Carlo Rocchetta – La tenerezza è forza, segno di maturità e vigoria interiore, e sboccia solo in un cuore libero, capace di offrire e ricevere amore. Si offre come componente costitutiva per una piena realizzazione dell’umanità della persona.

La tenerezza copia

 

 

«"Ecco il mio segreto. È molto semplice:
non si vede bene che con il cuore.
L'essenziale è invisibile agli occhi,
lo si vede solo con gli occhi del cuore".
"L'essenziale è invisibile agli occhi",
ripeté il piccolo principe per ricordarselo"».


A. De Saint-Exupéry, Il piccolo principe

 

«Ubi amor, ibi oculos».
Dove regna l'amore,
lì vi sono occhi che sanno vedere.

Riccardo di San Vittore (1110-1173), Benjamin minor, c. 13.

 

«Come la respirazione esige un'atmosfera,
così l'amore chiede un'erosfera.

J. Guitton, L'amore umano, 1989, p. 88.

 

«Alcuni pensano che la tenerezza
sia un sentimemo marginale della personalità.
Appartiene invece al nostro stesso essere:
la sua assenza è il segno
di una natura incompleta.
M. Canciani, La tenerezza, 1993, p. 15.

 

«La tenerezza è forza, segno di maturità e vigoria interiore, e sboccia solo in un cuore libero, capace di offrire e ricevere amore» (p. 9).

«La tenerezza, nella sua identità più profonda, si collega a due esigenze fondamentali e permanenti, inscritte nel cuore umano, desiderare di amare e sapere di essere amati; come tale, essa attinge a tutte le sfere della persona – uomo e donna – da quella biologica a quella psicologica e spirituale […], e si realizza come scelta e stile di vita in ordine a una piena maturità […]. Un sentimento da intendere, dunque, come vissuto complessivo, radicato nella realtà profonda dell’io spirituale-corporeo e del suo esistere “in relazione con” e “in relazione per”, e non solo come uno stato d’animo passeggero. La tenerezza suppone la capacità di partecipare, corpo e anima, alla celebrazione delle innumerevoli sinfonie del mondo, alle sue gioie e ai suoi dolori, vivendo con l’alterità relazioni cordiali (cor/cordis, cuore), di scambio, di reciprocità paritaria e di bellezza. Letta in questa ottica, l’attitudine alla tenerezza corrisponde a un’esigenza incancellabile dell’animo, ne dice la nobiltà e la grandezza, e si offre come componente costitutiva per una piena realizzazione dell’umanità della persona. Non è pensabile che un uomo o una donna, in qualunque condizione di vita si trovino […] possano essere persone adulte senza un’attivazione effettiva di questo sentimento; è certo, in ogni caso, che saranno persone profondamente sole e infelici.
Fra tutti i sentimenti che l’uomo ha sviluppato durante la sua storia, non ne esiste uno che superi la tenerezza come qualità tipicamente umana e umanizzante. E di fatto, una persona non può dirsi adulta se non si sforza di acquisire questo sentimento che la rende “affettuosa”, “compartecipe”, “colma di rispetto” e di meraviglia di fronte al  cosmo e ad ogni forma di vita, da quella di un bambino a quella di un fiore o di una farfalla […]» (p. 10).

«Dire “tenerezza” è dire la vita nei suoi molteplici aspetti e nelle sue più sublimi altezze, vivendola con “passione” e “gioia di essere”, spontaneità, “condivisione” e “convivialità”. L’alternativa è il vuoto, con la negazione delle dimensioni più profonde della nostra interiorità e delle sue più alte istanze. Lasciarsi sfuggire la tenerezza è lasciarsi sfuggire la vita. E come non c’è vita senza rischi, così non c’è tenerezza senza rischi. Ma il rischio più grande è di non vivere la tenerezza. […]
È  diffusa l’idea che la tenerezza rappresenti una connotazione quasi solo femminile o comunque scarsamente “virile”: “qualificante” per la donna e “squalificante” per l’uomo. Si tratta di un pregiudizio infondato, che va smascherato con energia. […] Il sentimento della tenerezza riguarda in realtà, in modo totale e incancellabile, sia l’uomo che la donna, la loro umanità e la loro vocazione all’amore e alla comunione. Vi può essere – e probabilmente vi è – una specificità nel modo di manifestare questo sentimento; ma non si può pensare a un’esclusività di genere. Si deve anzi ritenere che solo riunificando l’animus e l’anima della tenerezza, il maschile e il femminile, in un’armonica integrazione, si è in grado di pervenire a una sua comprensione personale e personalizzante» (p. 11).

«La tenerezza rappresenta questa avvolgenza dell’amore, questo clima di attenzione e di effusione affettiva entro cui soltanto l’amore si può compiutamente manifestare e attuare. […] La tenerezza tende per sua natura a plasmarsi come philia, amicalità/amicizia […]
Sotto entrambi gli aspetti (di éros e di philìa), la tenerezza implica il pathos, il sentimento, e non solo il lògos, la ragione; implica il “sentire” profondo dell’essere, e rimanda a un saper amare col cuore e a un sentirsi amati di cuore, che assume il nostro essere corporeo al maschile o al femminile e quindi la sua stessa dimensione sessuata come realtà costitutiva, e non come sola genitalità. La tenerezza non appartiene all’ordine del mero cogito, ma a quello della sensibilità, una sensibilità carica di affetto e di partecipazione, una dilectio che appella alla mobilitazione di tutta la persona […]» (p. 14).

«Il sostantivo italiano “tenerezza” (dal latino teneritia) evoca l’idea di un qualcosa di morbido, privo di durezza o di rigidità, e rimanda a un affetto interiore vissuto con partecipazione viva, affettuosa e dinamica. Non meno interessante è l’aggettivo “tenero” (tenerum, da tendere, estendersi verso, proiettarsi), il quale suppone e implica un’attitudine che orienta a uscire dall’io per incontrarsi con il tu, tendendo verso di lui, in un rapporto reale di dedizione e di reciprocità. Sotto entrambi gli aspetti, la tenerezza si oppone a due atteggiamenti esistenziali piuttosto diffusi e quasi sempre connessi fra loro: la durezza di cuore, intesa come barriera, muro, rigidità, chiusura mentale, e il ripiegamento su di sé come egocentrismo, incapacità a volgersi all’altro da sé, rifiuto di dialogo e di scambio. La tenerezza, al contrario, è flessibilità, permeabilità, apertura di cuore, disponibilità al cambiamento, e si costituisce come volto concreto di una dilezione affettiva che si fa benevolenza e amorevolezza» (pp. 27-28).

«La tenerezza appartiene alla struttura ontica dell’essere umano […] La tenerezza è inscritta in questa struttura profonda della persona come l’esserci di un io-incarnato-in-un-corpo che chiede di sentirsi amato e di sentirsi capace di amare. […] Tutto questo fa già intuire la profonda differenza che si pone tra la tenerezza-come-sentimento e il sentimentalismo-della-tenerezza: la prima appartiene all’esperienza radicale dell’essere persona, del suo in-esserci e co-esserci, e si realizza come apertura al tu, verso l’altro/Altro, e rimanda a un ‘operatività creativa, coinvolgente e interpersonale; il secondo dice piuttosto ripiegamento sul proprio io, egocentrismo, ricerca di sé, chiusura, spreco di un’affettività fine a se stessa e, alla fine, incapacità a protendersi verso gli altri e la storia. La prima è dialogo, la seconda è monologo. Una differenza netta ed essenziale» (p.29).

«La tenerezza ha bisogno di incontrarsi con la ricerca della maturità, e viceversa. L’una sostiene l’altra e la manifesta. Solo assumendo la tenerezza in un’ottica di questo genere è possibile evitare il pericolo di viverla come una compensazione affettiva o un’acquiescenza ai vuoti del cuore umano, oppure ridurla a dipendenza psicologica o strumentalizzarla a fini di potere sull’altro/a da sé» (p. 32).

«Ecco i molteplici aspetti che entrano in gioco nel vissuto della tenerezza:
– “una disposizione affettiva dell’animo“: la tenerezza appartiene alla struttura più profonda dell’essere umano e riguarda la sensibilità della persona, le sue potenzialità di desiderio (éros) e di amicizia (philia), nel quadro di quelle facoltà superiori che distinguono
la persona da ogni altro essere e la rendono capace di autodeterminazione;
– “disposizione che muove intuitivamente a voler bene“: la tenerezza è un modo di sentire, una disposizione profonda che orienta a una percezione positiva del reale, a meno che non sia distolta o deformata;
– “intuitivamente” in quanto è spontanea e precede, di per sé, l’atto della deliberazione, anche se non ne prescinde; anzi, pur sgorgando dalla sensibilità, esige di essere assunta in modo cosciente e sottoposta ogni volta al vaglio dalla ragione in rapporto alle opzioni di vita e alla gerarchia dei valori cui ci si richiama;
– “e ad apprezzare una situazione, qualcuno o qualcosa, come realtà buone, amabili e a cui interessarsi con partecipazione“: l’apprezzamento come attitudine di pensiero e di prassi e l’amabilità rappresentano i due tratti caratteristici fondamentali della tenerezza; entrambi suppongono il coinvolgimento personale che porta ad avvicinarsi agli avvenimenti e alle persone non da lontano, ma vivendo questi incontri in prima persona e facendosene carico;
– “valutando ogni incontro o circostanza con gli occhi del cuore, prima che con quelli della mente“: la capacità “visiva” della tenerezza, prima che dalIa “ragione pratica”, sgorga dal cuore […]» (p.33).

«Il primo passo è di percepire la bellezza del mondo e lasciarsi incantare da essa. Quando si è capaci di bellezza, tutto è riletto con gli occhi dell’amore, e niente è più indifferente, ordinario o di routine. La tenerezza suppone la via della bellezza (via pulchritudinis), e la fonda. […] La tenerezza è emanazione di bellezza e sua forma riflessa, come uno “stupore coscientizzato”, consapevole. Tra stupore e tenerezza sussiste, di fatto, un profondo rapporto di reciprocità, al punto che l’uno non può stare senza l’altra: lo stupore è dono della tenerezza, la tenerezza dono dello stupore. In entrambe le direzioni, la capacità di provare tenerezza manifesta un modo di pensare e di guardare all’esistenza umana con bene-volenza (voler-bene) […]» ´p. 34)

«La crescita nella vita di relazione è direttamente proporzionale alla crescita nella tenerezza, così come lo sviluppo della tenerezza rappresenta la strada maestra per l’attuazione di una vita di relazione tendenzialmente matura e soddisfacente. […] Il problema della tenerezza e del suo sviluppo non rappresenta dunque un problema di ordine solo psicologico o di pedagogia familiare; è di natura antropologica, e da esso dipende – in buona parte -la condizione di felicità o di infelicità della persona umana. […] Il discorso della tenerezza si colloca entro queste profondità della persona come componente indispensabile del suo processo di integrazione e di maturazione. La felicità, come la tenerezza, non appartiene semplicemente alla logica dell’avere, ma dell’essere, ed esprime la struttura metafisica della persona e della sua aspirazione profonda e indistruttibile al sentimento dell’amore. Per questo motivo, solo quando il percorso evolutivo della relazionalità si incrocia con l’esperienza effettiva della tenerezza, l’individuo è in grado di realizzare – in maggiore o minore misura – il suo desiderio di felicità» (p. 36).

Carlo Rocchetta, Teologia della tenerezza, EDB, 2000, pp. .


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Marco Montagnino – Chiunque voglia approfondire il pensiero di Parmenide e di Zenone non può non confrontarsi con l’interpretazione che ne propone Livio Rossetti.

Marco Montagnino - Livio Rossetti
Livio Rossetti – Parmenide e Zenone “sophoi” a Elea

Marco Montagnino

Recensione del libro

Livio Rossetti

Parmenide e Zenone “sophoi” ad Elea


Livio Rossetti

Parmenide e Zenone, sophoi ad Elea

Presentazione di Mariana Gardella Hueso.

ISBN 978-88-7588-256-3, 2020, pp. 160, Euro 15

indicepresentazioneautoresintesi



ROSSETTI, L. (2020). Parmenide e Zenone sophoi ad Elea. Pistoia, Petite plaisance.

«[…] queste pagine sono state scritte per permettere a tutti di capir bene, anche a chi “non è del ramo”» (p. 14),[1] quanto siano «ancora più grandi e più creativi di quel che comunemente si pensa» (p. 13) due antichi sapienti, Parmenide e Zenone, la cui «immagine tradizionale […] si è come ingessata, se non incartapecorita, per cui da tempo l’attenzione viene portata solo su poche cose, le solite, e di conseguenza la loro fisionomia è sbiadita paurosamente» (p. 15)

Questa, nelle sue pagine di «benvenuto» (p. 13-17),[2] la promessa del Rossetti a chi si accosta al suo «volumetto» (come egli stesso lo definisce) e possiamo dire fin da subito che essa verrà mantenuta. Il libro mette bene in evidenza le «tante idee folgoranti» (p. 124) elaborate dai due sophoí di Elea e come esse abbiano indicato molte «piste», che «a distanza di millenni sono tuttora aperte, tuttora vitali e tutte hanno un futuro» (p. 137). Anche chi ha già letto gli altri studi che l’Autore ha dedicato ad entrambi i sophoí non mancherà di trovare in questa «conversazione» (come egli vi si riferisce nelle conclusioni, p. 136) spunti d’interesse significativi.

A proposito dei contributi che l’Autore ha già dedicato ai due sapienti, egli stesso avverte subito (p. 16, e lo ricorda nuovamente a p. 141) che questo libro assomiglia solo superficialmente a quello che aveva scritto nel 2009, dal titolo «quasi uguale» – I sophoi di Elea: Parmenide e Zenone – ma allo stesso tempo sottolinea come da allora «‘tutto’ è cambiato» perché, specialmente nell’ultimo decennio, le indagini su di essi hanno fatto emergere «aspetti nuovi o addirittura impensati dei due antichi maestri». Effettivamente i due testi sono significativamente diversi tra loro ed il nuovo titolo, che riprende quello del 2009 scambiandone i termini, vuole forse già evocare lo “stravolgimento” prospettico avvenuto con lo «tsunami», sempre nelle parole dell’Autore, scatenato dagli studi di questi ultimi anni.

La prima parte del primo capitolo (p. 21-29) è dedicata al «luogo dove si sono miracolosamente formate due menti strepitose», e racconta perciò sia la fondazione che il territorio di quella che fu prima Yele, poi Elea, quindi Velia, ed oggi Ascea Marina, nella provincia di Salerno, dove dal 2004 si svolgono periodici incontri di studio sui due sophoí e sull’eleatismo, denominati appunto Eleatica. Un luogo di pellegrinaggio, gli scavi di Elea-Velia, dove si recano «“pellegrini” un po’ speciali […] dagli angoli più diversi del pianeta» (p. 21).

Molto suggestivo, in questa “cartolina”, il richiamo alla possibilità che nel proemio del poema parmenideo possano essere stati cantati alcuni luoghi della città: «è come se, vicino Firenze, ci fosse ancora la ‘selva oscura’ di Dante e si potesse visitare» scrive il Rossetti (p. 21), che spiega meglio quanto intende più avanti nel testo (p. 77-81), come vedremo.

Poche pagine, dimensionate del resto all’economia del testo, che però rendono bene l’idea che chiunque voglia capire il pensiero di Parmenide e di Zenone non possa disinteressarsi non solo delle loro personali vicende ma anche della storia dei luoghi in cui essi vissero, una storia molto complessa sulla quale le scoperte archeologiche di questi ultimi anni hanno gettato nuova luce. Seguono poi alcune pagine (p. 30-35) per raccontare qualcosa delle vite dei due sapienti: colpisce in particolare il paragrafo «Elea vista da Parmenide» (p. 30-32) in cui Rossetti ci invita a «metterci nei panni del figlio di un foceo arrivato ad Elea da pochi anni» (p. 30).

Il capitolo si conclude con la spiegazione della «bizzarria» (nelle parole dell’Autore) di voler cominciare dall’allievo e non piuttosto (come anch’egli ha fatto nel Rossetti, 2009) dal maestro. Ma il libro è concepito in modo da poter passare al successivo capitolo su Parmenide e poi ritornare indietro. Pensiamo che questa scelta editoriale sia funzionale alla tesi, sviluppata dal Rossetti in questo studio, che il libro di Zenone sia stato concepito indipendentemente dal pensiero di Parmenide e non per difendere il maestro dalle critiche mosse al suo poema, come Platone ci tramanda:

 

Zenone ha ben poco in comune con gli intellettuali che poté conoscere bene, e perfino con Parmenide. Certo, Parmenide può averlo instradato nel costruire i suoi sofisticati ragionamenti […] ma tutto il resto fu estraneo al mondo mentale del maestro, fu cioè farina del sacco di Zenone (p. 45)

 

I paradossi zenoniani, inoltre, ad avviso dell’Autore, sono «così innovativi da meritare l’anticipazione» sugli «insegnamenti» del maestro,[3] anche se Zenone al contrario non sembra voler insegnare o spiegare alcunché. Un’altra delle tesi che il Rossetti vuole mettere in evidenza è, infatti, che se «Parmenide è stato e si è sentito ‘professore dall’inizio alla fine […] Zenone, […] invece si è addirittura imposto di limitarsi a lanciare idee, senza insegnare» (p. 124).

Il secondo capitolo (p. 39-74), dedicato appunto a Zenone, mette subito in risalto il fatto che questi, con la sua raccolta di paradossi, fa qualcosa che «nessun altro prima di lui aveva fatto … (e veramente nemmeno dopo)» (p. 39). La «possente» e «spettacolare» innovazione che si sarebbe rivelata «a lunga gittata» (i paradossi di Zenone sono attuale oggetto di studio anche in diversi campi scientifici, dalla matematica alla fisica teorica)[4] dei paradossi zenoniani è, infatti, quello di porre «‘possibilità impossibili’» per «innescare ed alimentare una curiosità di lungo corso per ciò che supera i limiti della nostra capacità di percepire» (p. 55) e di concepire le cose.[5] Ed in effetti il Rossetti ci descrive Zenone anche come «un prestigiatore della parola e della mente» (p. 63).

I paradossi zenoniani sono presentati in un linguaggio colloquiale ma non per questo meno rigoroso (stile che caratterizza l’intero testo, come premette l’Autore stesso fin dall’inizio, a p. 15) per mostrare la novità dei concetti (spazio, grandezza invisibile, istante, velocità relativa, etc.) che essi introducevano nelle cognizioni tradizionali di chi li udiva o li leggeva:

 

Nessun altro libro era stato concepito come una collezione di sfide alla nostra intelligenza […] ed è tanto raro che uno si accontenti di delineare un problema, una difficoltà, un ostacolo mentale, un intralcio per poi dirci: “Provate voi a dipanare la matassa! Io mi limito a rappresentarvi la difficoltà”. […] Ecco questo è stato Zenone. Di questo è stato capace solo lui, e per quanto è dato sapere, nessun altro. Nessun altro, né prima né dopo! (p. 68-69).

 

Eppure quante cose avrebbe potuto insegnare Zenone ma «semplicemente confidava che gli altri ci arrivassero da soli riflettendo» (p. 73-74), constata il Rossetti.

E, in linea con la sua interpretazione, neanche l’Autore si sofferma nelle spiegazioni che sono state proposte dei paradossi zenoniani, né suggerisce la propria: «l’autore di queste pagine preferisce fare come Zenone e lasciare che sia semmai il cortese lettore, la cortese lettrice a interrogarsi e provare a ragionarne con chi vuole» (p. 52). L’invito tra le righe sembra essere quello di “metterci in situazione”, di ritornare a quei giorni in cui Zenone o qualcun altro leggeva in pubblico il suo libro, aggiungendovi magari «un po’ di mimica gestuale e facciale» per amplificare il «senso di smarrimento» nell’ascoltatore, e ne seguiva una qualche discussione, anche breve, che, è ragionevole ipotizzare, avrebbe potuto coinvolgere l’uditorio.

Queste considerazioni portano l’Autore a concludere (p. 70-74) che una delle cose su cui «non si è detto nulla» a proposito del libro di Zenone è che esso «sarebbe diventato un libro attorno al quale si poteva imbastire un qualche dialogo, prendere la parola, improvvisare, avviare uno scambio con l’autore» (p. 71) o con gli altri presenti. Cosa che né la lettura di un poema o di un altro testo, né la rappresentazione teatrale consentivano. Insomma, conclude al riguardo l’Autore, «Zenone ha tutta l’aria di aver anticipato Socrate e di aver ideato una prima modalità di dialogo (con il suo pubblico) e di invito al dialogo» (p. 73).

Effettivamente, nel suo dialogo Parmenide, Platone ci racconta che gli scritti di Zenone venivano letti in pubblico (dobbiamo immaginare un pubblico “da salotto”, per così dire, non una piazza), anche ad Atene, e che Zenone stesso lo faceva di persona qualche volta. Certo il racconto platonico presenta più di una ragione per metterne in dubbio l’attendibilità[6] e per ritenere che né Parmenide né Zenone siano stati mai nella metropoli attica, ma ciò non toglie che i loro scritti fossero ivi letti e studiati. Dunque la proposta del Rossetti non sembra affatto irragionevole (senza che con ciò ci si debba preoccupare per forza di stabilire la paternità dello stile di comunicazione ‘dialogico’).

Nel passare a trattare il maestro di Zenone, l’Autore paragona Parmenide a Dante (p. 77-81): «egli esordisce raccontando un sogno o visione, alla maniera di Dante Alighieri» (p. 77). Il proemio del poema parmenideo, nell’interpretazione del Rossetti, è un esperienza surreale che però rimane “ancorata” ai nostri sensi, attirando la nostra attenzione attraverso i suoni “raccontati” da quegli stessi versi, in modo che «un’autentica colonna sonora virtuale sembra accompagnare la narrazione» (p. 79). «Una colonna sonora» che l’Autore ci racconta passo-passo (p. 78-79) mentre ci propone la lettura del proemio nella traduzione del Cerri.

Ma al contrario che per la ‘selva oscura’ dantesca, la strada percorsa da Parmenide nel suo viaggio verso la dea che gli rivela i suoi «insegnamenti», così come la porta che egli attraversa, probabilmente esistono su questa terra, proprio ad Elea – ci dice Rossetti riprendendo un’ipotesi che fu di Capizzi, come egli stesso ricorda – e sono ancora visibili presso gli scavi archeologici della città.

A partire da p. 82, l’Autore comincia a parlare degli «insegnamenti» che Parmenide immagina di ricevere dalla dea. L’interpretazione tradizionale delle parole della dea ha condotto la maggior parte degli studiosi a suddividerli in due «tipi di sapere» e ad assegnare a questi valori diversi. Rossetti “contesta” che se andiamo a verificare questi insegnamenti «scopriamo facilmente che il sapere di scarso pregio semplicemente non c’è da nessuna parte, che cioè gli insegnamenti offerti sono tutti di prim’ordine, anche se sono nettamente diversificati» (p. 82) e, nelle condizioni che egli mette in evidenza nelle pagine seguenti, «l’insegnamento sull’essere […] può solo retrocedere a un insegnamento fra gli altri […] alcuni dei quali sono veramente formidabili» (p. 85). Si riferisce ai saperi astronomici e naturalistici che emergono dalla cosiddetta «seconda parte» del poema.

Questa è un’idea cardine dell’interpretazione del pensiero di Parmenide proposta negli ultimi anni dal Rossetti (come chi ha letto il suo Un altro Parmenide sa bene) e si articola nelle tesi che questi non possa essere considerato un filosofo, se non «virtualmente»,[7] ed a maggior ragione «il grande filosofo dell’essere», «come ‘tutti’ hanno insegnato per un tempo incredibilmente lungo», perché «il suo insegnamento non si identifica con l’ideazione ed elaborazione della sola nozione di essere» (p. 84). L’Autore procede quindi ad introdurre gli «insegnamenti» parmenidei, cominciando comunque da quello sull’essere (p. 86-89) che è trattato nel frammento B8. Secondo il Rossetti, l’interesse di Parmenide per la nozione di essere sarebbe stato il frutto di un suo «chiodo fisso», l’«inammissibilità» del «non essere», dell’«assenza totale», dello «zero assoluto». Quindi sarebbe stata una forma di horror vacui ad aver portato Parmenide ad isolare «il significato primario» del concetto «essere», «assolutizzarlo», e, di riflesso, a trarne delle conseguenze (p. 88).

«Ma noi siamo davvero obbligati a seguirlo?», conclude il Rossetti, e spiega (p. 90-95) come già a partire da Melisso di Samo ci si sia subito «allontanati moltissimo da Parmenide» e, sino ai nostri giorni, ad Heidegger e Sartre, «abbiamo finito per ignorare la sua ossessione» (p. 92). Pagine densissime dalle quali emerge chiaramente (tesi ormai largamente condivisa) come il pensiero parmenideo sia stato confinato fin da subito dalla tradizione filosofica in una sorta di metafisica, o proto-tale – che da un certo punto in poi è stata “etichettata” «ontologia» (p. 91) – che ha alienato tutti gli altri insegnamenti che emergono dal suo poema come «credenze illusorie».

Il Rossetti passa quindi a parlare degli «insegnamenti» astronomici di Parmenide (p. 96-99), dei quali purtroppo ci sono giunti pochi versi, forse solo l’indice di quello che si sarebbe apprestato a dire, ma dei quali ci restano importanti testimonianze dossografiche. Si sofferma sulle sue scoperte astronomiche, che a ragione possono dirsi «sbalorditive», e sulle influenze che esse devono aver riscosso nei contemporanei e nei pensatori successivi.

Qui l’Autore, per dimostrare la sua teoria dell’incompatibilità tra «l’insegnamento sull’essere» e gli «insegnamenti astronomici» ricorre ad un argomento che forse non è così cogente come potrebbe a prima vista sembrare. Scrive, infatti, che la dea (nel frammento B10 che cita in traduzione), nel passare in rassegna i temi astronomici che andrà a trattare, «lo fa senza introdurre nemmeno un vago riferimento all’essere» (p. 96).

Però, nel frammento B9, che introduce il «secondo tipo di sapere» (come lo chiama il Rossetti), a partire proprio dal frammento B10 citato dall’Autore, è detto chiaramente che vi sono due dynámeis (variamente nominate, da quel che sappiamo dai frammenti e dalle testimonianze, «luce»/«fuoco»/«denso» e «notte»/«rado»), senza entrambe le quali «c’è il nulla». Un’affermazione che lascia dedurre, come risulta anche dal frammento B12 e dalle testimonianze di diversi dossografi, che gli astri nei cieli – ma potremmo dire ogni cosa, sino alle creature viventi, a giudicare dagli altri frammenti e dalle testimonianze – per Parmenide fossero composti di queste «potenze» mescolate insieme in differenti proporzioni, e quindi, di converso, che ogni cosa fosse “fatta”, per dirla così, di «essere».

Certo neanche i sostenitori del «Parmenide filosofo dell’essere» è detto che siano d’accordo con questa lettura, anche perché in genere “squalificano” tutto il sapere contenuto nei frammenti da B9 in poi come “illusorio”, ma annotiamo che, se anche dalla prospettiva opposta, il Rossetti usa i loro stessi argomenti, in definitiva, per segmentare i contenuti del poema.

Se non riscontriamo particolari difficoltà ad ammettere la legittimità della critica dell’Autore al cliché del «filosofo dell’essere» ed a condividere la necessità di un impegno ulteriore nel campo degli studi parmenidei per portare in primo piano ed allo stesso livello del sapere sull’essere gli altri saperi che il poema pur conteneva (tesi sulla quale convengono ormai diversi studiosi), ci riesce, però, difficile condividere l’assunto sulla incompatibilità e incongruenza reciproca di tali saperi.

Tornando al testo di Rossetti, egli si sofferma (p. 100-105) sulle teorie che Parmenide ha elaborato sulla forma della terra e sulla sua suddivisione in zone climatiche, senz’altro straordinarie ed innovative anche queste. Seguono (p. 106-108) gli «insegnamenti» sulla fisiologia umana, con particolare riferimento all’embriologia, ove l’Autore mette in evidenza qualcosa che effettivamente ha avuto, ed ha, poca risonanza nel panorama degli studi parmenidei:

 

per molto tempo, inclusi i tempi di Aristotele, si è pensato e insegnato che la donna non produce un suo patrimonio genetico, ma si limita ad accogliere e nutrire il patrimonio genetico di origine maschile […] Invece Parmenide fu tra i primi e i pochi a sostenere il contrario (p. 106).

 

L’Autore poi prosegue sottolineando che Parmenide fu tra i primi che elaborò una teoria sul perché certi individui sviluppassero tendenze omosessuali e che provò a spiegarsi la condizione fisiologica di chi ha tali tendenze.

Rossetti definisce questa una «conquista assolutamente memorabile» e ne conveniamo, ma annotiamo che in queste pagine egli dà pochissimo spazio e risonanza, [8] al contrario di quanto ha fatto nella sua monografia (Rossetti, 2017b, vol. 2, p. 97-112), a quello che egli stesso ha identificato nel poema come una sorta di «proto-femminismo» parmenideo (ivi, 110). Crediamo, infatti, che la cosa più «sbalorditiva», e, aggiungeremmo, scandalosa, che poteva emergere dal poema parmenideo – oltre il pantheon assolutamente femminile che lo anima – è proprio la tesi che la donna avesse un ruolo attivo nella riproduzione e non solo quello di ‘fornetto’, che la donna fosse “fatta” in prevalenza del «rado», quindi di «luce», più che l’uomo, in cui prevaleva il «denso», la materia dell’oscurità (come ci testimonia Aëzio), e che la daímōn di B12, piuttosto che spingere «i maschi a unirsi con le femmine», come prevedeva la themis omerica, dava la “precedenza” a queste ultime.

Nella Grecia del VI-V sec. a.C., ma anche oltre, la pederastia era una pratica pedagogica quasi “raccomandata” e Platone – che nel Parmenide ci presenta Zenone anche come “amante” di Parmenide – impiega un intero dialogo, il Simposio,[9] per «definire la filosofia come un parto dell’anima maschile legata all’amore fra uomini», nelle parole della Cavarero (1990, p. 100). Una concezione della filosofia che, possiamo dirci certi, difficilmente poteva essere condivisa da Parmenide, la cui «ovvia e trasparente venerazione del Maestro per il Principio Femminile», come sottolineava De Santillana (1985, p. 90), emerge perentoria dal suo poema.

E pensare che il femminismo, che tanto ha insistito a proposito del significato androcentrico della credenza embriologica che fosse solamente il maschio a dare forma alla vita, si è “distratto” su questa innovativa tesi parmenidea ed ha sempre accusato Parmenide, o meglio «il filosofo dell’essere», di matricidio filosofico, senza concedergli alcun appello.

Tornando alla «conversazione» del Rossetti: dopo aver ricordato gli altri «insegnamenti» biologici (p. 109-111) – e segnaliamo in proposito che l’Autore non vede in Parmenide anche un medico (p. 111), come negli ultimi anni è stato fatto da alcuni studiosi – egli torna ai primi 33 versi del frammento B8 (p. 112-117) per parlare di un altro «insegnamento» parmenideo che egli separa da quello dell’essere (per questo lo tratta alla fine degli insegnamenti, agli “antipodi” di quell’altro, che aveva trattato all’inizio: p. 122 n. 23), «ideando qualcosa che pervenne a sedimentarsi in una forma divenuta standard, si noti, solo quasi due secoli dopo, con gli Elementi di Euclide» (p. 116): il ragionamento deduttivo.

Si viene quindi accompagnati alle conclusioni sugli insegnamenti di Parmenide (p. 118-125, ma anche p. 136-137). «È bello – condividiamo le parole dell’Autore ed il suo entusiasmo – ritornare a prendere coscienza delle tante conquiste legate al nome di questo antico maestro» (p. 119). E concordiamo con la sua critica che «fino a ieri, il Parmenide filosofo dell’essere ha oscurato con impressionante efficacia tutti gli altri aspetti della sua poliedrica personalità» (ibid.). Tant’è che, l’abbiamo accennato prima, il pensiero femminista non si è mai accorto di quanto fosse “dalla parte della donna” Parmenide. Ma vogliamo qui ricordare che lo «ieri» a cui fa riferimento il Rossetti non sono solamente gli ultimi dieci anni, perché sono stati diversi gli studiosi che fin dal secolo scorso hanno cominciato a leggere il poema non solo “da sinistra verso destra”, per parafrasare una felice espressione con cui Mansfeld (2015) ha intitolato un suo recente saggio, ma anche “da destra verso sinistra”, cominciando appunto a darne un’interpretazione partendo proprio dal sapere cosmologico e naturalistico che emerge dalla seconda parte del poema e dalle molte e attendibili testimonianze dossografiche che ne abbiamo. Ed il Rossetti ha senz’altro contribuito a questa rilettura. Così come, da molti anni, si è cominciato ad approfondire il proemio e la sua relazione con il resto del poema, cosa che ha fatto anche l’Autore, che intravede una «congruità fra un Proemio così accentuatamente politematico e l’elaborata polumathia che il poeta mostra di aver coltivato (con straordinario successo)» (Rossetti, 2017b, vol. 1, p. 157).

D’altra parte siamo completamente d’accordo con l’Autore che Parmenide fosse un sophos e non un filosofo, specialmente non nel senso che intesero Platone, Aristotele e tutti i filosofi ‘metafisici’ (ma qualcuno ancora potrebbe obiettare che la filosofia è metafisica e nient’altro) che seguirono, sino ai nostri giorni, tra i quali l’Autore non manca di menzionare i più eminenti (p. 90-95). Possiamo condividere senz’altro l’ipotesi che Parmenide fosse un «cultore della polumathia ([…] il sapere molte cose, il fatto di intendersi di molte cose diverse)» e che i diversi aspetti della sua «poliedrica personalità» non debbano essere oscurati dall’attenzione quasi ossessiva al frammento B8 (p. 118-119).

Ma è più difficile condividere l’idea che si debba necessariamente «circoscrivere» (p. 124) «l’insegnamento sull’essere» per far riemergere gli altri. Forse bisognerebbe capire meglio quello che intendeva Parmenide con la sua nozione di essere, che probabilmente non doveva essere, come lo stesso Rossetti sottolinea, quella che ci hanno tramandato Melisso, Platone e Aristotele, tra i primi suoi lettori: Gadamer ci aveva già avvisati che l’aldilà che Platone e Aristotele hanno pensato dell’essere, in Parmenide è l’aldiquà (Gadamer, 2018, p. 73-134). Forse si può provare a rimettere mano al «’montaggio’ del poema» (p. 112) che la tradizione ha canonizzato finora (qualcuno lo sta facendo già, anche se con altre intenzioni: pensiamo, tra altri, a Coxon, Cordero, Kurfess, Laks e Most), e forse anche i paradossi di Zenone, la cui autonomia rimarrebbe incontestabile, potrebbero interpretarsi lungo la linea dottrinale tracciata dal poema parmenideo e non solamente in discontinuità con esso.

Allo stesso modo, crediamo, riesce difficile convincersi che nel poema di Parmenide «non si nota nessun desiderio di generalizzare offrendo considerazioni riguardanti la totalità […] [e] che questa sua supposta attitudine a rendere conto del tutto non è documentata» (p. 119); o che Parmenide «non ha nemmeno provato a offrire … delle considerazioni sulla realtà nel suo complesso»[10] (p. 122), specialmente quando è lo stesso Rossetti che ascrive alla capacità di Parmenide di «rappresentarsi l’intero» (p. 113) la sua maestria nell’organizzazione del poema ed il suo rigore deduttivo.

Il testo prosegue con un capitolo dedicato al ‘dopo’ Parmenide e Zenone (p. 127-137) – nel quale si segnala in particolare il paragrafo su Melisso e sul suo ruolo chiave nella fortuna del poema parmenideo e nella nascita dello stereotipo del Parmenide «filosofo dell’essere» (p. 132-135) – e si conclude con una sezione «Per saperne di più», in cui l’Autore propone alcune letture d’approfondimento. Si rimane un po’ perplessi davanti alla dichiarazione che la monografia di Bollack, Parménide, de l’étant au monde, che certo rimane di assoluto rispetto, sia l’unico testo precedente alla monografia del Rossetti, Un altro Parmenide, «in cui si prova a rendere conto sia del Parmenide filosofo dell’essere e grande ragionatore, sia del Parmenide naturalista» (p. 140). Una validissima indicazione contenuta nella sezione è certamente quella sui volumi pubblicati nella collana Eleatica, che raccolgono gli studi degli omonimi convegni che si svolgono ad Ascea (p. 141), diretti dallo stesso Rossetti fin dal primo incontro. Rappresentano una miniera di conoscenze e di idee sul pensiero di Parmenide e Zenone, ma non solo. Soprattutto, rappresentano lo “stato dell’arte” della ricerca intorno al loro pensiero.

Per concludere. Parmenide e Zenone sophoi ad Elea è una gradevole e stimolante «conversazione» che effettivamente fa venir voglia di conoscere meglio i due sapienti, è un inno al loro genio, ma anche un invito a recarsi ad Ascea per camminare dove loro hanno camminato duemilacinquecento anni fa. Per un lettore solamente curioso, il testo – riprendiamo la conclusione della Gardella nella presentazione allo stesso (p. 12) – si presenta come una sorta di paradosso zenoniano, certo più complesso: propone questioni nodali su come può essere pensata la realtà (e lo fa attraverso le riflessioni di due menti geniali), lasciando riflettere su di esse senza dare troppe spiegazioni. Per lo studioso di Zenone, il testo presenta alcune significative novità rispetto alle ipotesi proposte nel 2009, come nel caso di Parmenide, ma su quest’ultimo questo libro rappresenta una ricapitolazione dell’interpretazione che ne dà il Rossetti nella sua monografia, che certo rimane un fondamentale strumento di approfondimento, come poche altre.

Nonostante, infatti, come abbiamo accennato, il Rossetti non sia stato l’unico a rivalutare il sapere contenuto nella cosiddetta «seconda parte» del poema parmenideo, egli non lo fa nella stessa direzione perseguita da altri studiosi – che comunque cercano di riconnettere, da varie prospettive, questo sapere con quello sull’essere – ma nel considerare il sapere della «seconda parte» del poema suddiviso a sua volta in saperi diversi, irriducibili tra loro e rispetto al sapere sull’essere (p. 82-85, 96 e 119) e lo stesso «sapere sull’essere» irriducibile a quello sulla «razionalità deduttiva» contenuto nello stesso frammento dove è discusso quello. Dunque il Parmenide proposto dal Rossetti è sì «un altro Parmenide» ma non «assolutamente irriconoscibile» (p. 85), se non per chi ne abbia conoscenza solamente dagli studi liceali.

Dal nostro punto di vista, lo studioso già da qualche anno sottopone una certa interpretazione dell’ontologia parmenidea, sedimentatasi con la tradizione metafisica, ad una sorta di “epoché” (virgolette d’obbligo), per ridare valore agli altri saperi che sappiamo professava il grande Maestro. Questa sua prospettiva rappresenta un “polyderis élenchos” degno di quello che la dea propone a Parmenide nel poema (cfr. il frammento B7), ma d’altra parte rischia di frammentare ulteriormente un pensiero che probabilmente non era così “compartimentato” come sembra concludere l’Autore.

Chiunque voglia approfondire il pensiero di Parmenide, qualunque sia il suo approccio ad esso, non può perciò non confrontarsi con l’interpretazione che ne propone il Rossetti. Sia infatti che si tratti di Parmenide sia di Zenone (la cui interpretazione di ogni studioso non può che dipendere da come questi avrà letto il poema parmenideo) le sue letture hanno radici ben strutturate e la forza di un’argomentazione congrua.

Ovviamente il testo che abbiamo provato a raccontare può dare solo una pallida idea della profondità degli studi condotti dal Rossetti ma il palpabile entusiasmo con cui l’Autore ci racconta Parmenide e Zenone, che emerge da ogni pagina, dà anche un’idea della passione che ha accompagnato questi studi in tanti anni e questo, anche da solo, crediamo valga la sua lettura.

 

 

Bibliografia

CAVARERO, A. (1990). Nonostante Platone. Figure femminili nella filosofia antica. Roma, Editori Riuniti.

DE SANTILLANA, G. (1985). Fato antico e fato moderno. Milano, Adelphi.

GADAMER, H.-G. (2018). Parmenide. A cura di C. Saviani. Traduzione di G. Bongo. Napoli, La scuola di Pitagora.

HOFSTADTER, D. H. (1984). Gödel, Escher, Bach: un’Eterna Ghirlanda Brillante. Milano, Adelphi.

MANSFELD, J. (2015). Parmenides from Right to Left. Études platoniciennes 12, e-ID=699. http://journals.openedition.org/etudesplatoniciennes/699.

MAZUR, J. (2019). Achille e la tartaruga. Il paradosso del moto da Zenone a Einstein. Milano, Il Saggiatore.

ROSSETTI, L. (2017a). La filosofia virtuale di Parmenide, Zenone e Melisso. Uno sguardo alle prossime Lezioni Eleatiche. Archai 21, p. 297-333.

ROSSETTI, L. (2017b). Un altro Parmenide. 2 vols. Bologna, Diogene Multimedia.

ROSSETTI, L. (2019). Parménides y Zenón, sophoí en Elea. Traducción de Alejandro Mauro Gutiérrez et al. Buenos Aires, Teseopress.

[1] Il libro qui recensito, «con piccole modifiche», come precisa l’Autore stesso a p. 7, è l’edizione italiana di un testo pubblicato in spagnolo l’anno precedente (Rossetti, 2019).

[2] Queste pagine, l’indice, la presentazione di Mariana Gardella Hueso ed alcune pagine del secondo capitolo, si possono leggere in un estratto del testo che la casa editrice rende disponibile online all’indirizzo: http://blog.petiteplaisance.it/wp-content/uploads/2020/01/Invito-alla-lettura_Parmenide-e-Zenone-sophoi-ad-Elea.pdf (consultato il 22 luglio 2020).

[3] Che non sono certamente da meno, come evidenzia l’Autore stesso ad ogni occasione. Per esempio, rispetto alle scoperte astronomiche di Parmenide, sottolinea il Rossetti, le teorie cosmologiche elaborate da Aristotele appaiono «tutte fantasie prive di qualunque riscontro» (p. 118).

[4] Per farsi un’idea della ricchezza della «possanza», per dirla con l’Autore, epistemologica e scientifica che essi continuano ad avere, segnaliamo due testi, tra l’altro molto diversi tra loro: uno di Hofstadter (1984), in cui i personaggi zenoniani Achille e la Tartaruga accompagnano il lettore lungo tutto il libro in quella che l’autore definisce fin dal sottotitolo «Una fuga metaforica su menti e macchine nello spirito di Lewis Carroll»; l’altro di Mazur (2019).

[5] “Piacevole” (p. 40-49) la spiegazione della differenza tra paradossi ed enigmi che punta a far capire come l’essenza di un paradosso, che ne garantisce la longevità, sia proprio la sua irresolubilità.

[6] Per il Rossetti è «una mera fantasia» (p. 33) anche se sembra tenerne conto nell’indicare la cronologia di Parmenide (p. 30, n. 1).

[7] Per l’approfondimento del concetto di «filosofia virtuale» nella terminologia rossettiana si rimanda a Rossetti, 2017a.

[8] Neanche vi fa cenno nelle conclusioni (p. 136) dove annota solo la «conquista» dell’interessamento all’omosessualità e le sue conseguenze.

[9] Ove il noto ‘mito della mela’ non vuole essere altro che la dimostrazione della superiorità dell’uomo sulla donna e dell’amore omosessuale maschile su ogni altro.

[10] In questo senso l’Autore, piuttosto che accomunarlo ad Anassimandro, Anassimene, Eraclito, o Senofane, scrive che Parmenide «ha qualcosa in comune con Talete» (p. 124) il quale «difficilmente pervenne ad elaborare un suo modo di rappresentarsi la totalità» (p. 120-121).


La recensione di Marco Montagnino è stata pubblicata sulla rivista

Archai

n. 30, Brasília, 2020

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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