Karl Marx (1818-1883) – Il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità.

Marx e il regno della libertà

Abolizione del lavoro alienato

«Di fatto, il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità… La libertà in questo campo può consistere soltanto in ciò, che l’uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come da una forza cieca; che essi eseguano il loro compito con il minore possibile impiego di energia e nelle condizioni più adeguate alla loro natura umana e più degne di essa. Ma questo rimane sempre un regno della necessità. Al di là di esso comincia lo sviluppo delle capacità umane, che è fine a se stesso, il vero regno della libertà, che tuttavia può fiorire soltanto sulle basi di quel regno della necessità. Condizione fondamentale di tutto ciò è la riduzione della giornata lavorativa».

Karl Marx, Il Capitale, III, Editori riuniti, 1972, pp. 231-232.

 


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Herbert Marcuse (1898-1979) – Se vogliamo costruire una casa di abitazione nel posto in cui sorge una prigione, dobbiamo prima demolire la prigione, altrimenti non possiamo neppure iniziare i lavori.

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Giovanni-Battista-Piranesi-The-Prisons

Giovanni Battista Piranesi, The-Prisons.

«Se vogliamo costruire una casa di abitazione nel posto in cui sorge una prigione, dobbiamo prima demolire la prigione, altrimenti non possiamo neppure iniziare i lavori. Tuttavia […] dobbiamo per lo meno sapere che al posto della prigione vogliamo costruire una casa di abitazione. È proprio quello che crediamo di sapere. Non è necessario avere già pronto un piano preciso della casa per cominciare a demolire la prigione; purché si sappia che si vuole e si può sostituire a quest’ultima una casa di abitazione, e purché si abbiano le idee chiare su come deve essere una casa decente (questo costituisce, secondo me, l’aspetto decisivo)».

Herbert Marcuse, La fine dell’utopia, Laterza, Roma-Bari, 1968, pag. 107.

 

La fine dell'utopia

La fine dell’utopia


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Domenico Gallo – Le ragioni del no all’arretramento costituzionale.

Gallo Domenico01
Dittatura della maggioranza

Dittatura della maggioranza

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Salviamo la Costituzione

Salviamo la Costituzione

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Da sudditi a cittadini

Da sudditi a cittadini

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Quali sono le ragioni della nostra critica alla Costituzione quale è stata riscritta dal governo, voluta da Renzi e propagandata dalla Boschi?

Innanzi tutto il metodo. La Costituzione non e’ un regolamento di condominio, non è una legge ordinaria, è qualcosa che si pone al confine tra la storia e il diritto; nella Costituzione entra il senso delle vicende storiche del Paese. La Costituzione del ’48 è l’espressione di una vicenda storica particolarmente dura per il nostro Paese. La Costituzione rappresenta cio’ che unisce gli italiani e li trasforma in una comunita’ in cui tutti si possano riconoscere e in cui tutti possano riconoscere di avere un destino comune. Quindi la Costituzione non è frutto di un indirizzo politico di maggioranza, non puo’ essere scritta da una fazione. In effetti la Costituzione fu approvata da un’Assemblea costituente eletta col metodo proporzionale, che rappresentava tutte le opzioni politico-culturali presenti nella societa’ italiana; il lavoro di questo corpo costituzionale fu portato a termine con un’approvazione quasi all’unanimita’; ci furono 453 voti su 515, quindi la stragrande maggioranza del popolo italiano approvo’ la Costituzione che adesso viene messa in questione.

L’attuale riforma è la piu’ vasta, la piu’ organica che sia stata mai proposta dal ’48 ad oggi, se si fa eccezione della riforma di Berlusconi che non è mai diventata legge perche’ fu bocciata nel referendum del 2006; quindi giustamente il nostro documento dice che questo disegno di legge sostituisce la Costituzione italiana con un’altra. Essa interviene su oltre 40 articoli e modifica la forma di governo, la forma di Stato e il sistema delle autonomie; essendo una sostituzione è un lavoro quasi da assemblea costituente; invece questo lavoro è stato fatto da una minoranza rissosa che l’ha imposto, che non esprime la maggioranza del popolo italiano. Quindi la novità è che ci troviamo di fronte ad una Costituzione di minoranza che per giunta è stata fatta approvare con una serie di forzature da parte del governo sulla liberta’ dei parlamentari, forzature che si sono verificate in tanti modi per esempio con la sostituzione d’autorita’ di alcuni membri della commissione Affari costituzionali del Senato che avevano rivendicato la liberta’ di coscienza dei parlamentari di fronte al tema delle riforme costituzionali. Infatti si tratta di un tema che non puo’ entrare nell’indirizzo politico di maggioranza e sul quale non si puo’ porre la fiducia. In effetti il percorso di questo disegno di legge è stato un percorso simile a quello delle leggi sulle quali si pone la fiducia. Il governo ha esercitato una pressione fortissima sui parlamentari per “portare a casa” il risultato e questo si pone in aperta contraddizione con il metodo seguito dall’assemblea costituente. Ricordo che nel ’47 Piero Calamandrei scriveva: «quando l’assemblea discutera’ pubblicamente la nuova Costituzione, i banchi del governo dovranno essere vuoti; estraneo del pari dovra’ rimanere il governo nella formulazione del progetto, se si vuole che questo scaturisca interamente dalla libera determinazione dell’Assemblea sovrana». Qui ci troviamo di fronte ad un percorso completamente opposto, a un caso di faziosita’ della maggioranza che pero’ non è maggioranza; essa è una minoranza perche’ sono state le leggi elettorali che con un trucco hanno trasformato una minoranza di voti espressa dal 25% circa del corpo elettorale in una maggioranza di seggi; la legge cosiddetta “Porcellum” e’ stata dichiarata incostituzionale dalla Corte costituzionale proprio per questo motivo, perche’ essa comportava una torsione inaccettabile della volonta’ espressa dal popolo sovrano al momento della trasformazione di questa volonta’ in seggi; percio’ la Corte ha dichiarato incostituzionale la legge con la quale sono state elette queste Camere, proprio per il fatto che non rappresentano la volonta’ del popolo italiano. Ora questa minoranza che non rappresenta la volonta’ del popolo impone la sua Costituzione a tutti gli altri, con un atto di faziosita’ politica estremo che mette in crisi il concetto di Costituzione. Infatti la Costituzione dovrebbe unire mentre questa è una procedura che divide. Essa esprime la forza di una minoranza prepotente.

Ora andiamo al merito. La legge è intitolata cosi’: «Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del Cnel e la revisione del Titolo V della parte II della Costituzione» – In pratica e’ quasi tutta la seconda parte che viene sostituita: solo non viene toccato il titolo IV sulla magistratura. Qual è il senso di questa riforma? Superare il bicameralismo?

Ma la riforma non elimina il Senato, lo tiene in vita e lo trasforma relegandolo a funzioni secondarie; nello stesso tempo gli dà una natura ambigua perche’ si dice che il Senato rappresenta le istituzioni territoriali, e gli si dà, entro certi limiti, la competenza legislativa e anche una competenza di revisione costituzionale. Ora noi non siamo una repubblica federale quindi un organo che rappresenta le istituzioni territoriali con potere di revisione costituzionale è un’assurdita’; ma è ancora piu’ assurdo il metodo con cui quest’organo viene composto, perche’ si tratta di 74 consiglieri regionali e 21 sindaci che non sono eletti direttamente dal popolo ma vengono eletti dai consigli regionali. E qui il metodo di elezione è un rebus, perche’ l’articolo 57 al secondo comma dice che i senatori sono eletti dai consigli regionali mentre l’ultimo comma dice che «i seggi sono attribuiti in ragione dei voti espressi e della composizione di ciascun Consiglio». Quindi non si capisce bene come verrebbero eletti.

Si e’ detto che bisogna superare il bicameralismo paritario perche’ comporterebbe un’incapacita’ delle istituzioni, una loro inefficienza, dal momento che tutte le leggi devono essere votate due volte. C’è uno studio del Senato che dice che i tempi medi di approvazione delle leggi di iniziativa governativa, che sono poi il 90 % delle leggi approvate dal Parlamento, è di 116 giorni, ossia poco piu’ di tre mesi; non è un tempo lunghissimo ma di certo non c’è nessuna maggiore efficienza nel sistema che è stato ora inventato per la formazione delle leggi, anzi il sistema introdotto da questa riforma rende assolutamente confuse le fonti del diritto.

Ho letto qualche giorno fa che il sindaco di Pistoia, che è presidente nazionale della Lega delle autonomie, esalta la riforma dicendo tra l’altro che il vantaggio maggiore che ne deriva sarebbe la sicurezza del procedimento legislativo. Evidentemente la riforma Boschi-Renzi rende ciechi perche’ questo sindaco, evidentemente, non è riuscito a leggere la norma sulla formazione delle leggi che ha cambiato l’articolo 70 della Costituzione. L’articolo 70 delle Costituzione vigente dice: «la funzione legislativa e’ esercitata collettivamente dalle due Camere». Il nuovo articolo 70 e’ un libro di diverse pagine nel quale vengono indicati addirittura 10 procedimenti diversi per la formazione delle leggi (i costituzionalisti stanno discutendo su quanti siano esattamente). Non solo, ma si prevede anche che per risolvere le eventuali questioni di competenza, per capire se una legge è bicamerale o meno o con quale procedura monocamerale deve essere approvata, se con la procedura monocamerale 2, 3, 4, dovranno mettersi d’accordo i presidenti delle due Camere. Ma quando i presidenti non sono d’accordo, come si risolve questo problema? Se il governo fa un decreto “sblocca Italia” o una proposta di legge su una molteplicita’ di materie, quale procedura legislativa dovra’ essere adottata, se per le diverse norme sono previste 4 o 5 procedure diverse?

Basta questo per sfatare il mito della semplificazione del procedimento legislativo.

Un altro mito da sfatare è quello della valorizzazione delle autonomie territoriali. Ci sono diverse Regioni e presidenti di Regione che sostengono che la riforma valorizza le autonomie locali, tanto e’ vero che sarebbe stato fatto il Senato delle autonomie (che pero’ continuera’ a chiamarsi Senato della Repubblica). Ma non si capisce come siano valorizzate le autonomie locali, quando viene revisionato il titolo V della Costituzione, cioe’ la parte che riguarda i poteri delle Regioni.

Esso viene revisionato nel senso di un forte accentramento dello Stato centrale; la riforma accentra fortemente i poteri dello Stato, modificando la Costituzione vigente e sottraendo alle Regioni poteri importanti e soprattutto il controllo del territorio. Il governo del territorio viene sottratto alle Regioni e passa allo Stato; questo significa lo “sblocca Italia”, le norme sulle trivelle, il ponte sullo Stretto: sulle grandi opere e sulle grandi cose di questo tipo le Regioni non potranno dire assolutamente alcunche’.

Per di piu’ viene introdotta una clausola di supremazia dello Stato che è stata definita da alcuni giuristi “clausola vampiro” perche’ praticamente prevede che la legge dello Stato su proposta del governo debba intervenire su materie riservate alle Regioni «quando lo richieda la tutela dell’unita’ giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale». Cos’e’ l’interesse nazionale? Si tratta di un concetto talmente astratto per cui qualunque governo può intervenire in qualunque materia che questa riforma pur riserverebbe alle Regioni. Quindi le autonomie regionali escono fortemente ridimensionate e non c’è nessuna esaltazione delle autonomie regionali, anzi c’è un processo di centralizzazione.

La fiducia poi viene conferita dalla Camera dei deputati. Il Senato perde il rapporto di fiducia. Ho visto in tv uno sketch in cui si dice: «siamo diventati un Paese moderno perche’ con la riforma solo la Camera dei deputati dara’ la fiducia al Governo». E’ una bella modernita’ che gia’ avevamo, dato che sotto lo Statuto albertino solo la Camera dei deputati dava la fiducia al governo.

Un’altra cosa magnificata dai riformatori è il cosiddetto risparmio dei costi della politica. Non si capisce bene in che cosa consista, se la novita’ sta nel fatto che i senatori non prenderanno l’indennita’ come senatori, ma la prenderanno dalle istituzioni da cui sono espressi. Anche questa non è una novita’ perche’ l’articolo 50 dello Statuto albertino stabiliva che nessuna indennita’ poteva essere corrisposta ai deputati e ai senatori.

Dicono poi che la riforma aumenta i poteri dei cittadini; ma in realta’ e’ stato aumentato da 50.000 a 150.000 il numero di firme necessario per la presentazione di una legge di iniziativa popolare. Non credo che questo stimoli la partecipazione. Inoltre per il referendum è previsto che il quorum per la sua validita’ si possa abbassare perche’ non sarebbe calcolato sugli aventi diritto ma sul numero dei votanti, a patto pero’ che le firme dei proponenti arrivino non piu’ a 500.000 ma fino a 800.000. Poi si dice che ci sara’ uno statuto dei diritti dell’opposizione. Ma chi lo fa questo statuto, quando abbiamo una legge elettorale che dà la maggioranza ad un solo partito? In realta’ queste garanzie dipendono dal governante di turno che le puo’ dare o togliere alla minoranza a suo piacimento. Inoltre se si concentrano i poteri nella Camera dei deputati ci sono decisioni importanti come la dichiarazione dello stato di guerra che non saranno piu’ bicamerali. Si pensi alle leggi che prevedono le missioni all’estero e che possono comportare il coinvolgimento dell’Italia in operazioni belliche; esse non saranno piu’ bicamerali, ma sara’ solo la Camera dei deputati a decidere. Ma nella Camera dei deputati la maggioranza sara’ una minoranza in base alla legge Italicum, una minoranza basata su un solo partito; quindi la decisione suprema sulla pace e sulla guerra sara’ un problema interno di partito, non sara’ piu’ un problema del Parlamento, sara’ una fazione che prendera’ queste decisioni cosi’ gravi.

L’influenza sugli organi di garanzia: eliminando completamente un ramo del Parlamento sarebbe stato necessario in qualche modo prevedere che l’altro ramo del Parlamento fosse piu’ rappresentativo, perche’ non si puo’ pretendere di concentrare i poteri in una Camera se non e’ rappresentativa. Forse per questo è stato lasciato in piedi un po’ di Senato. Intanto pero’ la riforma accresce il potere del governo sulla Camera dei deputati e prevede addirittura che il governo si impadronisca dell’agenda dei lavori parlamentari attraverso il meccanismo delle leggi dichiarate di urgenza: si stabilisce che esse debbano essere approvate entro 70 giorni. Il governo quindi controllera’ direttamente l’agenda, impadronendosene. Si eliminano i contropoteri previsti dall’ordinamento della Costituzione del ’48, si eliminano i contropoteri del Senato, ma non si rafforzano i contropoteri interni alla Camera dei deputati anzi decrescono; quindi in effetti la riforma segna un accentramento dei poteri nel governo, e quindi dei poteri dello Stato centrale nei confronti dei poteri territoriali. Essa segna un accentramento e un accrescimento del potere esecutivo nei confronti del Parlamento, rompe l’equilibrio dei poteri e questo inevitabilmente incide sugli organi di garanzia. In particolare la riforma incide sull’elezione del Presidente della Repubblica; è vero che è stato posto il limite minimo dei 3/5 per l’elezione, ma si tratta dei 3/5 dei presenti. E’ chiaro che nessun Presidente della Repubblica potra’ essere eletto se non sara’ di gradimento della minoranza che per legge e’ divenuta maggioranza alla Camera. La riforma incide anche sulla composizione della Corte Costituzionale che ne esce indebolita. Ma ne esce indebolita la Costituzione nel suo complesso, perche’ sara’ nelle mani di un Parlamento fortemente controllato dal governo che non avra’ bisogno dell’appoggio della maggioranza degli elettori per governare ed imporre le sue scelte. Quindi ci troviamo di fronte ad una situazione di grave arretramento della qualita’ della democrazia cio’ che puo’ essere qualificato come un cambiamento, una demolizione dei valori della Repubblica e, come scrivono alcuni, come una sorta di trasformazione della Repubblica in un principato civile.

Domenico Gallo

***

(*) Si tratta del testo dell’intervento di Domenico Gallo alla recente conferenza stampa dei «Cattolici del no», già pubblicato da Sinistrainrete e da La Bottega del Barbieri, che a sua volta lo riprendeva dai «Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino» proposti dal “Centro di ricerca per la pace e i diritti umani di Viterbo”, animato da Peppe Sini.


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Karl Jaspers (1883-1969) – Solo attraverso la verità diveniamo liberi, la verità è la dignità dell’uomo.

Jaspers 005

piccola-scuola-pensiero

«Scorgere la verità è la dignità dell’uomo.
Solo attraverso la verità diveniamo liberi,
e solo la libertà ci rende pronti incondizionatamente
per la verità».

Karl Jaspers, Piccola scuola del pensiero filosofico, SE, 2006.

***

Risvolto di copertina

In quest'opera l'autore affronta i grandi temi della condizione umana. Scrive, nella Prefazione: "Quando la radio bavarese mi invitò a tenere un corso di filosofia accettai con entusiasmo pur senza nascondermi le difficoltà del compito. Come titolo proposi: «Piccola scuola del pensiero filosofico». Il che vuol dire che cercherò di battere le strade del pensiero empirico e razionale sinché non si mostrino le sue origini. E cercherò di porre in una luce più intensa il fondamento in noi stessi e al di là di noi, da cui scaturiscono i significati e gli orientamenti universali".

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Sensibili alle foglie / Spin Time Labs – Il dono delle lingue. Domenica 29 Maggio 2016

il dono delle lingue

sensibili_alle_foglie X

logoScrittaSENSIBILI ALLE FOGLIE e SPIN TIME LABS


Propongono

 Domenica 29 Maggio – dalle ore 10 alle ore 20

presso

SPIN TIME LABS

Via Santa Croce in Gerusalemme, 59  – Roma

 

Il dono delle lingue

lingue u.v.xxx

Poesie, canzoni e messaggi in

amarico
amazigh
arabo classico
farsi
giapponese
hassaniya
igbo
lingala
mandinga
pashto
peul
portoghese
romanes
rumeno
russo
soninke
tigre
urdu
wolof

 

 

momenti di riflessione sulle migrazioni con

Marcella Guidoni, Fiabe del Marocco.
Andrea Pizzorno, Clandestino italiano,
Giusi Sammartino, L’interpretazione del dolore

Monologo sulla colonizzazione tratto da Clandestino italiano,
recitato da Caterina Venturini

***

Nella pausa pranzo sarà aperta l’osteria di Spin Time Labs, per momenti conviviali


Una giornata in cui tutti possono parlare la loro lingua, per aiutarci a sentire e riconoscere le diverse sonorità delle lingue del pianeta, perché la lingua è cultura, è ricchezza. Un incontro contro il razzismo, per l’accoglienza delle culture che giungono con i migranti. L’organizzazione dell’incontro è in progressione, saranno presenti anche altre lingue

SCALETTA PROVVISORIA (ELASTICA)

DOMENICA 29 MAGGIO – DALLE ORE 10:00 ALLE 20:00 –
AUDITORIUM DI SPIN TIME LABS.
VIA SANTA CROCE IN GERUSALEMME 59. ROMA

 

h. 10 Presentazione dell’incontro a cura di Spin Time Labs e Sensibili alle foglie

Introduzione ai gruppi linguistici del Nordafrica e dell’Asia
Said, Bashir e altri (poesie e messaggi in arabo classico)
Omran Algallal e altri (messaggio sulla fratellanza universale e messaggi in amazigh)
Marcella Guidoni, Fiabe del Marocco
Jamil Awan Ahamede, (poesia del poeta Iqbal in urdu, poesia di Faiz in farsi)
Shah Hussain (messaggio in pashto)
Giusi Sammartino, L’interpretazione del dolore
Miki Hirashima (intervento pacifista – art. 9 Costituzione del Giappone – in giapponese)
Edilson Araujo dos Santos (recita il testo di una canzone di Renato Manfredini – Renato
Russo, cantautore brasiliano – in portoghese)
***
Pausa durante la quale nell’Osteria di Spin Time si potrà mangiare qualcosa a prezzi modici
***
h. 15 Introduzione ai gruppi linguistici centroafricani

Yacoub Diarra (messaggio sulla schiavitù in Mauritania in hassaniya e soninke)
Leone (messaggio in amarico – si potrà ammirare l’alfabeto amarico esposto nell’atrio)
Bah Fallo (canzone in mandinga)
Hope (messaggio poetico in igbo)
Diop (la favola di Esopo La volpe e l’uva in wolof)
Omar Diamanka (messaggio contro il razzismo in peul)
Djby Ka (favola senegalese in wolof)
Alain Alphonse (canzone d’amore in lingala)
Hummed Mohammednur (messaggio in tigre)

Andrea Pizzorno Clandestino italiano
(connessione con la colonizzazione italiana in Africa)

Caterina Venturini recita monologhi tratti da Clandestino italiano
Intervento in romanes di una donna rom di origine rumena

Introduzione alle lingue slave
Valentina (messaggio in ucraino o russo)
Anna (poesia di Octavian Goga in rumeno)
Altre persone porteranno messaggi in lingua (russo, urobo e altre)
non ancora in scaletta.


Logo-Adobe-Acrobat-300x293Locandina Il dono delle lingue

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Giacomo Leopardi (1798-1837) – La felicità non è che la perfezione, il compimento della vita.

Leopardi e la felicità

Leopardi, Tutte le opere

«La natura è vita. Ella è esistenza. Ella stessa ama la vita, e procura in tutti modi la vita, e tende in ogni sua operazione alla vita. Perciocch’ella esiste e vive. Se la natura fosse morte, ella non sarebbe. Esser morte sono termini contraddittori. S’ella tendesse in alcun modo alla morte, se in alcun modo la procurasse, ella tenderebbe e procurerebbe contro se stessa … (La felicità non è che la perfezione, il compimento e il proprio stato della vita, secondo la sua diversa proprietà ne’ diversi generi di cose esistenti. Ouindi ell’è in certo modo la vita e l’esistenza stessa, siccome l’infelicità in certo modo è lo stesso che la morte, o non vita, perché vita non secondo il suo essere, e vita imperfetta
eco Quindi la natura che è vita è anche felicità)».

«[…] ciascun essere, amando la vita, ama se stesso: pertanto non può non amarla, e non amarla quanto si possa il più. L’essere esistente non può amare la morte (in quanto la morte abbia rispetto a lui) veramente parlando, non può tendervi, non può procurarla, non può non odiarla il più ch’ei possa, in veron istante dell’esser suo [ … ] Sicché l’uomo, l’animale ec. ama le sensazioni vive ec. ec. e vi prova piacere, perch’egli ama se stesso».

«All’uomo sensibile e immaginoso, che viva, come io sono vissuto gran tempo, sentendo di continuo ed immaginando, il mondo e gli oggetti sono in certo modo doppi. Egli vedrà cogli occhi una torre, una campagna; udrà con gli orecchi un suono d’una campana; e neltempo stesso con l’immaginazione vedrà un’altra torre, un’altra campagna, udrà un altro suono. In questo secondo genere di obbietti sta tutto il bello e il piacevole delle cose. […] Trista quella vita (ed è pur tale la vita comunemente) che non vede, non ode, non sente se non che oggetti semplici, quelli soli di cui gli occhi, gli orecchi e gli altri sentimenti ricevono la sensazione»

Giacomo Leopardi, Zibaldone, in Id., Tutte le opere, Sansoni, Milano, 1969, vol. II, pp. 956-957, 957, 1196

 


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Konstantinos Petrou Kavafis (1863-1933) – Non facciamo della vita una stucchevole estranea

kavafis 005

Kavafis, Cinquantacinque poesie

E se non puoi la vita che desideri
cerca almeno questo
per quanto sta in te: non sciuparla
nel troppo commercio con la gente
con troppe parole in un viavai frenetico.

Non sciuparla portandola in giro
in balìa del quotidiano
gioco balordo degli incontri
e degli inviti,
fino a farne una stucchevole estranea.

Konstantinos Petrou Kavafis

 

 


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Peter Bichsel (1935) – Ogni vita produce una storia se si è capaci di raccontarla. Progettiamo dunque una società narrante.

lettore+narrare

«Raccontare storie significa occuparsi del tempo, e esperire la nostra vita come tempo ha a che vedere col fatto che la nostra vita ha un termine, e che la vita dei nostri amici ne ha pure uno.
L’angoscia di fronte a questo dover finire può naturalmente essere tenuta a bada. […] Ciò che però non scompare è la tristezza per questa finitudine. La tristezza non la si può vincere, può soltanto essere rifiutata o accettata.
Il raccontare storie ha qualcosa a che fare con il fatto di accettarla. La tendenza degli uomini alla tristezza li fa diventare narratori di storie. Senza alcuna comprensione del tempo non ci sarebbe nessuna storia. Chi non ha alcuna inclinazione alla tristezza è perduto per la letteratura […].
Non so che aspetto avrebbe una società pacifica, senza aggressioni e senza competizioni […]. Di una cosa però sono convinto: sarebbe una società narrante e non storicizzante. Gli abitanti di Bali, pacifici, non aggressivi ed entusiasti di raccontare, hanno rafforzato questa mia convinzione.
Ogni vita produce una storia se si è capaci di raccontarla […].
Continuare a scrivere ha senso perché continuando a scrivere diventa possibile narrare altre vite».

Peter Bichsel, Il lettore, il narrare, traduzione a.c. di Giorgio Messori, Ælia Lælia, Reggio Emilia, 1985. Titolo originale: Der Leser, das Erzählen. Frankfurter Poetik-Vorlesungen, 1982.

 

 


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Aristotele (384-322 a.C.) – La «crematistica»: la polis e la logica del profitto. Il commercio è un’arte più scaltrita per realizzare un profitto maggiore. Il denaro è l’oggetto del commercio e della crematistica. Ma il denaro è una mera convenzione, priva di valore naturale.

Le scarpe di Aristotele

 

Politica, di Aristotele

Aristotele è stato anche il fondatore della “filosofia dell’economia”,
e dicendo “fondatore” intendo proprio dire il fondatore.
Questo fatto basilare è ampiamente noto agli specialisti
(Henry Denis, Karl Polanyi, Geoffrey de S. Croix, Moses Finley, ecc.),
era già ampiamente noto a Marx,
mentre è sistematicamente ignorato
dai manuali liceali ed universitari di storia della filosofia,
che arrivano al massimo (ma neppure tutti)
a riportare distrattamente che Aristotele
 nella Politica avrebbe distinto fra “economia” e “crematistica”,
senza peraltro neppure immaginare le conseguenze dirompenti di questa distinzione,
sulla quale poi indirettamente Marx costruì la sua critica dell’economia politica.

Costanzo Preve,
Una nuova storia alternativa della filosofia

 

Il formidabile excursus che Aristotele, nella Politica, dedica alla chrematistiké («arte che produce beni», chremata), costituisce una lucida diagnosi dei meccanismi che vanno erodendo l'economia della polis e, in pari tempo, un drastico rifiuto della logica che ad essi presiede; essa conduce dall'idealizzata «autosufficienza» (autarkeia) dell'economia domestica – attraverso le prime forme di baratto – sino alla nascita della «moneta» (nomisma, cioè quanto vale solo per nomos, per «convenzione») e al diffondersi di una vera e propria techne tesa alla produzione di «profitto» (kerdos). Agli occhi di Aristotele, tale processo allontana gli uomini dall'unico fondamento reale della ricchezza e dell'economia: il "valore d'uso", e cioè la concreta utilità di un bene secondo le necessità vitali di una koinonia («comunità») domestica o statale. In base a quell'uso innaturale dei beni che è il "valore di scambio", la chrematistiké innesta un circuito interminabile di permute il cui solo fine è il vuoto e convenzionale nomisma. Una ricchezza solo apparente, conclude Aristotele, che ad altro non può ricorrere se non a uno scontato exemplum mitico, la leggenda del re Mida.

 

[1256b] Fra le arti d’acquisizione patrimoniale, solo una specie è parte naturale dell’ economia, perché bisogna che si abbiano a disposizione – o che tale arte metta a disposizione – una riserva di beni utili alla comunità cittadina o domestica.
Ed è plausibile che in tali beni consista la ricchezza autentica. Quanto, di tale possesso, basta a una vita ben vissuta, non è senza limiti, come dice Solone in quel suo verso: «per la ricchezza umana, / nessun termine chiaro è decretato».
Un termine invece esiste, come per le altre arti: non si dà mezzo senza un termine, in numero o in grandezza, per nessuna arte; e la ricchezza altro non è che la somma dei mezzi economici e politici. È evidente, dunque, che esiste un’arte d’acquisizione patrimoniale che appartiene per natura a chi si occupa di economia e di politica. E perché ci sia, è altrettanto evidente.
Ma c’è un’altra arte d’acquisizione patrimoniale che si definisce precisamente – e a giusto titolo – «crematistica», «arte che produce i beni». È a causa di tale arte che non si dà [1257a] alcun apparente limite alla ricchezza e all’acquisizione. Molti credono che essa sia uguale e identica all’arte di cui abbiamo appena parlato, data l’affinità fra le due: ma essa non è né identica, né troppo lontana. Solo che la prima è naturale, la seconda no, ma deriva piuttosto da qualche esperienza e dall’ arte acquisita.
Iniziamo da questo punto. Dato un bene, due sono gli usi che se ne possono fare: entrambi conformi alla natura del bene, ma non allo stesso modo, dal momento che il primo è proprio dell’oggetto, l’altro no. Esempio: una scarpa. Essa può essere calzata, o essere oggetto di scambio. Ed entrambi sono modi di usare la scarpa. Chi scambia una scarpa con chi ne ha bisogno, e ne ricava denaro o nutrimento, usa la scarpa in quanto scarpa, ma non ne fa l’uso che le è proprio: la scarpa non è fatta per essere barattata! E così vale per tutti i beni.
[…] Nella comunità primaria – che è la comunità domestica – evidentemente non si dà alcuna pratica di scambio; essa si dà invece nelle comunità più estese. I membri della comunità domestica avevano in comune, tutti quanti, gli stessi beni, mentre chi si trova a vivere in comunità separate ha accesso a molti beni diversi, dei quali si dà necessariamente un reciproco scambio, secondo i concreti bisogni, come avviene tuttora fra molti popoli barbari, tramite il baratto. E così sono oggetto di scambio i meri beni utili: un bene per un bene equivalente, ma nulla di più; per esempio, danno o prendono vino o grano, e così per ogni altro bene analogo. Una simile forma di scambio non è contro natura, né rientra in alcun modo nella «crematistica», perché tende a completare la naturale autosufficienza.
Eppure è proprio da questa forma di scambio che derivò, secondo logica, la crematistica.
Quando divenne più sistematico il ricorso all’estero per importare ciò di cui si mancava e per esportare i beni in eccedenza, si ricorse di necessità all’uso della moneta. Non tutti i beni naturalmente necessari sono facili da trasportare: e così, per realizzare gli scambi, si convenne di dare e d’accettare un bene di un certo tipo; un bene che fosse utile in se stesso, ma più facile a maneggiarsi per le esigenze quotidiane: per esempio il ferro, o l’argento, o altro materiale analogo, che sulle prime era definito semplicemente dalla sua grandezza e dal suo peso; in séguito, però, presero a imprimervi un marchio, così da poter evitare la misurazione: il marchio valeva da segno della quantità.
[1257b] Dopo l’invenzione della moneta, dallo scambio praticato per pura necessità sorse un’altra specie di crematistica: il commercio. Esso, sulle prime, fu forse un commercio rudimentale; ma poi, con l’aumentare dell’esperienza, divenne un’arte più scaltrita: e si seppe bene dove e come effettuare gli scambi per realizzare un profitto maggiore.
Perciò, a quanto pare, la crematistica ha per oggetto il denaro, e la sua specifica funzione è sapere da quali fonti ricavare il maggior numero di beni, perché la crematistica è un’arte tesa alla produzione di ricchezza e di beni. Non a caso, è idea comune che la ricchezza coincida con l’abbondanza di denaro, perché è il denaro l’oggetto del commercio e della crematistica.
A volte, però, il denaro sembra una sciocchezza, e una mera convenzione, priva di valore naturale: basta che i soggetti dello scambio ne mutino il valore convenzionale, ed ecco che il denaro non vale più nulla e non riesce più a soddisfare alcun bisogno vitale; sicché, chi è ricco di denaro, spesso non avrà di che mangiare. E davvero è una ricchezza ben curiosa, quella che farà morire di fame chi ne è ricco: come quel Mida della leggenda, che volle troppo, e pregò che tutto diventasse oro ciò che gli si presentava. Ed è per questo che si va alla ricerca di un altro tipo di ricchezza, o di crematistica: e non a torto. C’è un altro tipo di ricchezza, un altro tipo di crematistica, ed è l’economia in senso autentico. Quella fondata sul commercio, invece, produce beni, sì, ma non in senso assoluto: produce beni solo attraverso lo scambio di beni. E ha per oggetto il denaro, perché il denaro è elemento e fine dello scambio. E quella che deriva dalla crematistica è una ricchezza che non ha alcun limite.

Aristotele, Politica, 1, 1256b 26-1257b 24; trad. di F. Condello.

 


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Alberto Giovanni Biuso – Recensione del libro “Discorsi sulla morte” di Luca Grecchi.

Discorsi sulla morte

Discorsi sulla morte

di Luca Grecchi
Editrice Petite Plaisance, 2015

indicepresentazioneautoresintesi

grecchi_sulla_morteI quattro capitoli di cui si compone il volume sono costituiti da altrettante lezioni che Grecchi ha tenuto a degli studenti di psicologia. Circostanza che dà un taglio didattico e divulgativo al libro. L’attenzione si concentra sulla filosofia greca, dai pensatori delle origini all’ellenismo. Della riflessione successiva viene analizzata l’opera di Leopardi, con veloci accenni conclusivi a filosofi del Novecento.
Il risultato di questa ricognizione è che mentre il pensiero e la società greco-romana hanno dedicato molta attenzione alla morte, essa nel mondo contemporaneo è invece quasi del tutto rimossa, con conseguenti gravi angosce individuali e disturbi collettivi.
I Greci sapevano che «siamo una unità psicofisica, una unità che ha sempre presente la propria limitatezza, la propria finitudine, e che per vivere bene deve cercare di valorizzarla» (p. 12); che la materia è una costante trasformazione degli enti singoli, la quale non tocca la stabilità ed eternità dell’intero; che la condizione dei viventi -umano compreso- è intrisa di un metabolismo «che conduce irreversibilmente alla morte, senza ritorni né recuperi» (p. 26). Comprendere teoreticamente e accettare nella prassi tale condizione significa conciliarsi con il tempo e la necessità, e dunque poter attingere almeno un poco di serenità. Il rigetto della finitudine conduce invece all’ansia, al panico, alla depressione.
Tutto ciò conferma che siamo fatti di tempo, che «l’uomo non riesce ad accontentarsi di vivere solo il proprio presente, poiché ha dei ricordi, delle radici, un passato; al contempo ha un futuro, un progetto di vita, vuole dare senso e valore alla propria esistenza, e dunque non può limitarsi al presente» (p. 45).
Il plesso inseparabile di finitudine, materia e tempo suggerisce che la morte non è un ente, non è una sostanza ma costituisce un evento che porta al culmine e insieme a conclusione il processo più o meno duraturo della vita. Non si dovrebbe dunque parlare di morte ma del morire, vale a dire di qualcosa che accade sin dal concepimento e definisce lo stesso vivente.

Alberto Giovanni Biuso

DIpartimento di Scienze UManistiche – DISUM
www.biuso.eu

 

Recensione già pubblicata sul sito dell’autore: Finitudine.

 


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