Ernst Bloch (1885-1977) – I filosofi dei nostri giorni hanno familiarizzato con il nihil. L’immagine di desiderio del nulla l’ha formulata Heidegger. il nulla di Jaspers e di Heidegger è tinto e ornato di penne di pavone, proprio in prospettiva del suo incanto di morte.
[…] i filosofi borghesi dei nostri giorni hanno familiarizzato con il nihil in un modo apparentemente originale. Sono filosofi della decadenza; essi hanno legato il problema della morte individuale a quello della loro società, hanno fatto del mero nulla del futuro capitalistico un nulla inevitabile e assoluto, affinché lo sguardo su un mondo trasformabile, sul futuro socialista, venisse completamente bloccato. Essi predicano una deiezione alla morte che pertanto deve andare ancora molto oltre quella organico-naturale, e cioè attraverso una letargia prodotta sinteticamente e da ultimo mediante la guerra. Al suo nulla hanno aggiunto al tempo stesso immagini falsificate di desiderio cupe ed edificanti, disfattiste all’inizio e mefistofeliche alla fine.
O. Spengler parlò della stanchezza «che l’uomo troppo sveglio sente in tutte le ossa» e la celebrò come fatta d’acciaio, perché nient’altro seguirà.
Jaspers consolò al seguente modo, con uno spunto non storico ma cosiddetto eterno-esistenziale: “Che nulla possa permanere, non dipende solo dal fatto che il mondo ha il suo corso nel tempo, ma anche dal fatto che sembra esserci una volontà (!) che non consente ad alcuna realtà effettiva di mantenersi stabilmente. Naufragare significa fare un’esperienza che non si può né anticipare, né evitare, perché giungere al proprio compimento è anche dissolversi. L’ultima possibilità (!) che rimane a tutto ciò che si realizza nel tempo è quella di attuarsi per naufragare completamente. Tutto affonda nella notte dove c’è il fondamento di tutto. Se il giorno crede di essere autosufficiente, allora il mancato naufragio genera un vuoto sempre maggiore finché, alla fine, il naufragio sopraggiunge come qualcosa di estraneo” (K. Jaspers, Philosophie, 1932, III, p. 110; cfr. K. Jaspers, Filosofia, trad. it. di U. Galimberti, Torino, UTET, 1978, p. 1049).
Qui dunque il nulla, cui si affida la malattia, la malattia mortale del tempo, si fa luce quasi doppiamente intricato: da status viene trasformato in atto eterno e cioè in quello del naufragio, e deve essere addirittura un garante del miglior qualcosa, cioè del contenuto. L’altra immagine di desiderio del nulla l’ha formulata Heidegger, un angelo molto più presago, già non più un consolatore ma un conciliatore e un propagandista del mondo tardocapitalista-fascista, il mondo della morte.
L’angoscia è angoscia della morte e non avviene in singoli attimi o addittura all’ultimo momento ma è “la costituzione fondamentale dell’esistenza umana”, “l’unico ente nell’analitica esistenziale dell’esserci” (Essere e tempo, 1927). L’angoscia, e il puro nulla in cui essa è sospesa, non danno per la verità un contenuto alla vita, però le danno problematicità e profondità: “Unicamente perché il nulla è manifesto nel fondo dell’esserci può soprassalirci il senso della completa estraneità dell’ente”; oggetto della scienza è l’ente, della filosofia il nulla. “Ma l’esserci, oltrepassando l’ente nel suo progetto di un mondo, deve oltrepassare se stesso per potere, da questa altezza, comprendere se stesso come fondo abissale” (Vom Wesen des Grundes, 1929, p. 110; 2 cfr. M. Heidegger, Dell’essroza del fondamento, in Segnavia, Adelphi, Milano 1987, p. 130) – per essere un puro nulla, il nulla mostra un volto ben complicato. Ma neanche questa complicatezza è originale, è presa in prestito, dal “naufragio compreso” di Jaspers al “non coperto resistere” di Heidegger; e un effetto di freschezza lo fa solo il compito imperialistico particolarmente interessato a questa specie di affermazione dell’abisso o “immersione nella morte”. Per il resto anche il nulla di Jaspers e di Heidegger è tinto e ornato di penne di pavone, proprio in prospettiva del suo incanto di morte. E in quest’ultimo appare, di nuovo pervertito, molto di luterano-cristiano: il naufragio corrisponde al rifiuto della giustificazione per mezzo delle opere, l’angoscia corrisponde al vecchio fardello dei peccati, l’anticipata decisione alla remissione alla volontà di Dio. E al copiato Lutero si mescola un controcanto: il romanticismo copiato, il suo concetto di desiderio della notte. Questa, certo, non più tinta di morte d’amore, “sprofondando, affogando, inconsapevole, piacere supremo», ma di omicidio. Questi sono gli epigoni del nichilismo profascista, della sua disperazione vanagloriosa, del suo quietismo per i gregari e del suo après nous le déluge per i duci».
È tempo di tornare ad aria più pulita. In essa c’è in definitiva ancora la sensazione – indubbiamente anche fresca, non solo antica – di seguitare a vivere nei propri figli. Nessuno, dice un proverbio contadino, dovrebbe uscire dalla vita senza aver piantato un albero e aver lasciato un figlio. […] Figli però vengono chiamate anche le opere spirituali, quelle dipinte, musicate, poetate, costruite, pensate. Sia per l’ebbrezza del loro concepimento sia per i dolori del loro parto, sia appunto per la loro durata e sopravvivenza. […]
Ernst Bloch, Il principio speranza, vol. III, Capitolo 52: Sé e lampada funebre ovvero immagini di speranza contro la forza della più potente non-utopia: la morte, Garzanti, Milano 1994, pp. 1339-1341.