Jean Baudrillard
L’economia politica e la morte
Da quando i selvaggi chiamavano “uomini” soltanto i membri della loro tribù, la definizione dell’Umano si è notevolmente allargata: è diventata un concetto universale. È anzi quella che si chiama cultura. Al giorno d’oggi tutti gli uomini sono uomini. In realtà l’universalità non si fonda in nient’altro che nella tautologia e nel raddoppiamento: è qui che l’Umano assume vigore di legge morale e di principio d’esclusione. Perché l’Umano è fin dall’inizio l’istituzione del suo doppio strutturale: l’Inumano. Non è anzi che questo, e il progresso dell’Umanità, della Cultura, sono soltanto la catena delle discriminazioni successive che colpiscono gli Altri d’inumanità, quindi di nullità. Per i selvaggi che si dicono “uomini”, gli altri sono un’altra cosa. Per noi invece, sotto il segno dell’Umano come concetto universale, gli altri non sono nulla. Altrove, essere “uomo” è una sfida, come essere gentiluomo: differenza vissuta di viva forza, non soltanto questa qualità, questo statuto lascia spazio a uno scambio con gli esseri differenti – dei, antenati, stranieri, animali, natura – ma impone d’essere ovunque messa in gioco, esaltata e difesa. Noi ci accontentiamo d’una promozione all’universale, d’un valore generico astratto ancorato all’equivalenza della specie, a esclusione di tutto il resto. In un certo modo, quindi, la definizione dell’Umano è, al livello della cultura, inesorabilmente ristretta: ogni progresso “oggettivo” della civilizzazione verso l’universale ha corrisposto a una discriminazione più stretta, al punto che si può intravedere il tempo dell’universalità definitiva dell’Uomo, che coinciderà con la scomunica di tutti gli uomini e in cui la purezza del concetto splenderà da sola nel vuoto.
Il razzismo è moderno. Le culture o le razze precedenti si sono ignorate o annientate, ma mai sotto il segno d’una Ragione universale. Non c’è un criterio dell’Uomo, non la divisione dell’Inumano, soltanto delle differenze che possono affrontarsi a morte. Ma è il nostro concetto indifferenziato dell’Uomo che fa sorgere la discriminazione. Bisogna leggere il racconto d’un uomo del XVI secolo, Jean de Léry, Histoire d’un voyage en la terre du Brésil, per vedere che al tempo in cui l’Idea dell’Uomo non sovrasta ancora, in tutta la sua purezza metafisica, la cultura occidentale, il razzismo non esiste: il gentiluomo riformato e puritano di Ginevra, che sbarca in Brasile tra i cannibali, non è razzista. In seguito lo siamo diventati, perché abbiamo fatto molti progressi. E non soltanto nei confronti degli indiani e dei cannibali – la nostra cultura, approfondendo la sua razionalità, ha estradato successivamente nell’inumano la natura inanimata, gli animali, le razze inferiori, poi questo cancro dell’Umano ha investito quella stessa società che esso pretendeva di circoscrivere nella sua assoluta superiorità.
Michel Foucault ha analizzato l’estradizione dei pazzi all’alba della modernità occidentale, ma noi sappiamo anche che ne è dell’estradizione dei bambini, della loro progressiva reclusione, sul filo stesso della Ragione, nel loro statuto idealizzato d’infanzia, nel ghetto dell’universo infantile, nell’abiezione dell’innocenza. Ma anche i vecchi sono diventati inumani, respinti alla periferia della normalità. E tante altre “categorie”, che sono appunto diventate “categorie” solo sotto il segno di segregazioni successive che segnano lo sviluppo della cultura. I poveri, i sottosviluppati, i subnormali, i pervertiti, i transessuali, gli intellettuali, le donne – folclore del terrore, folclore della scomunica sulla base d’una definizione sempre più razzista dell’«uomo normale».[…]
L’analisi di Foucault è uno dei pezzi forti di questa vera storia della cultura, di questa Genealogia della discriminazione in cui lavoro e produzione assumeranno essi stessi, a partire dal XIX secolo, un posto decisivo. È tuttavia una esclusione che precede tutte le altre, più radicale di quella dei pazzi, dei bambini, delle razze inferiori, un’esclusione che le precede tutte e serve loro da modello, che è alla base stessa della «razionalità» della nostra cultura: quella dei morti e della morte.
Dalle società selvagge alle società moderne, l’evoluzione è irreversibile: a poco a poco i morti cessano di esistere. Sono respinti fuori della circolazione simbolica del gruppo. Non sono più esseri a pieno titolo, partner degni di scambio, e glielo si fa ben vedere proscrivendoli sempre più lontano dal gruppo dei vivi, dall’intimità domestica al cimitero, primo raggruppamento ancora al centro del villaggio o della città, poi primo ghetto e prefigurazione di tutti i ghetti futuri, respinti sempre più lontano dal centro verso la periferia, infine in nessun posto come nelle nuove città o nelle metropoli contemporanee, in cui nulla è più previsto per i morti, né nello spazio fisico né nello spazio mentale. Perfino i pazzi, i delinquenti, gli anormali possono trovare una struttura di assistenza nelle nuove città, cioè nella razionalità di una società moderna – solo la funzione-morte non può esservi programmata né localizzata. A dire il vero, non si sa più che farne. Perché al giorno d’oggi non è normale essere morti, e questo è un fatto nuovo. Essere morto è un’anomalia impensabile, rispetto alla quale tutte le altre sono inoffensive. La morte è una delinquenza, una devianza incurabile. Non più un luogo o uno spazio/tempo destinato ai morti, la loro dimora è irreperibile, eccoli respinti nell’utopia radicale – nemmeno più parcheggiati: volatilizzati.
Ma noi sappiamo cosa significano questi luoghi introvabili: se la fabbrica non esiste più, è che il lavoro è ovunque – se la prigione non esiste più, è che il sequestro e la reclusione sono ovunque nello spazio/tempo – se il manicomio non esiste più, è perché il controllo psicologico e terapeutico si è generalizzato e banalizzato – se la scuola non esiste più, è che tutte le fibre del processo sociale sono impregnate di disciplina e di formazione pedagogica – se il capitale non esiste più (né la sua critica marxista), è che la legge del valore è passata nell’autogestione della sopravvivenza in tutte le sue forme, ecc., ecc. Se il cimitero non esiste più, è che le città moderne tutte intere ne assumono la funzione: sono città morte e città di morte. E se la grande metropoli operativa è la forma perfetta di un’intera cultura, allora la nostra è semplicemente una cultura di morte.
È giusto dire che i morti, cacciati e separati dai vivi, ci condannano, noi vivi, a una morte equivalente: perché la legge fondamentale dell’obbligazione simbolica opera comunque, per il meglio o per il peggio. Così la pazzia è esclusivamente questa linea di divisione tra pazzi e normali, linea che la normalità divide con la follia e grazie alla quale essa si definisce. Qualsiasi società che interna i suoi pazzi è una società investita in profondità dalla pazzia, che sola e ovunque finisce per scambiarsi simbolicamente sotto i segni legali della normalità. Questo lungo lavoro della pazzia sulla società che la reclude è durato molti secoli; adesso i muri del manicomio sono aboliti, non per qualche miracolosa tolleranza, ma perché il lavoro di normalizzazione di questa società mediante la pazzia è stato portato a termine – la pazzia è diventata ambiente, pur restando messa al bando. Il manicomio viene riassorbito in seno al campo sociale perché la normalità ha raggiunto il punto perfetto in cui riunisce in sé le caratteristiche del manicomio, perché il virus della reclusione è passato in tutte le fibre dell’esistenza “normale”.
Lo stesso vale per la morte. In definitiva la morte non è altro se non questa linea di demarcazione sociale che separa i “morti” dai “vivi”; essa quindi colpisce egualmente gli uni e gli altri. Contro l’illusione insensata dei vivi di volersi vivi a esclusione dei morti, contro l’illusione di ridurre la vita a un plusvalore assoluto sopprimendone la morte, la logica indistruttibile dello scambio simbolico ristabilisce l’equivalenza della vita e della morte – nella fatalità indifferente della sopravvivenza. Rimossa la morte nella sopravvivenza – la vita stessa non è allora, secondo un ben noto riflusso, che una sopravvivenza determinata dalla morte.
[…] Altra forma di controllo sociale sotto forma di ricatto alla vita e alla sopravvivenza: la sicurezza. Oggi essa è sempre presente per noi, e le “forze di sicurezza” vanno dall’assicurazione sulla vita e dalla Sicurezza sociale alla cintura automobilistica […]. La sicurezza è un’impresa industriale, come l’ecologia che ne è l’estensione al livello della specie: ovunque è in gioco una convertibilità della morte, dell’incidente, della malattia, dell’inquinamento, in plusprofitto capitalistico. Ma si tratta soprattutto della peggiore delle repressioni che consiste nello spossessarvi della vostra morte, quella che ciascuno sogna dal profondo del suo istinto di conservazione. Necessità di spossessare ciascuno dell’ultima possibilità di darsi la morte – ultima «scampata bella» della vita assediata dal sistema. Anche qui, è lo scambio-dono che è braccato a morte, in questo cortocircuito simbolico che è la sfida a se stesso e alla propria morte. Non perché esso esprimerebbe la rivolta sociale d’un individuo – la defezione di uno o di milioni di individui non viola minimamente la legge del sistema – ma perché porta in esso un principio di socialità radicalmente antagonistico al principio sociale repressivo che è il nostro. È lo scambio-dono che bisogna uccidere seppellendo la morte sotto il mito opposto della sicurezza.
Uccidere l’esigenza di morte. Perché vivano gli uomini? No: perché muoiano dell’unica morte autorizzata dal sistema – esseri vivi separati dalla loro morte, e che scambiano solo la forma della loro sopravvivenza, sotto il segno dell’assicurazione contro tutti i rischi. Così per l’assicurazione automobilistica. Mummificato nel suo casco, le sue cinture, i suoi attributi della sicurezza, il guidatore non è più che un cadavere, chiuso in un’altra morte, non mitica questa: neutra e oggettiva come la tecnica, silenziosa e artigianale. Saldato alla sua macchina, inchiodato su di essa, non corre più il rischio di morire, perché è già morto. Qui è il segreto della sicurezza, come della bistecca sotto cellofan: avvolgervi in un sarcofago per impedirvi di morire (la criogenizzazione, o il congelamento al fine di risorgere, è la forma limite di questa pratica).
Tutta la nostra cultura tecnica crea un ambiente artificiale di morte. Non soltanto gli armamenti, che rimangono ovunque l’archetipo della produzione materiale, ma anche le macchine e i minimi oggetti che ci circondano costituiscono un orizzonte di morte, e d’una morte omai indissolubile perché cristallizzata e al sicuro: capitale fisso di morte, in cui il lavoro vivo della morte è congelato, come la forza-lavoro è congelata nel capitale fisso e nel lavoro morto. O ancora: tutta la produzione materiale non è che una gigantesca «corazza caratteriale» grazie alla quale la specie vuole tenere a rispetto la morte. Beninteso, è la morte stessa che sovrasta la specie e la chiude in questa corazza nella quale essa credeva di proteggersi. Ritroviamo qui, alla dimensione di una intera cultura, l’immagine del sarcofago automobilistico: la corazza di sicurezza è la morte miniaturizzata, diventata un prolungamento tecnico del vostro stesso corpo. Biologicizzazione del corpo e tecnicizzazione dell’ambiente vanno di pari passo nella medesima nevrosi ossessiva. L’ambiente tecnico è la nostra sovrapproduzione d’oggetti inquinanti, fragili, obsolescenti. Perché la produzione viva, tutta la sua logica e la sua strategia si articolano sulla fragilità e l’obsolescenza. Un’economia di prodotti stabili e di buoni oggetti è impensabile: l’economia non si sviluppa che secernendo pericolo, inquinamento, usura, delusione, assillo. L’economia vive esclusivamente di questa sospensione della morte che essa mantiene attraverso la produzione materiale – rinnovando lo stock di morte disponibile, pronta a scongiurarlo con un rilancio di sicurezza: ricatto e repressione. La morte è definitivamente secolarizzata nella produzione materiale – è là che essa si riproduce in modo allargato come il capitale. E il nostro stesso corpo, diventato macchina biologica, si modella su questo corpo inorganico, e diventa allo stesso tempo un oggetto cattivo, votato alla malattia, all’incidente e alla morte.
Vivendo della produzione di morte, il capitale ha buon gioco a produrre la sicurezza: è la medesima cosa. La sicurezza è il prolungamento industriale della morte, esattamente come l’ecologia è il prolungamento industriale dell’inquinamento. Qualche bendarella in più sul sarcofago. Questo vale anche per le grandi istituzioni che costituiscono la gloria della nostra democrazia: la Previdenza sociale è la protesi sociale d’una società morta, cioè precedentemente sterminatasi in tutti i suoi meccanismi simbolici, nel suo sistema di reciprocità e di obbligazioni in profondità per cui né il concetto di sicurezza né quello di “sociale” avevano lo stesso senso. Il “sociale” comincia con la presa in carico della morte. Stesso copione per le culture distrutte, che vengono risuscitate e protette come folklore. Stessa cosa per l’assicurazione sulla vita: è la variante domestica d’un sistema che presuppone ovunque la morte come assioma. Traduzione sociale della morte di gruppo – ognuno si materializza per l’altro solo come capitale sociale indicizzato sulla morte.
Dissuasione della morte al prezzo d’una continua mortificazione: questa è la logica paradossale della sicurezza. In un contesto cristiano, l’ascesi ha svolto il medesimo ruolo. L’accumulazione di sofferenza e di penitenza ha potuto svolgere il medesimo ruolo di corazza caratteriale, di sarcofago protettivo contro l’inferno. E la nostra coazione ossessiva di sicurezza può essere interpretata come una gigantesca ascesi collettiva, un’anticipazione della morte nella stessa vita: di protezione in protezione, di difesa in difesa, attraverso tutte le giurisdizioni, le istituzioni, i dispositivi materiali moderni, la vita non è più che una tetra contabilità difensiva, chiusa nel suo sarcofago contro tutti i rischi. Contabilità della sopravvivenza, invece della radicale compatibilità della vita e della morte.
Il nostro sistema vive della produzione di morte e pretende di fabbricare una sicurezza. Voltafaccia? Per nulla. Semplice torsione nel ciclo le cui due estremità si ricongiungono. Che una fabbrica d’automobili si ricicli sulla sicurezza (come l’industria sull’inquinamento) senza mutare gamma, obiettivo, né prodotto, dimostra che la sicurezza è soltanto una questione di sostituzione di termini. La sicurezza non è che una condizione interna di riproduzione del sistema giunto a un certo stadio di espansione, come il feedback non è che una procedura interna di regolazione dei sistemi giunti a un certo grado di complessità.
[…]
Ovunque braccata e censurata, la morte risorge dappertutto. Non piú come folclore apocalittico, quale ha potuto assillare l’immaginario vivente di certe epoche – ma precisamente svuotata di qualsiasi sostanza immaginaria, essa passa nella realtà piú banale, assume per noi il volto del principio stesso di razionalità che domina la nostra vita. La morte, è che tutto funziona e serve a qualcosa, è la funzionalità assoluta, segnaletica, cibernetica, dell’ambiente urbano, come in Play-time, il film di Jacques Tati, il parametraggio assoluto dell’uomo sulla sua funzione, come in Kafka: l’epoca del funzionario è quella d’una cultura di morte. […] In una parola, la morte si confonde con la legge del valore. […] E il vero volto della morte ultramoderna, fatta della connessione oggettiva, senza difetto, ultrarapida, di tutti i termini d’un sistema. Le nostre vere necropoli non sono piú i cimiteri, gli ospedali, le guerre, le ecatombi, la morte non è affatto là dove si pensa – non è piú biologica, psicologica, metafisica, non è nemmeno piú omicida – le sue necropoli sono le cantine o le sale degli elaboratori elettronici, spazi bianchi, epurati di qualsiasi rumore umano – bara di vetro dove si congela tutta la memoria sterilizzata del mondo – solo i morti si ricordano di tutto – qualcosa come un’eternità immediata del sapere, una quintessenza del mondo che oggigiorno si sogna di seppellire sotto forma di microfilm e d’archivi, archiviare il mondo intero affinché sia ritrovato da qualche generazione futura – criogenizzazione di tutto il sapere nell’immortalità come valore/segno.
Contro il nostro sogno di perdere tutto, di obliare tutto, eleviamo una muraglia inversa di relazioni, di connessioni, di informazioni, una memoria artificiale densa e inestricabile, e ci seppelliamo vivi all’interno di questa speranza fossile d’essere riscoperti un giorno.
Gli elaboratori elettronici, è questa morte miniaturizzata alla quale ci sottoponiamo nella speranza di sopravvivere. […] Tutto diventa cosí ambiente di morte da quando ciò non è piú che un segno miniaturizzato in un insieme gigantesco. Come il denaro al suo punto di non ritorno […].
In fondo, l’economia politica non si costruisce […] che nel disegno d’essere riconosciuta come immortale da una civiltà futura, o da un’istanza di verità – inimmaginabile, come per la religione, se non in un giudizio universale in cui Dio riconoscerà i suoi. Ma il Giudizio universale è qui, già realizzato: è lo spettacolo definitivo della nostra morte cristallizzata. Lo spettacolo è, bisogna dirlo, grandioso. Dagli insiemi geroglifici della Difesa o del World Trade Center ai grandi insiemi informatici dei media, dai complessi siderurgici ai grandi apparati politici, dalle megalopoli al quadrillage insensato dei minimi atti quotidiani – ovunque, come dice Benjamin, l’umanità è diventata un oggetto di contemplazione per se stessa. «La sua autoestraniazione ha raggiunto un grado che le permette di vivere il proprio annientamento come un godimento estetico di prim’ordine» (L’opera d’arte nell’epaca della sua riproducibilità tecnica). Era per lui la forma stessa del fascismo. Vale a dire una certa forma esacerbata di ideologia – una perversione estetica del politico, che spinge fino al giubilo l’accettazione d’una cultura di morte. Ed è vero che tutto il sistema dell’economia politica diventa oggi per noi questa finalità senza fine, questa vertigine estetica della produttività che è soltanto vertigine contrastata della morte. È proprio per questo che l’arte è morta: a questo punto di saturazione e di sofisticazione, tutta la gioia è passata nello spettacolo stesso della complessità, tutto il fascino estetico è monopolizzato dal sistema nel proprio raddoppiamento (che non fa altro, con le sue torri gigantesche, i suoi satelliti, i suoi calcolatori giganti, se non raddoppiarsi nei segni). Siamo tutti vittime della produzione diventata spettacolo, del godimento estetico della produzione della riproduzione delirante – e non siamo pronti a distaccarcene, perché in tutto lo spettacolo c’è l’imminenza della catastrofe. Noi facciamo adesso l’esperienza al livello del sisterna generale della produzione della vertigine del politico, che Benjamin denuncia nel fascismo, del suo godimento estetico e perverso. Facciamo l’esperienza d’una vertigine depoliticizzata, deideologicizzata – vertigine dell’amministrazione-razionale delle cose, d’un’esaltazione senza fine delle finalità. La morte è immanente all’economia politica. È per questo che essa si vuole immortale. […] Se l’economia politica è il tentativo piú rigoroso di mettere fine alla morte, è chiaro che solo la morte può mettere fine all’economia politica.
Jean Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, 1979, pp. 137-140; 196-199; 205-207.
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