Ilaria Rabatti – «La casa di carta», di Carlos María Domínguez

Carlos María Domínguez, La casa di carta, Sellerio, 2011

 

Carlos María Domínguez

 

«…il lettore è un viaggiatore che si muove in un paesaggio già scritto. Un paesaggio infinito.
L’albero è già stato scritto, e la pietra, e il vento fra i rami, e la nostalgia di quei rami e l’amore cui prestarono la loro ombra.
E non conosco gioia più grande che percorrere, in poche ore, un tempo umano che altrimenti mi sarebbe estraneo…
Non basta una vita… una biblioteca è una porta nel tempo».  (C. M. Domínguez)

 

Nella mia vita di appassionata lettrice ho maturato la certezza che un buon libro lascia sempre al lettore l’impressione di leggere qualcosa della propria esperienza personale.

Sarà forse perché amo respirare l’aria dei libri, o perché, col passare degli anni, la mia (vera) casa assomiglia sempre di più ad una “casa di carta”, che ho trovato folgorante il racconto, a tratti surreale, a tratti amaramente ironico, dello scrittore argentino Carlos María Dominguez, La casa di carta, scritto nel 2002, ma tradotto e pubblicato in Italia da Sellerio solo dopo un decennio, nel 2011. Attraversa la storia – che è anche un viaggio intorno al leggere – una tensione in forma di domanda, comune, mi pare, a tanta parte della letteratura argentina più recente (da Borges, a Manguel, a Piglia) sulla natura e l’essenza misteriosa del lettore.

Il protagonista indiretto della narrazione, Carlos Brauer, è un personaggio indimenticabile, con una totale aspirazione all’intimità e all’isolamento creativo. Lettore “puro”, assoluto (qualcuno lo definirebbe, troppo facilmente, compulsivo), egli intende il leggere non solo come un’attività, ma come una forma di vita che è al contempo difesa dalla vita e rifugio di fronte all’ostilità del mondo.

Ma Carlos Brauer è anche un geniale costruttore di cataloghi. Arrivato a raccogliere nella sua casa più di ventimila volumi, egli si porrà il problema della gestione e della disposizione dei libri nella sua biblioteca, risolvendo la “spinosa” questione delle “affezioni” – ovvero, mai collocare vicine le opere di autori che non si sopportano, come Borges e García Lorca; Marlowe e Shakespeare; Martin Amis e Julian Barnes; Vargas Llosa e García Márquez – elaborando un sistema aperto, basato sui numeri frattali, con cui poter modificare in ogni momento la collocazione dei volumi secondo criteri dinamici, ma ipotetici, «perché in fin dei conti nulla è più volubile delle valutazioni letterarie».

Sarà la drammatica (e metaforica) perdita in un incendio del catalogo – efficace ed ordinata sintesi, per tutti noi bibliofili, della realtà, la mappa che ci guida nella confusione della vita – a modificare definitivamente le sue prospettive e ad indurlo a trasferirsi, con i suoi libri, in un luogo sperduto «senza mezze tinte, né anestesia, né distrazioni, né consolazione» ai confini del mondo, sulla spiaggia di Rocha (Uruguay), dove poi maturerà la scelta con cui riscatterà la sua esistenza…

Il racconto, di cui volutamente taccio l’epilogo per non togliere al lettore il gusto della sorpresa finale, è innescato da una breve storia d’amore vissuta dal protagonista, di cui resta traccia in una dedica sul frontespizio di una copia de La linea d’ombra di Joseph Conrad, romanzo che mi pare splendidamente evocare un altro tema centrale della storia di Domínguez: quello del passaggio alla maturità del protagonista che si configura con il superamento della “propria” linea d’ombra attraverso un atto di amore estremo e assoluto.

Ilaria Rabatti

Giuseppe Conte – Materia madre

Giuseppe Conte

La materia è la madre nostra comune
siamo le zolle di terra da dove scocca
le sue frecce di primavera il papavero
e da dove cresce il grano –
siamo l’erba sottile e i rami
giganti del cedro e le foglie del banano,
la materia è la madre, siamo le gocce
della pioggia che benedice e feconda
l’acqua dei fiumi che si può bere
l’acqua salata dell’onda
e della marea, siamo la pietra rocciosa
che strapiomba tra agavi e cactus
la sabbia del deserto tutta rosa
di nebbia e di miraggi.
La materia è la madre nostra comune
in lei siamo fratelli, siamo i raggi
del pianeta Venere, i ghiacci delle comete
le corolle abissali delle nebulose
costellazioni ancora segrete
e quelle dell’Orsa, del Toro, delle Pleiadi.
Lo Spirito che ci genera
come uomini e ci dà il canto
ama la materia e il suo grembo
come l’amò all’inizio, quando
la penetrò con un moto
vorticoso e veloce
finché fu luce.
Giuseppe Conte, in Ferite e rifioriture, 2006

Pascal Mercier – Non vorrei vivere in un mondo senza cattedrali o in quello che demonizza il pensiero critico esigendo amore per gli sfruttatori

Pascal-Mercier

«Non vorrei vivere in un mondo senza cattedrali. Ho bisogno della loro bellezza e della loro sublimità. Ne ho bisogno di contro alla piattezza del mondo. Voglio levare lo sguardo verso le luminose vetrate e lasciarmi abbagliare dai loro colori soprannaturali. Ho bisogno del loro splendore. Ne ho bisogno di contro alla sporca monocromia delle uniformi. Voglio lasciarmi avvolgere dalla pungente frescura delle chiese. Ho bisogno del loro silenzio imperioso. Ne ho bisogno di contro alle insulse urla da caserma e alle spiritosaggini dei fiancheggiatori del regime. Voglio sentire lo scroscio dell’organo, questo diluvio di suoni ultra terreni. Ne ho bisogno di contro alle stridule, ridicole marcette militari. Amo le persone che pregano. Ho bisogno della loro vista. Ne ho bisogno di contro al perfido veleno della superficialità e della distrazione. Voglio leggere le parole potenti della Bibbia. Ho bisogno della forza irreale della loro poesia. Ne ho bisogno di contro alla devastazione della lingua e alla dittatura delle parole d’ordine. Un mondo senza tutto questo sarebbe un mondo in cui non vorrei vivere.

Eppure esiste un altro mondo nel quale non voglio vivere: il mondo in cui il corpo e il pensiero autonomo sono demonizzati e dove vengono bollate come peccato cose che appartengono a quanto di meglio ci sia dato di sperimentare. Il mondo in cui si esige da noi amore nei confronti dei tiranni, degli sfruttatori e degli assassini, sia che i brutali passi dei loro piedi calzati dagli stivali echeggino assordanti nelle vie, sia che si aggirino furtivi e silenziosi, passi di ombre vili pronte a colpire alle spalle le vittime affondando loro i pugnali scintillanti nel cuore. Non c’è nulla di più assurdo al mondo: pretendere dal pulpito che esseri umani perdonino e persino amino creature di tal fatta. E se pure qualcuno realmente ci riuscisse, ciò significherebbe una falsità senza eguali, una spietata negazione di sé che verrebbe pagata con una totale storpiatura della persona. Questo comandamento, questo folle, degenere comandamento di amare i nemici è fatto apposta per spezzare gli esseri umani, per togliere loro in modo fraudolento tutto il coraggio e tutta la fiducia in se stessi e renderli malleabili nelle mani dei tiranni, così che non siano più in grado di trovare la forza per insorgere contro di loro, se necessario con le armi.
Venero la parola di Dio perché amo la sua forza poetica. Aborro la parola di Dio perché odio la sua crudeltà. Un amore difficile perché costretto a discernere incessantemente tra il potere illuminante delle parole e il soggiogamento violento tramite le parole operato da un Dio che si compiace di sé. Un odio difficile, come ci si può permettere di odiare infatti parole che sono parte integrante della melodia della vita in questa porzione di mondo? Parole che sin dall’infanzia ci hanno insegnato che cosa sia la reverenza? Parole che sono state per noi fari quando abbiamo cominciato ad avvertire che la vita visibile non può essere la vita nella sua interezza? Parole senza le quali non saremmo quello che siamo?
Ma non dimentichiamolo: sono parole che esigono da Abramo che sgozzi il proprio figlio come un animale. Che fare della nostra ira quando leggiamo quell’episodio? In quale considerazione dobbiamo tenere un tale Dio? Un Dio che rimprovera a Giobbe – che nulla può e nulla sa – di contendere con lui. Ma chi è stato a crearlo così? Precipitare qualcuno nell’infelicità senza motivo: è un atto meno ingiusto se a compierlo è Dio invece di un comune mortale? Non ha forse Giobbe tutte le ragioni per levare il suo lamento?
La poesia della parola di Dio ha una tale soverchia forza da farci ammutolire, ogni obiezione si trasforma in miserevole strepito. Per questo non si può semplicemente mettere via la Bibbia, la si deve invece gettare via quando non se ne può più delle sue pretese e della schiavitù a cui ci condanna. Da essa parla un Dio distante dalla vita e senza gioia che vuole restringere la potente amplitudine di un’esistenza umana – la grande circonferenza che essa è in grado di descrivere quando le si conceda libertà – all’unico, inesteso punto dell’obbedienza. Piegati dalle tribolazioni e gravati dal peccato, inariditi dalla sottomissione e dall’assenza di dignità della confessione, la fronte cosparsa di cenere e solcata dal segno della croce, ci tocca andare incontro alla morte con la speranza mille volte confutata in una vita migliore nell’aldilà. Ma perché dovrebbe essere migliore a fianco di Colui che in precedenza ci ha privati di ogni gioia e di ogni libertà?
E tuttavia sono di una bellezza sconvolgente le parole che vengono da Lui e vanno a Lui. Come le ho amate da chierichetto! Come mi hanno inebriato nello sfavillio delle candele sull’altare! Come sembrava chiaro – chiaro come la luce del sole – che quelle parole erano la misura di tutte le cose! Come mi sembrava incomprensibile che alla gente importassero anche altre parole, ciascuna delle quali poteva significare solo riprovevole distrazione e perdita dell’essenziale! Ancora oggi mi fermo quando ascolto un canto gregoriano, e per un istante –l’istante in cui la vigilanza viene meno – mi rattristo che l’inebriamento di un tempo abbia irrevocabilmente lasciato il posto alla ribellione. Una ribellione che è esplosa in me come un incendio repentino all’udire per la prima volta l’espressione: Sacrificium intellectus.
Come possiamo essere felici senza curiosità, senza interrogativi, senza dubbi, senza argomentazioni? Senza la gioia di pensare? Quell’espressione – simile a un colpo di spada che ci decapiti – significa niente di meno che questo: la folle pretesa che il nostro agire e il nostro sentire confliggano con il nostro pensiero. È l’esortazione a una scissione totale, l’ingiunzione a sacrificare quello che è il nocciolo di ogni pensabile felicità: l’interiore unità e armonizzazione della nostra vita. Lo schiavo sulla galea è incatenato, ma può pensare quello che vuole. Ma ciò che Lui, il nostro Dio, esige da noi è che con le nostre stesse mani noi radichiamo la nostra schiavitù negli strati più profondi del nostro animo e che lo facciamo di nostra spontanea volontà e con gioia. Può esserci uno scherno maggiore di questo?
Nella sua onnipresenza il Signore ci osserva giorno e notte, ogni ora, ogni minuto, ogni secondo tiene la contabilità del nostro agire e del nostro pensare, non ci lascia mai in pace, non ci concede mai un momento tutto per noi. Che cos’è un uomo senza segreti? Senza pensieri e desideri che solo lui conosce? Gli sgherri addetti alla tortura – quelli dell’Inquisizione e quelli di oggi – lo sanno bene: tagliagli la ritirata nell’interiorità, non spegnere mai la luce, non lasciarlo mai solo, impediscigli di dormire e riposare: parlerà. Che la tortura ci ruba l’anima significa che essa distrugge la possibilità di restare soli con noi stessi, la solitudine di cui abbiamo bisogno come dell’aria per respirare. Il Signore Iddio non ha pensato che con la sua sfrenata curiosità e il suo ripugnante voyeurismo ci ruba l’anima, quell’anima che oltretutto dovrebbe essere immortale?
Chi in realtà vorrebbe essere immortale? Chi vorrebbe vivere in eterno? Che noia e che vuoto sapere che non ha la minima importanza quel che succede oggi, in questo mese, in questo anno perché arriveranno ancora infiniti giorni, mesi, anni. Infiniti, letteralmente infiniti. Se così fosse, che cosa mai potrebbe contare? Non ci sarebbe più bisogno di computare il tempo, non sussisterebbe l’eventualità di lasciarsi sfuggire qualcosa, non dovremmo più affrettarci. Sarebbe indifferente fare qualcosa oggi o domani. Del tutto indifferente. Milioni di dimenticanze e omissioni al cospetto dell’eternità diventerebbero un nulla, e non avrebbe senso rammaricarsi di qualcosa poiché resterebbe sempre il tempo per recuperarlo. Non potremmo nemmeno vivere alla giornata, perché questa felicità si nutre della consapevolezza che il tempo passa, lo sfaccendato è un avventuriero che sfida la morte, un crociato che combatte contro il diktat della fretta. Se sempre e ovunque c’è tempo per tutto e per ogni cosa, dove dovrebbe mai esserci ancora spazio per la gioia di dissipare il tempo?
Un sentimento non è mai lo stesso se si ripresenta una seconda volta. Sbiadisce nel momento in cui scorgiamo che ritorna. Ci stanchiamo e ci tediamo dei nostri sentimenti quando si reiterano troppo spesso e durano troppo a lungo. L’anima immortale dovrebbe essere sopraffatta da un tedio colossale e da una disperazione che si trasforma in grido davanti alla certezza che niente finirà, mai. I sentimenti vogliono svilupparsi e noi con loro. Sono quello che sono perché si discostano da ciò che sono stati un tempo e perché fluiscono incontro a un futuro dove nuovamente si discosteranno da se stessi. Se questa corrente confluisse nell’infinito, in noi si ingenererebbero miriadi di sensazioni che, abituati come siamo a un tempo circoscritto, non potremmo nemmeno rappresentarci nella mente. Quando sentiamo parlare di vita eterna siamo quindi totalmente all’oscuro di quanto ci viene promesso. Che cosa vorrebbe dire sussistere in eterno, privi della consolazione di venire liberati un giorno dalla coercizione di essere noi stessi? Non lo sappiamo ed è una benedizione il fatto che non lo sapremo mai. Perché almeno di una cosa siamo consapevoli: il paradiso dell’immortalità sarebbe un inferno.
È la morte a conferire all’attimo la sua bellezza e il suo terrore. Solo in virtù della morte il tempo è un tempo vivo. Perché il SIGNORE, Dio onnisciente, lo ignora? Perché ci minaccia con un’infinitezza che può significare solo un’intollerabile desolazione?
Non vorrei vivere in un mondo senza cattedrali. Ho bisogno dello splendore delle loro vetrate, della loro fresca quiete, del loro imperioso silenzio. Ho bisogno del diluvio di suoni dell’organo e della sacra devozione degli esseri umani. Ho bisogno della sacralità delle parole, della sublimità della grande poesia. Ho bisogno di tutto questo. Ma ho bisogno parimenti della libertà e dell’avversione nei confronti di ogni forma di crudeltà. Perché l’una è niente senza l’altra. E nessuno si sogni di costringermi a scegliere».
Pascal Mercier, Treno di notte per Lisbona, Mondadori.

Carmine Fiorillo – Luca Grecchi: Oltre la dimensione afasica della “gabbia d’acciaio” capitalistica

Euro sì euro no

Euro sì euro no

 

http://www.petiteplaisance.it/libri/231-240/237/sin237.html

 

Il refrain “Euro sì, euro no”

Oramai da qualche anno il dibattito pubblico delle forze più “radicali” nel panorama politico italiano, si incentra sul tema della permanenza dell’Italia nell’euro e nella Unione Europea. Associazioni, blog, perfino trasmissioni televisive, vivono sul refrain “Euro sì, euro no”. Rispetto ad altri temi, il dibattito in questo caso è anche sostenuto da una discreta schiera di studiosi, che hanno nel tempo apportato molti contributi.

L’errore dei“No euro critici verso il modo di produzione capitalistico”

Ci pare tuttavia che la doppia tesi sostenuta dai “No euro critici verso il modo di produzione capitalistico” – ossia: a) che l’uscita dall’euro e dalla UE sarebbe sicuramente benefica per le classi subalterne; b) che essa costituirebbe la principale condizione necessaria per favorire una progettualità anticapitalistica –, sia per la prima parte (a) incerta, e per la seconda parte (b) errata.
Per iniziare ad argomentare, chiariamo subito – per evitare che sussistano equivoci sul punto – di essere pienamente consapevoli che l’euro e l’Unione Europea sono strumenti del modo di produzione capitalistico, e come tali utilizzati solo in favore del capitale. Non è tuttavia sicuro, purtroppo, che un ritorno ad una valuta e ad una influenza politica nazionale migliorerebbero le condizioni delle persone. A parte, infatti, la difficoltà nel prevedere le interazioni che una uscita da una moneta forte potrebbe comportare all’interno di un sistema economico come quello capitalistico, ricordiamo che negli anni novanta del Novecento, con la lira e senza la UE, furono effettuate da vari Governi italiani – ed in genere nazionali – politiche economiche fortemente avverse ai ceti deboli. Le cose dunque si svolgevano in modo non molto dissimile dall’attuale, anche se gli effetti delle stesse si sentivano meno per il diverso andamento economico generale. I “No euro critici verso il modo di produzione capitalistico” potrebbero certo sostenere che non si tratta di ritornare a quella situazione, bensì di creare una uscita consapevole dall’Europa con riconquista democratica della autonomia politica ed economica dell’Italia. Ciò invero sarebbe certamente auspicabile, ma si tratta allora di un obiettivo molto più ampio, che dovrebbe essere meglio argomentato nelle modalità propositive.

Tre notazioni per correggere la rotta

Detto questo, vorremmo però soprattutto far notare alcune cose ai sostenitori della tesi per cui oggi l’uscita dall’euro e dalla UE sarebbe la principale condizione necessaria – sebbene non sufficiente – per realizzare poi una progettualità anticapitalistica. La prima è che la condizione, per definizione, è in generale ciò da cui in qualche modo dipende che una cosa sia o non sia. Ebbene: la progettualità anticapitalistica può essere svolta sia con che senza l’euro. Non occorre attendere l’uscita dalla UE per iniziare a pensare progettualmente. La seconda cosa è che di queste condizioni necessarie – o meglio: di questi primi passi utili per realizzare poi un cambiamento intermodale – ce ne sarebbero almeno una ventina, molte delle quali più importanti (ad esempio l’abolizione del precariato, la ricostituzione del welfare state, l’eliminazione della finanza, ecc.). La terza cosa è che l’uscita dall’euro e la progettualità anticapitalistica non sono direttamente collegate, come dimostrano sia il fatto che il capitale può avvantaggiarsi dalla uscita di alcuni paesi dall’euro, sia il fatto che molti critici dell’euro non sono affatto anticapitalisti.

Il limite dell’approccio monetario e geografico

Affrontare la progettualità anticapitalistica principalmente in un’ottica monetaria e geografica, peraltro, significa assumere un approccio molto limitato (riguardante solo pochi paesi), che non aiuta a ragionare in quei termini ampi e fondati richiesti da ogni discorso sulla totalità sociale – per una esposizione dei quali, almeno per la nostra posizione, ci permettiamo di rinviare a C. Fiorillo-L. Grecchi, Il necessario fondamento umanistico del “comunismo”, Petite Plaisance, 2014. Ci pare che la connessione fra uscita dall’euro e progettualità anticapitalistica sia sostenuta, da questi studiosi, principalmente alla luce del fatto che oggi molte persone sarebbero socialmente e politicamente aggregabili sul tema “no euro”, così come qualche anno fa lo sono state sul tema dei beni pubblici, del welfare state o della difesa della Costituzione. Tuttavia, per quanto si tratti di contenuti importanti, occorre avere chiaro che parliamo di provvedimenti socialdemocratici, non certo protesi al superamento delle modalità sociali capitalistiche. Possono dunque essere provvedimenti condivisibili nella situazione data (ossia fermo restando il modo di produzione capitalistico), ma sono difficilmente considerabili anche solo come primi passi di progetti anticapitalistici.

Il “contingente” elude la presa in carico di una progettualità umanistica e comunitaria

Il tema “no euro” è certo il tema contingente, del momento. Tuttavia ciò che è contingente, per natura, dura poco, sicché quanto aggrega oggi potrebbe non aggregare più domani. L’unico tema in grado di aggregare stabilmente, e dunque di porsi come referente anticapitalistico stabile, può infatti essere solo un progetto generale, umanisticamente fondato, di modo di produzione ideale in grado di mostrare alle persone modalità sociali alternative per la buona vita. Se il fine, insomma, è quello di orientarsi verso un modo di produzione comunitario (non si è realmente anticapitalisti se ci si limita alla critica del modo di produzione esistente), è necessario quanto meno chiarire questo fine, ovvero delineare in termini generali le strutture portanti di questo modo di produzione ideale cui tendere. L’argomento per cui occorre sempre e comunque battere su ciò che aggrega in un dato momento, alla fine, risulta infatti controproducente per la stessa causa anticapitalistica: non parlare mai di progettualità, di come deve essere un modo di produzione comunitario per essere realmente desiderabile, rende la via comunista impossibile da percorrere. Eraclito diceva in merito che se non si parla di un contenuto – per quanto, ne siamo consapevoli, assai difficile da realizzare come questo –, si contribuisce, col proprio non parlarne, a non vederlo mai realizzato.

Oltre la dimensione afasica della “gabbia d’acciaio” capitalistica

Immaginiamo che, a questa obiezione, i “No euro critici verso il modo di produzione capitalistico” risponderanno che essa è un po’ nichilista, in quanto oggi non vi è nessuna possibilità di realizzare progetti comunitari complessivi, mentre la proposta di uscita dall’euro è più concreta, applicabile, in grado di convogliare sigle ed associazioni; e che anche se essa potrà realizzarsi solo grazie al capitale, sarà pur sempre una piccola battaglia vinta, un granello di sabbia negli ingranaggi, ecc. Ora: va da sé che è più facile vincere una battaglia che vincere la guerra. Bisognerebbe tuttavia sempre avere chiaro – nonostante la metafora bellica sia quanto di meno umanistico esista – per cosa si sta combattendo, ossia avere chiaro se si sta facendo una battaglia per vincere una guerra, o se la si sta facendo semplicemente per resistere in qualche modo (ogni vera resistenza è tale, e può efficacemente essere duratura nel tempo lungo – nei suoi atti concreti che si è chiamati a compiere giorno per giorno –, solo se si fonda su un progetto che abbia il respiro profondo e consapevole di quell’orizzonte comunitario in cui si desidera vivere proiettandosi oltre quello afasico della “gabbia d’acciaio” che il “presente capitalistico” vorrebbe intrascendibile). Il rischio è, altrimenti, quello di impegnare risorse contrabbandando, come principale via d’uscita dalle sabbie mobili, il solo piccolo ramoscello che scende dall’albero, pur sapendo che esso, appena afferrato, inevitabilmente si spezzerà facendo ricadere nel pantano.

Qualche minimo contenuto per affrontare il problema

Ci permettiamo allora di aggiungere qualche contenuto per incardinare meglio il problema, sul quale auspichiamo si torni a discutere. Aristotele sosteneva che è il fine di una azione (di un sistema) che ne determina l’essenza. Il fine del sistema capitalistico – che è poi anche il principio che lo muove – è la massimizzazione del profitto. La sua struttura è basata sulla proprietà privata dei mezzi della produzione e sul mercato. Ci chiediamo: realmente si può pensare che una progettualità anticapitalistica possa fare a meno di considerare i cardini del modo di produzione capitalistico? Si può rispondere, certo, che riconquistare l’autonomia economico-politica è condizione necessaria, ma non sufficiente, per realizzare tale proposta. Non sarebbe però condizione ancor più necessaria avere qualche idea su come dovrebbe essere la struttura proprietaria, produttiva e distributiva in un modo di produzione sociale comunitario? Pensiamo di sì. Non è un caso che su queste condizioni, filosoficamente e politicamente impegnative, non ragioni nessuno, mentre all’uscita dall’euro guardino partiti sistemici come la Lega Nord, il Movimento 5 Stelle o il Front National.
Rimaniamo pertanto del parere che l’unico modo di prospettare una proposta anticapitalistica, oggi – sappiamo che è poco, specie per chi necessiterebbe di risposte subito, ma ci sembra la sola cosa seria da dire –, sia il cercare di favorire, con l’educazione filosofica, la teorizzazione di un modo di produzione sociale ideale in grado di favorire la buona vita dell’uomo. Senza una minima proposta progettuale in grado di aggregare stabilmente le persone, nessuna significativa politica di giustizia sociale sarà stabilmente realizzata dal modo di produzione capitalistico, strutturalmente ingiusto e conflittuale.
Notiamo infine che spesso, nei giovani che si avvicinano per la prima volta ai temi economici e politici, il tema “no euro” è un modo inconsapevole di dire no all’intero modo di produzione capitalistico. Tuttavia, bisogna essere consapevoli che colpire una parte non equivale a colpire l’intero, e soprattutto che se, per usare una metafora, si colpisce la coda del lupo (l’euro, o la UE), non si può pensare di fargli male sul serio. Chi ha vissuto e studiato le politiche economiche italiane quando c’era la lira, sa bene che l’esistenza di una autonomia politico-economica nazionale è solo il primissimo passo per avere una politica economica autonoma dal capitale. I più gravi problemi italiani sono, come negli anni novanta del Novecento – oggi più intensi, ma vale in tutto il mondo – povertà diffusa, iniquità distributiva, disoccupazione di massa. Ebbene: se la causa principale di questi fenomeni fosse l’assenza di una autonomia politico-economica nazionale, non si capirebbe per quale motivo situazioni analoghe si verifichino tuttora in molti altri paesi del globo caratterizzati appunto da autonomia politico-economica nazionale. Probabilmente ciò accade perché, nel sistema capitalistico, è inevitabile che una massa enorme di persone debba subire gli effetti della logica del profitto, e che i danni peggiori si verifichino più nei paesi deboli come l’Italia – tale anche se interna alla UE – che nei paesi forti.

Le scorciatoie non esistono

Sicuramente, l’argomentazione qui proposta impatta tempi lunghi (ma, nella progettualità intermodale, le scorciatoie non esistono). Sui tempi brevi, è possibile anche accettare che si cominci dalla uscita dall’euro. Il cominciamento di un discorso è però cosa ben diversa dal fondamento. Un discorso progettuale va fondato sull’uomo, su ciò che l’uomo è e su ciò che dunque richiede, in termini di modalità sociali, per vivere bene, per potersi compiutamente realizzare. Questa è la questione centrale, e la questione centrale non è una torre d’avorio, ma contiene in sé tutte le questioni rilevanti, stabilendo il loro significato autentico. Per questo è necessario fondare la propria critica dell’esistente non solo su una chiara conoscenza della realtà, ma su una solida progettualità umanistica. Solo in questo modo sarà infatti possibile costruire un modo di produzione sociale comunitario in grado di favorire la buona vita di tutti, e non limitarsi a qualcosa che può sicuramente essere realizzabile in tempi brevi, ma che alla fine non condurrà da nessuna parte, se non a rimanere, in mutate forme, nelle paludi attuali.
Carmine Fiorillo e Luca Grecchi

Cesare Pavese – Ritorno all’uomo: la carne e il sangue da cui nascono i libri. Una cosa si salva sull’orrorre: l’apertura dell’uomo verso l’uomo

Cesare Pavese

Da anni tendiamo l’orecchio alle nuove parole. Da anni percepiamo i sussulti e i balbettii delle creature nuove e coglianmo in noi stessi e nelle voci soffocate di questo nostro paese come un tepido fiato di nascite. Ma pochi libri italiani ci riuscì di leggere nelle giornate chiassose dell’èra fascista, in quella assurda vita disoccupata e contratta che citoccò condurre allora, e più che libri conoscemmo uomini, conoscemmo la carne e il sangue da cui nascono i libri. Nei nostri sforzi per comprendere e per vivere ci sorressero voci straniere: ciascuno di noi frequentò e amò d’amore la letteratura di un popolo, di una società lontana, e ne parlò, ne tradusse, se ne fece una patria ideale. Tutto ciò in linguaggio fascista si chiamava esterofilia. I più miti ci accusavano di vanità esibizionistica e di fatuo esotismo, i più austeri dicevano che noi cercavamo nei gusti e nei modelli d’oltreoceano e d’oltralpe uno sfogo alla nostra indisciplina sessuale e sociale. Naturalmente non potevano ammettere che noi cercassimo in America, in Russia, in Cina e chi sa dove, un calore umano che l’Italia ufficiale non ci dava. Meno ancora, che cercassimo sempplicemente snoi stessi. Invece fu proprio così.
Laggiù noi cercammo e trovammo noi stessi. Dalle pagine dure e bizzarre di quei romanzi, dalle immagini di quei film venne a noi la prima certezza che il disordine, lo steso violento, l’inquietudine della nostra adolescenza e di tutta la società che ci avvolgeva, potevano risolversi e placarsi in uno stile, in un ordine nuovo, potevano e dovevano trasfigurarsi in una nuova leggenda dell’uomo. Questa leggenda, questa classicità la presentimmo sotto la scorza dura di un costume e di un linguaggio non facili, non sempre accessibili; ma a poco a poco imparammo a cercarla, a supporla, a indovinarla in ogni nostro incontro umano.
Noi adesso sappiamo in che senso ci tocca lavorare. I cenni dispersi che negli anni bui raccoglievamo dalla vove di un amico, da una lettura, da qualche gioia e da molto dolore, si sono ora composti in un chiaro discorso e in una certa promessa. E il discorso è questo, che noi non andremo verso il popolo. Perché già siamo popolo e tutto il resto è inesistente.
Andremo se mai verso l’uomo. Perché questo è l’ostacolo, la crosta da rompere: la solitudine dell’uomo – di noi e degli altri.
La nuova leggenda, il nuovo stile sta tutto qui. E con questo la nostra felicità.
Proporsi di andare verso il popolo è in sostanza confessare una cattiva coscienza. Ora, noi abbiamo molti rimorsi ma non quello di aver mai dimenticato di che carne siamo fatti. Sappiamo che in quello strato sociale che si suole chiamare popolo la risata è più schietta, la sofferenza più viva, la parola più sincera. E di questo teniamo conto. Ma che altro significa ciò se non che nel popolo la solitudine è già vinta – o sulla strada di esser vinta? Allo stesso modo, nei romanzi, nelle poesie e nei film che ci rivelarono a noi stessi in un vicino passato, l’uomo era più schietto, più vivo e più sincero che in tutto quanto si faceva a casa nostra. Ma non per questo noi ci confessiamo inferiori o diversamente costituiti dagli uomini che fanno quei romanzi e quei film. Come per costoto, per noi il compito è scoprire, celebrare l’uomo di là dalla solitudine, di là da tutte le solitudini dell’orgoglio e del senso.
Questi anni di angoscia e di sangue ci hanno insegnato che l’angoscia e il sangue non sono la fine di tutto. Una cosa si salva sull’orrorre, ed è l’apertura dell’uomo verso l’uomo. Di questo siamo ben sicuri perché mai l’uomo è stato meno solo che in questi tempi di solitudine paurosa. Ci furono giorni che bastò lo sgardo, l’ammicco di uno sconosciuto per farci trasalire e trattenerci dal precipizio. Sapevamo e sappiamo che dappertutto, dentro gli occhi più ignari o più torvi, cova una carità, un’innocenza che sta in noi condividere.
Molte barriere, molte stupide muraglie sono cadute in questi giorni. Anche per noi, che già da tempo ubbidivamo all’inconscia supplica di ogni presenza umana, fu uno stupore sentirci investire, sommergere da tanta ricchezza. Davvero l’uomo, in quanto ha di più vivo, si è svelato, e adesso attende che noialtri, cui tocca, sappiamo comprendere e parlare.
Parlare. Le parole sono il nostro mestiere. Lo diciamo senza ombra di timidezza o di ironia. Le parole sono tenere cose, intrattabili e vive, ma fatte per l’uomo e non l’uomo per loro. Sentiamo tutti di vivere in un tempo in cui bisogna riportare le parole alla solida e nuda nettezza di quando l’uomo le creava per servirsene. E ci accade che proprio per questo, perché servono all’uomo, le nuove parole ci commuovano e afferrino come nessuna delle delle voci più pompose del mondo che muore, come una preghiera o un bollettino di guerra.
Il nostro compito è difficile ma vivo. È anche il solo che abbia un senso e una speranza. Sono uomini quelli che attendono le nostre parole, poveri uomini come noialtri quando scordiamo che la vita è comunione. Ci ascolteranno con durezza e con fiducia, pronti a incarnare le parole che diremo. Deluderli sarebbe tradirli, sarebbe tradire anche il nostro passato».
Cesare Pavese, Ritorno all’uomo; articolo pubblicato sul L’Unità di Torino, 20 maggio 1945.

Luca Grecchi – Cosa direbbe oggi Aristotele a un elettore (deluso) del PD

Aristotele

Cosa direbbe oggi Aristotele a un elettore (deluso) del PD

I dirigenti dei partiti tradizionali, quale è in Italia oggi soprattutto il Partito Democratico, si possono distinguere, in base al fine principale della loro attività, in due categorie: a) aventi come fine l’ottenimento di incarichi pubblici; b) aventi come fine la realizzazione di forme di giustizia sociale. Quando un partito governa, la prima tipologia, che di solito coincide con la cosiddetta “classe dirigente”, è contenta: si aprono infatti molte possibilità. La seconda tipologia, che di solito coincide con la cosiddetta “base militante”, tende invece paradossalmente ad essere scontenta: negli ultimi anni, in effetti, le politiche adottate dai governi non rispondono alle idee di giustizia sociale più condivise. Ciò accade in quanto, per riuscire ad ottenere il potere, i partiti devono sposare le teorie economiche dominanti, le quali si oppongono strutturalmente, nel modo di produzione capitalistico, alla giustizia sociale.

Non mi addentro, in questa sede, nella descrizione dei processi di conquista del potere da parte di organizzazioni, come i partiti, che pure dovrebbero essere democratiche (democrazia significa, in greco, “potere del popolo”). Il mio scopo è più limitato: vorrei solo mostrare come, a mio avviso, la delusione attuale di molti elettori PD sia principalmente frutto di una illusione, consistente nel ritenere possibili cose strutturalmente impossibili, per la struttura stessa del PD per come è divenuto. Saranno molto utili, in questa analisi, alcuni strumenti teorici forniti da Aristotele.

Come noto, l’antico filosofo invitava a distinguere tra ciò che un certo ente è in atto, e ciò che esso è in potenza. Il seme di una rosa è, in atto, un seme, ma in potenza è una rosa, poiché ciò è inscritto nella sua essenza. Diventerà anzi sicuramente una rosa, se non sarà impedito da qualche elemento accidentale. Ciò in quanto gli enti naturali hanno principalmente al proprio interno la causa del loro mutamento, ossia mutano soprattutto in base alla propria essenza, mentre gli enti sociali – quali sono anche i partiti – hanno tale causa principalmente all’esterno, ossia mutano soprattutto adeguandosi all’ambiente in cui vivono. Il PD oggi, in atto, non è un partito che si pone come fine prioritario la giustizia sociale, in quanto ha saputo adattarsi efficacemente all’ambiente capitalistico. Per comprendere se lo potrà diventare, occorre appunto cercare di comprenderne l’essenza.

Per la comprensione di tale essenza ci si deve basare su alcune evidenze e su alcune riflessioni, le quali paiono univoche nel mostrare che il fine prioritario del PD sta sempre più diventando la ricerca del potere. La prioritaria attenzione ai risultati elettorali, la presenza crescente di figure “acchiappavoti”, la vicinanza agli industriali più che ai lavoratori, i crescenti attacchi al sindacato, lo stesso atteggiamento “padronale” di molti giovani leader, paiono segnali inequivocabili. Ora: poiché – come insegna ancora Aristotele – quando muta il fine di un ente ne muta anche l’essenza, difficilmente il PD potrà in breve tempo, salvo appunto trasformazioni strutturali, divenire un partito avente come fine la giustizia sociale (la quale è cosa differente dai famosi 80 euro, i quali peraltro sarebbero stati anche di più semplicemente rinnovando in modo impersonale contratti di lavoro scaduti da anni).

Per concludere, è possibile chiedersi: davvero i militanti PD devono disilludersi di vedere attuata, nel futuro prossimo, una seria politica di giustizia sociale? Se i segnali che ho sinteticamente evidenziato sono corretti – ma in queste analisi, come Aristotele sapeva bene, è sempre possibile sbagliare, ossia considerare essenziali elementi che non lo sono, così come non considerare elementi essenziali –, direi che non possono farsi molte illusioni. La possibilità, cioè, che l’attuale PD realizzi riforme di giustizia sociale, è grosso modo la medesima che ha un seme di rosa di trasformarsi in una palma. Ciò che non è nel fine non è infatti nemmeno nella essenza di un ente, dunque non è in potenza presente in esso, e pertanto non può realizzarsi in atto. Si tratta di una vera e propria impossibilità, che una maggiore dimestichezza con la filosofia classica insegnerebbe a riconoscere. Forse è anche per questo che le riforme della scuola degli ultimi vent’anni hanno tolto spazio alla filosofia.

                                                       Luca Grecchi

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