Giorno: 15 Novembre 2015
Herbert James Draper (1863-1920)
Fabio Pecoraro – Salvatore Satta nei suoi «Soliloqui e colloqui di un giurista». Riconoscere che la scienza nasce dalla vita e non la vita dalla scienza
Salvatore Satta
Carissimo Carmine,
raccolgo il tuo invito a dare un piccolo contributo al blog Petite Plaisance. Ci siamo conosciuti in occasione del mio lavoro, più volte abbiamo parlato di giustizia e di diritto ed è per questo, ma non solo per questo, che rivolgo ai lettori, un invito alla lettura certamente ardito, per il tecnicismo di alcuni contenuti, ma di grande spessore umano. Si tratta, peraltro, di una lettura quasi impossibile anche dal punto di vista del reperimento del volume ed è per questo che trascriverò alcuni passaggi che ho particolarmente apprezzato, procurando, se non altro, beneficio a coloro i quali avrebbero, comunque, saltato i passaggi più strettamente giuridici. Il libro è una raccolta di scritti di Salvatore Satta, edita da Ilisso nel 2004, intitolato Soliloqui e colloqui di un giurista. E giurista è stato, Satta, tra i più grandi del secolo scorso, allievo di grandi maestri e a sua volta maestro di molti studiosi. Come giurista, si è occupato, prevalentemente, di diritto processuale civile, ma come un altro grande suo contemporaneo, Piero Calamandrei, egli è stato anche un “letterato”, capace di una accuratezza di linguaggio che, più che esser figlia di un certo modo di studiare o di abitudini di lettura ormai quasi scomparse, sembra, più radicalmente, figlia di un modo di vivere e di un mondo che, rassegnamoci, non c’è più.
Salvatore Satta
Di Satta ho sentito parlare, per la prima volta, nel 2001, dal Prof. Ferdinando Mazzarella, allora titolare della cattedra di diritto processuale civile presso l’Università degli studi di Palermo. Mazzarella, quell’anno, avviò il ciclo di lezioni con un suggerimento letterario ed esso riguardava il piccolo volumetto di Satta, edito da Adelphi, Il mistero del processo. «Potete studiare la materia su qualsiasi libro – ci disse – perché questa materia si studia sul codice, ma questo libro, se potete, leggetelo». Lo comprai e confesso che, sulle prime, non fu una lettura facile. Dopo alcuni anni, dopo la laurea, quando il processo mi era diventato più familiare, per quotidiana frequentazione delle aule di giustizia, sentii il desiderio di ritornare a quel suggerimento. A quel punto, la lettura mi rivelò, non solo e non tanto un contenuto che, la prima volta, non avevo colto, ma la grandezza stessa dell’autore; decisi, così, di procurarmi altre opere. Comprai La veranda (Ilisso 2002), De Profundis (Ilisso 2003, riedizione di una precedente uscita CEDAM del 1948) e con l’aiuto di un amico libraio, riuscii a procurarmi anche Soliloqui e colloqui di un giurista. La veranda è un romanzo di grande intensità, tratto da una esperienza personale dell’autore di soggiorno in un sanatorio. Descrivendolo farei un torto all’opera, ma voglio accennare ad una particolarità di questo libro, perché esso risale al 1927, epoca in cui il giovane Satta non era ancora il grande studioso che poi sarebbe divenuto e coltivava, forse, ambizioni di scrittore come, probabilmente, molti di noi a quell’età. De profundis è un libro scomodo, tutt’altro che allineato, che tratta dell’ultimo quarto di secolo della nostra storia patria, rivelando la grande capacità dell’autore di guardare la realtà nel suo concreto estrinsecarsi, fuggendo al fascino ed alla convenienza che certi inquadramenti formali, certe entificazioni, esercitano.
Da frequentatore del diritto, però, la lettura più formativa è stata proprio quella dei diversi “pezzi” da cui è composto Soliloqui e colloqui di un giurista. La selezione di articoli comparsi su riviste specializzate, di prolusioni, discorsi commemorativi ed altro ancora, è stata fatta dallo stesso Satta che, in questo modo, mette il lettore nelle condizioni di cogliere, leggendo tra le righe di specifici soliloqui o colloqui, il senso stesso della sua natura «intranquilla» di studioso e prima ancora di uomo.
Trattandosi di una raccolta di scritti eterogenei, è necessario che il mio invito alla lettura manifesti subito la ratio della selezione che ho operato, scegliendo quelli in cui minore è il peso del linguaggio tecnico giuridico, anche se i Tuoi più attenti lettori non potranno non apprezzare, in Satta, una spiccata capacità a parlare delle cose della vita affrontando argomenti tecnici dimostrando, così, vere doti di docente, oltre che di studioso.
Il libro si compone di sei parti (Soliloqui, Il libro delle prefazioni, Confessioni e battaglie, Saggi critici, Colloqui, Res gestae) e di una Appendice sullo Spirito religioso dei Sardi. Il passo che segue, è tratto dai Soliloqui e tratta del «formalismo nel processo».
Spesso, il linguaggio, lo stile di scrittura e l’esistenza stessa (nella vita quotidiana extra lavorativa) di chi pratica il diritto nei tribunali è permeato, in modo più o meno voluto e ricercato, da un certo formalismo che inevitabilmente allontana “gli altri”. Il cittadino che “incappa” in questioni giuridiche che abbisognano di esser discusse nelle aule dei tribunali, incontra una realtà spesso incomprensibile fatta di particolari di assoluto rilievo ed evidenze irrilevanti. L’occasione, per Satta, è il quarto Convegno dell’Associazione Italiana fra gli studiosi del processo civile, tenutosi il 4 ottobre del 1958
«Il formalismo comincia dove il diritto finisce. Esso rappresenta veramente una frattura dell’esperienza giuridica: al posto dell’esperienza e del suo libero movimento si pone una falsa esperienza, cioè l’immobile vuoto, che si tratta come cosa salda, modellandolo in forme che essendo forme del vuoto, hanno il pregio di essere infinite» (p. 72).
L’attaccamento al concreto che, da giurista, Satta manifesta in queste parole rappresenta un motivo conduttore, forse, della sua intera opera. Basta leggere il suo De profundis per cogliere la sua propensione al racconto ed alla analisi di una verità fatta di cose reali, anche a costo di omettere passaggi che, per molti, sono invece di essenziale importanza. Il formalismo di cui Satta parla «è unico e unitario, come l’esperienza della quale è in certo modo la scimmia», ma l’attenzione dell’autore è posta a ciò di cui il giurista “vive”.
«Nel suo profondo lavoro di astrazione il giurista elabora dei concetti, vale a dire, comprende, secondo l’etimologia della parola, la realtà, ne scopre e ne fissa l’essere, cioè la forma essenziale, l’ordine per cui essa è giuridica. Nulla è più legittimo di questa elaborazione, che costituisce il proprium della scienza giuridica, e la rende eccellente su tutte le altre, perché i concetti che essa elabora hanno un effettivo valore, sono la stessa realtà. Il grave pericolo di questa elaborazione, comune a tutto il pensiero speculativo, ma particolarmente sensibile per il giurista, è che a un certo punto le posizioni si capovolgano, come in quel singolare esperimento della topologia per cui dalla superficie dritta si passa invisibilmente alla superficie rovesciata, cioè si aboliscono le due superfici: e così i concetti acquistino una tale assolutezza da diventare generatori della realtà, in luogo di essere generati, un arcano immobile mondo al quale il concreto mutevole mondo dell’esperienza deve adeguarsi. È una sorta di teologismo o di donchisciottismo giuridico, una posizione diametralmente opposta a quella dell’empirismo, e di questa non meno pericolosa per la conoscenza. Nessuno dubita, ad es., della verità del concetto di ordinamento giuridico, e della sua adeguatezza a rappresentare la realtà stessa, in quanto appunto si presenta ordinata. Ma questo stesso concetto acquista a un certo punto tanta forza di suggestione che si stacca dalla realtà ordinata, della quale si presenta come ordinatrice, un Ordinamento con la o maiuscola, una personificazione o deificazione, del quale si dice che si attua, che si concreta, che si viola, che ha i suoi ministri, e al quale gli uomini sono soggetti ed estranei» (p. 76).
In questo passaggio, che prosegue con un altro esempio (che ometto per brevità), Satta sembra esprimere quello scollamento dalla realtà che, il più delle volte, rende il diritto qualcosa di estraneo ai membri della societas, di cui pure è espressione tra le più alte.
«Non vi è bisogno – prosegue l’Autore – di illustrare i guai che questa deformazione produce: e sarebbero guai sopportabili se restassero sul piano della conoscenza teorica. Alla fin fine, il mondo uno se lo concepisce come vuole. Ma purtroppo nel diritto la conoscenza è esperienza; e non esiste dualismo tra teoria e pratica».
Le conclusioni cui Satta giunge in questa sua riflessione, sono in linea con il suo sentire, tenacemente attaccato alla concretezza delle cose, in una prospettiva profondamente “umanistica”:
«[…] non esiste una ricetta, non esiste una formula che, operando dall’esterno, elimini il formalismo. Non leggi, non ordinamenti, non costituzioni, non soprattutto riforme imposte dall’alto, nulla vale a distruggere questo singolare atteggiamento dello spirito umano: anzi, come ho detto, la storia ci insegna che ogni tentativo fatalmente conduce ad esasperarlo. Per raggiungere qualche risultato bisogna operare dall’interno, cioè da noi stessi, compiere quel profondo atto di umiltà di fronte alla vita che è stato espresso per i medici, ma che vale per tutti: cura te ipsum. Riconoscere che la scienza nasce dalla vita e non la vita dalla scienza; ammettere che tutte le nostre costruzioni, i nostri sistemi sono relativi; o se si vuole, che il concreto, cioè la vita nel suo continuo mutamento, richiede un’adesione spirituale che trascende i limiti della scienza» (p. 82).
Il costante richiamo al “concreto”, secondo me, è uno dei più grandi insegnamenti che Satta lascia agli studiosi del diritto e credo che il nostro Paese – attraversato da continui, ma sempre deboli e poco ispirati, venti di riforme, promosse da una classe politica incapace di correggersi, per la quale la “riforma” è pura velleità – il nostro Paese, dicevo, sarebbe un posto più semplice in cui vivere, se i costruttori di leggi realizzassero quale è il compito del giurista:
«Ogni giorno di più acquistavo coscienza di quello che era il mio compito, e il compito di ogni giurista: non costruire, ma vedere, ma leggere con semplicità nei fenomeni, e descriverli nella loro genesi e nella loro funzione. La costruzione non è opera del giurista, sia esso legislatore o interprete, che non è e non deve essere creatore. Sotto questo angolo visuale, tutto acquistava concretezza e chiarezza, perché concreta e chiara è la realtà dei rapporti sociali» (p. 137).
Il passo è tratto dalla prefazione al volume Esecuzione forzata del 1937. Sono parole che, se poste idealmente al cospetto delle ardite costruzioni, proceduralizzazioni, astrazioni di cui il nostro ordinamento è saturo (e che lo rendono altamente inefficace sia sotto il profilo della disciplina dei rapporti tra privati, che sotto quello delle norme che regolano il funzionamento della pubblica amministrazione), fanno emergere la violenta “presunzione” di molti operatori del diritto.
Voglio avviarmi a concludere questo mio piccolo scritto, su un autore che meriterebbe migliore e maggiore attenzione di quella che le mie risorse e la pazienza di chi vorrà leggere permettono, virando il discorso su un profilo più strettamente “umano” che traspare nell’opera di Satta continuamente, ma che egli, di tanto in tanto, permette a se stesso, indugiando in ricordi, malinconie e – perché no – qualche sana arrabbiatura. A tal proposito, la prefazione del volume sull’Esecuzione forzata, del 1937, chiude con una dedica al fratello Filippo, preferito, per questo scopo, al padre morto da anni, proprio perché vivo ed in grado di apprezzare la dedica di un libro giuridico che, come egli stesso afferma non può e non deve appartenere alla vita interiore di chi lo scrive (p. 138). Alla voce malinconie, colloco il riferimento, carico di suggestioni, a Francesco Carnelutti, grande antagonista scientifico di Satta, da questi definito «grande uomo». La presentazione della settima edizione del Manuale di diritto processuale del 1967 così recita:
«Nel 1948 mi lanciavo con questo libro verso gli anni a venire; oggi mi par di procedere come gli indovini di Dante, col capo voltato sul dorso. Gli ultimi grandi esponenti della scienza postchiovendiana, Calamandrei, Redenti, Carnelutti, se ne sono andati, se ne è andato Capograssi, se ne è andato Ascarelli, precursori di una scienza nuova. (Io sono rimasto. Ma non ne sono tanto sicuro. Forse sono ibernato.) C’era, in quegli anni, un’atmosfera da grandi colloqui, e nei colloqui si rifletteva una terra sconvolta dalle più dure esperienze, la paura di queste esperienze, il coraggio di volerle comprendere, anche a costo di ricominciare da capo. Dove sono le male parole che Carnelutti scagliava contro ogni mio libro, a cominciare da questo: dove le mie irriverenti risposte? Non ho mai capito il principio del contraddittorio come da quando il grande uomo non c’è più» (p. 151).
Quando leggo queste parole, il confronto con il livello attuale dello scontro tra portatori di pensieri differenti è impietoso. L’atmosfera di «grandi colloqui» a cui Satta fa riferimento è certamente, almeno nell’immediato, circoscritta all’ambito del diritto, così come erano certamente circoscritte ad esso le «male parole» che egli riceveva, ricambiando con «irriverenti risposte», da Carnelutti, ma quanta differenza, quanta distanza tra quei colloqui e quelli a cui oggi siamo abituati!
Sul finale della stessa presentazione, Satta rivolge al lettore altre parole di grande suggestione:
«Bisogna che il pensiero rinasca, e imponga la sua legge. E questo non può avvenire in un giorno o in un anno, o forse in cento anni, né può essere opera collettiva, poiché i tempi della follia collettiva sono passati, e la speranza è ormai riposta nella follia individuale. Bisogna che ognuno, nel suo piccolo, riconosca per sé e per gli altri l’esigenza del pensiero nihil inde sperans. O meglio, avendo come sola remunerazione la speranza» (p. 154).
Se avesse voluto dirlo in inglese, forse, avrebbe scritto “stay foolish”, come qualcun altro, molti anni dopo, avrebbe detto.
Nella presentazione al primo volume del Commentario al codice di procedura civile, anno 1959, Satta spiega «come ha studiato» e lo fa con queste parole:
«Di solito, lo studio evoca l’idea di una biblioteca, e di un signore che legge e legge col proposito e col risultato di aggiungere, negli scaffali e nel catalogo, un altro volume. Ci possono essere, nelle scienze così dette sperimentali, alambicchi e storte, ma la cosa non muta gran che. Dico subito, a scanso di equivoci, che questo studio è non solo legittimo, ma assolutamente essenziale. Nessuno può pensare di avere una voce viva se non ha ascoltato le grandi voci morte, se non ha vissuto in comunione coi padri, se non ha ripercorso le loro vie, oserei affermare se non ha creduto più che nelle loro verità, nei loro errori. Al di fuori di questo, tutto è sterile dilettantismo. Personalmente aggiungo, ho trascorso coi libri gli anni più belli della mia vita, e se di una cosa mi dolgo è di non aver potuto, per pochezza di forze e per private vicende, abbracciare tutto il pensiero di quelli che mi hanno preceduto» (p. 155).
Nella prefazione al secondo volume del medesimo Commentario, pubblicato un anno dopo, l’Autore sembra voler precisare:
«Ma se noi possiamo capire il linguaggio dei padri, non possiamo, non dobbiamo più parlarlo. Insistendo a farlo, ci riduciamo, nel migliore dei casi, a puristi del diritto, usiamo veramente parole che sono un mero suono, concetti che non hanno più alcun contenuto, non ‘comprendono’ più nulla» (p. 162).
Chiudo con alcuni passi tratti da una polemica che coinvolse Satta, nel 1967. Mazzarella aveva pubblicato un libro dal titolo “Contributo allo studio del titolo esecutivo” e la Rivista di diritto processuale, già diretta da Carnelutti, lo recensisce in un modo che provoca in Satta una vivace, nostalgica, reazione:
«Quando osservo la nuova copertina della Rivista di diritto processuale, e al posto di Carnelutti e della sua imponente solitudine vedo una sfilza di nomi, allineati in bell’ordine come consiglieri di amministrazione, mi vien fatto di pensare a quel mitico drago, cui, dopo la morte, furono strappati i denti, e dai denti seminati vennero fuori tanti soldatini, che si misero a costruire le mura di una città. Il mito, se non erro, è quello di Cadmo, la regione dove il mito nacque fu chiamata Beozia, e fu la patria di Esiodo e Pindaro.
È stata davvero un’idea curiosa quella di credere che la sede vacante potesse essere riempita da un governo di massa, come a dire che la quantità potesse sopperire alla qualità. E pazienza se gli uomini di quantità si fossero assunti il compito devoto quanto assurdo di mantenere nel tempo un’opera che col suo creatore usciva fuori dal tempo: ma essi si sono presi sul serio, hanno creduto di essere, per il solo fatto della inscriptio, figli del drago, draghi essi stessi, nove draghi al posto di uno. È di ieri una recensione di V.D. (trasparente sigla di uno dei dragonetti) a un libro di Massa che comincia così: ‘Il Massa appartiene alla schiera (per fortuna non troppo numerosa) di coloro che credono che il pensiero di Capograssi non solo esprima una personale e irripetibile esperienza, ma possa anche fornire un metodo valido per gli studi giuridici in genere e per quelli processualistici in particolare’. Avete capito? V.D. e Capograssi, quel Capograssi davanti al quale Carnelutti si faceva, e si diceva piccolo piccolo, il cui metodo è tanto poco valido (meglio si direbbe tanto poco metodo) che ricreò Carnelutti, e ricreò la sua stessa rivista, come può agevolmente vedersi scorrendo le annate dalla fine della guerra fino all’avvento di V.D.
È di oggi un’altra recensione, stavolta del dragonetto E.G., che mi ispira queste note. Ma prima voglio sottolineare che i successori a titolo originario di Carnelutti hanno avuto l’imprudenza di conservare la famosa rubrica delle recensioni, dalla quale il drago ha dominato a suo modo per quarant’anni giusti la scena della vita giuridica italiana. Non hanno inteso che questa sì era una esperienza irripetibile, perché Carnelutti capiva i libri senza leggerli, mentre essi li leggono senza capirli. Questo è appunto il torto che io faccio a E.G.: di aver letto il libro di Mazzarella, Contributo allo studio del titolo esecutivo» (p. 268).
Poco più avanti, prima di addentrarsi nel merito, l’affondo:
«È chiaro che io non intendo qui fare una controrecensione: ci penserà M., se crederà, a difendersi nella stessa rivista, come ne ha anche giuridicamente diritto. A me interessa parlare del libro unicamente perché E.G., dopo averlo bistrattato, mi ha tirato imprudentemente in causa, rendendomi praticamente responsabile del fatto che il libro (come a dire la mia opera) confonda, più di quanto non chiarisca, le idee agli studiosi del titolo esecutivo.
Come un libro possa confondere le idee ‘agli studiosi’ mi pare difficile capire a meno che E.G. non identifichi gli studiosi con se stesso, o con gli intangibili professori di ruolo in generale. Comunque dimentichiamoci di avere davanti E.G. anziché Carnelutti, e vediamo di dire qualcosa che possa tornare utile alla scienza».
Il seguito alla pubblicazione di questo scritto, la Rivista di diritto processuale pubblicò, a firma della direzione, un trafiletto nel quale additavano Satta come «un cattivo esempio ‘per aver offeso il diritto fondamentale che ha ogni studioso, al pari di ogni uomo, al rispetto della sua dignità’». La risposta di Satta, pubblicata nella postilla alla ristampa del medesimo articolo, rivela la profondità e la sagacia dell’uomo:
«La Rivista di diritto processuale è padrona di abbrunare la sua bandiera. Ma l’equivoco è evidente. È incontestabile che ogni uomo possiede bergsonianamente la sua dignità, per il solo fatto di essere uomo, né io credo di aver mai offeso la dignità di nessuno. Ma lo studioso non ha una sua dignità, cioè per lui il problema non si pone in termini di dignità, ma di valore. Sulla sussistenza di questo valore il giudizio è libero, né costituisce mai, salvo assurdi privilegi, offesa. Pertanto io non solo non ho dato un cattivo esempio, ma ne ho dato uno ottimo, e i giovani farebbero bene a seguirlo in ogni occasione» (p. 274).
Con queste parole, davvero, concludo, ringraziando te per l’occasione che mi hai dato di riaprire Soliloqui e colloqui di un giurista ed i tuoi lettori, per la pazienza e per l’attenzione.
Fabio Pecoraro
Salvatore Antonio Bravo – Una morale per M. Foucault?
Introduzione
Non vi sono opere in cui è presente una trattazione etica: il tema è disperso nei suoi testi e si intreccia tra decostruzione e costruzione del soggetto. Si cercherà, quindi, di rinvenire le tracce che possano permettere di ricostruire una possibile proposta etica dell’autore.
L’oggetto dell’analisi di Foucault, come egli ha più volte evidenziato, è il soggetto e non il potere; si potrebbe cogliere in questo una sensibilità etica, giacché l’etica ha al centro la persona e tutto riconduce ad essa.
Il rapporto potere-verità ha rappresentato un’ossessione cognitiva nel suo percorso intellettivo. Il fine dichiarato è stato sganciare il potere costituito dalla verità, in questo binomio Foucault coglieva l’invasività minacciosa verso il soggetto, che in tal modo cade nelle maglie dei processo di assoggettamento senza consapevolezza, nel silenzio di una negazione senza redenzione.
Rompere il binomio potere-verità ha l’effetto di una scissione atomica e libera una quantità inesauribile di energia; i soggetti liberati, infatti, possono uscire da silenzi e secolari mortificazioni, per una rottura epistemologica assoluta: la volontà di sapere, sostituendo la verità, che, mentre si afferma capillarmente, divora le alterità e conduce a nuovi modelli inaspettati di vita, protagonista un soggetto, che altrimenti sarebbe stato attraversato da forme assoggettanti vissute quali uniche possibile.
Si descriverà il possibile percorso di Foucault tra decostruzione del potere e gli effetti nei campi d’azione.
Un nuovo soggetto è liberato dall’Umanesimo e dai suoi assoluti funzionali ai sistemi di potere, nel cui orizzonte la parola verità non porta il peso dell’esclusione, ma, sostituita dalla volontà di sapere, può rifondare e liberare nuove forme di soggettività per nuovi campi d’azione in cui esserci.
L’ Enunciato
L’enunciato occupa una posizione centrale all’interno della struttura del pensiero di Foucault, è il mezzo minimo e complesso mediante il quale è possibile ricostruire dinamicamente saperi, oggetti del sapere, parole e soggetti.
Il soggetto e le parole sono gli effetti dell’enunciato all’interno di uno spazio dove avvengono ed emergono soggetti ed oggetti del sapere. Gli enunciati non sono mai singoli, ma sempre in una relazione tendenzialmente olistica con altri enunciati.
Se vi è l’enunciato, si eclissa ogni umanesimo: non si ricerca la sostanza o i miti concettualmente limitrofi (soggetto forte, origine, sostanza, continuità).
Il piano di emersione si fa privo di profondità, manca lo sguardo che insegue con la parola la causa e l’effetto.
Nel campo d’azione gli enunciati costituiscono la rete di relazioni spaziali e temporali entro cui si pone l’emergenza, essi non sono le precondizioni, queste ultime conservano la profondità dell’origine e sono sottratte allo sbattere delle spade del campo d’emersione dove sguardi, ruoli, dicibilità, gesti, orizzonti percettivi si intrecciano.
L’enunciato è la genealogia della parola, della dicibilità. E’ una funzione e non una struttura. Non appartiene al soggetto e non fa riferimento ad esso, piuttosto è una funzione in un campo d’azione che consente l’emergere degli oggetti.
L’inversione è avvenuta, per tradizione tipica dell’Umanesimo si partiva dal soggetto o da un oggetto epistemico, entrambi riposavano in un tempo annichilito dalla profondità. Ora sono restituiti al campo d’azione dove emergono grazie alla funzione enunciativa. È ripetibile poiché ha un suo statuto all’interno di un campo di utilizzazione. Vive in uno spazio, in un reticolo di funzioni, acquisisce in tal modo visibilità e materialità, consente di dire, di essere riconosciuto, ripetuto, circola, si dinamizza nel campo enunciativo ma all’interno di un campo di stabilizzazione, altrimenti non è possibile l’emersione di un sapere (vedasi la funzione enunciativa in Archeologia del Sapere).
Nella Nascita della clinica Foucault descrive il passaggio tra tipi di approccio metodologico in medicina, cogliendo la funzione della spazializzazione e della verbalizzazione, entrambe sono colte nel loro farsi, nel loro emergere al fine di cogliere l’oggetto e di formarlo.
Spazializzazione e verbalizzazione divengono funzioni enunciative per l’emersione del soggetto.
Così Foucault: «Per cogliere la mutazione del discorso all’atto della sua produzione bisognerà interrogare qualcosa di diverso dai contenuti tematici o dalle modalità logiche, e volgersi verso la regione in cui “le cose” e le “parole” non sono ancora separate, là dove, a fior del linguaggio, modo di vedere e modo di dire si compenetrano ancora. Bisognerà interrogare la distribuzione originaria del visibile e dell’invisibile, nella misura in cui è connessa colla divisione tra ciò che si enuncia e ciò che viene taciuto: apparirà allora, in una unica figura, l’articolazione del linguaggio medico e del suo oggetto. Ma non v’è precedenza di sorta per chi non si pone alcuna questione retrospettiva: sola merita d’esser portata in una luce di proposito indifferente la struttura parlata del percepito, lo spazio pieno nel cavo del quale il linguaggio assume volume e misura. Bisogna porsi, e, una volta per tutte, mantenersi al livello della spazializzazione e della verbalizzazione fondamentali per il patologico, là ove prende origine e si raccoglie lo sguardo loquace che il medico posa sul cuore venoso delle cose» (M. Foucault – La Nascita della clinica – Einaudi Torino – 1991).
Dunque l’enunciato assomma gesto, sguardo, visibile, invisibile in un campo di relazioni, dal cui incontro si forma l’oggetto, in questo la patologia.
L’autopercezione del medico inserito in uno spazio di relazioni è sostenuta dai linguaggi attivi in uno spazio, quali verità legittimate dalla clinica, e questo consente di definire una posizione di potere, una pratica di potere all’interno di un fascio di relazione che ritaglia nel farsi la malattia e, dunque, il paziente.
La parola enunciativa è colta nello spazio della sua dicibilità, condensata nel gesto, che mentre dice esclude, marginalizza saperi non legittimati dalle strutture di potere, nel contempo emerge nel campo delle relazione-azioni l’oggetto nominato, prende forma nella parola che porta con sé lo spessore spaziale del gesto.
L’ enunciato, dunque, si riferisce ad un campo funzionale dove si concretizza la dispersione del soggetto: il medico non è l’autore, il protagonista col suo io roccioso, piuttosto egli stesso emerge nel campo in quanto attraversato da un fascio di relazioni spaziali.
Si è formato come soggetto medico nello spazio della clinica, nella lingua specialistica che fa di lui un medico che si autopercepisce in una posizione di potere, che sussiste all’interno di una rete spaziale in cui incontra e definisce la malattia, la patologia, il paziente.
Se si sposta il medico in un’altra istituzione, in un altro spazio di relazioni, emerge la dispersione del soggetto che assume una funzione enunciativa differente.
Dov’è l’autore?
Dov’è il soggetto fondato in senso trascendentale?
I rapporti si invertono, è nelle maglie delle relazioni e delle funzioni enunciative che emergono i discorsi e con essi i soggetti. Processi di soggettivazione corrono paralleli alla formazione dei discorsi.
Chi parla?
Il soggetto è sostituito da un mormorio, da un “si dice” che affiora dalla carne della soggettivazione. Sii taglia, dunque, la testa al re, con essa ogni forma di soggettività umanistica.
Il potere scorre ovunque, ha perso con la testa ogni centro, come il dio di Cusano, il centro è ovunque.
Entstehung, l’emergenza, è l’entrata in scena delle forze, con esse l’enunciato fa la sua apparizione-irruzione, lo spazio si distribuisce e con esso gli uni sono dinanzi agli altri: lo sguardo, il gesto, la posizione occupata nello spazio. La parola si nutre dell’apparire materiale per tagliare lo spazio, per attraversarlo e restituire ad ognuno con la decifrabilità, in un confronto, affronto non privo di tensioni ripetibili.
Il soggetto ‘forte’ ripiegato nella sua sostanza splendente prima della sua caduta, identità rintracciabile all’interno della contingenza spaziale e delle forme di verbalizzazione fa parte di quel regime di verità che trova la sua genealogia all’interno del potere.
L’autore diventa il veicolo delle verità funzionali al sistema, che pongono il soggetto prima del tempo, anteriore allo spazio, il depositario istituzionale della verità, la linea che consente di identificare la continuità della verità.
La continuità trova nel soggetto-autore la sostanza mediante cui costruire una storia, dove potere e verità vivono in un binomio indiscutibile: «Credo che esista un altro principio di rarefazione di un discorso. Si tratta dell’autore. L’autore considerato non come l’individuo parlante che ha pronunciato o scritto un testo, ma l’autore come principio di raggruppamento dei discorsi, come unità e origine dei loro significati, come fulcro della loro coerenza» (M. Foucault – L’ordine del Discorso – Einaudi Torino – pag 22).
Per fondare una nuova morale libera da forme di soggettivazione ed assoggettamento diventa necessario, con la morte del soggetto, introdurre la wirkliche Historie, la quale restituisce definitivamente l’uomo e le sue esperienze epistemiche alla sua temporalità. La finitudine e la fine dell’Umanesimo sono i capisaldi teoriciche fondano un’etica per Foucault.
Con l’enunciato e la sua pratica il soggetto e la parola sono gli effetti delle pratiche discorsive; così Deleuze sull’enunciato: «Ma tutte queste posizioni non sono figure di un Io primordiale da cui deriverebbe l’enunciato: esse derivano, al contrario dall’enunciato stesso, e a questo titolo sono i modi di una ‘’non persona’’, di un ‘’EGLI’’ o di un ‘’SI’’- EGLI parla, ‘’Si parla’’ – che si specifica a seconda della famiglia di enunciati. Foucault si collega così a Blanchot che denuncia una ‘’personologia’’linguistica, e colloca i posti di soggetto nello spessore di un mormorio anonimo» (G. Deleuze – Foucault – Feltrinelli Milano – pag 18).
Non vi è più una intenzionalità, lo spessore profondo di una coscienza, uno stato di cose avulso dalle realtà e dai contesti materiali della storia.
Con tale fondamenti ogni etica di tradizione umanistica tramonta, al suo posto resta un soggetto con il compito di costruire individualmente la propria soggettività e percorsi di consapevolezza.
In Foucault la metodologia genealogica, mutuata da Nietzsche, riporta l’uomo nelle maglie della sua finitudine e con essa vi è la fine di ogni mito prima della caduta; resta l’assoluta libertà di un soggetto che può diventare con la cura di sé un’opera d’arte, materiale duttile da cesellare.
La volontà di sapere sostituendo la volontà di verità col suo potere censorio, col suo ritagliare gli spazi della dicibilità, ridona la libertà del poter essere, potenzialità infinite si aprono alla fine della storia dell’Umanesino, resta la responsabilità dell’individuo dinanzi a se stesso.
Se l’Umanesimo legava l’individuo ad una socialità iscritta nella natura, destino ineludibile ed ineluttabile, ora l’individuo è solo con la sua carnalità sciolta da legami trascendenti.
La creatività, la liberazione dei possibili, spinge e rompe o minaccia di rompere ogni identità costruita seconda continuità.
Pensiero divergente che si avviluppa nel segreto della carne che ritrova se stessa come traguardo e resistenza.
Ora l’uomo è liberato, la volontà di potenza nietzschiana ha trovato una nuova modalità di espressione totale, oltre la genealogia, nei reticolati della microfisica del potere, la liberazione induce ad un prospettivismo consapevole.
Cosa resta?
Foucault incontra fortemente e pericolosamente Nietzsche: un nichilismo attivo è quanto propone Foucault, non resta che il divenire da interpretare (cfr. Nietzsche – La volontà di potenza – aforisma 72).
Riportato il soggetto alla sua storia, svelate le continuità come forme di manipolazione, la storia può diventare il luogo di un palcoscenico dove i soggetti sono mossi da forme di sperimentazione etica e dalla cura di sé, testimonianza di una umanità liberata e prometeica.
Non vi è alcun concetto di natura, nessuna socialità, nessuna intenzionalità solo il possibile: la carne liberata può prendere il suo bisturi e ritagliare la sua anima.
La morte di Dio che Foucault coglie nella sua pienezza consente la ricerca di un’etica da sperimentare. Fin dove spingersi, qual è il limite oltre il quale non è dovuto sporgersi non è dato sapere.
Gli interdetti
Liberare le individualità significa svelare le forme implicite di censura che si ritrovano nei campo epistemici, nel mormorio che mentre avviene spazializza, dandone i confini e le possibilità d’essere all’individuo.
Si ritrova un Foucault, figlio della scuola del sospetto, che insegue gli interdetti nel loro prendere forma.
La lezione di Marx e Nietzsche sono qui presenti: il primo svela le logiche del potere, il quale si autofonda su presunti universali che celano interesse particolari, il secondo indica nella maschera, il manifestarsi di un’apparenza che mostra l’invisibile.
Quest’ultimo è costituito dalle forze inconsce che parlano in quella maschera a cui il soggetto è ridotto.
La distanza che lo separa da Marx è notevole, in quanto ha tagliato la testa al re, e la sua microfisica del potere svela la circolarità del potere, la sua dispersione nelle istituzioni che sono il campo d’azione del mormorio in cui il soggetto prende forma e dà forma.
L’enunciato e la sua funzionalità rende il farsi del potere visibile.
Per Foucault il potere è ovunque e rende possibili fasci di relazioni in cui il soggetto è immischiato, diventando parte integrante del potere.
Per Marx il potere può essere diviso spazialmente lungo una linea netta, che divide i detentori da coloro che ne sono privi, per Foucault è una diagonale che disegna lo spazio di tutti i soggetti.
Malgrado la sua militanza nel partico comunista francese, la distanza teorica dello stesso non poteva essere più grande, e difatti la sua espulsione ne fu una conseguenza.
Rendere consapevoli le forme di dicibilità e svelarne le censure è una precondizione assoluta per formulare un’etica nel pensiero di Foucault.
Per liberare gli individui e le potenziali individualità si deve staccare il potere dalla verità per far questo Foucault elenca una serie di procedure che consentono il binomio potere – verità.
La volontà di verità consente la soggezione antropologica ovvero la trasmissione e la ripetizione del binomio verità – potere a tal fine ‘funziona’ la soggezione a Dio, alla sostanza, alla natura, alle leggi della storia.
Il commento quale modalità conservatrice dell’identità permette la ripetizione in modo liturgico e solo pochi, depositari delle tecniche e dei linguaggi.
Se il commento è blindato, codificato nella sua lettura interpretativa, la sua verbalizzazione permette la conservazione di istituzioni, e spinge ogni ‘lettura altra’, verso la dequalificazione epistemica.
Le Università con la loro ‘citatologia’, direbbe il compianto Costanzo Preve, sono modus agendi di esclusione e di autoriproduzione dei poteri, portatori nel loro statuto la violenza cognitiva mascherata da formalismi liturgici: «L’indefinito spumeggiare dei commenti è lavorato dall’interno dal sogno di una ripetizione mascherata: al suo orizzonte, non vi è forse nient’altro che ciò che era al suo punto di partenza, la semplice recitazione. Il commento scongiura il caso del discorso assegnandogli la sua parte: esso consente certo di dire qualcosa di diverso dal testo stesso, ma a condizione che sia questo testo stesso ed essere detto e in qualche modo compiuto.» (L’Ordine del Discorso – Einaudi – pag 22).
La Partitura è altra strategia di esclusione, si insinua nel linguaggio e nei confini epistemici mediante antesi quali Ragione – Follia la partitura concettuale diviene una pratica di esclusione della parola e degli spazi: il manicomio e un effetto della pratica della partitura: «Esiste, nella nostra società, un altro principio d’esclusione: non più un interdetto, ma una partizione e un rigetto. Penso alla opposizione tra ragione e follia ( ) La follia del folle si riconosceva attraverso le sue parole; esse erano il luogo in cui si compiva la partizione; ma non erano mai accolte né ascoltate.» (ibidem – pag 11).
In Sorvegliare e Punire e in Storia della Follia la partitura è resa operativa e visibile nella definizione degli spazi, nella geometria dei confini, il cui perimetro segna la partizione tra il mondi di senso ed il mondo dove la parola collassa in un insensato dire che va normalizzato per cui il potere istituzionale pratica un ortopedia pedagogica.
Le modalità di esclusione presuppongono la disciplina: irregimentare le scienze, espellere da esse ogni modalità epistemica non riconosciuta e che minacci la sua autoriproduzione, la sua istituzionalizzazione: «Entro i suoi limiti, ogni disciplina riconosce proposizioni vere e false: ma essa respinge oltre i suoi margini tutta una teratologia del sapere. L’esterno di una scienza è più o meno popolato di quanto non si creda: certo, c’è l’esperienza immediata, i temi immaginari che portano e ripropongono senza posa credenze senza memorie; ma forse non ci sono errori in senso stretto, poiché l’errore non può sorgere ed essere deciso se non all’interno di una pratica definita; in compenso si aggirano dei mostri, la cui forma cambia con la storia del sapere.» (ibidem – pag 27)
La storia genealogica è dunque finalizzata a ritrovare dietro la continuità, le leggi che definiscono la continuità e nello stesso tempo segnano i confini tra dicibile ed indicibile.
La storia genealogica rivolge l’attenzione conoscitiva verso gli esclusi, liberare il non detto della storia, le individualità mute e sconfitte ma il cui recupero, la cui parola indica la violenza della volontà di verità: «Atro uso della storia: la dissociazione sistematica della nostra identità, pur debole, che cerchiamo di assicurare e di raccogliere sotto una maschera, non è che una parodia: il plurale abita, anime innumerevoli vi si disputano; i sistemi s’incrociano e si dominano gli uni con gli altri. E in ognuna di queste anime, la storia non scoprirà un’identità dimenticata, sempre pronta a rinascere, ma un sistema complesso di elementi a loro volto molteplici, distinti, e che nessun potere di sintesi domina(). La storia genealogicamente diretta, non ha per fine di ritrovare le radici della nostra identità ma d’accanirsi al contrario a dissiparla; non si mette a cercare il luogo unico da dove veniamo, questa prima patria dove i metafisici ci promettono che faremo ritorno: essa si occupa di far apparire tutte le DISCONTINUITA’ che ci attraversano.» (M. Foucault – Microfisica del Potere – Einaudi – pag 51).
La storia genealogica diviene metodologia d’indagine e di denuncia, forse il momento più alto dell’intenzionalità di ricerca che svela il suo valore etico.
Inseguire gli esclusi all’interno dei campi epistemici, riascoltare le loro voci, rompere gli spazi claustrali, raggiungere le soggettività negate, le vite consumate nel mutismo, perché la catastrofe della storia possa condensarsi nel presente in un possibile in cui gli spazi siano plurimi.
La pastorale dell’incontro, gonfia di retorica, non può fondare autonomamente un nuovo inizio, necessita di una teorizzazione delle strutture cognitive che hanno consentito i crimini e la catastrofe, direbbe Walter Benjamin, da capire per affermare nuovi paradigmi di vita condivisi.
Un’etica possibile
Un’intenzionalità etica è emerge nello stesso operare archeologico e nell’analisi della microfisica del potere.
Se la ricerca delle fluide strutture del potere diventa la storia filosofica vissuta del filosofo, ciò accade perché il potere è organizzato nello spazio, nella parola, nella carne del soggetto.
Esso è onnipervasivo bisogna scovarlo nel dettaglio perché agisce sui particolari: il corpo è all’interno delle spirali del potere, ne è plasmato, manipolato, organizzato.
Nell’analisi del biopotere il corpo diventa non l’oggetto del potere ma ne è organizzato nelle funzione biologiche, è salvato dalla malattia, scrutato prima ancora che tastato per renderlo omogeneo ad un apeiron in cui il suo ruolo è iscritto nel tutto funzionante.
Il soggetto è guardato, il temo dello sguardo, del soggetto guardato senza essere visto è una costante.
Sguardo e percezione sono tematiche diffuse nella cultura francese: Bataille, Merleau Ponty, Blanchot, Bergson è all’interno di quest’area che si fa fondante il tema del soggetto.
Si pensi alla descrizione del Panopticon: «Alla periferia una costruzione ad anello; al centro della torre tagliata da larghe finestre che si aprono verso la faccia interna dell’anello; la costruzione periferica è divisa in celle, che occupano ciascuna tutto lo spessore della costruzione; esse hanno due finestre, una verso l’interno, corrispondente alla finestra della torre; l’altra, verso l’esterno, che permette alla luce di attraversare la cella da parte a parte (..). Il Panopticon è una macchina per dissociare la coppia vedere-essere visti, senza mai essere visti; nella torre centrale, si vede tutto, senza mai essere visti» (M. Foucault – Sorvegliare e Punire – Einaudi – pag 218).
Si tratta dunque di un lavoro d’analisi al cui centro non vi è il potere ma il disperso e di ricostruirne le forme di soggettivizzazione e di assoggettamento con i suoi regimi di verità, anzi l’uomo è un’invenzione della pratica del potere.
Esso lo scruta, lo analizza, lo pervade per farlo emergere: l’uomo è un’invenzione recente oggetto delle tecniche che non sono circoscritte il confini distinguibili per chè sono la società, circolano nel corpo della società.
L’uomo è oggetto di conoscenza per poterlo render addomesticabile in una complicità collettiva.
La circolarità non implica la necessariamente la passività, anzi ciascun soggetto del sistema opera col potere nel mentre ne è costituito nel suo farsi essere.
Pertanto l’iperattivismo che Foucault utilizza per neutralizzarlo deve avere una funziona critica e consapevole. Se questa è la realtà del potere, l’iperattivismo cognitivo di Foucault è un modo per disinnescare il pericolo strisciante: la volontà di verità.
Per evitare questo l’iperattivismo assomma partecipazione politica e presenza critica: <<Il mio punto di vista non è quello secondo cui tutto è male, ma piuttosto che tutto è pericoloso, abbiamo sempre qualcosa da fare. Quindi, la mia posizione non conduce all’apatia, ma a un iperattivismo, e a un attivismo pessimistico. Penso che la scelta etico politica che dobbiamo fare ogni giorno consista nel determinare quale sia il pericolo peggiore.>> (Dreyfus – La ricerca di M. F. – Firenze – pagg 259, 260).
Educarsi al meno pericoloso implica la consapevolezza dell’uso della parola, attraverso di essa passano e si solidificano le forme di esclusione, per cui bisogna ridare la voce a tutti, far parlare i diretti interessati, volgersi nell’ottica dell’ascolta.
Solo una fenomenologia della parola può evitare la violenza istituzionalizzata.
L’esperienza del G.I.P è coerente con questo, l’organizzazione si proponeva di dare direttamente la parola ai detenuti, in modo che potessero illustrare i loro bisogni ed esprimere ciò che ritenevano intollerabile: «Il G.I.P non si propone di parlare a nome dei detenuti delle diverse carceri. Si propone invece di dare loro la possibilità di parlare di sé e di quello che accade nelle prigioni» (Didier Eribon – M. Foucault – Milano – pag 268).
Liberare la parola dai filtri delle censure, diviene un processo di liberazione generale, tutti gli attori ne sono coinvolti.
Rompere il binomio potere – volontà significa trasformare il brusio assoggettato in un atto creativo di consapevolezza per rifiutare le forme di assoggettamento silenziose ed inconsapevoli: «Forse oggi l’obiettivo principale non è scoprire che cosa siamo, ma di rifiutare quello che siamo. Dobbiamo immaginare e costruire ciò che potremmo diventare per sbarazzarci poi di quella sorta di doppio legame politico costituito dalla individualizzazione e totalizzazione simultanee del potere moderno.» (ibidem – pag 244).
Uno dei mezzi attraverso cui impedire agli individui la libera ricerca di nuove forme di sé è sempre stato il pericolo che questo potesse significare la fine dei sistemi socio politici di appartenenza, in realtà tale ricatto non ha senso per Foucault, in quanto pura forma per giustificare l’assoggettamento coercitivo: «Per secoli siamo stati convinti che fra la nostra etica, la nostra etica personale, la nostra vita quotidiana da un lato, e le grandi strutture politiche sociali ed economiche dall’altro, vi fossero delle relazioni analitiche. E abbiamo creduto di non poter cambiare nulla, ad esempio, della nostra vita sessuale, o della nostra vita famigliare, senza mettere in pericolo la nostra economia, la nostra democrazia, e così via. Penso che dovremmo sbarazzarci di questa idea di una relazione analitica o necessaria tra l’etica e le altre strutture sociali, economiche o politiche.» (ibidem – pag. 264).
Affinché ciò si possa realizzare è necessario che l’intellettuale agisca nel suo iperattivismo non solo per denunciare, ma anche per indicare le fragilità istituzionali, dare strumenti di indagini ed analisi pubblici e trasparenti, in modo da far apparire il potere dove si rende più insidioso e più invisibile: «Quel che l’intellettuale può fare è dare strumenti di analisi; è questo oggi il compito dello storico. Si tratta, infatti, di avere del presente, una percezione spesso di lunga durata, che permetta di individuare dove sono le linee di fragilità, dove i punti forti, a cosa siano legati i poteri; sulla base di un’organizzazione che ha ormai centocinquant’anni, dove si sono impiantati. In altri termini fare un rilievo topografico e genealogico della battaglia. E’ questo il ruolo dell’intellettuale.» (M. F. – Microfisica del potere – Einaudi – pag. 26).
Le parola appena citate di Foucault conducono ad una relazione tendenzialmente o fortemente individualistica.
Non vi è una natura umana come afferma in La Natura Umana pertanto svelato il potere e le sue forme di ripetizione e di autoriproduzione il soggetto per mezzo delle cure del sé può trasformare la sua esistenza in un’opera/pratica estetica ovvero sceglie le forme di assoggettamento in modo libero e consapevole.
La cura del sé non necessariamente accade in una pratica che conserva la relazione sociale quale momento fondante, l’uomo per natura non è un animale sociale è pura potenza.
E’ possibile con le tecniche del sé trasformarsi in un’opera d’arte, lavorando le tensioni della carne o liberandole, autopossedendosi.
Risuona la lezione di Pierre Hadot negli Esercizi Spirituali secondo cui la filosofia nella sua fase aurorale è pratica, è orizzonte vissuto, per cui la teorizzazione filosofica è l’effetto del sentire cognitivo nella carne.
Pensare diviene azione, ovvero modificare se stessi in un’ottica di autonomia.
Non manca riferimenti nietzscheani, all’individualismo di Nietzsche secondo cui l’Oltreuomo, vive e sperimenta forme di vita, più vite nella stessa vita, e è un tendere verso le forme testimoniato dalla vita stessa, la parola si fa silenziosa dinanzi alla coerenza di un ‘Über’, non vi sono nature o sostanze ma solo un oltre, per cui nell’iperattivismo pessimistico di Foucault, prevale il momento della parresia.
La parresia è dire il vero.
Qual è il significato generale della parola parresia? Etimologicamente, παῤῥησιάζομαι (parresiàzomai) significa «dire tutto», da «pan» (tutto) e «rhema» (ciò che viene detto).
Dunque la parresia è la relazione tra il parlante e ciò che viene detto.
Nei suoi sei corsi californiani il tema è trattato secondo canoni non convenzionali.
La relazione è con se stessi, trasformare se stessi mediante la parola in verità.
L’attenzione è posta sull’individuo, sul soggetto, ogni legame con l’altro diventa secondario.
La concretezza di un’individualità legata alla comunità da una relazione ontologica è assente, non vi è famiglia, non vi è società né stato, l’individuo sperimenta mancando una natura, una individualità senza limiti, o quanto meno nella lettura di Foucault del mondo greco predilige una parte occultando il senso della comunità.
Nei presocratici ma anche in Platone ed in Aristotele è la comunità fondata sulla natura dell’individuo ad essere l’elemento imprescindibile del ben vivere, la comunità è garanzia della misura, come lo sfero di Parmenide, ogni punto è equidistante dal centro, è il tutto a fare la sfera, secondo un ordine di proporzioni e misure.
Nel caso di Foucault l’individuo libero dal potere è schiacciato su se stesso, come fosse eternamente sclerotizzato nella fase dello specchio di Lacan.
La liberazione avviene in solitudine, senza legami necessari con la comunità verso la quale non vi sono doveri naturali.
Le tracce dell’etica in Foucault portano ad un individualismo che se può essere accolto come coerente con il 68’ e gli anni successivi in funzione del contropotere, oggi può essere veicolo e parte della logica della dismisura, del capitale quale feticcio che non vuole regole e limiti ma solo individui pronti ad abbattere ogni radicamento relazionale in quanto limite alla circolazione dei desideri e dunque del mercato.
Pertanto mentre svela con la genealogia il binomio poter – verità, cade nell’invisibile del potere ovvero favorire la libera circolazione delle individualità, ammiccare ad esse, ridicolizzare ogni regola della misura, ed ogni idea di natura fondata dialetticamente per rendere l’atomo individuo con i suoi desideri illusoriamente libero.
Il Foucault della Storia della Sessualità ripiega sulla liberazione dal potere, lascia l’individuo al suo sé, certo non ritiene che i modelli stoici o cinici possano rivivere, ma diventano un orizzonte dal quale poter trarre considerazioni sul tipo di società a cui tendere.
Manca un progetto di comunità, anzi quest’ultima è giudicata con sospetto come un potenziale limite alla libera metamorfosi pensante del soggetto.
Il male è ‘anche’ in ogni comunità dove vige la dialettica come veicolo di una verità condivisa, perché ci sia l’individuo per Foucault la comunità deve lasciar spazio alle libere soggettività le quali sono prioritarie rispetto alla comunità, il regno del nichilismo e dell’ultimo uomo rischia di trasformarsi nel regno osannato delle libertà dei liberi voleri.
Sentire se stessi senza l’altro nella concretezza delle forme medie di comunità tra l’individuo e lo stato, non potrebbe diventare il regno degli egoismi?
Più in generale per Foucault la liberazione delle individualità dal giogo – gioco dei poteri avviene respingendo l’antitesi tra identità e contraddizione, superando la dialettica hegeliano platonica, il soggetto è liberato da ogni processo di normalizzazione e paradigma di normalità a cui tendere quale dovere, Sollen kantiano, resta l’individualità da scegliere, da autofondare .
L’orizzonte della liberazione in mancanza di una prassi comunitaria, ravvisata nella storia, si sposta in avanti, finisce con l’assumere i caratteri utopici di un mondo a venire, in cui la pacificazione delle differenze delinea l’irruzione nella storia del possibile: «Il gioco così famigliare di mirarci all’altro termine di noi stessi nella follia, e di protenderci all’ascolto di voci che, venute da molto lontano, ci dicono da vicino ciò che noi siamo, quel gioco, con le sue regole, con le sue tattiche, le sue invenzioni, le sue astuzie, le sue illegalità tollerate, non sarà più, e pur sempre, se non un rituale i cui significati saranno ridotti in cenere. Qualcosa come le grandi cerimonie di scambio e di rivalità nelle società arcaiche.» (M. Foucault – la follia, l’assenza d’opera – pag 627).
Si comprende il successo di Foucault di cui si prediligono gli studi sulle tecniche del sé piuttosto che la denuncia sugli effetti del potere ed in particolare del biopotere.
Ogni fondamento ontologico è sostituito da uno spazio cavo dove poter operare quanto una macchina può operare sulla materia infinitamente con infinite trasformazioni.
Non si può non considerare l’affermazione citata secondo cui è possibile la cura di sé senza temere gli effetti sulla realtà socio politica, un’etica con un’impronta così fortemente individualistica è infondata in una società globalizzata in cui, benché la valorizzazione del capitale e delle merci spinga verso forme di individualismo parossistico, non si può non considerare che ogni vita e legata in modo indissolubile al pianeta ed alle persone contigue e lontane.
La spinta verso la globalizzazione individualistica necessita di un’etica contro la paura che rischia di ridurre in tensione bellicosa ogni relazione famigliare, duale, politica.
La società della paura esige la cura dell’altro conosciuto e non, come rimedio all’atomizzazione terrorizzante, così Bauman descrive l’attuale condizione: «In un mondo come il nostro gli effetti delle azioni si diffondono ben oltre il raggio dell’effetto routinizzante del controllo, e della conoscenza che occorre per progettarlo. Il nostro mondo è vulnerabile soprattutto ai pericoli la cui probabilità non è calcolabile: un fenomeno totalmente differente da quello cui fa di solito riferimento il concetto di <<rischio>>. I pericoli per principio non calcolabili sorgono in un contesto irregolare per definizione, in cui le sequenze interrotte e non ripetute sono divenute la regola e l’assenza di normalità è ormai norma. Esse sono incertezza sotto altro nome.» (Zygmunt Bauman – Paura liquida – Laterza Bari 2008).
La descrizione di Bauman è esplicativa, la paura monta nell’irregolarità divenuta legge e paradigma della contemporaneità, al pari di Jonas fa appello ad un’etica della responsabilità, della partecipazione e della cura della comunità.
La paura si accresce nello smantellamento di ogni tutela sociale cui si aggiungono flussi di variabili infinite utilizzate per giustificare lo smantellamento di ogni forma di socialità solidale codificata politicamente.
Per vincere la paura e ritrovarsi essere umani piuttosto è la relazione con l’altro, consapevole e dialogica, che può e deve riportare al centro la persona piuttosto che il ‘dispositivo’ sociale anonimo quale è la struttura sociale cognitiva ed epistemica descritta da Foucault nella Volontà di sapere.
Il sistema attuale tende ad utilizzare teorizzazioni che possano autogiustificarla; l’individualismo così codificato può rafforzare l’anonimo sistema in cui il mercato, l’Europa, la globalizzazione decidono: ipostasi senza volto, senza responsabilità, nuovi feticci totemici che lasciano muto e solo il suddito globale.
Manca una prassi contro la paura, la genealogia e l’impegno destrutturato di M. Foucault non hanno effetto se non vi è una prassi comunitaria capace di trasformare la paura in lettura delle contraddizioni ed in programma politico, fino a quando le scelte saranno strettamente individuali anche in presenza di una consapevolezza, elemento raro dell’attualità, nessun effetto si avrà sulle dinamiche, sul governo della globalizzazione.
Il primo momento attraverso cui riscoprire per rivivere un’azione nella comunità è il sentirsi parte in senso cognitivo ed emotivo delle comunità in cui si vive il quotidiano, ogni forma altrimenti di critica è pura teoria senza prassi, favorita anche dai potentati politico finanziari, poiché una critica o una libera individualità sciolta dal contesto è pura astrazione da cui nulla temere, può servire al pavoneggiarsi falso democratico della cultura lobbistica.
Solo con una categoria della totalità in cui si misurano e si legano soggetto – oggetto e storia – natura, il distaccarsi dell’individuo atomo può e deve fondare un’etica della prassi e della liberazione collettiva.
La responsabilità verso il presente è gravida del futuro.
Chi ha paura della totalità?
Già György Lukács in Storia e coscienza di classe afferma che la Borghesia ha paura della totalità, oggi potremmo dire che la filosofia negando la totalità rende impossibile la prassi storica.
L’appello a cui non ci si può sottrarre per riformalizzare un’etica è riattivare la categoria della totalità quale mezzo interpretativo e d’azione.
Nella totalità entrano in scena i soggetti nelle loro connessioni ideologiche, riattivano le energie sopite da processi di reificazione che ha trasformato la complessità della persona in cliente globale.
La vicinanza della parola e del programma è il fondamento epistemico da ricostruire per dare risposte alle urgenze attuali.
Nello scambio dialogico e dialettico la partecipazione politica disseminata e diffusa può essere l’ancora di salvezza per la comunità.
L’individualismo etico di Foucault somiglia al giorno dopo la catastrofe, nel nulla del presente storico, il curvarsi dello spazio e delle temporalità nell’individuo alle ricerca di una salvezza che diventi rivoluzione interiore.
L’Aufhebung della reificazione generalità vuole che il soggetto si riscopra non astratto dalla comunità ma che senta e pensi la vocazione alla comunità senza la quale è nulla e cade nel niente globalizzato.
Vi è il rischio che senza tensione dialettica, polemòs eracliteo, nell’anonimato dei significati del mercato, sia quest’ultimo la voce della sua coscienza, sia allagato il suo io, divenuto tempo dell’economia integrale.
L’urgenza di un’etica comunitaria è tanto più vera se si considera ”il pericolo” della manipolazione tecnologica, Gestell a cui bisogna ridare il governo.
Non si può non mettersi in ascolto dell’imperativo categorico di H. Jonas, “Agisci in modo che gli effetti della tua azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita sulla terra”.
Difendere la vita e per questo ogni azione quotidiana si ritrova nella meraviglia del legame con l’altro, ogni spazio è condivisione di effetti, delle pluralità che si incontrano per viverne la responsabilità dell’attualità proiettata nel presente.
Non si può in un contesto storico in cui la permanenza della vita in senso biologico e di espressione delle differenze tradizioni è minacciata, rifugiarsi in una cura di sé, sciolta da ogni relazione.
Pertanto il recupero della categoria della totalità è il recupero di un’etica potenziale che possa nel suo farsi ridare un ruolo alla Filosofia appiattita da un’analitica trascendentale kantiana che legittima il fenomeno.
Negare la totalità è negare la funzione della filosofia, la quale indica la meraviglia, il thauma, per rifondare il presente nella sua complessità storica, la quale esige il mormorio di una relazione sociale senza la quale si potrebbe dire nietzschianamente “Il deserto avanza, guai chi fa avanzare il deserto”.
L’ultimo uomo, nel Così Parlò Zarathustra, definito come il più disprezzabile degli uomini, è la figura che minaccia un’etica della comunità, dedito al nichilismo, indifferente al bene quanto al male, o meglio redige un’idea di bene che coincide con la propria individualità mercantile.
La Verfallenheit è la sua condizione, spregevole perché reso cosa tra le cose volutamente
Trionfo del nichilismo e del mercato, con la morte di dio non resta che il proprio sé, ingiudicabile, con Dio muore la dialettica, la verità dialogica ed ogni filosofia in cui le parti sono in tensione comunicante.
La dismisura dell’ultimo uomo, è il trionfo di un’esistenza frammentaria, ma che diventa tutto: l’unico orizzonte di senso della gabbia d’acciaio.
L’ultimo uomo rischia di diventare la versione volgare della cura di sé, anziché la cura dell’anima, la cura dei propri affari minimi.
L’ultimo uomo profezia realizzata di Nietzsche è osannato: paradigma di una verità mediocre.
L’atomizzazione globale ne incentiva i desideri del ventre ne ha sclerotizzato il reale in un rispecchiamento ideologico.
Ha espulso ogni idea di comunità la quale è giudicata un limite alla dismisura di un ego apolide e vorace.
La cura di sé a cui guarda M. Foucault, improbabile che non diventi la cura di un orto sempre più ristretto oltre il quale ciò che accade è il nulla.
La filosofia che si rifugia nelle élite di comunità di individui che hanno strumenti per la tecnica del sé e lasciano fuori di sé il proliferare dell’ultimo uomo e della politica minima, consegnano al totalitarismo delle cose il tutto favorendo processi di totalitarismi nel disimpegno dalla politica e dall’economia.
La totalità rinnegata e di cui si sente l’assenza deve riformulare se stessa nella categoria del complesso: ogni elemento riportato al suo ordito, alla trama che ne svela la tessitura costituita di parti il cui senso è inscritto nella complessità.
La negazione della totalità – complessità quale categoria critica ha come effetto il favorire la riattivazione di forme succedanee, la nostalgia di un tutto in cui il mito si sostituisce all’approccio autenticamente olistico.
Ne era consapevole A. Hitler, il quale somministrò alle classi medie immiserite e senza riferimenti, strette nella paura del presente, il falso mito della razza compensatorio delle frustrazioni e delle tensioni del primodopoguerra a cui non riuscivano a dare risposte dialettiche, così H. Rauschning riporta le parole del Führer: «So bene anch’io come i vostri intellettuali, i vostri pozzi di scienza, che non esistono razze nel significato scientifico della parola. Ma voi, che siete un agricoltore e un allevatore, voi certamente siete costretto a basarvi sulla nozione di razza, senza la quale ogni allevamento sarebbe impossibile. Ebbene, io che sono un uomo politico, ho necessità anch’io di una nozione che mi consenta di infrangere un ordine radicato nel mondo e di contrapporre alla storia la distruzione della storia. Capite quel che intendo dire? Bisogna che io liberi il mondo dal suo storico passato (…). Con la nozione di razza il nazionalsocialismo spingerà la sua rivoluzione fino alla fissazione di un ordine nuovo.» (H. Rauschning – Hitler mi ha detto – Mondadori Milano 1945 – pp. 245 246).
La totalità autentica e da intendersi in senso ologrammatico: la parte è nel tutto, il tutto è nella parte, questo principio metodologico e programmatico indica in sé il concetto di male.
Ogni forma di esemplificazione è male, può diventare male.
Non è sufficiente liberare l’individuo dal confine della dialettica per evitare la violenza del potere, un individuo che diviene protagonista della costruzione del proprio sè, relativizzando la relazione complessa con la prassi politica può diventare portatore di male.
Rischia di affermarsi nella differenza liberamente scelta una forma di esemplificazione, poiché si perde la consapevolezza della formazione collettiva del sé.
Ogni persona è portatrice di un multiuniverso in cui sono stratificate in modo dinamico le temporalità della comunità.
Per cui ciascuno è un ologramma “microcosmo” di un ologramma più vasto.
Si tratta di riattivare una multidimensionalità non totalitaria per tessere la rete delle relazioni che possano ridare una narrazione alla “gabbia d’acciaio”.
Per fare questo non la filosofia dell’impotenza e dell’ineluttabile deve prevalere dato che essa induce alla fatalizzazione esemplificatoria.
Piuttosto il coraggio di non sentirsi inattuali ridando vita e storicità ad una tradizione filosofica che ha in sé gli strumenti concettuali e metodologici per una speranza collettiva, la quale non ha nulla di messianico, ma la concretezza del presente, nel coraggio della complessità.
Quest’ultima può dare l’incanto di leggere il presente con nuovi sguardi, facendosi voce del mutismo interiore, a cui rispondere con gli strumenti interpretativi della filosofia, che mentre svelano, già indicano orizzonti possibili.