Salvatore Bravo – L’abitudine alla mera sopravvivenza diviene abitudine a subire. Ma possiamo scoprire, con il pensiero filosofico, che “oltre”, defatalizzando l’esistente, c’è la buona vita.
L’io minimo all’epoca della società della sola sopravvivenza
L’io minimo – dopo l’identità fluida di Bauman – è un’immagine sostanziale e non solo metaforica della condizione dell’uomo all’epoca del cretinismo economico. Il testo di Christopher Lasch L’io minimo descrive lo sfaldarsi della comunità mondiale, e non solo occidentale, sotto la pressione del capitalismo totale. La tecnica ed i suoi apparati, gestell, operano per una riduzione dell’identità dell’io: senza di esso non vi è comunità, né possibilità di fondare con il logos percorsi dialettici per cercare verità e costruire progetti politici. La naturalizzazione dell’esistente ha trovato un alleato nel processo di vittimizzazione di un’intera società. Lasch descrive il senso di dipendenza diffuso nella società del benessere, del totalitarismo dell’azienda. La democrazia è diventata scelta solo all’interno di un orizzonte di cose. In realtà la libertà è solo apparente, dietro la patina epidermica dell’oggetto si nasconde il nulla dell’uguale. Per cui la trasgressione ha solo il fine di indurre alla scelta desimbolizzzata in nome dell’economia. Il malessere è gestito da figure specializzate ed adattive, per cui l’evoluzione autonoma dell’io è aggredita nella sua genesi. Si delega, si abdica, ci si rifugia nelle figure dell’iperspecializzzazione acquisendo un senso di impotenza, di vittimizzazione la quale diviene incapacità di sentirsi parte attiva e partecipata di una comunità. La comunità politica è attaccata nel suo fondamento, la dialettica che sviluppa l’io è in tal modo annichilita. Resta un senso di vittimizzazione, di impotenza generale che si stratifica in una vita che è un mero sopravvivere. Un clima darwiniano in cui si è chiamati alla rinuncia, in nome delle cose, dei morti che dominano i vivi, delle merci che divengono autonomi soggetti della storia. Il clima darwiniano, la sopravvivenza, vorrebbe ribaltare la natura umana, ridurla ad una mero calcolo per sopravvivere:«La mentalità della sopravvivenza porta a una svalutazione dell’eroismo. Le situazioni limite, scrive Goffman, danno rilievo “ai piccoli atti della vita”, non alle “grandi forme di lealtà e di inganno”. Le istituzioni totali organizzano un massiccio “attacco all’io”, ma nello stesso tempo impediscono una resistenza efficace, costringendo gli internati a ricorrere, invece che alla “recalcitranza”, al distacco ironico, alla chiusura in sé, e a quella combinazione di conciliazione e di non cooperazione che Goffman ha definito “making out”. Le istituzioni totali hanno affascinato Goffman perché, tra le altre ragioni, costringono chi vi è dentro a vivere giorno per giorno, dato che concentrarsi sull’immediato è la migliore speranza di sopravvivere a lungo. Il lavoro di Goffman sulle istituzioni totali parte dalle stesse premesse da cui partono i suoi studi sulla “presentazione del sé nella vita quotidiana”: anche nelle situazioni più laceranti, gli individui si rivelano più pienamente negli eventi non eroici dello scambio quotidiano che non in atti straordinari di abilità e coraggio» (C. Lasch L’io minimo, Feltrinelli, Milano 2010, p. 35).
L’abitudine alla sopravvivenza, alla cattiva vita diviene abitudine a subire, a giustificare ogni azione in funzione del calcolo della sopravivenza, per cui l’alienazione diventa aberrante. La nuova alienazione induce a consumare il proprio tempo attimo dopo attimo al fine di sopravvivere, si esclude la vita come dialettica, come qualità di vita. Il fine della trasformazione della società in una immensa azienda dell’esclusione, della competizione, porta a vivere nel disimpegno poiché l’unico futuro possibile è la sopravvivenza.
La descrizione di Lasch ci deve indurre a riflettere sulla capacità trasformativa della filosofia. Guardare e vivere il mondo in modo olistico per riattivare la forza razionale della speranza. La filosofia ha la sua vocazione a ricategorizzare il mondo, a renderlo dinamico, ma non fluido, ricostruisce percorsi dialettici senza i quali la comunità è inesistente. Lasch ci invita a riflettere sul costo umano della sopravvivenza: una società senza orizzonti ideali e comunitari, incapace di guardare oltre la mole della merce è segnata da un’infelicità perenne. L’indifferenza è l’effetto della vittimizzazione sostenuta da tanta “incultura” della sopravvivenza: «I sopravvissuti devono imparare dei trucchi per osservare gli eventi della propria vita come se succedessero ad altri. Una delle ragioni per cui la gente non si sente più soggetto di narrativa è che non si sente più soggetto, ma piuttosto vittima delle circostanze; e questa sensazione di essere agiti da forze esterne incontrollabili spinge a un’altra forma di equipaggiamento morale, all’abbandono dell’io assediato, per rifugiarsi nei panni di un osservatore distaccato, stupefatto, ironico. Sentire che quello che sta succedendo non succede a me mi aiuta a proteggermi dal dolore e a controllare le espressioni di risentimento e di ribellione che servirebbero solo a procurarmi altre torture da parte di chi mi tiene prigioniero. Ancora una volta ricompare nei manuali del successo una tecnica di sopravvivenza imparata nei campi di concentramento, dove era raccomandata come metodo affidabile per trattare con i “tiranni”. Chester Burger, autore di Dirigenti sotto il fuoco e Sopravvivenza nella giungla dirigenziale, dà per scontato che la resistenza nei confronti dei superiori arroganti sia fuori questione; ma consiglia anche i suoi lettori di non “adulare i tiranni”. Devono piuttosto cercare di prendere le distanze» (ibidem, p. 46).
Solo l’azione teoretica filosofica può indicare che oltre la «sopravvivenza» c’è la buona vita: essa inizia con la partecipazione, col pensiero condiviso che defatalizza l’esistente per risimbolizzarlo.
Salvatore Bravo
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