota a tutti. […] L’azione etica persiste ed è la sola “azione” che resiste al divenire, al divenire che con i suoi grigi flutti minaccia di sommergere tutto al suo passaggio .
[…] L’attività etica si accompagna a un sentimento positivo, un sentimento di esultanza, come dicevamo. Questo sentimento è intimamente legato all’attività etica ed è proprio da esso che la riconosciamo.
[…] Questo sentimento di esultanza non è d’altra parte neanche, propriamente parlando, un senso di piacere. Esso consiste soprattutto nel fatto che nell’azione etica vediamo l’universo intero aprirsi davanti a noi in tutta la sua grandezza, mentre noi stessi partecipiamo di questa grandezza, in maniera immediata, senza impedimenti, in un’intima fusione. È come un volo possente verso l’infinito. Comunichiamo con l’universo infinito, non abbiamo niente più in noi che ce ne divida, ci sentiamo liberi.
[…] Questa libertà non comporta che, per opposizione alla tesi del determinismo, noi possiamo fare tutto quello che ci piace, cioè, in fin dei conti, qualsiasi cosa; questo sarebbe agire per capriccio, e la questione è davvero troppo seria per poterlo pensare. Questa libertà comporta soltanto che ci eleviamo liberamente verso quanto c’è di più grande e di più prezioso al mondo, che abbracciamo l’universo intero in quanto portatore dell’ideale.
[…] Solo lo slancio etico ci permette di prendere interamente, al più alto grado, coscienza di noi stessi, che esso apre ampiamente, in maniera assoluta, “fino in fondo”, l’avvenire davanti a noi, che ci fa abbracciare, in un volo senza uguali, in un sol colpo d’occhio, il senso dell’universo tutto intero, nel suo cammino in avanti. Coronamento e base dell’esistenza, chiude le nostre riflessioni sull’avvenire. Come tale, lo slancio etico è unico nel suo genere, molto al di sopra degli altri fenomeni della vita […].
Nella ricerca dell’azione etica tentiamo di sottrarci agli interessi che costituiscono la materialità della vita, penetriamo in noi stessi, fino al fondo del nostro essere, così lontano da cancellarne i limiti e da sentirci portati quasi da forze sovrumane, riflettiamo, facciamo appello al meglio del nostro essere e prendiamo così, in una “spezione” luminosa, coscienza di noi stessi. Questa coscienza è naturalmente tutt’altra cosa che un attributo che viene ad aggiungersi, in maniera più o meno contingente, ai fenomeni detti psichici, come vogliono ancora certe teorie; no, essa si lascia portar via solo a viva forza, a prezzo di uno sforzo immenso; costituisce di per sé, per così dire, un ideale che si raggiunge solo in via eccezionale; essa si fa molto di pià di quanto non sia cosa fatta, ma è anch’essa, essa soltanto, che ci rivela il senso vero della “coscienza di sé”.
Così l’azione etica è la sola che deve rimanere essenzialmente consapevole; essa non può non esserlo. A questo scopo, si crea e ricrea sempre di nuovo; resta sempre una creazione luminosa dell’uomo. Fare il bene per abitudine è una formula inaccettabile […].
Le virtù civiche, malgrado la loro importanza, non si possono confondere con la ricerca profonda e individuale dell’azione etica.

[…] L’avvenire è l’ideale, è la ricerca dell’azione etica, è la realizzazione eccezionale di quanto vi è di piu elevato in noi; come tale basta a se stesso e non abbisogna di punti d’appoggio; ha forza sufficiente per questo; e se non l’ha, un giorno l’avrà, e anche questo fa parte dell’ideale».

Eugène Minkowski, Il tempo vissuto, Einaudi, 2015, pp. 106-116.

Lorenzo Dorato – Relativismo e universalismo astratto. Le due facce speculari del nichilismo.

http://www.petiteplaisance.it/libri/231-240/231/aut231.html

Copertina Lorenzo Dorato

LORENZO DORATO

Relativismo e universalismo astratto.
Le due facce speculari del nichilismo

La cultura dominante dell’odierno Occidente si manifesta come un’unità inscindibile e complementare di relativismo ed universalismo astratto.
Scetticismo e disincanto di fronte alla realtà e alla verità, da un lato; affermazione della libertà assoluta e del progresso come valori formali e procedurali e “colonialismo” culturale delle categorie liberali occidentali, dall’altro, si fondono nel comporre la natura del cosiddetto occidentalismo contemporaneo.
Fuori da questo paradigma angusto, l’uomo ha, per sua natura, bisogno di un universalismo sostanziale che partendo dall’esistenza di una Verità ontologica sulla propria condizione, metta in comunicazione il particolare e l’universale senza salti nel vuoto o astrazioni e respingendo completamente, allo stesso tempo, ogni tentazione relativistica.
Un simile universalismo, che, oltre ogni forma, scavi nella sostanza dei bisogni e dei comportamenti umani, affonda le proprie radici nell’affermazione dell’esistenza di una natura umana conoscibile oltre il dato meramente biologico. Da questo presupposto muove la ricerca di un criterio di Bene universalizzabile preminente sui valori procedurali e pseudo-universali di libertà assoluta e di progresso tecnico-scientifico che rivestono come una patina consolatoria il nichilismo delle relazioni sociali dell’Occidente capitalistico.
Se il Bene è conoscibile come verità generale sulla condizione e i bisogni dell’Uomo, da esso può sorgere la possibilità di un universalismo sostanziale che, fuori da ogni proceduralismo e nel totale rispetto del ruolo delle comunità intermedie, leghi i destini dell’umanità. Una via impervia e densa di rischi che deve però essere percorsa.

INDICE

Introduzione
Il relativismo e la verità
La funzione positiva della “relativizzazione”, come pratica provvisoria diversa dal “relativismo”
Universalismo astratto e procedurale. L’altra faccia del relativismo
Universalismo astratto, individualismo, comunità
Relativismo e universalismo astratto come doppia base dell’ideologia e della “cultura” capitalistica.
Nichilismo della merce e compensazione universale pseudo-umanistica fondata sui pilastri concettuali della libertà e del progresso
L’universalismo astratto e procedurale e la teologia interventistica occidentale della democrazia e dei diritti umani
Relativismo e universalismo astratto. Un’unica cultura alla base dell’individualismo e del nichilismo occidentale
Verso un universalismo sostanziale
Dal buon universalismo incompleto della Giustizia di classe e dell’uguaglianza sostanziale, all’espli­citazione del concetto di Bene per un universalismo sostanziale
Per una metafisica sociale e personale del Bene come base di un pensiero forte anti-capitalistico
Il moralismo come forma di “universalismo astratto relativistico”
L’ipostatizzazione sociale come forma di “universalismo astratto relativistico”
Metafisica del Bene e unificazione dei concetti di Bene e Giustizia
La Metafisica del Bene e il pensiero di Marx
Il pilastro irrinunciabile della teoria strutturale dei modi di produzione di Marx e le due necessarie integrazioni filosofiche. Per una filosofia politica dell’universalismo sostanziale
La Metafisica del Bene e il comunismo storico novecentesco
Bene e Verità come concetti rivoluzionari alla base di un universalismo sostanziale
Bene immanente e bene trascendente. Oltre le angustie di una falsa contraddizione
Sovranità comunitaria e universalismo. L’universalismo sostanziale come faticosa, ma necessaria soluzione dell’apparente antinomia
Conclusioni

Luca Grecchi – A cosa non servono le “riforme” di stampo renziano e qual è la vera riforma da realizzare

Leonardo da Vinci

Aristotele sosteneva che l’esame della realtà politica necessita, fra le altre cose, di una analisi, oltre che dei fatti, anche delle opinioni rilevanti più diffuse. Da alcuni anni l’opinione politica più diffusa, almeno in Italia, è costituita dalla necessità di fare le riforme. Qualunque politico, anche privo di grandi idee, nei tempi ristretti di un talk show se la può sempre cavare affermando che “è necessario fare al più presto le riforme”, snocciolando una serie di campi da riformare: giustizia, fisco, scuola, lavoro, pubblica amministrazione, eccetera. C’è poi anche chi ritiene, pur avendo solo effettuato piccoli interventi – peraltro peggiorativi –, di avere già fatto le riforme, ma si tratta di un atteggiamento da lasciare all’esame di chi si occupa di retorica eristica (l’arte che insegna a prevalere nel discorso per il mero fine di vincere sull’avversario), non all’esame di chi è interessato al bene comune.
Può essere in ogni caso utile analizzare il tema della necessità delle riforme. Tutti sono in effetti d’accordo sul fatto che esse servono, poiché le cose in Italia, nei vari settori menzionati, non funzionano molto bene. Tuttavia, nel nostro paese ma non solo – in un mondo in cui oltre 2 miliardi di persone vivono in condizioni di grave disagio, non si può certo affermare che le cose vadano bene –, il problema sembra strutturale, relativo cioè alla struttura del modo di produzione capitalistico, che, come ogni struttura, sostiene tutto. L’attuale modo di produzione, infatti, ha un solo fine, la massimizzazione del profitto, e per realizzarlo strumentalizza e mercifica ogni cosa. Ciò conduce ad una generalizzata conflittualità, ed addirittura in molti casi alla devastazione della vita, umana e naturale. E’ molto probabile quindi che, per far andare bene le cose, esse debbano essere modificate sul piano strutturale, e dunque in maniera globale, coordinata, pianificata.
Di tutto questo, spesso, non ci si rende conto, poiché la nostra attenzione è incanalata da quanto accade nella esperienza (che, per quanto riguarda la politica, è costituita sostanzialmente da ciò che viene veicolato dai mass media). L’esperienza, tuttavia, riguarda solo il primo approccio con la realtà, la quale, per essere compiutamente conosciuta, richiede di andare oltre l’esperienza, ossia alla struttura profonda, alle cause prime della realtà. Aristotele, in merito, distingueva ciò che è primo “per noi” da ciò che è primo “per sé”. Prima “per noi” è appunto l’esperienza, in quanto la conosciamo per prima; prima “per sé” è invece la struttura della realtà, che conosciamo per ultima ma che è ontologicamente prima, in quanto da essa tutto dipende. Gli uomini che giudicano soltanto sulla base della esperienza (in questo caso coloro che si affidano al teatrino della politica) non conoscono la verità, e pertanto sono molto inclini all’errore.
Conoscere la struttura profonda della realtà conduce invece a capire che la effettualità, il mondo in cui viviamo, va modificato strutturalmente. Per non ampliare troppo la portata dell’analisi, può essere utile sviluppare questo ragionamento parlando solo dell’Italia di oggi. Chiediamoci: sono le singole parti della struttura economico-politica italiana che non funzionano, oppure è la struttura stessa nel suo insieme che non funziona, in quanto troppo corrosa da quei processi capitalistici che tutto corrompono, e che sopra abbiamo descritto? Qualora a questa domanda si dia la prima risposta, ossia che il problema riguarda solo limitate parti di realtà, le riforme – che sono appunto provvedimenti parziali – sarebbero la giusta soluzione; servirebbe poi sapere quali, ma questo sarebbe il passo successivo. Qualora invece alla stessa domanda si desse la seconda risposta, ossia che il problema riguarda la realtà economico-politica nella sua struttura, e quindi nella sua interezza, le riforme non sarebbero più sufficienti: sarebbe necessaria una rivoluzione.
La parola “rivoluzione”, di derivazione astronomica, incute generalmente timore, poiché è di solito associata alla violenza (la violenza che si teme è sempre quella delle masse, mai quella che le persone quotidianamente subiscono, nella loro dignità, a causa di processi socio-economici disumani ed incontrollabili: essa sembra non avere responsabili). Tuttavia, non è necessario che una rivoluzione sia violenta. Direi anzi che una vera rivoluzione, come sapeva Platone, può realizzarsi solo mediante il consenso generale, dunque tramite l’educazione, ossia attraverso la comprensione diffusa che una buona vita può realizzarsi solo all’interno di modalità economico-sociali comunitarie. Quale migliore rivoluzione, oggi, di un cambiamento in grado di porre la cura degli uomini ed il rispetto della natura come fini primari del processo economico-sociale complessivo?
Nel nostro paese, invece, si sta proprio in questi giorni presentando come una grande riforma la semplice riduzione di poteri di un ramo del Parlamento (il Senato), con connessa riduzione della possibilità di esprimere le proprie preferenze elettorali. Il fine dichiarato di questa riforma (la riduzione dei costi della politica) sembra peraltro differente dal fine reale della stessa (aumentare il controllo parlamentare da parte della maggioranza, a scapito della democrazia). Ambedue costituiscono peraltro ben poca cosa. Talvolta in effetti, osservando la pochezza dei fini di questo e simili provvedimenti, viene da chiedersi se in Italia, in alcuni casi, le “riforme” si facciano davvero per realizzare cose utili, oppure solo per poter poi dichiarare di aver fatto qualcosa, ben sapendo che ciò che sarebbe necessario fare non lo si riesce a – o non lo si desidera – realizzare concretamente.
                                                                                                    Luca Grecchi
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