«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
La storia non si snoda come una catena di anelli ininterrotta. In ogni caso molti anelli non tengono. La storia non contiene il prima e il dopo, nulla che in lei borbotti a lento fuoco. La storia non è prodotta da chi la pensa e neppure da chi l’ignora. La storia non si fa strada, si ostina, detesta il poco a poco, non procede né recede, si sposta di binario e la sua direzione non è nell’orario. La storia non giustifica e non deplora, la storia non è intrinseca perché è fuori. La storia non somministra carezze o colpi di frusta. La storia non è magistra di niente che ci riguardi. Accorgersene non serve a farla più vera e più giusta. La storia non è poi la devastante ruspa che si dice. Lascia sottopassaggi, cripte, buche e nascondigli. C’è chi sopravvive. La storia è anche benevola: distrugge quanto più può: se esagerasse, certo sarebbe meglio, ma la storia è a corto di notizie, non compie tutte le sue vendette. La storia gratta il fondo come una rete a strascico con qualche strappo e più di un pesce sfugge. Qualche volta s’incontra l’ectoplasma d’uno scampato e non sembra particolarmente felice. Ignora di essere fuori, nessuno glie n’ha parlato. Gli altri, nel sacco, si credono più liberi di lui.
Il presente non è tutto Nei tempi bui in cui tutto sembra procedere nel rumore cadenzato e stridulo dei cingolati del , la poesia appare come libertà, breccia nella plumbea cappa dei nostri giorni senza speranza e senza prospettiva. Montale nella poesia La Storia ci induce a riflettere sull’andamento della storia per poter riprendere il cammino che pare già segnato, ma in realtà è un campo di possibilità che si snoda davanti a noi. Il capitalismo ha in odio la storia, poiché essa testimonia che ogni potere è nel tempo, vorrebbe dissolverla in modo che si pensasse che il presente ha in sé la pienezza senza trascendenza, che oltre il tempo presente con la sua visione unidirezionale non vi è nulla. Il capitale nella sua fase apicale ha divorato anche il nulla, non ammette antitesi di nessun genere, si presenta come l’essere univoco parmenideo, deve eliminare ogni orizzonte temporale per erigere prigioni globali. Montale ci rammenta che la storia non è prevedibile, è attività creatrice, ha improvvise deviazioni, nessuno la possiede, ma appartiene a tutti, e dunque con l’aiuto delle circostanze l’impossibile può diventare reale. La storia ideale costruisce eroi ed ipostasi quali artefici della storia, ma la verità è che la storia è il frutto di una pluralità di soggetti che muoiono anonimi, eppure partecipano vivamente al suo procedere, sono il sale della vita che crea nuove possibilità. La loro gioia è nella partecipazione silenziosa che non verrà segnalata da nessuno storico. Ciò malgrado, dietro i rumori dei grandi vi è la storia dei piccoli, dei resistenti, che con la loro piccola vita possono deviare il corso fatale della stessa. Coloro che vogliono ridurre la storia ad un teorema con definizioni e corollari predeterminati hanno già perso, perché si pongono fuori del cammino della storia vivente:
La storia non si snoda come una catena di anelli ininterrotta. In ogni caso molti anelli non tengono. La storia non contiene il prima e il dopo, nulla che in lei borbotti a lento fuoco. La storia non è prodotta da chi la pensa e neppure da chi l’ignora. La storia non si fa strada, si ostina, detesta il poco a poco, non procede né recede, si sposta di binario e la sua direzione non è nell’orario.
Piani di passaggio La storia ci sembra, ora, in questi decenni omogenea: un piano liscio su cui scorrono merci e chiacchiere. L’impero del valore di scambio sembra non lasciare scampo, assimila ogni differenza, espelle dal suo grembo maligno ogni alterità. L’omogeneità si ripiega su se stessa, non lascia varchi, brecce da cui ri-dialetizzare il presente. Montale ci invoca a guardare fortemente la storia e a cogliere sul piano liscio improvvise “buche” che consentono il passaggio verso nuovi mondi. Il piano grigio e compatto della globalizzazione, apparentemente invincibile, è puntellato di resistenti che non si lasciano divorare dalla chiacchera, ma conservano la loro umanità, la loro razionalità critica che trasforma il presente in attività divergente. La storia non è conclusa, il potere vive l’illusione del controllo totale, si bea della sua tracotanza, ma la vita con le sue buche gli sfugge. Le buche possono trasformarsi in voragini tali da deviare il corso degli eventi, da mutare la geografia dei significati che il potere vorrebbe eternizzare:
La storia non è poi la devastante ruspa che si dice. Lascia sottopassaggi, cripte, buche e nascondigli.
Fuori dalle reti Per poter comprendere la storia, se mai questo sia possibile, dobbiamo guardare fuori la rete che ci rassicura, distribuisce i ruoli, tira una linea tra vincitori e vinti. La storia vera e viva è fuori della rete. Solo chi è fuori della rete può comprendere la verità della storia. Chi è tagliato fuori dalla storia, svela le illusioni di coloro che sono nella rete, chi sfugge alla rete per volontà o per un caso trova un varco, è l’attore di un nuovo inizio. Gli infelici che sono “fuori” non sono da compiangere, perché in loro riposa la possibilità di un nuovo percorso, perché dal loro “fuori” vedono la verità della rete con i suoi disincanti. Il loro sguardo penetra nella notte oscura per incontrare l’inizio di un nuovo giorno, la tragedia si sposa con la speranza:
C’è chi sopravvive. La storia è anche benevola: distrugge quanto più può: se esagerasse, certo sarebbe meglio, ma la storia è a corto di notizie, non compie tutte le sue vendette. La storia gratta il fondo come una rete a strascico con qualche strappo e più di un pesce sfugge. Qualche volta s’incontra l’ectoplasma d’uno scampato e non sembra particolarmente felice. Ignora di essere fuori, nessuno glie n’ha parlato. Gli altri, nel sacco, si credono più liberi di lui.
Non dobbiamo temere di essere degli invisibili, dei pesci piccoli che nuotano alla periferia della rete, coloro che non sono nella rete non appaiono, ma sono la sostanza del mondo, e la storia vive delle loro inconfessabili libertà. La teoria del caos (James Yorks) ci insegna che un battito d’ali può causare effetti che non possiamo prevedere. Dobbiamo continuare a battere le nostre ali. I nostri pensieri, il nostro impegno sono le ali della storia. La storia viva è indecifrabile, insondabile e non si ripete mai in modo eguale, pertanto anche nella disperazione può fiorire la speranza, perché la storia è molto più di ciò che appare, leggiamo e viviamo. La storia incombe, se ci arrestiamo davanti alla sua grandezza, ma se entriamo in essa e ci doniamo senza la presunzione del risultato tutto può ancora essere ed esserci. Non dobbiamo allevare barbari dal calcolo facile e dal cuore lento, ma guerrieri gentili dalle cui parole può rifiorire un mondo.
Salvatore Bravo
[1] Eugenio Montale, La Storia, in Satura, Mondadori, Milano 1971).
N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo:
«Gli orizzonti di senso della speranza sono infiniti, e non è facile descriverla e coglierla nei suoi diversi modi di essere, ma vorrei dire subito che se la speranza non ha una dimensione dialogica, aperta agli altri e al mondo della vita, non è speranza. Siamo tutti affascinati da quello che avviene nell’istante, e nella illusione di non perdere tempo la nostra vita quotidiana naufraga sugli scogli di un presente svuotato di passato e di futuro, di memoria e di speranza. Non si può vivere senza speranza. […] Noi siamo relazione, e abbiamo il compito, che è un dovere, di dire parole che non feriscano le speranze delle persone con cui ci incontriamo, o con cui abbiamo relazioni di cura. Le parole sono creature viventi, il loro contenuto ha ovvia radicale importanza, e nondimeno la tensione emozionale, l’apertura alla speranza, ne cambia i significati; e la speranza è come un ponte che ci fa uscire dalla solitudine, e ci mette in una relazione senza fine con gli altri, con gli altri che hanno bisogno di un aiuto, e talora solo di un sorriso, o di una lacrima, di un saluto che nasca dal cuore. La speranza è anche dovere, ricerca infinita di senso, e di essa dovremmo saper cogliere il valore reale, autentico, del tutto individuale, diverso in ciascuno di noi».
Eugenio Borgna, Speranza e disperazione, Einaudi, Torino 2020, pp. 5-6.
Questo contributo intende riflettere sulla – antica e, insieme, attualissima – nozione di speranza a partire da una breve indagine etimologico-semantica (a cui si torna, chiudendo il cerchio, al termine del saggio), nella convinzione che la riflessione sulle parole e sulle loro origini possa donare alcune feconde piste al pensiero.
Il breve saggio si snoda lungo due linee direttrici fondamentali: la speranza come páthos, ovvero come passione, sentimento o desiderio, e la speranza come areté, ovvero come “virtù”, nozione che, nel senso greco e, più nello specifico, aristotelico del termine, implica la capacità di amministrare correttamente la passione. In questo secondo caso, inoltre, si assiste alla messa in campo di un “versante attivo della speranza”, che chiama in causa il soggetto agente e volente, che ha il compito di dare forma al suo desiderio. Qui il “sogno ad occhi aperti” diventa prassi, si fa progetto.
L’itinerario si interseca in molti modi ad altre fondamentali nozioni, tra cui, solo per indicarne alcune, quella di paura (che si configura come una passione che dirige il soggetto nella direzione opposta rispetto alla speranza), quella di rischio (a cui la originaria vocazione all’“apertura” prodotta dalla speranza è intimamente connesso e che richiede, a sua volta, un’opera di “saggia amministrazione”) e quella di fiducia (a cui la speranza è costitutivamente intrecciata e che chiama in causa un altro profilo della riflessione, affrontato al termine del saggio, quale quello educativo).
«La felicità è la vita stessa quando viene vissuta al meglio: si è felici perché si vive bene, perché la vita ha acquisito un peso, una direzione, un orientamento, perché la vita si è affrancata dalla sua nudità, dalla sua esposizione alla morte, dalla semplice e anonima sussistenza, trasformandosi in una vita dotata di senso, in una individuale e particolarissima consistenza. […] felicità intesa come pienezza, come attingimento pieno del telos. Se il telos è interno all’energeia che lo produce, se il fine è contenuto nell’azione ed è indistinguibile da essa, allora è impossibile pensare ad una felicità che risieda escludivamente nel bersagio e non anche lungo i passi che conducono al suo raggiungimento […] lungo tutto il tragitto della vita». Arianna Fermani, Vita felice umana, 2006.
«[…] il problema della vita nel suo complesso a qualcuno di noi può sembrare meno impellente di quanto non sembrasse a Socrate. Epure la sua domanda ci incalza ancora oggi e reclama l’impegno a riflettere sulla nostra vita nel suo complesso, e cioè nella totalità dei suoi aspetti e in tutta la sua profondità». Bernard Williams, L’etica e i limiti della filosofia, 1985.
Nel concetto della filosofia come domanda totale, problematicità pura, e perciò metafisica, risiede la classicità del pensiero antico. […] Se la filosofia rinuncia al suo carattere di domanda totale rinuncia al […] senso antico della filosofia, intesa come acquisizione perenne dello spirito, come vero κτῆμα εἰς ἀεί [possesso pe sempre]». Enrico Berti, Quale senso ha oggi studiare la filosofia antica, 1965.
«ὡς ἡδὺ καὶ μακάριον τὸ κτῆμα» [quanto soave e felice è il possesso della filosofia]. Platone, Repubblica, 496 c.
«[…] il movimento nel quale è contenuto anche il fine è anche azione. […] Uno che vive bene, ad esempio, ad un tempo ha anche ben vissuto, ed uno che è felice, ad un tempo è stato anche felice». Aristotele, Metafisica, IX, 6, 1048 b.
Note sul testo Il saggio si propone di riflettere sul modello classico del biosteleios, cioè della felicità della vita nella sua totalità, cercando di mostrare come il dialogo con gli antichi fornisca ancora “utili” schemi concettuali. Più in particolare si cerca di mostrare come il confronto con le riflessioni etiche di Platone e Aristotele permetta di dipanare i numerosi fili che costituiscono la trama di ogni esistenza umana (come i dolori, i piaceri, l’ampia gamma di beni e di risorse che la costituiscono), e di individuare alcuni rilevanti nodi concettuali (tra cui, ad esempio, quello di “misura”) che costituiscono la semantica della nozione di eudaimonia. Il modello antico di eudaimonia come euprattein, inoltre, cioè come capacità strategica di “giocar bene”, sembra risultare particolarmente fecondo, invitando ad interrogarsi sulle modalità di attuazione della vita felice e sulla gestione di tutto ciò che ad ogni esistenza si offre per una “prassi di felicità”.
Note sull’autore
Arianna Fermani insegna Storia della Filosofia Antica all’Università di Macerata. Tra le sue pubblicazioni: L’etica di Aristotele. Il mondo della vita umana, Brescia, Morcelliana, 2012; By the Sophists to Aristotle through Plato. The necessity and utility of a Multifocal Approach, a cura di E. Cattanei, A. Fermani, M. Migliori, Sankt Augustin, Academia Verlag, 2016; Aristotele e l’infinità del male. Patimenti, vizi e debolezze degli esseri umani, Brescia, Morcelliana, 2019. Ha tradotto integralmente le Etiche di Aristotele (Aristotele, Le tre Etiche, Milano, Bompiani, 2008; Giunti, 2018) e ha collaborato all’edizione dell’Organon (a cura di M. Migliori, Milano, Bompiani, 2016).
Indice Prefazione di Salvatore Natoli
Introduzione
Parte prima. Semantica della felicità
Capitolo primo. La felicità come domanda originaria 1.1. Domanda “di” felicità
1.2. Domande “sulla” felicità 1.2.1. Felicità: una questione terminologica 1.2.2. Felicità e forme di vita
Capitolo secondo. Felicità e dolore 2.1. L’esperienza del dolore 2.1.1. Il dolore come accadimento 2.1.2. Le forme del dolore 2.2. Cicatrizzazione del dolore e cura di sé 2.2.1. Approcci al dolore 2.2.2. Cura del dolore e cura di sé 2.2.3. L’assunzione del dolore 2.3. Concludendo
Capitolo terzo. Felicità e piacere 3.1. L’esperienza del piacere 3.2. Fenomenologia del piacere 3.2.1. Il piacere nell’orizzonte della corporeità 3.2.2. Dinamiche piacevoli e dolorose
3.2.3. Il corpo e i desideri: la veemenza di un fiume in piena
3.2.4. Anima e corpo di fronte al piacere 3.2.5. Piaceri e criteri di scelta 3.3. Il ruolo del piacere nella vita felice
Capitolo quarto. Felicità e realizzazione di sé 4.1. Profili della virtù: tentativi di un recupero 4.1.1. Virtù come eccellenza 4.1.2. Virtù come forza 4.1.3. Virtù come disposizione 4.1.4. Virtù come giusto mezzo 4.2. La virtù come architettonica della felicità 4.2.1. Vita felice e accordata: la virtù come musica 4.2.2. Vita felice e ordinata: la virtù come misura 4.2.3. La virtù come arte del vivere bene
Capitolo quinto. Felicità e beni esteriori 5.1. Primi approcci al problema 5.2. Felicità e fortuna 5.2.1. Lampi di felicità, colpi di fortuna 5.2.2. Fortuna e virtù 5.2.3. Felicità e fortuna: osservazioni conclusive 5.3. Felicità e amministrazione dei beni 5.3.1. Il possesso e l’utilizzo di due beni supremi: la sophia e la phronesis
Parte seconda. Prassi di felicità
Capitolo primo. Felicità e valorizzazione delle proprie risorse 1.1. Vita felice e buon utilizzo dei propri talenti 1.1.1. Per una eudaimonia nell’orizzonte della physis 1.1.2. Felicità al singolare, felicità al plurale 1.2. Eudaimonia come ritrovamento e buona allocazione del proprio daimon 1.2.1. Felicità come consapevolezza 1.2.2. Percorsi esistenziali e traiettorie di felicità 1.3. Saggezza e sapienza di fronte alla felicità
Capitolo secondo. Felicità come conquista di pienezza 2.1. Felicità tra esperienze di pienezza e pienezza di vita 2.1.1. Tentativi di articolazione della nozione di pienezza
2.2. Per una pienezza nell’orizzonte dell’energeia 2.3. La difficoltà di far spuntare le ali: la felicità come conquista 2.3.1. Felicità pienamente consapevole e pienamente umana 2.4. Riflessioni conclusive
Conclusioni 1. Per concludere 2. Vita felice umana: appunti di viaggio
Bibliografia 1. Dizionari e lessici 2. Testi antichi 3. Testi moderni e contemporanei 4. Letteratura critica e studi generali
«Le ferite non scompaiono mai del tutto, soprattutto se profonde […] tuttavia, anche se non scompaiono, possono cicatrizzare. In questa cicatrice, che è, contemporaneamente, segno del patimento e sintomo di guarigione, si gioca la possibilità, per l’uomo che ha incontrato la morte e il dolore e che di fronte ad essi ha sofferto, di “ricominciare” a vivere», A. Fermani, Vita felice umana. In dialogo con Platone e Aristotele.
Tra le molte pubblicazioni di Arianna Fermani
Arianna Fermani
L’educazione come cura e come piena fioritura dell’essere umano. Riflessioni sulla Paideia in Aristote
«Non è una differenza da poco il fatto che subito fin dalla nascita veniamo abituati in un modo piuttosto che in un altro ma, al contrario, è importantissimo o, meglio, è tutto» (Etica Nicomachea, II, 1, 1103 b 23-25).
Questo contributo mira a mettere a fuoco il tema dell’educazione di Aristotele, mostrando come tale riflessione risulti essere originale ed attuale. L’indagine prende avvio dall’esame delle occorrenze di alcuni lemmi all’interno del corpus del filosofo particolarmente significativi rispetto al tema della educazione, come ad esempio
Si intende mostrare come la riflessione aristotelica sulla paideia, oltre ad un utilizzare una specifica metodologia di indagine, si muova all’interno di due fondamentali scenari educativi: nel primo (che a sua volta si articola in una serie di sotto-questioni, come ad esempio il tema dell’insegnabilità della virtù o quello dell’emotional training e dell’educazione delle passioni) l’educazione precede l’etica, mentre nel secondo l’educazione consiste nell’etica, secondo il fondamentale modello teorico dell’energeia.
Arianna Fermani è Professoressa Associata in Storia della Filosofia Antica all’Università di Macerata. Le sue ricerche vertono principalmente sull’etica antica e, più in particolare, aristotelica, e su alcuni snodi del pensiero politico e antropologico di Platone e di Aristotele. È Membro dell’Associazione Internazionale “Collegium Politicum” e dell’ “International Plato Society”. È membro del Consiglio Direttivo Nazionale della SISFA (Società Italiana di Storia della Filosofia Antica), e Direttrice della Scuola Invernale di Filosofia Roccella Scholé: Scuola di Alta Formazione in Filosofia “Mario Alcaro”. È Presidente della Sezione di Macerata della Società Filosofica Italiana. Ecco, cliccando qui, l’elenco delle sue pubblicazioni.
Arianna Fermani, Vita felice umana. In dialogo con Platone e Aristotele, Editore: eum, 2006 [prima edizione]
Il saggio si propone di riflettere sul modello classico del bios teleios, cioè della felicità della vita nella sua totalità, cercando di mostrare come il dialogo con gli antichi fornisca ancora “utili” schemi concettuali. Più in particolare si cerca di mostrare come il confronto con le riflessioni etiche di Platone e Aristotele permetta di dipanare i numerosi fili che costituiscono la trama di ogni esistenza umana (come i dolori, i piaceri, l’ampia gamma di beni e di risorse che la costituiscono), e di individuare alcuni rilevanti nodi concettuali (tra cui, ad esempio, quello di “misura”) che costituiscono la semantica della nozione di eudaimonia. Il modello antico di eudaimonia come eu prattein, inoltre, cioè come capacità strategica di “giocar bene”, sembra risultare particolarmente fecondo, invitando ad interrogarsi sulle modalità di attuazione della vita felice e sulla gestione di tutto ciò che ad ogni esistenza si offre per una “prassi di felicità”.
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Arianna Fermani, L’etica di Aristotele: il mondo della vita umana, Editore: Morcelliana, 2012
Utilizzando tutte e tre le Etiche aristoteliche, Arianna Fermani, con questo volume, offre un’ulteriore prova dell’attualità e utilità dell’etica dello Stagirita e di un pensiero che, esplicitamente e costitutivamente, mostra che ogni realtà “si dice in molti modi”. Gli schemi che l’intelligenza umana elabora devono essere molteplici e vanno tenuti, per quanto possibile, “aperti”. Questo determina la presenza di “figure” concettuali estremamente mobili e intrinsecamente polimorfe, figure che il Filosofo attraversa lasciando che i loro profili, pur nella loro diversità e, talvolta, persino nella loro incompatibilità, convivano. La verifica di questa metodologia passa attraverso l’approfondimento di alcune nozioni-chiave, dando vita ad un percorso che, con proposte innovative e valorizzazioni di elementi finora sottovalutati dagli studiosi, si snoda lungo tre linee direttrici fondamentali: quelle di vizio e virtù, quella di passione e, infine, quella di vita buona.
Sommario
Ringraziamenti Premessa I “Pensiero occidentale” vs “pensiero orientale”: alcune precisazioni II “Essere” e “dirsi in molti modi” Introduzione I. Per un “approccio unitario” ad Aristotele II. Autenticità delle tre Etiche III. Obiettivi e struttura del lavoro
PRIMA PARTE Percorsi di attraversamento delle figure di vizio e virtù Capitolo primo: Giustizia e giustizie Capitolo secondo: La fierezza Capitolo terzo: Sui molti modi di dire “amicizia Capitolo quarto: Lungo i sentieri della continenza e dell’incontinenza Capitolo quinto: La philautia: tra “egoismo” e “amor proprio” Capitolo sesto: Modulazioni della nozione di vizio
SECONDA PARTE: Percorsi di attraversamento della nozione di passione Capitolo primo: La passione come nozione “in molti modi polivoca” Capitolo secondo: Le metamorfosi del piacere Capitolo terzo: Articolazioni della nozione di pudore
TERZA PARTE: Percorsi di attraversamento della nozione di vita buona Capitolo primo: Dio, il divino e l’essere umano: sui molti modi di essere virtuosi e felici Capitolo secondo: La questione dell’autosufficienza Capitolo terzo: Natura/nature, virtù, felicità Capitolo quarto: Verso la felicitàlungo le molteplici rotte della phronesis Capitolo quinto: La felicità si dice in molti modi Conclusioni Bibliografia Indice dei nomi
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Aristotele, Le tre etiche. Testo greco a fronte, Editore: Bompiani, 2008.
In un unico volume e con testo greco a fronte le tre grandi opere morali di Aristotele: l’”Etica niconomachea”, l”Etica eudemia” e la “Grande etica”. Questi tre scritti rappresentano tutta la riflessione etica dell’Occidente, e il punto di partenza di ogni discorso filosofico sul fine della vita umana e sui mezzi per raggiungerlo, sul bene e sul male, sulla libertà e sulla scelta morale, sul significato di virtù e di vizio. La raccolta costituisce un unicum, poichè contiene la prima traduzione in italiano moderno del trattato “Sulle virtù e sui vizi”. Un ampio indice ragionato dei concetti permette di individuare le articolazioni fondamentali delle nozioni e degli snodi più significativi della riflessione etica artistotelica. Tramite la presentazione, contenuta nel seggio introduttivo, dei principali problemi storico-ermeneutici legati alla composizione e alla trasmissione delle quattro opere, e di un quadro sinottico dei contenuti delle opere stesse, è possibile visualizzare la struttura complessiva degli scritti e le loro reciproche connessioni.
Il confronto tra Platone ed Aristotele è stato interpretato, per lo più, come una opposizione tra modelli conoscitivi: da un lato la dialettica, intesa come il culmine del sapere, dall’altro la logica, intesa come l’insieme delle tecniche per ben argomentare, al di là delle pretese platoniche di una supremazia della dialettica. Ma ha ancora un fondamento filologico e storico questa contrapposizione? Un interrogativo che – nei saggi qui raccolti di alcuni dei più autorevoli interpreti del pensiero antico – mette capo a una pluralità di scavi, storiografici e teoretici. Scavi che invitano a una lettura dei testi platonici ed aristotelici nella loro complessità: emergono inaspettati intrecci e molteplici significati dei termini stessi di dialettica e logica in entrambi i pensatori. Non solo la dialettica platonica ha un suo rigore, ma la stessa logica aristotelica ha affinità, pur nelle differenze, con le procedure argomentative della dialettica. Una prospettiva ermeneutica che interessa non solo lo storico della filosofia antica, ma chiunque abbia a cuore le radici greche delle nostra immagine di ragione.
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Maurizio Migliori, Linda M. Napolitano Valditara, Arianna Fermani, Interiorità e anima: la psychè in Platone
Vita e Pensiero, 2007
Il concetto di anima, una delle più grandi “invenzioni” del mondo greco, figura teorica che ha attraversato e segnato la storia dell’intero Occidente, trova in Platone il primo fondamentale inquadramento filosofico. Non si tratta solo di una tematica dal significato metafisico e religioso: nell’approfondire i molteplici temi che questo concetto attiva emergono naturalmente, già nel filosofo ateniese, tutte le questioni connesse alla spiritualità e allo psichismo umano, con le loro conseguenze etiche. In questo senso l’”anima” apre la strada a un infinito processo di approfondimento e di scoperta dell’interiorità del soggetto. Non a caso questo tema compare in molti testi platonici, in particolare nei dialoghi. Da questa prima elaborazione scaturirono luci e ombre, soluzioni di antichi problemi e nuove domande, di non meno difficile soluzione, anzi tanto complesse da essere ancora oggi messe a tema. Sui molteplici aspetti di queste tematiche filosofiche alcuni tra i maggiori studiosi di Platone si confrontano nel presente volume, avanzando proposte spesso assolutamente innovative, anche per quanto riguarda l’utilizzo di testi sottovalutati, o addirittura quasi ignorati dagli studi precedenti, con una dialettica che dà modo al lettore sia di verificare la capacità ermeneutica delle diverse impostazioni, sia di riscoprire la ricchezza del contributo platonico rispetto a problemi con cui lo stesso pensiero contemporaneo torna positivamente a misurarsi.
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Humanitas (2016). Vol. 1: L’inquietante verità nel pensiero antico.
Editoriale: I. BertolettI, “Humanitas” 1946-2016. Identità e trasformazioni di un’idea l’inquietante verità. La riflessione anticaa cura di Arianna Fermani e Maurizio Migliori M. Migliori, Presentazione F. Eustacchi, Vero-falso in Protagora e Gorgia. Una posizione aporetica ma non relativista M. Migliori, Platone e la dimensione umana del verol. Palpacelli, Vero e falso si apprendono insieme. Il vero e il falso filosofo nell’Eutidemo di Platonea. Fermani, Aristotele e le verità dell’etica G.A. Lucchetta, Dire il falso per conoscere il vero. Aristotele, Fisica ii 1, 193a7) F. Mié, Truth, Facts, and Demonstration in Aristotle. Revisiting Dialectical Art and Methoda. longo, I paradossi nell’Ippia minore di Platone. La critica di Aristotele, Alessandro di Afrodisia e Asclepioe. Spinelli, Sesto Empirico contro alcuni strumenti dogmatici del vero. Note e rassegne F. De Giorgi, Il dialogo nel pontificato di Paolo VI G. Cittadini, Filippo Neri. Una spiritualità per il nostro tempo.
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J. Rowe, Arianna Fermani, Il ‘simposio’ di Platon
Academia Verlag, 1998
Cinque lezioni sul dialogo con un ulteriore contributo sul ‘Fedone’ e una breve discussione con Maurizio Migliori e Arianna Fermani; 27-29 marzo 1996, Università di Macerata, Dipartimento di filosofia e scienze umane, in collaborazione con l’Istituto Italiano per gli studi filosofici.
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Arianna Fermani, “Brividi di bellezza” e desiderio di verità
“Brividi di bellezza” e desiderio di verità in Bellezza e Verità; Brescia, Morcelliana, 2017; pp. 195 – 203
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ARISTOTELE E I PROFILI DEL PUDORE
Arianna Fermani
Vita e Pensiero, Rivista di Filosofia Neo-Scolastica
Rivista di Filosofia Neo-Scolastica
Vol. 100, No. 2/3 (Aprile-Settembre 2008), pp. 183-202
In questo volume vengono raccolti cinque saggi sul pensiero filosofico greco nell’età romana. Le linee di ricerca qui proposte toccano nello specifico questioni attinenti alla filosofia stoica, a quella epicurea, a quella cinico-sofistica e all’aristotelismo di epoca imperiale.
L’umanesimo nell’Occidente è stato sostituito dall’umanismo
L’umanesimo nell’Occidente è stato sostituito dall’umanismo: quest’ultimo è funzionale ai bisogni del capitalismo assoluto. L’umanismo recide i legami con ogni fondazione possibile della verità, con ogni oggettività formulata attraverso il logos, predilige l’individuo astratto rispetto all’essere umano concreto e comunitario.
Marx – nella lettura di Costanzo Preve – non può essere relegato nella nomenclatura degli umanisti, poiché non consegna l’essere umano alla contingenza della storia, non riduce il pensiero a nominalismo, ma si pone nell’ottica dell’universale, dell’umanità intera. Il materialismo storico è il mezzo attraverso il quale denuncia l’umanità offesa. Ricostruisce attraverso i modi di produzione l’alienazione (Entfremdung), i processi di negazione della natura umana, la sua riduzione ad appendice del sistema produttivo. Nel conflitto sociale che muove la storia, nelle sue contraddizioni, la condizione umana concreta si dispone al suo interno secondo prospettive e responsabilità differenti: la responsabilità di un magnate è differente rispetto alla responsabilità di un lavoratore salariato. La grandezza di Marx è aver sistematizzato le condizioni che provocano l’alienazione. Ma, nello stesso tempo, non si è limitato a costruire una narrazione ideologica, e dunque parziale: ma la sua opera è finalizzata all’emancipazione dell’umanità, perché il sistema produttivo borghese, il capitalismo, offende e nega la natura umana. Nell’operaio legato alla catena della macchina e del plusvalore si rende lapalissiana la miseria umana nella fase del capitalismo. L’operaio è negato nella sua natura individuale e comunitaria, è il portatore sano di relazioni sociali errate; la controparte, il capitalista, vive una condizione materiale privilegiata dietro cui agiscono processi di alienazione che nell’immediato non appaiono. In realtà, dietro la maschera del benessere materiale, si scopre il soggetto alienato nella sua natura. Per Preve quindi, Marx è un iperumanista, poiché la sua teoretica è finalizzata a superare le scissioni che impediscono di concettualizzare la natura umana e di valutare attraverso di essa la condizione umana. L’iperumanesimo di Marx negato dalla sinistra e non riconosciuto da molti, è concetto rimosso, in quanto investe con la sua critica all’economia, non si presta ad essere usato da posizioni ideologiche che vorrebbero ingabbiare Marx sull’economia per evirarlo del suo contenuto rivoluzionario autentico e profondo che scorre tra le pieghe del suo pensiero:
«La filosofia di Marx non è solo un umanesimo, è un iperumanesimo, in quanto si tratta del Destino dell’Uomo (la maiuscola, ovviamente, è volontaria). Una teoria di tipo sociologico sulla strutturazione sociale è di tipo descrittivo, non narrativo o prescrittivo (diventate comunisti, e così riscatterete le alienazioni dell’umanità). In quanto descrittiva, una teoria sociologica di una società particolare dovrebbe necessariamente individuare dai dieci ai venti gruppi distinti in base a parametri come la ricchezza, il potere, gli stili di vita, i consumi, la conoscenza, la cultura, eccetera. Nessuna decente descrizione sociologica di una società potrebbe limitarsi ad individuare soltanto due gruppi sociali». [1]
Al principio dell’opera di Marx vi è una valutazione etica, un’indignazione che si trasforma in prassi, in passione per la conoscenza al fine di ristabilire con il limite “katà métron”, la natura umana. L’emancipazione possibile è degli esseri umani, benché chi vive l’offesa e la sussunzione quotidiana in modo inequivocabile sia portatore di un potenziale rivoluzionario ed emancipativo maggiore rispetto a chi vive il malessere della sussunzione, in modo non diretto, ma mediato dalle maschere del privilegio sociale.
La coscienza infelice
L’iperumanesino marxiano utilizza la contraddizione tra finito ed infinito, tra reale ed ideale, tra particolare ed universale quale motivazione profonda della prassi. La scissione è causa di conflitti sul piano sociale ed individuale, essa è il paradigma che svela la distanza dall’orizzonte ideale, dunque è la sostanza che muove la prassi. Il capitalismo assoluto nella forma attuale nega “la coscienza infelice”, la contraddizione, le scissioni le quali sono rese umbratili, fino a scomparire, per eternizzare la sussunzione con il nuovo oppio dei popoli: il consumo ed i suoi eccessi. La speranza rivoluzionaria e la rabbia sociale sono veicolate verso il consumo, per cui i popoli ormai plebi e masse informi si stringono e costringono in una esiziale lotta nella speranza del consumo totale. L’antiumanesimo del capitalismo assoluto agisce per celare, per ridurre il dolore a semplice sofferenza animalesca. Sofferenza senza dolore, poiché il dolore è la sofferenza non solo pensata, ma anche immaginata e vissuta come fonte di ispirazione per la progettualità comune. Il capitalismo assoluto ottunde con il piacere smodato pronto con il disincanto a ribaltarsi in sofferenza utilizzata come introito economico: è medicalizzata, è resa condizione ontologica che si deve imparare a sopportare, in tal modo ogni ordine del discorso finalizzato a riformare struttura e sovrastruttura è rimosso, non resta che il nichilismo passivo a cui ci si deve adeguare; l’antiumanesimo non ha fantasia, perché non ha coscienza di sè:
«Se Marx si fosse limitato a dicotomizzare i dominati e i dominanti, i proletari ed i borghesi, eccetera, avrebbe aggiunto il suo nome alla lunga lista dei perfezionatori della teoria della bollitura dell’acqua calda. Ma egli fece molto di più. Trasformò la scoperta della bollitura dell’acqua calda in filosofia universalistica dell’emancipazione umana, attraverso l’originale elaborazione idealistica della coscienza infelice della borghesia. Ho insistito molto su questo punto, a mio avviso ovvio ed evidente ma del tutto ignoto sia ai liberali che ai marxisti dogmatici, per far capire che la logica del capitalismo assoluto e totalitario in cui siamo sciaguratamente immersi oggi non tende tanto ad addomesticare il proletariato, instupidendolo con il panem (il consumismo). Capitalismo senza classi e società neofeudale ed i circenses (lo sport agonistico), quanto a superare la stessa cultura borghese, nella misura in cui quest’ultima era “inquieta”. Visto nella sua globalità, il cosiddetto postmoderno (con alcune sue ridicole appendici come la cosiddetta biopolitica) non è che un gigantesco (anche se grottesco) tentativo di spegnere gli elementi di coscienza infelice della cosiddetta “modernità”. Per questo la modernità (termine accademicouniversitario-mediatico per indicare il capitalismo) viene ridotta al cosiddetto “disincanto” (con l’appendice della liberalizzazione integrale dei costumi definita “politeismo dei valori”), laddove viene da essa sottratta e cancellata la coscienza infelice, che è stata all’origine del pensiero del borghese inquieto Marx. E’ facile capire tutto questo, e cioè che l’odierno capitalismo oligarchico teme maggiormente la coscienza infelice borghese del rivendicazionismo economico proletario? Per quanto mi riguarda è facile, ma dal momento che tutto l’apparato politicosindacale di “sinistra” ed il clero universitario di filosofia e di scienze sociali rema in direzione opposta, di fatto non c’è speranza a breve termine di un vero riorientamento gestaltico».[2]
La coscienza infelice, la consapevolezza delle contraddizioni fonda l’iperumanesimo materialista di Marx, umanesimo che muove dal conflitto, ma che agisce per la libertà e l’emancipazione dell’umanità e non solo di una parte.
Materialismo storico
Il materialismo storico letto quale processo evolutivo della storia predeterminato, è negazione dell’iperumanesimo di Marx. Se la linea evolutiva della storia è già decisa a priori, l’essere umano è solo un elemento secondario nel sistema economico e produttivo per cui da destra come da sinistra si è interni all’antiumanesimo dell’attuale sistema sociale ed economico. Il materialismo di Marx per Costanzo Preve è metafora della prassi, della struttura, dell’ateismo. Il materialismo marxiano è un forma di iperumanesimo, in quanto l’umanità consapevole della contraddizione tra la sua natura ed il modo di produzione è protagonista della storia, ogni “servo arbitrio deterministico” è sostituito con la fatica del concetto e dell’agire politico:
«Mentre il materialismo dialettico è solo una escrescenza inutile e dannosa (la filosofia di Marx non è il materialismo dialettico, ma un idealismo universalistico rigorizzato e coerentizzato), il materialismo storico è invece un “pezzo” indispensabile della sua concezione. Si tratta in realtà (almeno, questa è la mia opinione del tutto eretica) non certo di un materialismo storico, quanto di un idealismo storico universalistico rigorizzato, che viene chiamato erroneamente “materialismo” perché il termine “materia” è usato impropriamente in modo metaforico per indicare l’ateismo (Marx non credeva in Dio), il primato della prassi sulla semplice contemplazione della realtà sociale, e soprattutto il primato della struttura sulla sovrastruttura all’interno di un dato modo di produzione sociale. Detto in linguaggio militare, l’idealismo è la strategia e il materialismo è la tattica. Il discorso sarebbe lungo (ma l’ho fatto dettagliatamente altrove), ma qui è necessario interromperlo per ragioni di spazio. Mentre il metodo del cosiddetto materialismo storico (inteso come teoria della genesi, sviluppo, crisi e tramonto dei modi di produzione) non consentirebbe di per sé una grande narrazione unilineare predeterminata e teleologicamente necessitata, ma darebbe invece luogo ad uno sviluppo multilineare senza alcuna garanzia teleologica, se fosse ovviamente praticato con serietà “scientifica” e libertà interpretativa, il movimento comunista ha trasformato questa intelligente teoria in una stupida teoria dei cinque stadi prefissati della storia universale (comunismo primitivo, schiavismo, feudalesimo, capitalismo, ed infine comunismo finale visto come trionfo definitivo della “sinistra” contro la “destra”). Perché tanta inutile ed antistorica stupidità? Ma è semplice. Questa antistorica stupidità restaura in modo evoluzionistico-positivistico un elemento fondamentale del pensiero dei primitivi, e cioè il messianesimo teleologico garantito. Di “materia” non c’è in proposito che la testa dura degli zucconi che credono che la sacrosanta causa della critica al capitalismo abbia bisogno di raccontare (e di raccontarsi) delle storie inverosimili, inventandosi una linea ferroviaria a cinque stazioni in cui correrebbero i binari della storia universale. E tuttavia, gli zucconi resteranno tali finché non sarà assodato che la teoria». [3]
L’antiumanesimo si palesa nel messianesimo del marxismo dialettico, ma anche del capitalismo assoluto, in entrambi si concretizza nella forma del fatalismo storico. La condizione attuale del capitalismo assoluto è interna al determinismo della storia, dea astratta ed ingovernabile, che riporta l’umanità che si auto-percepisce evoluta, in quanto ipertecnologica, ma in verità regredisce ad uno stato primitivo, nel quale le forze ingovernabili della natura e della storia sono padrone e signore della società più smart che la storia abbia conosciuto. L’iperumanesimo di Marx è di ausilio per concettualizzare e razionalizzare le contraddizioni in cui si dibatte l’umanità: senza concetti non è possibile spezzare le catene visibili ed invisibili che tengono “il cane alla catena”.
Salvatore Bravo
[1] Costanzo Preve, Capitalismo senza classi e società neofeudale. Ipotesi a partire da una interpretazione originale della teoria di Marx, pubblicato in Costanzo Preve – Eugenio Orso, Nuovi signori e nuovi sudditi. Ipotesi sulla struttura di classe del capitalismo contemporaneo, Petite Plaisance, Pistoia, p. 5
Scritti fra l’aprile e l’agosto del 1844 a Parigi da un Marx ventiseienne, i Manoscritti economico-filosofici del 1844 sono un’opera non destinata alla pubblicazione, che Marx non ha mai sistematizzato ed organizzato come è d’uso quando un testo è destinato ad una pubblicazione a stampa. Essi presuppongono la lettura e lo studio del saggio dell’amico Engels Lineamenti di una critica dell’economia politica, pubblicato nel febbraio 1844. Si tratta essenzialmente di appunti di chiarimento ad uso personale, come è stato recentemente stabilito da un accurato esame filologico (cfr. Jürgen Rojahn, in “Passato e Presente”, 3, 1983). Pubblicati per la prima volta nel 1927 in URSS per opera di Rjazanov, essi non entrarono nel dibattito filosofico europeo prima del 1932, ed il primo intervento autorevole di quell’anno che ne segnala la grande importanza per la comprensione del pensiero globale di Marx è quello di Herbert Marcuse (cfr. H. Marcuse, Marxismo e rivoluzione. Studi 1929–1932, Einaudi, Torino 1975, pp. 61–116). La presa in considerazione dei Manoscritti è quindi del tutto estranea al processo di sistematizzazione e di coerentizzazione dottrinale del pensiero di Marx, che divenne appunto “marxismo” nel ventennio 1875–1895 per opera pressoché esclusiva di Engels e Kautsky. E questo non è un caso. Questo “marxismo”, costruito di fatto come una teoria del crollo della produzione capitalistica, non avrebbe saputo che farsene di una teoria dell’alienazione e neppure di una critica filosofica dell’economia. I Manoscritti hanno quindi letteralmente “dormito” per quasi un secolo. Si tratta di una sorte comune a molte altre opere filosofiche. L’Aristotele che conosciamo aveva “dormito” per tre secoli fino al primo secolo avanti Cristo, e Lucrezio, del tutto ignoto a Dante, dovette attendere il quindicesimo secolo per essere “scoperto” in Germania da un umanista italiano in “trasferta”.
Se mi chiedessero di consigliare ad un principiante che non ne sa assolutamente niente un’opera di Marx con cui cominciare non consiglierei mai i Manoscritti, la cui comprensione presuppone una specifica competenza linguistica a proposito del linguaggio filosofico di Hegel, ma consiglierei invece decisamente IlManifesto del Partito Comunista del 1848, la cui “facilità” è peraltro anch’essa più apparente che reale, in quanto presuppone anch’essa la conoscenza delle varie correnti socialiste e comuniste degli anni quaranta dell’ottocento. Ma qui si tratta di introdurre alla lettura dei Manoscritti, ed allora la cosa più utile è dividere questa introduzione in due parti. In primo luogo, cercherò di riassumere criticamente – con qualche inevitabile notazione personale – il contenuto dei Manoscritti. In secondo luogo, cercherò di segnalare le interpretazioni principali che sono state date ai Manoscritti negli ultimi novant’anni, limitandomi all’essenziale e trascurando i pur significativi particolari.
In estrema sintesi, il contenuto dei Manoscritti può essere riassunto in tre punti principali: una critica globale dell’intera concettualizzazione dell’economia politica borghese del tempo, che culmina in alcune pagine di straordinaria efficacia dedicate al concetto di “lavoro alienato”; una prima tematizzazione esplicita del comunismo come risoluzione dialettica dei processi economico-sociali del mondo moderno; una critica radicale a Hegel, in particolare per quanto riguarda la dialettica “idealistica” della coscienza su cui è costruita logicamente ed ontologicamente la Fenomenologia dello Spirito. Tutti e tre questi punti meritano, a fianco della necessaria segnalazione, un breve commento.
Marx è il primo pensatore in assoluto che applica sistematicamente al mondo reale della produzione capitalistica il concetto di alienazione. Nell’Ottocento resterà praticamente il solo, mentre nel Novecento sarà seguito da alcuni altri grandi pensatori critici (Lukács e Adorno in primo luogo). È vero che già Hegel aveva criticato il punto di vista unilaterale ed astratto dell’economia politica, definendolo un sapere dell’intelletto (e quindi non della ragione), ma lo aveva fatto senza utilizzare il concetto di “alienazione”, che nel suo lessico significa soltanto oggettivazione, nel senso di fisiologica uscita da sé, e quindi estraniazione dialettica (Entäusserung) intesa come momento dello spirito.
Ma Marx, a differenza di Hegel, sostiene che nella produzione capitalistica l’oggettivazione avviene nella forma dell’alienazione (Entfremdung), in quanto in essa, anziché realizzarsi nel lavoro, l’uomo perde il proprio essere specifico (e cioè la sua naturale genericità, Gattungswesen), cadendo sotto il dominio del capitale che gli si contrappone come un mondo reificato (Verdinglichung). Marx mette in evidenza quattro aspetti principali di questo processo di alienazione, che il lettore potrà analizzare adeguatamente nella lettura diretta dei Manoscritti, e che si riconducono però tutti e quattro ad un solo fondamento unitario, il fatto che l’uomo, essere sociale per sua propria essenza, non può realmente “riconoscersi” nel rapporto sociale di capitale.
Sta qui il momento unitario fra Hegel e Marx. È vero infatti che i concetti di alienazione-estraneazione-oggettivazione-reificazione (ho qui volutamente riassunto la loro quadruplice natura) sono diversi in Rousseau, Hegel, Feuerbach e Marx, e questa diversità è stata messa correttamente in luce dai saggi storico-monografici dedicati al concetto di alienazione. Ma è ancora più vero che esiste un minimo denominatore filosofico robustamente comune a Hegel e Marx, il fatto cioè che l’umanità, pensata idealisticamente come un unico concetto trascendentale riflessivo che procede dialetticamente verso la propria autocoscienza razionale, deve infine riconoscersi in se stessa, e senza questo riconoscimento restano tutte le patologie della cosiddetta “coscienza infelice”. E mentre nel medioevo la coscienza infelice si manifestava nei conflitti fra Dio e Uomo, mondo divino e mondo terrestre, Gerusalemme e Babilonia, millennio e secolo, eccetera, nel mondo moderno la coscienza infelice sorge nella consapevolezza dell’impossibile universalizzazione dell’etica del mondo borghese. E questa coscienza infelice produce appunto il concetto di comunismo.
In un ottica filosofica hegeliana, il concetto (Begriff) non è in alcun modo un lockiano (e kantiano) contenuto della coscienza, ma è una realtà ancora potenziale che deve realizzarsi concretamente nel mondo reale (Wirklichkeit), per cui possiamo dire che nel giovane Marx il concetto di comunismo deriva direttamente dalla diagnosi precedente dell’alienazione del lavoro nel mondo borghese-capitalistico.
Marx è ovviamente ancora lontano dalla sua posteriore concretizzazione storico-economica del concetto di comunismo (esito della contraddizione fra lo sviluppo delle forze produttive sociali e la natura classista dei rapporti sociali di produzione, formazione di un lavoratore collettivo cooperativo associato alleato con il general intellect, cioè con le stesse potenze produttive sprigionate dalla produzione capitalistica, eccetera), ma da un punto di vista filosofico-concettuale egli vi era già pienamente arrivato a ventisei anni.
E veniamo ora alla sua giovanile critica radicale a Hegel. È chiaro che senza la presa d’atto di una radicale discontinuità con Hegel il materialismo storico marxiano non sarebbe mai potuto nascere, il che fa diventare questa rottura con Hegel inevitabile ed indispensabile, per un insieme di ragioni che qui compendierò in due soltanto. In primo luogo, la teoria della successione dei modi di produzione sociali non può certamente derivare dalla filosofia della storia di Hegel, ma implica una rottura specifica con essa, che Marx un po’ impropriamente definì con il termine di dualismo Struttura/Sovrastruttura con dominanza della struttura. In secondo luogo, la critica radicale all’alienazione del lavoro nel capitalismo riprendeva certamente il tema hegeliano della lotta per il riconoscimento fra Servo e Signore, ma era incompatibile con la sostanziale accettazione del mondo borghese compiuta da Hegel nella sua Filosofia del Diritto (Spirito Oggettivo, Famiglia, Società Civile, Stato, eccetera).
E tuttavia non bisogna prendere dogmaticamente per scontato tutto ciò che Marx afferma di Hegel come se Marx fosse una divinità che ha sempre ragione qualunque cosa dica (cfr. Roberto Fineschi, Marx e Hegel, Carocci, Roma 2006). La critica di Marx alla dialettica della coscienza di Hegel è indubitabile, e senza di essa sarebbe stato impossibile riportare alla lotta contro il lavoro concretamente alienato il tema della necessaria soggettività rivoluzionaria (consigli, classe, partito, eccetera), che ha poi nutrito per più di un secolo l’intera storia del marxismo. Un marxismo depurato dall’imbarazzante lotta di classe, e depurato dall’ancora più imbarazzante comunismo, è oggi propugnato da quello che resta del marxismo universitario, ma si tratta di una congiuntura storica segnata dalla recente restaurazione (cfr. Alain Badiou, Il Secolo, Feltrinelli, Milano 2006), che prima o poi inevitabilmente finirà. Resta il fatto che Marx pensa filosoficamente il comunismo in modo decisamente hegeliano, in quanto prodotto da una antitesi contraddittoria (forze produttive e rapporti di produzione, borghesia e proletariato, eccetera) e concepito come sintesi ideale ( nel linguaggio hegeliano ideale=reale) delle contraddizioni capitalistiche. Non a caso la stessa accusa di sostenere così la fine della storia è stata sollevata (con qualche ragione) sia verso Hegel che verso Marx, e più o meno con gli stessi termini e lo stesso apparato argomentativo.
Ho esposto sinteticamente alcune ragioni che portano a giudicare del tutto attuali (ed attuali perché sostanzialmente ancora irrisolti) i tre nuclei di problemi sollevati da Marx nei Manoscritti. La loro analisi richiederebbe centinaia di pagine analitiche, del tutto incompatibili con una breve introduzione al testo. Vale invece la pena di segnalare alcune cose a proposito della ricezione storica dei Manoscritti da parte della comunità dei pensatori marxisti novecenteschi. Secondo la corretta formulazione di Kant, la filosofia è un campo di battaglia (Kampfplatz), in cui ogni oggettivazione teorica coerente cerca la sovranità assoluta nel proprio regno “ideale”, ed in cui ci possono essere al massimo degli armistizi, ma non certo delle “paci perpetue”. Una guerra di questo tipo c’è per esempio fra il profilo filosofico kantiano ed il profilo filosofico hegeliano, perché non ci può essere pace possibile fra una concezione che pensa la soggettività umana con un’operazione di formalizzazione aprioristica di tipo gnoseologico–trascendentale (Kant) ed una concezione che la pensa al contrario come l’esito sempre provvisorio di un conflitto dialettico fra soggettività opposte (Hegel).
Non possiamo dunque stupirci che da quasi un secolo i Manoscritti siano diventati il pretesto filologico per lo scontro fra due partiti filosofici entrambi riferentesi a Marx, il partito filosofico filo-hegeliano ed il partito filosofico anti-hegeliano. Si tratta spesso di uno scontro di tipo teologico–ideologico, simile per molti aspetti allo scontro fra teologi platonici e teologi aristotelici nel medioevo cristiano e bizantino. In quanto scontro teologico, il pensiero di Marx viene ridotto a Scriptura sacra, ad Auctoritas suprema cui appellarsi per la risoluzione di ogni possibile controversia, e comincia allora lo scontro interminabile per trovare la citazione giusta, quasi sempre decontestualizzata, che dovrebbe risolvere una volta per sempre il contrasto, e non può ovviamente farlo mai, perché le citazioni staccate dal contesto espressivo sono sorde e mute. In quanto scontro ideologico, si può dire di esse ciò che argutamente Terry Eagleton ha scritto dell’ideologia, e cioè che “l’ideologia, come l’alitosi, è qualcosa che appartiene sempre agli altri” (cfr. T. Eagleton, Ideologia, Fazi, Roma 2007). I Manoscritti non potevano quindi sfuggire a questa sorte.
Chi scrive è un ammiratore esplicito dei Manoscritti, e li considera parte integrante del corpus marxiano. Ma è bene segnalare anche le posizioni contrarie del partito anti-hegeliano, che per comodità espositiva dividerò in due parti, e cioè gli anti-hegeliani che con la scusa di liberarsi di Hegel mirano in realtà (e quasi sempre lo dicono anche esplicitamente) a liberarsi anche di Marx, e gli anti-hegeliani che invece ritengono che per poter salvare il “vero” Marx, quello scientifico e non contaminato dall’idealismo, bisogna invece liberarsi di Hegel. Anche se gli argomenti dei due “partiti”sono spesso sorprendentemente simili, è bene ammettere che le loro intenzioni politiche restano opposte. Non potendo entrare nel merito di queste posizioni per ragioni di spazio, il lettore sappia che per quanto riguarda il primo partito anti-hegeliano ho soprattutto in mente Jürgen Habermas (cfr. Il discorso filosofico della modernità, Laterza, Bari-Roma 1987), e per il secondo partito anti-hegeliano ho soprattutto in mente Louis Althusser (cfr. Leggere il Capitale, Mimesis, Milano 2006). In entrambi i casi, ovviamente, la valutazione filosofica dei Manoscritti resta il cuore teorico del contendere.
Il partito anti-hegeliano “borghese” riprende contro Hegel-Marx (visti come i due corni dello stesso partito filosofico tardoromantico e tardometafisico dell’alienazione) i vecchi argomenti della corrente neokantiana (Bernstein, Adler, eccetera) che “stroncano” le loro posizioni dialettiche con lo stesso apparato concettuale con cui a suo tempo Kant aveva “stroncato” le pretese conoscitive e normative della metafisica classica. È interessante che Habermas, che pure si definisce un moderno in lotta contro i cosiddetti “postmoderni” (Lyotard, eccetera), usi poi di fatto gli stessi argomenti “antimetafisici” contro Hegel e Marx impiegati dai postmoderni stessi (critica di Lyotard alle “grandi narrazioni”, in cui c’è ovviamente sia la grande narrazione hegeliana sia la grande narrazione marxiana).
Il concetto di alienazione dei Manoscritti è ovviamente nel mirino della critica razionalistico-neokantiana di Habermas, in quanto “indeterminato”, ed in quanto indeterminato non “operativo”. Habermas si rende perfettamente conto che un’accettazione filosofica del concetto marxiano di alienazione comporterebbe automaticamente una critica politica radicale al capitalismo, esattamente quella che non intende fare in alcun modo, soprattutto dopo la sua rottura con i maestri francofortesi Horkheimer e Adorno, di cui ha comunque prudentemente atteso la morte per evitare che potessero prendere decisamente le distanze dalla sua evoluzione (o per meglio dire, dalla sua penosa involuzione).
Nel contesto del nostro discorso introduttivo, apparirà chiaro che la presa di distanza da Marx (attuata dopo un tentativo di “ricostruzione del marxismo” di tipo neokantiano, il che equivale a ricostruire una cattedrale con cartone pressato) gira intorno (e non potrebbe essere diversamente) alla delegittimazione teorica del concetto filosofico di alienazione. In soldini, bisogna che il succo del discorso consista in ciò, che non è vero che il lavoro erogato in condizioni capitalistiche sia alienato, così come non è neppure vero che sia realmente sfruttato (e per negare lo sfruttamento viene ideologicamente mobilitata la famosa trasformazione dei valori in prezzi di produzione, le cui innegabili inesattezze vengono utilizzate in analogia con le inesattezze teoriche delle vecchie prove ontologiche e cosmologiche sull’esistenza di Dio). C’è chi pensa che Dio, da un lato, ed il Comunismo, dall’altro, possano essere fatti “sparire” attraverso un’abile sofistica di tipo gnoseologico, senza rimuovere le ragioni storiche e sociali che in qualche modo legittimano entrambi. Ma chi pensa questo deve essere lasciato stare nel suo delirio gnoseologico, senza dimenticare un cortese inchino di congedo.
Un discorso diverso deve essere fatto per il secondo partito, il partito anti-hegeliano “comunista”. Trascurando qui il partito anti-hegeliano italiano (sviluppatosi con Galvano Della Volpe e poi “suicidato” con un harakiri neokantiano e popperiano da Lucio Colletti), che non se la prese mai particolarmente con i Manoscritti e con il concetto di alienazione, salvo poi scoprire che si trattava di una tarda secolarizzazione hegelo–marxiana di un concetto neoplatonico (Bedeschi, Albanese, collettiani vari), il vero fuoco d’artiglieria contro i Manoscritti ed il concetto di alienazione fu aperto a metà degli anni sessanta dalla scuola francese di Louis Althusser. Vi sono certamente ragioni di tipo “congiunturale” che lo spiegano. Nel dodicennio 1956-1968 (in breve, dal XX congresso del PCUS con relativa destalinizzazione all’entrata a Praga delle truppe del Patto di Varsavia, due date indubbiamente periodizzanti nella storia del movimento comunista internazionale) il successo del concetto di alienazione (Adam Schaff, Roger Garaudy, eccetera), successo che si fondava con tutta evidenza su di un “rilancio” del giovane Marx e della lettura dei Manoscritti, copriva ideologicamente una critica di “destra” al movimento comunista dell’epoca, il quale metteva al primo posto il concetto di alienazione come generico disagio interclassista generalizzato e finiva con il subordinare il concetto di lotta di classe fra capitalisti e proletari. Il contemporaneo sviluppo dell’”eresia” cinese, della diffusione in Europa del pensiero di Mao Tse Tung e della formazione di gruppi politici filocinesi, denominatisi marxisti-leninisti, finì con il fare da amplificatore al pensiero di Althusser.
La critica althusseriana al marxismo filosofico, che si fondava indiscutibilmente sul concetto di alienazione, non deve certo essere buttata via come si butta via il bambino con l’acqua sporca, in quanto a fianco dell’(ingiustificata)eliminazione del concetto di alienazione e della collocazione dei Manoscritti fuori del corpus “scientifico” marxiano (operazione – lo ripeto solennemente – inaccettabile), vi erano anche elementi molto positivi, come l’enfatizzazione della centralità del concetto di modo di produzione, la critica allo storicismo ed all’economicismo, ed infine la critica alle metafisiche grandi-narrative dell’Origine e della Fine della storia.
Non è certo questa la sede per entrare nei dettagli di questa storia, anche perché la scuola althusseriana fra poco compirà cinquant’anni di vita. È invece utile concludere questa breve introduzione con qualche consiglio al giovane lettore dei Manoscritti, che almeno in una cosa è “postumo”, in quanto viene dopo le tempeste ideologiche che hanno investito i Manoscritti di Marx in quanto “incunabolo dell’alienazione”. È bene allora essere informati del dibattito teorico-ideologico dei due partiti filosofici filo-hegeliano ed anti-hegeliano, ma è anche bene accingersi a leggere i Manoscritti con occhi nuovi. In proposito, mi limiterò ad alcune osservazioni largamente problematiche e del tutto prive di “raccomandazioni imperative” (l’espressione fu usata da Althusser a proposito di come aiutare gli operai a leggere il Capitale di Marx senza farsi “scoraggiare” dal suo lessico hegeliano).
In primo luogo, bisogna dire che una lettura (o per i più anziani una rilettura) dei Manoscritti non può che riportarci all’attualità del concetto marxiano di alienazione. Al di là della “dotta archiviazione” di questo concetto presente nelle dossografie filosofiche, appare chiaro che invece Marx ha saputo trattarlo con grande maestria dialettica nei suoi vari aspetti, e per così dire nelle sue “interfacce”. L’alienazione è prima di tutto espropriazione del lavoro umano da parte dei capitalisti, che se ne appropriano, lo sfruttano e rovesciano la sua potenza sociale cristallizzata contro il produttore stesso. L’alienazione è poi distacco del singolo dalla comunità produttiva solidale di cui fa parte, frantumata e scomposta dalla organizzazione capitalistica del lavoro (che più tardi nel Capitolo VI inedito del Capitale Marx ridefinirà in termini di sottomissione reale del lavoro al capitale). L’alienazione è inoltre separazione traumatica dell’uomo dalla sua stessa essenza umana, che è generica per definizione (Gattungswesen), e non può tollerare a lungo senza una degradazione antropologica devastante un suo inserimento unidimensionale nella pura logica riproduttiva del capitale. L’alienazione è infine sfiguramento dello stesso lavoro umano (Arbeit) come forma e modello della prassi trasformativi del mondo operata dall’attività umana (Tätigkeit).
Ma al di là della ricca sfaccettatura del termine di alienazione resta – come ho già rilevato in precedenza – il carattere profondamente unitario, e cioè logico-antropologico, del concetto stesso. L’alienazione concerne l’insieme della produzione capitalistica, ed in questo senso ritengo abbia perfettamente ragione l’economista-filosofo italiano Claudio Napoleoni, morto nel 1988 ed oggi purtroppo quasi dimenticato, per il quale nel capitalismo solo alcuni sono sfruttati (nel senso che solo gli sfruttati all’interno del modo di produzione capitalistico sono oggetto di estorsione di plusvalore assoluto e relativo, estorsione che avviene nella forma feticizzata dell’apparente scambio di equivalenti), mentre tutti sono alienati, in quanto anche la classe dei capitalisti (meglio definibile come la classe funzionale dei funzionari attivi della riproduzione capitalistica) è pur sempre inserita in un meccanismo anonimo ed impersonale di cui non sono in alcun modo i “padroni”.
Questo concetto di “capitalismo assoluto”, di cui i capitalisti sono funzionari subalterni assai più che veri e propri dominatori-decisori, è molto vicino al concetto di Heidegger di Imposizione-Impianto Anonimo (Gestell), frutto della risoluzione storica della lunga vicenda della metafisica occidentale in tecnica planetaria. Al di là del fatto che il concetto heideggeriano di Gestell tecnico possa sovrapporsi ad un concetto di capitalismo in Marx cui viene sottratta la contraddizione (mentre non gli vengono sottratte l’astrazione e la stessa alienazione), non c’è dubbio che la nozione di alienazione resta insostituibile. Al tempo di Marx non esisteva ancora l’attuale lavoro flessibile e precario, la valorizzazione capitalistica non si era ancora estesa mediante la manipolazione pubblicitaria dell’intero “mondo della vita” (Husserl), la famiglia e la sessualità non erano ancora state “liberalizzate”, eccetera, ma ciononostante il raggio sociale del concetto di alienazione da lui disegnato nei Manoscritti resta sempre attuale. In secondo luogo, resta il fatto incontrovertibile che nei Manoscritti c’è la “prova provata” che il ventiseienne Marx si considerava e si “autocertificava” (mi si scusi per questo linguaggio burocratico) come “comunista”. Si tratta di un dato filologico incontestabile, su cui concordano tutte indistintamente le scuole “marxiste”.
Possiamo dichiararci “comunisti” anche noi, in questo inizio del ventunesimo secolo ed addirittura epocalmente del terzo millennio? Ognuno ovviamente risponderà come vuole, e ci metterà tutte le riserve linguistico-politiche che riterrà necessarie. Per quanto mi riguarda risponderò – ad un tempo con cautela e decisione – di sì, aggiungendo che soggettivamente sostengo un’interpretazione comunitaristico-democratica del comunismo unita ad una interpretazione idealistico-filosofica del marxismo.
Ma ciò che conta ovviamente non è ciò che pensa empiricamente la modesta figura dello scrivente. Ciò che conta è che il concetto di comunismo in Marx non venga fatto “implodere” nel giudizio storico che ognuno ha diritto legittimamente di dare sulle vicende e sugli esiti del comunismo storico novecentesco realmente esistito (1917–1991). Alla luce dello stesso pensiero di Marx (non però del Marx dei Manoscritti, ma del Marx posteriore teorico della dinamica dialettica dei modi di produzione sociali) se ne possono dare giudizi diversi, che vanno da un giustificazionismo integrale ad una condanna senza appello. E tuttavia il concetto marxiano di comunismo ha una dimensione ad un tempo storica e metastorica, in quanto interpella non solo la logica dinamico-evolutiva del capitalismo, ma anche il significato della storia universale.
A differenza di Hegel, che limitava la sua filosofia ai concetti storicamente determinati e determinabili nel presente, Marx ritiene di poter parlare di una futura “società comunista”, anche se chiarisce immediatamente di non “voler scrivere ricette per i ristoranti del futuro”, e di non voler lasciarsi andare a previsioni dettagliate come era stato il caso per i cosiddetti “falansteri” di Fourier. Egli ricava il comunismo concettualmente per “differenza specifica” con il capitalismo, e questo lo porta di fatto ad utilizzare una sorta di teologia negativa alla Dionigi l’Areopagita, o se si vuole di dialettica negativa all’Adorno. Certo, Marx non può non parlare di “comunismo”, e lo definisce sia dinamicamente (il comunismo è quel movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti) sia staticamente (il comunismo è quella società in cui ognuno darà secondo la sua capacità e riceverà secondo i suoi bisogni). Si tratta certamente di concetti non sufficientemente determinati, e sarebbe sciocco nasconderlo per ragioni di appartenenza ideologica o di carità di patria. E tuttavia, nonostante alcuni aspetti francamente utopistici (chi scrive – ad esempio – non crede alla teoria della cosiddetta “estinzione dello stato”), sappiamo dalla filologia marxiana che Marx aveva una concezione storica e non soltanto naturalistico–frugale del concetto di “bisogno”, e che intendeva il comunismo non certo come società autoritaria, organicistica e pacificata (da fine della storia, cioè), ma come un momento della progettualità umana sociale concreta (più tardi il vecchio Lukács parlò correttamente di agire “teleologico”, e non certo di esito necessitato di una dialettica della natura). In definitiva, il bilancio del comunismo storico novecentesco falsifica certo popperianamente un certo modo di costruire il socialismo, ma passa largamente a lato del concetto di comunismo che Marx per la prima volta cercò di concretizzare nei suoi Manoscritti giovanili.
In terzo luogo, per finire, i Manoscritti pongono inderogabilmente il problema del profilo filosofico originale di Marx. Qui il discorso si farebbe inevitabilmente lungo (problema della differenza fra la filosofia di Marx e la filosofia di Engels, problema dell’esistenza o meno di una “rottura epistemologica” fra il giovane Marx ed il Marx maturo, problema dell’uso ideologico di legittimazione partitico-statuale del pensiero di Marx, eccetera), ma non è ovviamente questa la sede per parlarne in modo adeguato. Al di là del modo consueto di parlarne (Hegel sì ed Hegel no, dialettica sì e dialettica no, eccetera) il punto cruciale sta in ciò, se il marxismo abbia realmente bisogno di una fondazione filosofica, e sia cioè una vera e propria scienza filosofica nel senso di Fichte e di Hegel oppure sia invece una scienza sociale predittiva in senso positivistico, che in quanto tale è valida anche e soprattutto in assenza di una fondazione filosofica, ritenuta superflua ed addirittura negativa e dannosa in quanto “metafisica”. Chi scrive queste note di introduzione ai Manoscritti è un evidente sostenitore della prima variante, e per di più in forma esplicitamente “estremistica”. Ma i Manoscritti possono e devono essere letti anche da chi non la pensa affatto in questo modo. Ogni generazione filosofica e politica ha diritto alla sua lettura, e che cosa ne possa venir fuori è scritto nello scrigno segreto del futuro.
Costanzo Preve
Questo scritto del filosofo Costanzo Prevecostituisce un’introduzione ai Manoscritti di Marx per una nuova edizione greca degli stessi. È stato pubblicato come Appendice nel libro di Eugenio Orso, Alienazioni e uomo precario, Petite Plaisance, 2011.
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Nelle Edizioni di Storia e Letteratura di Roma, a cura di un comitato presieduto da Bartolo Gariglio, stanno uscendo dal 2011 – con nuove postfazioni e accurati apparati critici – le riedizioni anastatiche dei libri pubblicati dalle case editrici fondate da Piero Gobetti. È un’impresa perseguita con metodo e tenacia che si sta avviando alla conclusione (vedi immagini nella galleria in basso). L’attività di editore fu centrale per il giovane intellettuale. Insieme a quello di giornalista, fu il suo mestiere.
Dopo i continui sequestri della «Rivoluzione Liberale» e dopo che il prefetto gli notificò il divieto di svolgere attività pubblicistica ed editoriale, Gobetti partì per Parigi il 3 febbraio 1926, come altri antifascisti prima di lui. Lasciò incompiuti i libri cui stava lavorando: Risorgimento senza eroi e Paradosso dello spirito russo. Dopo pochi giorni era già ammalato di una grave bronchite complicata da disturbi cardiaci, in un fisico duramente provato dall’aggressione fascista del settembre 1924. Morì nella notte del 15 febbraio 1926, non ancora venticinquenne (era nato il 19 giugno 1901), e fu sepolto al Père Lachaise non lontano dal Muro dei Federati.
Giuseppe Gangale ricordò su «Conscientia», vivace rivista degli evangelici italiani cui Gobetti collaborava, la sua figura:
«errò per l’Italia inquieto inquietando le coscienze nostre: […] veniva qui a Roma in terza classe, frettoloso, arruffato, con la grossa valigia carica dei suoi libri e dei suoi giornali che egli stesso distribuiva ai librai e collocava dai giornalai; […] a casa sua […] aveva impiantato una casa editrice in cui egli era tutto: autore, editore, contabile, spedizioniere, incollatore di fascette. E i giovani sentirono il fascino e il contagio di questa ascesi febbrile e operosa».
A Parigi Gobetti voleva continuare ad essere un editore: «Parto per Parigi – scriveva a Giustino Fortunato che citò la lettera nel numero del «Baretti» uscito nel marzo 1926 per commemorarlo – dove farò l’editore francese, ossia il mio mestiere che in Italia mi è interdetto. A Parigi non intendo fare del libellismo, o della polemica spicciola […] Vorrei fare un’opera di cultura nel senso del liberalismo europeo e della democrazia moderna». Già nell’articolo-programma del «Baretti» intitolato Illuminismo, nel dicembre 1924, aveva detto che si trattava di «salvare la dignità prima che la genialità» e di voler «lavorare con semplicità per trovare anche per noi uno stile europeo». Sul «Baretti» furono presentanti e discussi gli autori europei più nuovi, da Proust ai surrealisti, agli espressionisti tedeschi.
Anche quando svolse un’attività più direttamente politica – dall’impegno durante gli anni universitari nei gruppi “unitari” ispirati a Salvemini, allo sforzo di organizzare in tutta Italia i gruppi della Rivoluzione liberale – si trattò sempre di un’attività culturale-politica tesa alla formazione di quadri in senso ampio, di una futura classe dirigente. In quest’opera di educazione politica gli aspetti più propriamente culturali hanno un grande rilievo e non sono mai piegati a fini politici contingenti e immediati.
Lo storico della letteratura italiana Natalino Sapegno, che collaborò alle sue riviste, ricorda «l’incredibile varietà e ricchezza delle sue curiosità estese in ogni direzione, dalla letteratura al teatro, dall’arte alla filosofia e alla storia, instancabili e insaziabili» (in Aa. Vv., Colloquio gobettiano, a cura di P. Bagnoli, La Pietra, Milano 1979, p. 32). Fu critico letterario e teatrale e si occupò di teatro fino alla fine della vita (scrisse su invito di Antonio Gramsci numerosi articoli di letteratura e di teatro sul quotidiano «l’Ordine Nuovo» nel 1921-22, molti dei quali raccolti in La frusta teatrale, 1923, articoli polemici e complessi, che non concedono nulla alla divulgazione). Fu un acuto critico d’arte (ricordiamo l’amicizia con Felice Casorati cui dedicò una monografia nel 1923). Casorati dipinse nel 1961, per la fondazione del Centro studi a Torino, il suo famoso ritratto: un Gobetti idealizzato, che espunge gli aspetti irrequieti e mobili del personaggio e lo fa rivivere in un’aura sacrale.
Fu anche studioso di filosofia di formazione idealistica; ammirò Croce e Gentile, più Croce che Gentile (contro il quale pubblicò all’inizio del 1923 I miei conti con l’idealismo attuale), e studiò a fondo la filosofia dell’azione francese di Blondel e Laberthonnière, insieme ad alcuni filosofi minori dell’Ottocento italiano cui attribuiva grande importanza (Luigi Ornato e Giovanni Maria Bertini). Come storico del Risorgimento ricostruì soprattutto l’opera degli intellettuali radicali settecenteschi – come Pietro Giannone e Alberto Radicati di Passerano– trascurati o deformati dalla storiografia ufficiale. Come ha scritto Franco Venturi nella nota introduttiva agli studi gobettiani sul Risorgimento, «Gobetti prende quasi naturalmente ai nostri occhi il suo posto nella serie degli uomini del Piemonte che egli scoprì e studiò. I suoi eretici non vanno più da Radicati ad Alfieri, né a Cavour, ma da Radicati a Gobetti». Ma Gobetti fu in primo luogo un «organizzatore di cultura di straordinario valore» (come lo definì Gramsci) attraverso le sue riviste e la sua casa editrice. Documento dei suoi ampi interessi culturali sono i più di cento volumi che pubblicò come editore (114 se contiamo anche i non molti volumi, alcuni dei quali da lui programmati, usciti dopo la sua morte presso le Edizioni del Baretti). Alla fine del ‘22, insieme a Felice Casorati e al tipografo Arnaldo Pittavino di Pinerolo, aveva fondato una casa editrice. Ci fu presto un tentativo di incendio doloso della tipografia di Pinerolo e Pittavino si ritirò dall’impresa pur continuando ad essere una delle tipografie di cui si serviva Gobetti.Nel marzo 1923 la casa editrice divenne la “Piero Gobetti editore”. Pubblicò numerosi volumi di storia e politica (soprattutto saggi di antifascisti di vario orientamento: Gaetano Salvemini, Luigi Einaudi, Giovanni Amendola, Luigi Sturzo, Francesco Saverio Nitti, Guido Dorso, Luigi Salvatorelli, autore nel 1923 dell’importante Nazionalfascismo). Ma Gobetti pubblicò anche molti libri di letteratura e di poesia. Il più famoso è Ossi di seppia di Eugenio Montale, che uscì nel giugno del 1925. Quando, l’anno prima, il poeta aveva incontrato Piero a Torino, erano diventati amici, per cui Montale si impegnò anche a scrivere per «Il Baretti», la cui uscita era imminente. Nel 1925 comparvero sulla rivista tre articoli di Montale, che però si trasse poi in disparte temendo il troppo filosofismo e la troppa politica (su Gobetti e Montale ha scritto saggi illuminanti Ersilia Alessandrone Perona). Dopo molti anni, in un articolo per il cinquantenario della nascita di Gobetti, uscito il 16 febbraio del 1951 sul «Corriere della Sera» il poeta scriveva che «Gobetti, pur senza additarci un sistema o tanto meno un partito, ci pone di fronte uno specchio dal quale ci discostiamo con fastidio o con orrore, a seconda che la dilagante marea della mediocrità politica e intellettuale ci riempa di tedio o di disgusto, di noia o di ribrezzo».
Qual è lo specchio, l’immagine della società italiana, alla quale alludeva Montale ? È rimasta famosa, nelle interpretazioni del fascismo, la formula gobettiana del fascismo come rivelazione di mali secolari, come «autobiografia della nazione». Il fascismo non è una parentesi nella marcia vittoriosa del liberalismo come sostenne Benedetto Croce e non è neppure riducibile alla «reazione capitalistica» dell’interpretazione marxista. Nella formula del fascismo come autobiografia della nazione c’è la denuncia della tendenza all’unanimismo populista, alle vaste maggioranze trasformiste, al paternalismo addomesticatore, alla vuota retorica. Con il fascismo, «ci troviamo per una volta, davanti, il blocco completo dell’altra Italia, l’unione confusa di tutte le nostre antitesi, il simbolo di tutte le malattie […]» (Scritti politici, Einaudi, 1997, p. 435).
Gobetti non poté vedere né gli aspetti di modernizzazione autoritaria del fascismo degli anni trenta né le dimensioni internazionali del fenomeno fascista. Il fascismo gli sembrò soprattutto un fenomeno italiano di arretratezza economico-sociale e culturale. Inizialmente lo confuse anche con una forma di giolittismo peggiorato, salvo ricredersi più tardi. Tuttavia colse con grande acutezza i tratti del mussolinismo come l’ultima manifestazione di una tendenza permanente nel costume etico-politico italiano all’opportunismo, alla demagogia, alla retorica. Queste abitudini affondano secondo Gobetti nella tradizione controriformistica di un Paese che non ha conosciuto né la Riforma religiosa né una rivoluzione borghese radicale. Alla fine del saggio La Rivoluzione Liberale Gobetti scrisse: «Il mussolinismo è dunque un risultato assai più grave del fascismo stesso perché ha confermato nel popolo l’abito cortigiano, lo scarso senso della propria responsabilità, il vezzo di attendere dal duce, dal domatore, dal deus ex machina la propria salvezza» (così nel saggio sulla lotta politica in Italia, Einaudi, 1995, p. 176; d’ora in poi cito con RL). Insomma, Gobetti individuò con grande precisione e denunciò con intransigenza i tratti di un populismo che ha segnato e minaccia costantemente la nostra storia.
Di Mussolini dice: «la sua figura di ottimista sicuro di sé, le astuzie oratorie, l’amore per il successo e per le solennità domenicali, la virtù della mistificazione e dell’enfasi riescono schiettamente popolari per gli italiani» (RL, 173). A questi costumi contrappose la sua «religione della libertà». Il motto in greco delle edizioni di Gobetti è Che ho a che fare io con gli schiavi?, disegnato elegantemente in un ovale da Felice Casorati. Fu suggerito nel 1923 da Augusto Monti, il grande professore del Liceo D’Azeglio di Torino, che l’aveva tratto da una lettera di Vittorio Alfieri del 1801. Fin dall’adolescenza Alfieri era l’eroe di Gobetti, il quale nella tesi di laurea La filosofia politica di Vittorio Alfieri diceva che in Alfieri c’è una «religione della libertà», che impegna tutto l’individuo, «esclude interessi e calcoli», vuole dedizione e intransigenza. Moralismo di Gobetti? Sono molto chiare alcune righe che scrisse sul “moralismo” nell’ottobre 1924, nel pieno della crisi politica che si era aperta dopo l’assassinio di Matteotti: «Sempre bisogna che le nazioni trovino l’ora dell’esame di coscienza, che sappiano misurare la loro sensibilità morale a costo di aprire crisi dolorose e totali. Né ci si attribuisca preoccupazioni di astratti moralisti: in verità tutta la politica è possibile soltanto a patto che sappia trovare nei momenti solenni le sue origini di rigorismo e di rivoluzione morale» (Scritti politici, cit., p. 787). La politica non deve ridursi a meschini calcoli parlamentari e deve rifarsi a principi e a convinzioni ultime. Nel tener fede ai principi e alle convinzioni ultime Gobetti vide la migliore garanzia anche dell’efficacia dell’azione politica, almeno sul lungo periodo. Quali sono le convinzioni ultime di Gobetti? A mio avviso, il filo rosso che lega insieme le sue posizioni e tutta la sua attività è l’autonomismo libertario. Sul suo liberalismo Gobetti affermò: «la parola d’ordine dei liberali in Italia a partire dal secolo scorso fu: “tutti liberali”. La nuova critica liberale deve differenziare i metodi, negare che il liberalismo rappresenti gli interessi generali, identificarlo con la lotta per la conquista della libertà, e con l’azione storica dei ceti che vi sono interessati» (RL, p. 51). Occorre «rinnovare la vita politica facendovi affluire continuamente nuove correnti libertarie» (RL, p. 43). Tra queste correnti mise in rilievo soprattutto l’esperienza dei Consigli di fabbrica, che gli apparve «uno dei più nobili sforzi che si siano tentati» nella vita politica di quel periodo (RL, p. 103), mentre fu un critico impietoso della chiusura burocratica del PCd’I, come si vede nelle pagine del saggio La Rivoluzione Liberale dedicate ai comunisti. Simpatizzò per le punte rivoluzionarie del movimento operaio da una visuale liberale e libertaria, per i valori autonomistici, di libertà, di iniziativa dal basso, di agonismo che erano capaci di suscitare, indipendentemente dai fini collettivistici del socialismo e del comunismo che Gobetti dichiarava di non condividere (anche quando nel 1924 scriveva che era giunta L’ora di Marx). Il marxismo non gli apparve vivo nelle teorie economiche e nella prospettiva del comunismo, ma come «dottrina dell’iniziativa popolare diretta, preparazione di un’aristocrazia operaia capace, nell’esperimento della lotta quotidiana, di promuovere l’ascensione delle classi lavoratrici» (RL, p. 77). Gobetti sperava che in Italia, rimasta sotto il peso dell’arretratezza economica e del conformismo religioso, si diffondesse, grazie allo sviluppo dell’industria e delle aristocrazie imprenditoriali e operaie, un’etica moderna, alimentata in Europa dalla Riforma protestante, della responsabilità personale e della dignità del lavoro. A proposito di una visita agli stabilimenti della Fiat Lingotto appena inaugurati, Gobetti, dichiarava «l’orgoglio di essere stati i primi teorici di quella vita industriale», e scriveva che là, dentro la Fiat, «si prepara la morale del lavoro, la civiltà dei produttori» (Visita alla Fiat, «Il Lavoro», 15 dicembre 1923). In quanto costruttori di una «civiltà dei produttori», Gobetti ammirava sia le «aristocrazie operaie» rivoluzionarie sia i capitani d’industria come Henry Ford e Giovanni Agnelli. Questo oggi ci sembra far parte di un’ideologia novecentesca della modernizzazione molto lontana, se non altro per le trasformazioni intervenute nel lavoro e nell’industria. Ma, insieme, c’è in lui l’idea più ampia, che trovò confermata in Cattaneo, dello Stato moderno come terreno della libera competizione degli individui e dei gruppi sociali. C’è la convinzione della positività permanente del conflitto sociale, c’è l’idea che la lotta politica è continuamente alimentata dai gruppi che si affacciano sulla scena rivendicando nuovi diritti e nuovi assetti democratici. Questa, scrisse, è «la religiosità dell’uomo moderno, la religiosità della democrazia come forza autonoma, liberamente operante dal basso senza limiti che la predeterminino fuori della volontaria disciplina che essa stessa si pone […]» (RL, p. 58). Nelle pagine di Gobetti, che scrisse e fece l’editore immerso nelle lotte politiche e sociali degli anni drammatici che vedono la crisi dello Stato liberale e la vittoria del fascismo, vive una utopia libertaria che ci interroga ancora e che meglio di altre ideologie ha resistito nel tempo.
Basta questo oggi per rianimare una democrazia in grave affanno? Non credo, ma è una bussola preziosa di cui non possiamo ancora oggi fare a meno.
Cesare Pianciola, Kosik e Sartre, «Quaderni piacentini», anno IV, n. 2, 1965dicembre-1965
Il pensiero di Karl Marx, Loescher, 1971
Filosofia e politica nel pensiero Francese del dopoguerra, Loescher, 1979
Piero Gobetti. Biografia per immagini, Gribaudo, 2001
Piero Gobetti. Opera critica, Edizioni di storia e letteratura, 2013
N. Bobbio, Scritti su Marx. Dialettica, stato, società civile. Testi inediti a cura e con una introduzione di Cesare Pianciola e Franco Sbarberi, Donzelli, 2014
Raniero Panzieri, Centro di Documentazione di Pistoia, 2014
Esistenza, ragione, storia. Pietro Chiodi (1915-1970), Petite Plaisance, 2017 (con Giuseppe Cambiano)
Pietro Chiodi (1915-1970), filosofo esistenzialista che negli anni Sessanta insegnò Filosofia della storia all’Università di Torino, è ricordato soprattutto per la sua attività di studioso e traduttore di Heidegger che ha ricreato per i lettori italiani il vocabolario filosofico del pensatore tedesco. Non meno importanti i suoi saggi su Kant e le traduzioni della ‘Critica della ragion pura’ e degli ‘Scritti morali’. Questo libro, curato da due tra i suoi primi allievi, contiene contributi sull’opera filosofica e sui confronti teorici in cui si è impegnato (con Abbagnano e Paci, con Sartre, con i marxisti), ma anche saggi sulla drammatica vicenda resistenziale consegnata a ‘Banditi’ – il diario partigiano che Fortini considerò “quasi un capolavoro” -, sul rapporto di profonda amicizia e di influenze reciproche con B. Fenoglio, sul suo interesse poco noto per le arti figurative. In appendice un inedito su socialismo e libertà, a proposito di ‘Riforme e rivoluzione’ di A. Giolitti, e una testimonianza della sua compagna, Aida Ribero, sulla coerenza tra filosofia e vita. Chiude il volume una completa bibliografia degli scritti di e su Chiodi.
La guerra d’Algeria e il «manifesto dei 121», Edizioni dell’Asino, 2017
Nel 1960 un gruppo di intellettuali sottoscrive il “manifesto dei 121”, che denuncia la brutale repressione e l’uso sistematico della tortura praticata dall’esercito francese in Algeria, e solidarizza con l’insubordinazione alle gerarchie militari e con il sostegno alla causa della indipendenza algerina. È un episodio della storia politica e culturale del Novecento da rimeditare nella sua complessità. Chiude il libro la testimonianza di Louisette Ighilahriz, algerina militante all’epoca nel Fronte di liberazione nazionale.
Il critico e il pittore. Gobetti, Casorati e la sua scuola, Aras Edizioni, 2018
Felice Casorati (1883-1963) ci ha lasciato di Piero Gobetti (1901- 1926) un ritratto penetrante e idealizzato dipinto per la fondazione del Centro studi a lui intitolato. La critica d’arte, nella multiforme attività di Gobetti, fu seria e impegnativa. Tra i pittori contemporanei che apprezzò (Carrà, De Chirico, Soffici…), la figura centrale è Casorati, su cui scrisse e pubblicò nelle sue edizioni una monografia nel 1923. Il pittore era legato al suo critico da una «amicizia tenace completa perfetta», come la definì alla morte del giovane antifascista. Gobetti fu anche il primo a mettere in rilievo l’importanza della scuola di Casorati ai suoi inizi, vedendovi «una cosa completamente nuova, lontana da ogni sistematicità di accademia». Piero e Ada erano intimi delle sorelle Marchesini: Maria, Dadi e Nella, che fu la prima allieva del maestro. I saggi qui raccolti esplorano diversi aspetti di una vicenda che parte da Gobetti e si dipana in un tessuto culturale da cui è possibile trarre nuovi echi.
Marxismo. Tradizioni di pensiero, il Mulino, 2019
A partire dagli autori fondativi, le diverse correnti di pensiero vengono caratterizzate attraverso l’esposizione dei loro temi portanti e delle figure in cui si sono concretati. Indice del volume: Premessa. – I. Dal marxismo a Marx. – II. Dall’opposizione al potere. – III. Marxismi occidentali. – IV. Lavoro e valore tra economia, filosofia e sociologia. – V. Un’eredità politica contrastata. – VI. Complicazioni: nazione, genere, ambiente. – Bibliografia. – Indice dei nomi.
La collana, realizzata in collaborazione con il Centro Studi Piero Gobetti, nasce con un obiettivo ambizioso: ripubblicare l’intera produzione di Piero Gobetti editore, 114 titoli usciti dal 1922 al 1929. Le opere qui riproposte in edizione anastatica sono accompagnate da nuove postfazioni e da schede critiche e bibliografiche. Un patrimonio considerevole di autori, che comprende tra gli altri Luigi Einaudi, Wolfgang Goethe, Eugenio Montale (la prima edizione di Ossi di seppia), Giuseppe Prezzolini, Gaetano Salvemini, oltre allo stesso Gobetti.
N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo:
Recensione di “L’animalizzazione dell’essere umano nel capitalismo” di S.A. Bravo
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Agli albori del pensiero ritroviamo Aristotele e la sua qualificazione sostanziale dell’uomo come animale politico – ζῷον πολιτικόν (zòon politicòn) – inteso in senso lato come cura di sé e del rapporto con gli altri uomini della πόλις (pòlis). Se tale qualificazione non rispondesse realmente alla sua natura, soggiunge Aristotele, l’uomo decadrebbe a stato di belva solitaria, esclusa dal consorzio umano, o al contrario sarebbe de facto elevato a stato di divinità che, per la sua onnipotenza e autosufficienza, non abbisogna di un consesso comune.
Ebbene, la qualificazione di πολιτικόν è la mira, a giudizio di Salvatore A. Bravo (nel seguito S.B.), autore di questo ottimo saggio, di un attacco congiunto, surrettizio nelle modalità ma fin troppo palese negli effetti, della società della tecnica e del sistema economico capitalistico. La risultante è un imprimatur tecno-capitalistico apposto su un nuovo manuale d’uso dell’uomo contemporaneo. È il tentativo di avviare lo sviluppo della storia su una direzione si direbbe “antropofuga”, e anzi “zoopeta”, che allontani dalla sostanza di tutto ciò che significa “essere umani” e avvicini alla sostanza fisico-naturalistica dell’idea di “essere vivente” tout court, che residua appunto nella nuda caratterizzazione di ζῷον.
Curiosamente la tecnica e il capitale agiscono per additionem, l’una pervadendo la società di strumenti atti a moltiplicarne le capacità espressive, almeno in teoria, l’altro a moltiplicarne le effettive possibilità di porle in atto tramite la ricchezza, ma il risultato complessivo è un uomo diminuito, deumanizzato, un mero ζῷον, un uomo scalato per subtractionem del proprio vero potenziale. Ogni incremento tecnico e capitalistico, in un curioso vortice dialettico, va non ad aumentare ma a detrarre dall’uomo ciò che di più umano c’è nella sua espressione. In questo, S.B. cita giustamente Hegel:
“Quantità, dice Hegel, significa qualità tolta, ovvero indica l’essere reso indifferente alle sue determinazioni”.
Da questo punto di vista, il saggio di S.B. è una panoramica ad ampio raggio sulle svariate qualità tolte dall’espressione umana, ovvero di caratteri che hanno subito, e continuano a subire, una detrazione in termini di umanità vera.
Partiamo proprio dal vivere sociale, che ad es. la nostra stessa Costituzione (art. 3 comma 2) lega allo sviluppo della persona umana e all’effettiva partecipazione alla società, e quindi intende non già nel senso di un Ego solipsistico, bensì comunitario, ovvero come relazione di quell’Ego all’interno di un contesto relazionale. La matrice trasformativa in cui l’Ego è immerso, in un sistema tecno-capitalismo, è invece esiziale per quello stesso Ego, in quanto riducendolo a monade “senza finestre”, ne abbatte la stessa capacità espressiva in tutto ciò cui tale Ego tiene realmente:
L’essere umano è tale, se si riconosce nell’identità personale e comunitaria. L’identità si genera nelle relazioni comunitarie senza le quali “il riconoscimento di sé” e “dell’altro” è impossibile. In questo intreccio si struttura la personalità che, benché dinamica, ha la sua essenza, si modifica, ma all’interno di un percorso evolutivo tracciato. Gli accidenti del percorso possono essere estemporanei, ma l’identità con il suo nucleo vitale e dinamico non è contrattabile, non può essere sostituito. L’identità è resistenza al potere, è il limite che il soggetto disegna al potere. L’animalizzazione è, invece, l’organizzazione totalitaria del capitalismo assoluto, essa deve privare i soggetti dell’identità stabile inneggiando al mito della flessibilità, delle identità fluide, della sessualità polimorfa. L’identità non è più legata ad una storia, alla ricerca di sé, ma è figlia dell’attimo, della voglia del momento. Senza identità, l’io non è che il contenitore senza fondo degli stimoli del mercato.
E ancora, sull’empatia, non possiamo che concordare con S.B.:
Affinché il sistema possa proliferare e regnare è necessario diseducare all’empatia positiva, alla capacità empatica e duale per sostituirla con l’empatia negativa. Quest’ultima si caratterizza per il corazzamento emotivo, ci si ritira dal flusso empatico positivo per rendersi atomi individuali slegati da ogni vincolo di appartenenza. L’empatia positiva educa alla trascendenza, nel volto dell’altro si legge la traccia dell’infinito e del limite.
S.B. prosegue con un’analisi di stampo più teoretico di questi esiti, introducendo ad esempio la c.d. “perversione di Spinoza”, ovvero il pervertimento degli attributi, le qualità fondamentali della sostanza umana, che virano verso un’uniformità artificiale, atta a garantire unicamente uno scivolamento perpetuo di merci e capitali senza attrito alcuno, perdendo in ciò la loro stessa prerogativa primigenia.
Gli infiniti attributi spinoziani non sono che gli esseri umani, i quali divengono l’epifenomeno dell’unica sostanza spazio-materia. Solo corpi che consumano, sola estensione, solo enti liberi di veleggiare per il pianeta per godere la liturgia del nulla. Godere è rendere l’altro strumento, spazio che divora ed assimila altro spazio. Il turista che girovaga nel mondo, cosa fa se non consumare veloci visioni di paesaggi e monumenti per poi dilettarsi con i cibi del luogo. In media al ritorno è simile al momento del viaggio, poiché il fine era il divertimento, “il divertere-cambiare strada”. Strati su strati di divertissement non costruiscono solo l’economia della dispersione e della gettatezza, ma specialmente formano ed orientano alla fuga dall’impegno, dalla politica.
Invero, cosa c’è di più distruttivo dell’effetto di questo contesto sulle nuove generazioni, sulla loro formazione. Arduo obiettare che il mondo, così come filtrato da una Weltanschauung tecno-capitalista, non sia soggetto per loro a una continua riconfigurazione gestaltica verso il piatto e via dalla complessità, una Gestalt senza figure riconoscibili, dotata unicamente di linee rette infinite e parallele, che non si incontrano mai se non all’infinito (direbbe Euclide), ma in un infinito non in un senso metafisico, quanto piuttosto nel senso di una trabordante ed essudante quantità.
Con il pedagogismo gli esperti della tecnocrazia didattica riducono la formazione a costola del mercato, tra l’istituzione formativa ed il mercato non vi è differenza, non vi sono salti quantici a garantire la formazione dall’asservimento incorporante. Costanzo Preve connota questa fase del capitalismo come assoluto e ne evidenzia l’incorporamento, mediante il quale si costituisce il regno dell’irrilevanza, ovvero ogni valore, ogni differenza tra l’umano ed il non umano salta per portare il tutto sulla linea dell’irrilevanza. Non vi è alto, né basso, non vi sono gerarchizzazione assiologiche, ma solo l’irrilevanza del nichilismo. Capitalismo della sorveglianza è la definizione di Shoshana Zuboff, con cui si palesa il carattere dell’incorporamento della vita mediante le banche dati con le quali allevare un nuovo tipo di essere umano.
Il saggio di S.B. è estremamente interessante per la visione a volo d’angelo di un territorio antropico via via eroso e desertificato, decompresso della sua pienezza umana e fluido come olio motore, lubrificato come un ingranaggio ma sterilizzato e prono a guasti. È un territorio dell’uguale e del conforme, del normale statistico e non emotivo, della confluenza e non dell’unione, della giustapposizione e non dell’incontro.
Egli riesce a individuare e a descrivere con dovizia di particolari e abili agganci teoretici i gesti, le idolatrie e gli idealtipi della società contemporanea: vedansi, ad esempio, il preside manager, lo studente coder già alle elementari, il poliglotta sagace, il politico sinistrorso ma aperto al globale, il professore con picchi di performance, la scuola azienda, il pensiero dell’esatto e non del vero, il politicamente sottratto (o, come pretendono dire, corretto), la burocrazia automatica che si infiltra nei gangli delle relazioni umane. Questo testo costituisce pertanto una visione originale del rapporto tra capitalismo, tecnica e società, nelle sue ricadute culturali e sociali.
«Ora, una volta liberato dalle sue catene, il gigante infuria, abbattendo tutto ciò che si oppone alla sua corsa. Cosa ci riserverà il futuro? Chi ritiene che il gigante chiamato “capitalismo” distrugga la natura e gli uomini, spera di poter un giorno incatenarlo e ricondurlo nuovamente là da dove esso è fuggito. Ma la sua furia durerà in eterno? Non si esaurirà nella sua corsa? Io credo di sì. Ritengo infatti che, nella stessa natura dello spirito capitalistico, risieda una tendenza che lo corrode dall’interno e lo ucciderà. […] Una volta divenuto cieco, forse il gigante sarà condannato a tirare il carro della civiltà democratica. Forse assisteremo al crepuscolo degli dei. E l’oro sarà restituito al Reno. Chi può saperlo?».
Werner Sombart, 1913
Disumanizzare è il nuovo imperativo categorico che imperversa nell’Occidente globale. I processi di disumanizzazione si concretizzano con la stabilizzazione del nichilismo economicistico. Il regno dell’ultimo uomo descritto da Nietzsche è ora la realtà vivente dell’Occidente. La disumanizzazione procede e si struttura secondo modalità assolutamente inedite nella storia dell’umanità: biopotere e tecnocrazia sono i mezzi con cui l’economicismo pone in atto la sua rivoluzione antropologica. La sovrastruttura culturale cela la verità del sistema: deve agire per disorientare, per rappresentare il nuovo regno edenico dell’abbondanza come l’unico possibile ed il più inclusivo. L’ideologia imperante dell’inclusione è lo spot orwelliano del neoliberismo. Essa catalizza il consenso, in quanto “sembra dire” che il sistema “non abbandona persona o gruppo alcuno”. L’inclusione è il mezzo con cui la necessità sostituisce i bisogni. La necessità è esterna e meccanica, e pone le condizioni per la dipendenza del soggetto e delle comunità. Il bisogno è sorgente e vita interiore, è il vivente nella pienezza della relazione duale. Il bisogno è autonomia, non crea dipendenze, ma libertà senza solitudine, perché i bisogni interiori sono luci che appaiono nella relazione e si trasformano in una inesauribile prassi. La differenza tra bisogno e necessità è stata già descritta da Aristotele.1 Una civiltà dimentica di tale differenza è preda del caos: organizza scientemente la disintegrazione umana. La necessità implica la dipendenza dall’esterno, il bisogno è spazio vitale interiore, che rompe le barriere della necessità per affermare l’autonomia del soggetto. Umanizzare significa sostenere la crescita del bisogno primario dell’essere umano: pensare. Senza il logos si è consegnati alla necessità, al caos dell’efficienza che calcola senza porre domande. La religione dell’antico Egitto rappresentava il caos con Apopi,2 il serpente che tutto includeva nel caos. Non possiamo limitarci come gli Egizi a pregare per la sconfitta di Apopi, dobbiamo coniugare teoria e prassi. L’inclusione è la caverna ideologica del neoliberismo. Nel campo pedagogico-educativo, come nel campo del diritto si procede all’inclusione, per cui ogni frizione ed opposizione dialettica è “condannata” alla marginalità. L’inclusione ha l’ambizione di possedere il tempo, di distribuirlo negli spazi, di controllarne e curvarne le parole. La chiacchiera (Gerede) mediatica ha il fine di tacitare, di silenziare il concetto: essa prolifera non solo in funzione mercantile, ma deve disumanizzare riducendo il tempo della coscienza a presenza confermativa. È l’ininterrotto “Yawl”3 che circola, assimila, omogeneizza nel regno animale dello Spirito (Gesellschaft). L’inclusione, dunque, è una forma di organizzazione assoluta, è la verità evidente ed edulcorata del capitalismo donante: includere perché viva il mercato, per animalizzare e derealizzare (Massimo Bontempelli) per lasciare spazio alla sola certezza sensibile (G.W.F. Hegel). La nuova fase imperiale del capitalismo passa per la porta dei diritti individuali: ogni differenza a cui è concessa la visibilità e la garanzia dell’inclusione è espressione dell’avanzata dell’impero del capitale. Ad esse non si chiede di “render conto” mediante il concetto di se stesse; non si domanda l’emancipazione (autonomia di giudizio e scelta), ma semplicemente si prestabilisce che debbono essere accolte, purché consumino e divengano veicolo di affermazione e diffusione del capitale.
Ogni resistenza dev’essere abbattuta in nome dell’inclusione senza emancipazione. Il capitalismo donante e flessibile si autocelebra come liberatore dai vincoli etici per condurre gradualmente “i liberati” nella gabbia della certezza sensibile. Perché il plusvalore possa essere accolto religiosamente, quale dogma anonimo ed indiscutibile, è necessario derealizzare, per cui si deve rieducare il pensiero all’esodo dalla cultura classica, dalla concretezza filosofica verso la sudditanza al dato immediato. Il capitale – araldo della liberazione – concede i diritti individuali, purché sottragga il pensiero (Denken), purché il Geist (lo Spirito del mondo-storia) si congeli nella derealizzazione massificante. La disumanizzazione ambisce a necrotizzare la prassi storica per sostituirla con la flessibilità e la dinamicità spaziale. La disumanizzazione si materializza nel nichilismo passivo, il quale è costituito da due movimenti: la superficie è increspata continuamente dal movimento, sotto la superficie non vi è profondità, ma solo irrigidimento anti creativo. Il nuovo nichilismo passivo disumanizza, poiché attrae, come il paese dei balocchi, incanta con i suoi miti, con le sue aspettative, ma non mantiene le promesse. L’umanità esige profondità, pone gerarchie onto-assiologiche per significare il mondo (Welt), altrimenti l’essere umano diviene parte dell’ambiente (Umwelt). La disumanizzazione ha lo scopo di rendere l’essere umano interno all’ambiente-economia di cui è organico partecipante. Il presente lavoro ha l’intento di operare un cambio di prospettive, in modo che si possa scorgere e pensare dietro la cortina dell’inclusione la disumanizzazione dei processi in corso. A tal fine bisogna trascendere il linguaggio orwelliano per seguirlo nelle sue tracce – nessun delitto è perfetto –, per far emergere la derealizzazione a cui è associata la disumanizzazione. Si proclama l’inclusione scolastica, ma in realtà si omologano intelligenza ed indole degli alunni; si afferma la liberazione della donna, ma si persegue la riduzione delle donne ad una tragica copia del maschio liberista; si inneggia alle identità per tradurle in prodotti per il libero mercato. Rispetto all’ultimo uomo descritto da Nietzsche siamo in un orizzonte che il filosofo non aveva immaginato. L’ultimo uomo nietzscheano digrigna i denti, perché non vuole creare, ma solo conservare; l’ultimo uomo del neo-liberismo, non conserva, non ha memoria, è il ricettacolo di appetiti senza memoria. La liberazione dell’ultimo uomo liberista è nella pratica della dimenticanza di sé, della comunità, del mondo. Alain Badiou ha definito la disumanizzazione «materialismo democratico»; ovvero, le differenze sono tollerate fin quando accettano l’uguaglianza giuridica: nessuna gerarchizzazione etica e nessuna nostalgia per l’universale. Se le differenze appaiono nel gioco dell’irrilevanza sono esaltate, quale successo della democrazia sui totalitarismi, ma se osano porre la ricerca della profondità e dell’eterno sono espulse dal gioco democratico:
«Esso è, inoltre, essenzialmente un materialismo democratico, dal momento che il consenso contemporaneo, riconoscendo la pluralità dei linguaggi, ne presuppone l’uguaglianza giuridica. Ragion per cui, alla riduzione dell’umanità all’animalità si aggiunge l’identificazione dell’animale umano con la diversità delle sue sottospecie e con i diritti democratici inerenti a questa diversità. Il suo rovescio progressista questa volta prende in prestito il suo nome da Deleuze: “minoritarismo”. Comunità e culture, colori e pigmenti, religioni e sacerdozi, usi e costumi, sessualità disparate, intimità pubbliche e pubblicità dell’intimo. Tutto, tutte, tutti meritano di essere riconosciuti protetti dalla legge. Tuttavia, il materialismo democratico ammette un punto di arresto globale alla sua multiforme tolleranza. Un linguaggio che non riconosca l’universale uguaglianza giuridica e normativa dei linguaggi non merita di beneficiare di tale uguaglianza. Un linguaggio che pretenda di normare tutti gli altri e di governare tutti i corpi, lo si dirà dittatoriale e totalitario. Ciò che si riscontra non è, allora, la tolleranza, ma un “dovere d’ingerenza”, sul piano legale, internazionale, finanche militare, qualora si renda necessario: si faranno pagare ai corpi i loro eccessi di linguaggio».4
Il materialismo democratico è la pratica della disumanizzazione, la sua trasformazione in dispositivo permanente. La conservazione, con “annesso ritiro dell’essere umano” dalla storia, ha il volto del relativismo e della società liquida. La tolleranza è ammessa fin quando la religione dell’economia nella forma della glebalizzazione planetaria non è mediata da processi di emancipazione. L’effetto sdoppiamento, la deviazione dalla condizione attuale, dev’essere rimossa dall’immaginario teoretico del singolo e collettivo.
Il divertissement relativistico diviene la struttura e la verità della Weltanscauung capitale. Il materialismo democratico tollera le differenze solo se sono gradualità della res extensa: ogni differenza è eguagliata alle altre nella riduzione a pura estensione consumante. Le differenze devono essere solo di ordine quatitativo:
«Quantità, dice Hegel, significa qualità tolta, ovvero indica l’essere reso indifferente alle sue determinazioni. Grandezza significa quantità limitata dal limite qualitativamente indifferente, ripetizione identica di una medesima identità astratta. La matematica è la conoscenza delle relazioni necessarie della grandezza, secondo una necessità puramente tautologica nei suoi gradi più elementari, e secondo la necessità della mediazione sintetica costruita tra diversi elementi di un oggetto quantitativo nei suoi gradi superiori. Essa ha dunque una base obiettiva universale nella logica della quantità, mediante la quale elabora le sue costruzioni. Le scoperte matematiche sono indipendenti dalle contingenze storiche semplicemente perché l’oggetto del lavoro matematico è dato da entità astratte da ogni qualità contingente. La matematica è dunque una scienza. Ma la quantità, nella cui logica essa ha la sua base ontologica, è soltanto una delle sfere logico-ontologiche che il pensiero possiede nella sua interna strutturazione. Essa non può quindi avere in se stessa la misura della propria verità, perché la verità della quantità si compie soltanto nella sua connessione dialettica con tutte le altre sfere della realtà. L’isolamento della sfera logico ontologica della quantità è la ragione per cui la matematica non può fondare se stessa. Negli spazi vuoti delle pure grandezze quantitative tace, scrive Hegel, ogni esigenza che possa ricollegarsi all’individualità vivente: qui sta la mancanza di verità della matematica».5
Il desiderio di segnare una traccia nella storia e nella memoria, al punto da mettere in pericolo la propria vita, è sostituito con l’immediatezza delle pul sioni libere di godere in modo polimorfo. L’animalizzazione è la trasformazione delle differenze a semplice pulsione senza progettualità ed autocoscienza. L’eliminazione dell’autocoscienza, della relazione comunitaria è l’ideale nichilistico del capitalismo assoluto.
Ogni comunità dev’essere sostituita dall’individualismo, dal calcolo soggettivo finalizzato al godimento immediato. Le differenze sono così normalizzate, disciplinate sotto il regno del capitale. Mancando l’autocoscienza e la trascendenza l’essere umano è privato del suo carattere dialettico senza il quale non resta che la sostanza-estensione consumante.
Il capitalismo assoluto ha svelato la verità che la ragione liberale portava in grembo, siamo al punto apicale del nichilismo, e non giunge a noi improvviso, perché è nel fondamento della ragione liberale. Bernard de Mandeville descrive la verità della ragione liberale, essa non ha etica e limite, vive e si espande sull’emulazione dei consumi, non conosce altra legge che il consumo:
«A questa emulazione e a questo continuo sforzo di superarsi a vicenda si deve se dopo tanti cambiamenti di moda, che ne hanno fatte affermare di nuove e riproposte di vecchie, vi è sempre un plus ultra per i più ingegnosi. È questo, o almeno la conseguenza di questo, a dare lavoro ai poveri, a spronare l’industria e a incoraggiare il bravo artigiano a cercare nuovi progressi».6
In Mandeville l’eccesso dei consumi aumenta il benessere generale. Il lusso come motore di benessere, oggi, non ha ragion d’essere. Le tecnologie producono e divorano lavoro, il consumo crolla su se stesso, è introvabile una giustificazione razionale del consumo illimitato come fonte di benessere generalizzato. Non si vuol prendere atto che la ragione liberale, per sopravvivere, ora, non può che essere difesa dai gendarmi mediatici e dal totalitarismo del consumo al punto da minacciare la vita nella sua totalità, pur di far sopravvivere il neo-liberismo. La ragione liberale, con l’economia finanziaria, ha consumato le sue possibilità di espansione. Per sopravvivere deve trasformare la libertà in sregolatezza, deve annientare ogni vincolo etico. È l’anno zero della civiltà. Dopo ogni diluvio si deve rifondare la civiltà ed i suoi fondamenti ontologici senza i quali si vive come fiere nella giungla del mercato globale:
«Ma delle Nazioni di tutto il restante Mondo altrimente dovette andar la bisogna; perocché le razze di Cam, e Giafet dovettero disperdersi per la gran Selva di questa Terra con un’error ferino di dugento anni, e così raminghi e soli dovettero produrre i figliuoli con una ferina educazione nudi d’ogni umano costume, e privi d’ogni umana favella, e sì in uno stato di bruti animali: e tanto tempo appunto vi bisognò correre, che la Terra disseccata dall’umidore dell’Universale diluvio potesse mandar in aria delle esalazioni secche a potervisi ingenerare de’ fulmini, da’ quali gli Uomini storditi, e spaventati si abbandonassero alle false religioni di tanti Giovi, che Varrone giunse a noverarne quaranta, e gli Egizj dicevano il loro Giove Ammone essere lo più antico di tutti; e si diedero ad una spezie di Divinazione d’indovinar l’avvenire da’ tuoni, e da’ fulmini, e da’ voli dell’ aquile, che credevano essere uccelli di Giove».7
1 Aristotele, Protreptico. Esortazione alla filosofia, Utet, Torino 2008, p. 27.
2 Incarnazione della tenebra, del male e del Caos (Isfet, Asfet nella lingua egizia) e antitesi della dea Maat, che rappresentava l’ordine e la verità.
3 Acronimo di Yet Another Workflow Language: è un linguaggio per il workflow management.
4 A. Badiou, Logiche dei mondi. Vol. II, L’essere e l’evento, Mimesis, Milano 2019, p. 56.
5 M. Bontempelli, Il pregiudizio antimetafisico della scienza contemporanea, Petite Plaisance, Pistoia 2006, pp. 5-6.
6 B. de Mandeville, La favola delle api, Laterza, Bari 1987, p. 84.
7 G. Vico, La scienza Nova, Edizione Centro di Umanistica Digitale dell’ISPF-CNR, progetto ISPF “Biblioteca vichiana”, 2007, p. 44.
N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo:
«Ora, una volta liberato dalle sue catene, il gigante infuria, abbattendo tutto ciò che si oppone alla sua corsa. Cosa ci riserverà il futuro? Chi ritiene che il gigante chiamato “capitalismo” distrugga la natura e gli uomini, spera di poter un giorno incatenarlo e ricondurlo nuovamente là da dove esso è fuggito. Ma la sua furia durerà in eterno? Non si esaurirà nella sua corsa? Io credo di sì. Ritengo infatti che, nella stessa natura dello spirito capitalistico, risieda una tendenza che lo corrode dall’interno e lo ucciderà. […] Una volta divenuto cieco, forse il gigante sarà condannato a tirare il carro della civiltà democratica. Forse assisteremo al crepuscolo degli dei. E l’oro sarà restituito al Reno. Chi può saperlo?».
Werner Sombart, 1913
Disumanizzare è il nuovo imperativo categorico che imperversa nell’Occidente globale. I processi di disumanizzazione si concretizzano con la stabilizzazione del nichilismo economicistico. Il regno dell’ultimo uomo descritto da Nietzsche è ora la realtà vivente dell’Occidente. La disumanizzazione procede e si struttura secondo modalità assolutamente inedite nella storia dell’umanità: biopotere e tecnocrazia sono i mezzi con cui l’economicismo pone in atto la sua rivoluzione antropologica. La sovrastruttura culturale cela la verità del sistema: deve agire per disorientare, per rappresentare il nuovo regno edenico dell’abbondanza come l’unico possibile ed il più inclusivo. L’ideologia imperante dell’inclusione è lo spot orwelliano del neoliberismo. Essa catalizza il consenso, in quanto “sembra dire” che il sistema “non abbandona persona o gruppo alcuno”. L’inclusione è il mezzo con cui la necessità sostituisce i bisogni. La necessità è esterna e meccanica, e pone le condizioni per la dipendenza del soggetto e delle comunità. Il bisogno è sorgente e vita interiore, è il vivente nella pienezza della relazione duale. Il bisogno è autonomia, non crea dipendenze, ma libertà senza solitudine, perché i bisogni interiori sono luci che appaiono nella relazione e si trasformano in una inesauribile prassi. La differenza tra bisogno e necessità è stata già descritta da Aristotele.1 Una civiltà dimentica di tale differenza è preda del caos: organizza scientemente la disintegrazione umana. La necessità implica la dipendenza dall’esterno, il bisogno è spazio vitale interiore, che rompe le barriere della necessità per affermare l’autonomia del soggetto. Umanizzare significa sostenere la crescita del bisogno primario dell’essere umano: pensare. Senza il logos si è consegnati alla necessità, al caos dell’efficienza che calcola senza porre domande. La religione dell’antico Egitto rappresentava il caos con Apopi,2 il serpente che tutto includeva nel caos. Non possiamo limitarci come gli Egizi a pregare per la sconfitta di Apopi, dobbiamo coniugare teoria e prassi. L’inclusione è la caverna ideologica del neoliberismo. Nel campo pedagogico-educativo, come nel campo del diritto si procede all’inclusione, per cui ogni frizione ed opposizione dialettica è “condannata” alla marginalità. L’inclusione ha l’ambizione di possedere il tempo, di distribuirlo negli spazi, di controllarne e curvarne le parole. La chiacchiera (Gerede) mediatica ha il fine di tacitare, di silenziare il concetto: essa prolifera non solo in funzione mercantile, ma deve disumanizzare riducendo il tempo della coscienza a presenza confermativa. È l’ininterrotto “Yawl”3 che circola, assimila, omogeneizza nel regno animale dello Spirito (Gesellschaft). L’inclusione, dunque, è una forma di organizzazione assoluta, è la verità evidente ed edulcorata del capitalismo donante: includere perché viva il mercato, per animalizzare e derealizzare (Massimo Bontempelli) per lasciare spazio alla sola certezza sensibile (G.W.F. Hegel). La nuova fase imperiale del capitalismo passa per la porta dei diritti individuali: ogni differenza a cui è concessa la visibilità e la garanzia dell’inclusione è espressione dell’avanzata dell’impero del capitale. Ad esse non si chiede di “render conto” mediante il concetto di se stesse; non si domanda l’emancipazione (autonomia di giudizio e scelta), ma semplicemente si prestabilisce che debbono essere accolte, purché consumino e divengano veicolo di affermazione e diffusione del capitale.
Ogni resistenza dev’essere abbattuta in nome dell’inclusione senza emancipazione. Il capitalismo donante e flessibile si autocelebra come liberatore dai vincoli etici per condurre gradualmente “i liberati” nella gabbia della certezza sensibile. Perché il plusvalore possa essere accolto religiosamente, quale dogma anonimo ed indiscutibile, è necessario derealizzare, per cui si deve rieducare il pensiero all’esodo dalla cultura classica, dalla concretezza filosofica verso la sudditanza al dato immediato. Il capitale – araldo della liberazione – concede i diritti individuali, purché sottragga il pensiero (Denken), purché il Geist (lo Spirito del mondo-storia) si congeli nella derealizzazione massificante. La disumanizzazione ambisce a necrotizzare la prassi storica per sostituirla con la flessibilità e la dinamicità spaziale. La disumanizzazione si materializza nel nichilismo passivo, il quale è costituito da due movimenti: la superficie è increspata continuamente dal movimento, sotto la superficie non vi è profondità, ma solo irrigidimento anti creativo. Il nuovo nichilismo passivo disumanizza, poiché attrae, come il paese dei balocchi, incanta con i suoi miti, con le sue aspettative, ma non mantiene le promesse. L’umanità esige profondità, pone gerarchie onto-assiologiche per significare il mondo (Welt), altrimenti l’essere umano diviene parte dell’ambiente (Umwelt). La disumanizzazione ha lo scopo di rendere l’essere umano interno all’ambiente-economia di cui è organico partecipante. Il presente lavoro ha l’intento di operare un cambio di prospettive, in modo che si possa scorgere e pensare dietro la cortina dell’inclusione la disumanizzazione dei processi in corso. A tal fine bisogna trascendere il linguaggio orwelliano per seguirlo nelle sue tracce – nessun delitto è perfetto –, per far emergere la derealizzazione a cui è associata la disumanizzazione. Si proclama l’inclusione scolastica, ma in realtà si omologano intelligenza ed indole degli alunni; si afferma la liberazione della donna, ma si persegue la riduzione delle donne ad una tragica copia del maschio liberista; si inneggia alle identità per tradurle in prodotti per il libero mercato. Rispetto all’ultimo uomo descritto da Nietzsche siamo in un orizzonte che il filosofo non aveva immaginato. L’ultimo uomo nietzscheano digrigna i denti, perché non vuole creare, ma solo conservare; l’ultimo uomo del neo-liberismo, non conserva, non ha memoria, è il ricettacolo di appetiti senza memoria. La liberazione dell’ultimo uomo liberista è nella pratica della dimenticanza di sé, della comunità, del mondo. Alain Badiou ha definito la disumanizzazione «materialismo democratico»; ovvero, le differenze sono tollerate fin quando accettano l’uguaglianza giuridica: nessuna gerarchizzazione etica e nessuna nostalgia per l’universale. Se le differenze appaiono nel gioco dell’irrilevanza sono esaltate, quale successo della democrazia sui totalitarismi, ma se osano porre la ricerca della profondità e dell’eterno sono espulse dal gioco democratico:
«Esso è, inoltre, essenzialmente un materialismo democratico, dal momento che il consenso contemporaneo, riconoscendo la pluralità dei linguaggi, ne presuppone l’uguaglianza giuridica. Ragion per cui, alla riduzione dell’umanità all’animalità si aggiunge l’identificazione dell’animale umano con la diversità delle sue sottospecie e con i diritti democratici inerenti a questa diversità. Il suo rovescio progressista questa volta prende in prestito il suo nome da Deleuze: “minoritarismo”. Comunità e culture, colori e pigmenti, religioni e sacerdozi, usi e costumi, sessualità disparate, intimità pubbliche e pubblicità dell’intimo. Tutto, tutte, tutti meritano di essere riconosciuti protetti dalla legge. Tuttavia, il materialismo democratico ammette un punto di arresto globale alla sua multiforme tolleranza. Un linguaggio che non riconosca l’universale uguaglianza giuridica e normativa dei linguaggi non merita di beneficiare di tale uguaglianza. Un linguaggio che pretenda di normare tutti gli altri e di governare tutti i corpi, lo si dirà dittatoriale e totalitario. Ciò che si riscontra non è, allora, la tolleranza, ma un “dovere d’ingerenza”, sul piano legale, internazionale, finanche militare, qualora si renda necessario: si faranno pagare ai corpi i loro eccessi di linguaggio».4
Il materialismo democratico è la pratica della disumanizzazione, la sua trasformazione in dispositivo permanente. La conservazione, con “annesso ritiro dell’essere umano” dalla storia, ha il volto del relativismo e della società liquida. La tolleranza è ammessa fin quando la religione dell’economia nella forma della glebalizzazione planetaria non è mediata da processi di emancipazione. L’effetto sdoppiamento, la deviazione dalla condizione attuale, dev’essere rimossa dall’immaginario teoretico del singolo e collettivo.
Il divertissement relativistico diviene la struttura e la verità della Weltanscauung capitale. Il materialismo democratico tollera le differenze solo se sono gradualità della res extensa: ogni differenza è eguagliata alle altre nella riduzione a pura estensione consumante. Le differenze devono essere solo di ordine quatitativo:
«Quantità, dice Hegel, significa qualità tolta, ovvero indica l’essere reso indifferente alle sue determinazioni. Grandezza significa quantità limitata dal limite qualitativamente indifferente, ripetizione identica di una medesima identità astratta. La matematica è la conoscenza delle relazioni necessarie della grandezza, secondo una necessità puramente tautologica nei suoi gradi più elementari, e secondo la necessità della mediazione sintetica costruita tra diversi elementi di un oggetto quantitativo nei suoi gradi superiori. Essa ha dunque una base obiettiva universale nella logica della quantità, mediante la quale elabora le sue costruzioni. Le scoperte matematiche sono indipendenti dalle contingenze storiche semplicemente perché l’oggetto del lavoro matematico è dato da entità astratte da ogni qualità contingente. La matematica è dunque una scienza. Ma la quantità, nella cui logica essa ha la sua base ontologica, è soltanto una delle sfere logico-ontologiche che il pensiero possiede nella sua interna strutturazione. Essa non può quindi avere in se stessa la misura della propria verità, perché la verità della quantità si compie soltanto nella sua connessione dialettica con tutte le altre sfere della realtà. L’isolamento della sfera logico ontologica della quantità è la ragione per cui la matematica non può fondare se stessa. Negli spazi vuoti delle pure grandezze quantitative tace, scrive Hegel, ogni esigenza che possa ricollegarsi all’individualità vivente: qui sta la mancanza di verità della matematica».5
Il desiderio di segnare una traccia nella storia e nella memoria, al punto da mettere in pericolo la propria vita, è sostituito con l’immediatezza delle pul sioni libere di godere in modo polimorfo. L’animalizzazione è la trasformazione delle differenze a semplice pulsione senza progettualità ed autocoscienza. L’eliminazione dell’autocoscienza, della relazione comunitaria è l’ideale nichilistico del capitalismo assoluto.
Ogni comunità dev’essere sostituita dall’individualismo, dal calcolo soggettivo finalizzato al godimento immediato. Le differenze sono così normalizzate, disciplinate sotto il regno del capitale. Mancando l’autocoscienza e la trascendenza l’essere umano è privato del suo carattere dialettico senza il quale non resta che la sostanza-estensione consumante.
Il capitalismo assoluto ha svelato la verità che la ragione liberale portava in grembo, siamo al punto apicale del nichilismo, e non giunge a noi improvviso, perché è nel fondamento della ragione liberale. Bernard de Mandeville descrive la verità della ragione liberale, essa non ha etica e limite, vive e si espande sull’emulazione dei consumi, non conosce altra legge che il consumo:
«A questa emulazione e a questo continuo sforzo di superarsi a vicenda si deve se dopo tanti cambiamenti di moda, che ne hanno fatte affermare di nuove e riproposte di vecchie, vi è sempre un plus ultra per i più ingegnosi. È questo, o almeno la conseguenza di questo, a dare lavoro ai poveri, a spronare l’industria e a incoraggiare il bravo artigiano a cercare nuovi progressi».6
In Mandeville l’eccesso dei consumi aumenta il benessere generale. Il lusso come motore di benessere, oggi, non ha ragion d’essere. Le tecnologie producono e divorano lavoro, il consumo crolla su se stesso, è introvabile una giustificazione razionale del consumo illimitato come fonte di benessere generalizzato. Non si vuol prendere atto che la ragione liberale, per sopravvivere, ora, non può che essere difesa dai gendarmi mediatici e dal totalitarismo del consumo al punto da minacciare la vita nella sua totalità, pur di far sopravvivere il neo-liberismo. La ragione liberale, con l’economia finanziaria, ha consumato le sue possibilità di espansione. Per sopravvivere deve trasformare la libertà in sregolatezza, deve annientare ogni vincolo etico. È l’anno zero della civiltà. Dopo ogni diluvio si deve rifondare la civiltà ed i suoi fondamenti ontologici senza i quali si vive come fiere nella giungla del mercato globale:
«Ma delle Nazioni di tutto il restante Mondo altrimente dovette andar la bisogna; perocché le razze di Cam, e Giafet dovettero disperdersi per la gran Selva di questa Terra con un’error ferino di dugento anni, e così raminghi e soli dovettero produrre i figliuoli con una ferina educazione nudi d’ogni umano costume, e privi d’ogni umana favella, e sì in uno stato di bruti animali: e tanto tempo appunto vi bisognò correre, che la Terra disseccata dall’umidore dell’Universale diluvio potesse mandar in aria delle esalazioni secche a potervisi ingenerare de’ fulmini, da’ quali gli Uomini storditi, e spaventati si abbandonassero alle false religioni di tanti Giovi, che Varrone giunse a noverarne quaranta, e gli Egizj dicevano il loro Giove Ammone essere lo più antico di tutti; e si diedero ad una spezie di Divinazione d’indovinar l’avvenire da’ tuoni, e da’ fulmini, e da’ voli dell’ aquile, che credevano essere uccelli di Giove».7
1 Aristotele, Protreptico. Esortazione alla filosofia, Utet, Torino 2008, p. 27.
2 Incarnazione della tenebra, del male e del Caos (Isfet, Asfet nella lingua egizia) e antitesi della dea Maat, che rappresentava l’ordine e la verità.
3 Acronimo di Yet Another Workflow Language: è un linguaggio per il workflow management.
4 A. Badiou, Logiche dei mondi. Vol. II, L’essere e l’evento, Mimesis, Milano 2019, p. 56.
5 M. Bontempelli, Il pregiudizio antimetafisico della scienza contemporanea, Petite Plaisance, Pistoia 2006, pp. 5-6.
6 B. de Mandeville, La favola delle api, Laterza, Bari 1987, p. 84.
7 G. Vico, La scienza Nova, Edizione Centro di Umanistica Digitale dell’ISPF-CNR, progetto ISPF “Biblioteca vichiana”, 2007, p. 44.
N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo:
Rodolfo Mondolfo non è “nato” come specialista di filosofia greca, ma come storico della filosofia moderna e autorevole intellettuale marxista. A un certo punto della sua vita, però, quando egli godeva già di un ragguardevole prestigio sia per le molte pubblicazioni che per la cattedra di Storia della Filosofia all’Università di Bologna, la filosofia antica è per così dire esplosa in lui, fino a diventare ben presto l’occupazione principale della sua vita, un elemento costitutivo della sua (nuova) identità culturale e la fonte di un vasto prestigio internazionale.
Il lato insospettato della personalità di Mondolfo
Non sono più tanto pochi gli studiosi di “antica” ai quali sfugge che Rodolfo Mondolfo non è “nato” come storico della filosofia greca e non in questa veste ha fatto una brillante carriera nel sistema universitario italiano. Infatti la filosofia antica ha fatto irruzione nella sua vita quando egli era già prossimo ai cinquant’anni[1] ed era insediato nell’Università di Bologna quale autorevole professore di Storia della filosofia, con al suo attivo tanti studi su autori come Cartesio, Malebranche, Spinoza, Hobbes, Condillac, Romagnosi, Helvétius, Rousseau e Montesquieu, poi Beccaria, Feuerbach, Lassalle, Marx, Engels, Giordano Bruno, Acri, Fiorentino, Ardigò.[2] All’epoca il suo profilo di intellettuale era d’altronde non meno fortemente caratterizzato sotto il profilo politico-ideologico quale esponente del Partito Socialista e quale opinionista impegnato a marcare le distanze dal leninismo a favore di una concezione “umanistica” del marxismo inteso come filosofia della libertà, e nel quadro di una prospettiva riformistica della lotta politica[3] che alimenterà le ripetute critiche di Gramsci. Almeno fin verso il 1925 nulla dunque permise di sospettare in lui l’esistenza di un altro grande amore, e tanto meno il possesso di competenze eminenti in un ambito così lontano dai suoi interessi dichiarati. La figura di Mondolfo quale non meno autorevole specialista di filosofia antica è emersa pressoché all’improvviso nel corso degli anni Venti, ed ha costituito un evento più unico che raro.
A questo riguardo dobbiamo oltretutto registrare la penuria di memorie o testimonianze che aiutino a capire le ragioni di una simile svolta: ragioni che possiamo certamente immaginare e congetturare, ma sul conto delle quali chi poteva sapere non ha scritto. Sorprende, in particolare, che Eugenio Garin abbia parlato a più riprese del Mondolfo nelle sue famose Cronache della filosofia italiana, ma solo per collocarlo all’inizio tra i positivisti e poi tra i marxisti, non anche per registrare l’ulteriore grande virata che ben presto fece di lui un autorevole specialista di filosofia antica. Eppure, quando nell’immediato dopoguerra il Garin mise mano a queste sue cronache, la celebrità del Mondolfo antichista era già abbondantemente prevalsa sulla sua notorietà quale “modernista”. A ciò si aggiunga che il Garin non poteva non essere informato sul conto del “nuovo” Mondolfo, visto che il suo primo grande libro di filosofia antica – Storia della filosofia esposta con testi scelti dalle fonti da R. Mondolfo, E. P. Lamanna e L. Limentani, Volume I, Il pensiero antico. Storia della filosofia greco-romana, Milano-Genova-Roma-Napoli, Dante Alighieri, 1928: un volume di 600 pp. – nacque come parte di un programma editoriale nel quale era coinvolto anche Ludovico Limentani, maestro e mentore del giovane Garin all’Università di Firenze. Ora Limentani non solo accettò di associare il proprio nome a quello di Mondolfo quale previsto autore del terzo volume della serie – cosa già di per sé non priva di risvolti interessanti, visto che con ciò egli si faceva carico di esporre proprio quella filosofia moderna al cui studio Mondolfo aveva dedicato gran parte dei suoi scritti, e di lasciare al collega l’onere di pubblicare un volume su temi che, almeno in teoria, sarebbero dovuti risultare poco familiari all’uno non meno che all’altro – ma si accinse immediatamente a predisporre quel terzo volume, che infatti è uscito nel 1930 (dunque a breve distanza) col titolo: Il Pensiero Moderno. Storia della filosofia da R. Descartes a H. Spencer.[4]
Questo volume – leggiamo nella Prefazione – segue direttamente, nell’ordine cronologico della pubblicazione, l’antologia del Pensiero Antico, curata da Rodolfo Mondolfo, ed ha comuni con essa il programma e l’intento, pur con le variazioni richieste dalle caratteristiche peculiari, che differenziano la speculazione moderna dall’antica.
Sorprende dunque che il Garin, pur essendo senza dubbio a conoscenza della grande svolta che, come vedremo, ha segnato profondissimamente il profilo scientifico e la vicenda personale del Mondolfo, l’abbia passata del tutto sotto silenzio malgrado la sua evidente rilevanza e la sua stessa attitudine a fare notizia.[5] Analogamente sorprende che ne taccia anche lo Sciacca nelle pur numerose pagine da lui dedicate ai filosofi italiani della prima metà del XX secolo. Era appunto pensando a questi silenzi che ho accennato alla necessità di tracciare una storia solo congetturale della grande svolta.
A queste prime considerazioni è peraltro appropriato aggiungere che la singolare operosità del Mondolfo fino a un’età veneranda ha contribuito non poco a fare di lui una sorta di Giano bifronte, con una nitida caratterizzazione “modernistica” per il periodo 1900-1930, e un non meno nitida caratterizzazione “antichistica” per il successivo mezzo secolo anche se, nel secondo periodo, egli non mancò di ritornare di tanto in tanto sui temi che avevano polarizzato la sua attenzione nella fase “modernistica” della sua carriera. Quale poté essere dunque il senso, e quali le ragioni, di una così spettacolare virata, che oltretutto è unica nel suo genere? Tale è, in ultima analisi, il quesito attorno al quale ruoteranno queste note.
Cambiar mestiere a cinquant’anni
Sempre in relazione all’uscita del Pensiero Antico ricorderò che, oltre al Pensiero Moderno di Limentani, era prevista l’uscita di un analogo Pensiero medievale (inizialmente affidato alle cure di E. Paolo Lamanna, poi annunciato come opera di Bruno Nardi) che non vide mai la luce. Di maggior interesse è però un’altra notizia: contemporaneamente all’uscita del Pensiero Antico il Mondolfo pubblicò, sempre nel 1928, anche una Sintesi storica del pensiero antico, breve testo di appena 80 pagine che venne in seguito incorporato nel Pensiero Antico come suo naturale complemento. Con l’uscita di queste due opere, pensate per formare un tutt’uno, il Mondolfo si trovò dunque a proporsi come specialista in un ambito che, all’epoca, sarebbe stato lecito giudicare non suo. Se infatti andiamo a sfogliare un libretto raro in Italia, il vol. 11 della collana “Grandes italo-argentinos” della Dante Alighieri di Buenos Aires (che si intitola Rodolfo Mondolfo, maestro insigne de filosofía y humanidad, ed è apparso nel 1992),[6] e consultiamo la “Bibliografía completa de los escritos de R. M.” (ben 465 titoli pubblicati tra il 1899 e il 1975), notiamo che il primo scritto di carattere antichistico – un articolo del 1925 sulla “negazione della realtà dello spazio in Zenone di Elea” – costituisce il titolo n° 137 della serie ed arriva a ben ventisei anni di distanza dal primo scritto mondolfiano, “L’eredità in T. Tasso”. Sempre nel 1925 uscì un articoletto sul tema “Veritas filia temporis in Aristotele”, mentre un secondo articolo su Zenone apparve nello stesso anno del Pensiero Antico, e nel repertorio bibliografico argentino figura come pubblicazione n° 152. La sproporzione (tre articoli sperduti in una messe di centocinquanta altri lavori a stampa) può solo far pensare a un interesse marginale ed episodico per questi autori di un’altra epoca. Del resto gli stessi due volumi coordinati del 1928 uscirono contemporaneamente a Der Faschismus in Italien (contributo al volume Internationaler Faschismus, Karlsruhe 1928, che l’autore firmò con uno pseudonimo), ad un altro articolo sugli inizi del movimento operaio in Italia fino al 1872 e sul conflitto Mazzini-Bakunin, apparso anch’esso in Germania, ed a svariati altri articoli su Fiche, Ardigò, Romagnosi, Nietzsche e la filosofia del Rinascimento. La disomogeneità non potrebbe essere più evidente e tale, ripeto, da rendere insospettato l’affiorare di una competenza tanto lontana da quelle di cui l’autore aveva dato prova nei precedenti venticinque anni ma, con ogni evidenza, effettiva.
Un pregevole e informato profilo, dovuto a Giacomo Marramao,[7] ci dice qualcosa di più. Il Marramao ricorda che, dopo la Marcia su Roma, Mondolfo continuò a dirigere la «Biblioteca di studi sociali» presso l’editore Cappelli, accogliendo in essa opere di Turati, Salvemini e Gobetti, nonché la III edizione del suo Sulle orme di Marx (1919, 1920, 1923).
Ma nel 1926 queste pubblicazioni non potevano più circolare. La stessa Critica sociale era soppressa. Il libro di Gobetti veniva, per esplicito ordine delle autorità fasciste, fatto ritirare dalla circolazione e passato al macero. […] Dopo la cessazione forzata della «Biblioteca», M. continuò a curare, sempre presso Cappelli, una «Collana di testi filosofici e pedagogici» nella quale apparvero le Opere di Rousseau e nel 1925, ad un anno dall’assassinio di G. Matteotti, il famoso libro di C. Beccaria, Dei delitti e delle pene. Benché si volgesse ormai sempre più allo studio della filosofia antica (nel cui campo produrrà contributi di eccezionale valore e rilievo storiografico) M. continuò a servirsi di sedi accademiche per stampare lavori di contenuto storico-politico, come la rassegna sul libro di N. Rosselli, Mazzini e Bakunin (in Nuova Rivista Storica, 1930), il saggio Germi in Bruno, Bacone e Spinoza del concetto marxistico della storia, l’ampia nota sull’edizione critica delle opere complete di Marx e Engels curata da Rjazanov e Adoratskij, e la recensione alla biografia di Engels scritta da G. Mayer (pubblicati su Civiltà moderna, rispettivamente nel 1930, 1931 e nel 1934). Ma il lavoro con cui M. poté esercitare, in pieno regime fascista, una vasta influenza sulla formazione culturale e politica dei giovani che più tardi passarono alla milizia antifascista, fu costituito dalla collaborazione all’Enciclopedia Italiana, per la quale scrisse (su diretta commissione di G. Gentile) le voci «Giordano Bruno», «Comunismo», «Filone di Alessandria», «C. A. Helvétius» (1930); «Antonio Labriola», «Internazionale e internazionalismo» (1932); «Materialismo storico» (1933); «Movimento operaio» (1934); «Sindacalismo», «Socialismo», «Scienza» (1935); «Unità», «Universo» (1937).[8]
Come si vede, la grande svolta ha il potere di compensare l’emergere di impedimenti di sostanza allo sviluppo della sua attività di filosofo militante: il nuovo filone di scritti da un lato trova un sicuro approdo editoriale e dall’altro concorre ad aprire all’autore le ambite porte dell’Enciclopedia Italiana, dove il Mondolfo ha modo di pubblicare sia alcune voci attinenti alla filosofia antica, sia svariate voci attinenti alla filosofia moderna, incluse alcune che, in teoria, sarebbero potute risultare ideologicamente pericolose.
Tutto ciò potrebbe far pensare a una forma di prudenza del Mondolfo che, di fronte all’avvenuta affermazione di un regime politico sfavorevole e piuttosto intollerante, semplicemente ha la buona idea di riciclarsi in un altro ambito, e precisamente in uno che, dal punto di vista ideologico, sarebbe passato facilmente per neutrale.
Ma un altro aspetto della storia richiede di essere chiamato in causa: l’alta, altissima professionalità di questa storia fatta al 90% con testi greci e latini appositamente tradotti e “cuciti” insieme. Ce ne rendiamo conto se diamo uno sguardo a ciò che di specifico era disponibile all’epoca. In italiano due volumi importanti erano stati pubblicati appena dodici-tredici anni prima. Si tratta del primo volume di una Storia generale del pensiero scientifico di Aldo Mieli (Le scuole ionica pythagorica ed eleata, apparso nel 1916) e del primo volume della Storia della Filosofia di Guido De Ruggiero (Bari 1917). Nel frattempo altre grandi storie della filosofia antica erano state pubblicate in Germania (quelle di Zeller, Überweg, Gomperz, Jöel), mentre il solo tentativo di ripercorrere quella medesima storia con i testi antichi risaliva, nientemeno, al 1838[9] ed era in latino (Historia philosophiae greco-romanae e fontium loci contexta di H. Ritter e L. Preller).
Rispetto a queste opere, tutte percepite come prestigiose, quella di Mondolfo si è caratterizzata in primo luogo come un contributo non meno professionale, tale dunque da evidenziare una mano non meno sicura, come se l’autore avesse potuto vantare una analoga consuetudine di lungo corso con gli autori antichi e, in misura non minore, con le premesse filologiche osservate nel trattamento delle fonti. Infatti l’opera presenta, debitamente selezionate, raccordate e appositamente tradotte dal greco o dal latino (quanto alla traduzione, Mondolfo ha cura di precisare che «solo in rarissime eccezioni, scrupolosamente indicate» si è avvalso di traduzioni altrui), alcune migliaia di unità testuali incastonate in una struttura di raccordo decisamente scarna che lascia ai testi d’autore un buon 90% dello spazio complessivo, ma che evidenzia una non comune funzionalità: veramente titoletti ed altri testi ottengono di inquadrare e dare un senso abbastanza preciso a ciò che questa struttura di volta in volta incastona.
Risalta insomma, e con ogni evidenza, che sin dall’inizio questo “modernista” si ritrova ad operare anche da consumato antichista e da grande storico della filosofia antica. Devo aggiungere che ciò è oltremodo raro? Devo ricordare le riserve degli antichisti nei confronti di famosi affondi filologici di Heidegger e, in anni a noi più vicini, dello stesso Giorgio Colli? Dovette essere proprio l’immediata, intuitiva e ben poco controversa impressione di sicura professionalità dell’opera ad accreditare da subito l’autore come specialista dotato di indubbia competenza. Va detto infatti che il maestro senigalliese si è accreditato con quest’opera, non con altro!
L’opera permette dunque al lettore colto di accedere a una impressionante quantità di testi spesso noti solo di seconda mano perché non tradotti o così tecnici da risultare accessibili solo a un manipolo di iper-specialisti. Ricordo, con l’occasione, che nelle grandi storie della filosofia antica allora in circolazione, da quelle relativamente brevi di Robin e De Ruggiero a quelle di grandi proporzioni redatte da Zeller, Gomperz e altri, i testi antichi erano praticamente assenti: al loro posto c’erano, di norma, unicamente le note contenenti le indicazioni (ma si potrebbe quasi dire: le istruzioni) per rintracciare i singoli testi pertinenti e andarseli a leggere – peraltro in un contesto in cui molti testi non erano disponibili anche in traduzione e non pochi erano addirittura rari e difficili da reperire. Da qui la specialissima utilità che rendeva l’opera una risorsa indispensabile per chiunque avesse a che fare con Platone, Aristotele, gli Stoici o i Presocratici.
Ma non è tutto. Sarebbe riduttivo trattare la “storia attraverso i testi” posta in essere con questo libro semplicemente come opera di uno studioso competente. Il volume, infatti, offre al lettore informato ben altro che la traduzione italiana del materiale a suo tempo confluito nel Ritter-Preller. Oltre a generali e ricorrenti asimmetrie, infatti, la nuova opera presenta intere sezioni creativamente innovative (per esempio quella sulle scuole socratiche minori). La mano dello studioso che indaga e si guarda bene dal limitarsi a riciclare informazioni già disponibili si vede peraltro molto bene anche a giudicare dalla articolata e competente bibliografia che figura a fine volume. Né questo è tutto, perché si deve ancora ricordare che l’insieme è inequivocabilmente pensato per fornire un orientamento, per cui titoletti, sottotitoli e brevi testi di inquadramento e commento permettono ogni volta di dare un senso non approssimativo al singolo testo o gruppo di testi. In questo modo viene pur sempre “raccontata” (anzi, più propriamente “mostrata”) la filosofia dei greci tappa per tappa, analiticamente. Ripeto poi che un patrimonio di testi d’autore e di evidenze testuali dirette così ricco, così coerente e così “leggibile” non si era mai visto, e non solo in Italia.
La pubblicazione di quelle seicento pagine testimonia pertanto di una mobilitazione enorme di energie intellettuali in direzione antichistica. Con Il pensiero antico Mondolfo ha fatto centro ed ha sorpreso o strabiliato tanto chi lo conosceva già (ma quale apprezzato “modernista”) quanto chi non aveva idea delle sue non comuni competenze di settore. Dobbiamo evidentemente immaginare anche un notevole successo editoriale, superiore a quanto le recensioni d’epoca lasciano sospettare.
Che dunque la comunità scientifica abbia potuto scoprire l’esistenza di un Mondolfo autorevole storico della filosofia antica solo a distanza di trent’anni dalla pubblicazione del suo primo articolo è soltanto un effetto dovuto all’assenza di adeguati prodromi. A sua volta, che la strozzatura rappresentata da un regime fascista solidamente installato al potere possa aver avuto un ruolo nell’indurre l’autore a valorizzare questa sua competenza collaterale più ancora di quella primaria è cosa possibile e comprensibile. La cosa strana è dunque un’altra: che l’autore abbia potuto tenere rigorosamente per sé, e tanto a lungo, una specializzazione che doveva aver cominciato a coltivare ben per tempo, che doveva pur amare, e che per un “modernista” poteva ben valere come un cospicuo fattore di eccellenza a titolo di competenza complementare. Oltretutto, a giustificazione di questo improvviso exploit, non si può invocare nemmeno una ipotetica volontà di emulare le gesta di Guido Calogero, perché nel 1927, quando questi pubblicò I fondamenti della logica aristotelica e, comprensibilmente, era ancora sconosciuto ai più avendo appena ventitré anni, Mondolfo aveva già messo mano al Pensiero antico.
Il consolidamento della specializzazione antichistica
Dopo questo libro, Mondolfo ha immediatamente deciso di allungare ancora di più il passo. Se con Il pensiero antico egli aveva perlustrato alla grande le fonti antiche, con la nuova impresa editoriale cui mise mano subito dopo egli si propose di “regolare i conti” con l’intera letteratura specialistica. Egli intraprese infatti la traduzione italiana delle oltre 5300 fitte pagine di quella Philosophie der Griechen in ihrer geschichtlichen Entwicklung di Eduard Zeller la cui pubblicazione era iniziata a Tubinga nel 1845, per poi protrarsi, in una lunga serie di nuove edizioni, fino alla settima del 1921-23, opera cui veniva unanimemente riconosciuto lo status di summa eminente della disciplina, con il non meno ambizioso proposito di metter mano a una edizione che lui stesso avrebbe minuziosamente aggiornato. Ed ecco che la Philosophie der Griechen di Zeller diventa, sin dal primo volume, lo “Zeller-Mondolfo”, opera che manifestamente attribuisce al curatore italiano lo status di co-autore, e dunque di nuovo e non meno autorevole maestro, meritevole di associare il proprio nome a quello di un insuperato connoisseur d’altri tempi.
Quale la strategia di La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico di Zeller e Mondolfo, pubblicata dalla Nuova Italia di Firenze a partire dal 1932? La risposta è una sola: una buona traduzione, opportunamente riorganizzata in modo da permettere un ragionevole “primato dei bianchi sui neri” (specchio di scrittura un po’ più piccolo, corpo dei caratteri e interlinea maggiorati, quindi fabbisogno di un maggior numero di pagine e scomposizione dell’opera in un numero molto maggiore di più maneggevoli volumi, tali da diventare, di fatto, altrettante monografie), e una serie di generosi aggiornamenti collocati a piè di pagina sotto forma di lunghe note poste tra parentesi quadre e, solitamente, corredate di titolo e sottotitoli.
Nel redigere queste note il Mondolfo si attribuì il compito di passare in rassegna molti decenni di letteratura specialistica, non soltanto allo scopo di documentare la varietà delle opinioni emesse, ma anche col proposito di consentire uno sguardo sinottico sulle interpretazioni, sulle ragioni di ognuna e sul diverso grado di attendibilità di ognuna. Alla prudenza esegetica era peraltro affidato il compito di non far troppo pesare le personali propensioni interpretative del Mondolfo. Se dunque lo Zeller si era speso per tener conto della letteratura critica, ma soprattutto per esplorare analiticamente la pressoché infinita serie delle fonti antiche, il Mondolfo individuava il suo compito peculiare (e complementare) nel proporre una esplorazione assolutamente sistematica della più accreditata letteratura specialistica, non senza spaziare tra molte aree linguistiche. Il risultato doveva essere (e cominciò ad essere) un’opera praticamente insostituibile perché tale da offrire quanto nessun’altra opera comparabile aveva mai offerto, e tale in effetti fu, solo che i tempi cominciarono ben presto ad allungarsi in maniera più che preoccupante. Se infatti il primo volume uscì nel 1932, ma ebbe ad oggetto solo il capitolo introduttivo del primo volume, Origini, caratteri e periodi della filosofia greca, ossia una serie di pur sempre importanti généralités, per l’uscita del secondo volume, riservato ai soli Ionici e Pitagorici, si dovette attendere il 1938, il che, data la notoria prolificità dell’autore, poté ben considerarsi un tempo immenso.
Ricordo che il 1938 è stato anche l’anno in cui Mondolfo, di fronte ai condizionamenti indotti dal fascismo e da un antisemitismo che andava acquistando crescente rilevanza sociale, decise di lasciare l’Italia e di provare a crearsi un nuovo avvenire in Argentina. Rimane che la realizzazione a tappe dello “Zeller-Mondolfo” ha accompagnato la vita del maestro senigalliese per quasi mezzo secolo, magari sempre meno in veste di autore e sempre più in veste di coordinatore dell’impresa editoriale, con la costante ricerca di sempre nuovi collaboratori in grado di portare avanti l’impegnativo progetto senza snaturarlo, ricerca che, dati i tempi, si configurò come vasto flusso di lettere dall’Argentina.
Dopo i primi due, il Mondolfo pervenne a redigere personalmente il IV volume della prima parte, dedicato a Eraclito e pubblicato nel 1961. Il volume uscì contemporaneamente al primo dei volumi affidati ad altri collaboratori: il VI della Parte III dell’opera, dedicato a Giamblico e la scuola di Atene e curato da Giuseppe Martano. Fu poi la volta, nel 1966, del vol. VI della parte II, Aristotele e i Peripatetici più antichi, a cura di Armando Plebe; nel 1967, del vol. III della parte I sugli Eleati, a cura di Giovanni Reale (con aggiornamenti di prim’ordine) e, nel 1969, del vol. V della parte I su Empedocle, Atomisti, Anassagora, a cura di Antonio Capizzi (con una offerta di aggiornamenti decisamente più esigua). Negli anni Settanta si è registrata infine la pubblicazione del vol. III (1-2) della parte II, Platone e l’Accademia antica, a cura di Margherita Isnardi Parente (1974) e del vol. IV della parte III, I precursori del Neoplatonismo, a cura di Raffaello Del Re (1979). Si sa che nel frattempo l’invito aveva raggiunto anche altri studiosi come Gabriele Giannantoni ed Enrico Berti, i quali però non pervennero alla pubblicazione della sezione loro assegnata (o, forse, declinarono l’invito). In totale, la benemerita editrice toscana pubblicò otto sostanziosi e ben curati volumi, che complessivamente coprono quasi la metà dell’intero programma editoriale, e che hanno certamente contribuito non poco a consolidare la fama del Mondolfo come specialista di prim’ordine. Ricordiamo inoltre che nel caso di più d’uno di questi volumi il Mondolfo curò personalmente la traduzione dal tedesco e che nel 1972 lo studioso, ormai vegliardo, pervenne a pubblicare, con la collaborazione di Leonardo Tarán (suo antico allievo, divenuto poi autorevole professore alla Columbia University di New York), anche un cospicuo Eraclito,Testimonianze e imitazioni (volume uscito, al pari di molti altri, presso La Nuova Italia).
Dopo aver doverosamente reso conto della vasta “filiazione” che accompagnò per più di quattro decenni la seconda grande iniziativa scientifica ed editoriale di stampo antichistico intrapresa dal nostro autore subito dopo l’uscita del Pensiero antico, ritorniamo ora agli anni Trenta, e più precisamente agli anni stessi anni in cui iniziarono le pubblicazioni dello “Zeller-Mondolfo”.
Tra il 1931 e il 1933 il nostro autore pubblicò anche nove articoli dedicati ad aspetti diversi del modo greco di rappresentarsi l’infinito, articoli che evidentemente preludevano a un’opera d’insieme. L’intero di cui quei nove articoli erano mere anticipazioni vide in effetti la luce, sempre presso La Nuova Italia, subito dopo: nel 1934. L’infinito nel pensiero dei Greci, altra opera di grande impegno e di sicura professionalità, risultò dedicato al tentativo di smantellare (letteralmente smantellare) la diffusa convinzione secondo cui i Greci (in particolare i filosofi greci) avrebbero espresso una generale attitudine a rappresentarsi l’infinitezza e l’indeterminazione con connotazioni rigorosamente negative.
Perviene, con ciò, a delinearsi una sorta di imponente trilogia, costituita appunto dal Pensiero antico combinato con la Sintesi storica (1928), dal primo tomo dello “Zeller-Mondolfo” (1932-) e dall’Infinito (1934). Converrà ribadire che è la penuria e scarsa consistenza delle pubblicazioni antichistiche anteriori al 1928, a fronte peraltro di un più che cospicuo flusso di studi sulla filosofia moderna e contemporanea che durava già da più di un quarto di secolo, a far risaltare la portata e l’unicità di questo evento complessivo.
Gli anni immediatamente successivi (fino al 1938, anno di pubblicazione del secondo tomo dello “Zeller-Mondolfo”: oltre 700 pp.) sono occupati non soltanto da una lunga serie di articoli che vertono sugli autori sui quali riferire nel volume in preparazione e da altri che si rifanno alle tematiche dell’infinito, ma anche dall’uscita di altri due volumi: i Problemi del pensiero antico (1936) e un Feuerbach y Marx apparso a Buenos Aires nello stesso 1936 (e fondato su Sulle orme di Marx, Bologna 1919, 19202, 19233). Il senso di questi titoli è chiaro: consolidare ulteriormente la propria caratterizzazione come studioso di filosofia antica senza per questo sconfessare l’attività “modernistica” e anzi ricercare una sponda all’estero: per l’appunto in Argentina.
La migrazione in Argentina e i mitici anni Quaranta-Cinquanta
Appare desiderabile, a questo punto, prendere in considerazione un arco di tempo di circa dieci anni, dal periodo immediatamente successivo alla migrazione fin verso il 1950, epoca in cui il Mondolfo si avvicinava già ai 75 anni, perché si tratta di un periodo di incredibile fertilità dello studioso inizialmente impegnato a ritagliarsi uno spazio congruo nella patria di elezione, che oltretutto era rimasta fortunosamente estranea al secondo conflitto mondiale, mentre manteneva desti in vario modo i legami con la madrepatria (che, a sua volta, visse il travaglio di una radicale mutazione della propria identità politico-istituzionale e civile) e con la comunità scientifica internazionale. Furono, questi, gli anni in cui il nostro autore poté dare alle stampe, nella sola Argentina, ben quindici libri, con leggera prevalenza delle opere dedicate a temi di filosofia moderna e contemporanea su quelle dedicate a temi di filosofia antica. Va detto inoltre che, a partire dal 1946, ricominciò il flusso delle ristampe e nuove edizioni di suoi libri in italiano, inclusa la IV edizione di Sulle orme di Marx e qualche testo scolastico (Descartes, Rousseau) con traduzione, introduzione e note.
Il senso di questa impressionante operosità non lascia adito a dubbi: ora che l’autore si è abbondantemente accreditato anche come antichista, data anche la maggiore apertura del mondo argentino a temi diversi di storia della filosofia, egli non poteva non desiderare di riproporre almeno alcuni dei suoi libri, sia del primo che del secondo tipo. Questo atteggiamento trova riscontro anche nel flusso parallelo di articoli, che non vertono solo sulla filosofia antica. Del resto anche nel corso degli anni Cinquanta, malgrado l’incombere dell’età, assistiamo all’uscita di una ulteriore ventina di volumi, tra ristampe, edizioni ampliate e traduzioni in italiano o in spagnolo. Di nuovo, il mero dato quantitativo è tale da imporsi alla nostra attenzione: tra il 1940 e il 1960 Mondolfo pubblicò qualcosa come 40-45 libri[10] e un buon centinaio di altri lavori.
Ovviamente, nell’economia di queste note non sarebbe pertinente fornire un elenco, se non per quanto riguarda il versante antichistico. Ricorderò dunque il Sócrates del 1941 (ripubblicato con ulteriori apporti nel 1955), il Moralistas griegos del 1941 (in italiano nel 1960); la nuova edizione del Pensiero antico in spagnolo (1945), poi in italiano (1950; 1961; 1967), quindi in portoghese (1964); Problemi e metodi di ricerca nella storia della filosofia (Milano 1952); la traduzione spagnola dell’Infinito nel pensiero dell’antichità classica (non più dei soli greci: 1952; in italiano nel 1956) e soprattutto l’imponente Comprensión del suyeto humano en la cultura antigua (1955; poi Firenze 1956). Ricordiamo che nel 1955 il Mondolfo era già prossimo agli ottanta anni e che una delle sue opere più importanti e di più durevole memoria perché opera competente e professionale – il già ricordato Eraclito, Testimonianze e imitazioni – pervenne ad essere pubblicata solo ancora più tardi, nel 1972, quando l’autore si apprestava a festeggiare i suoi 95 anni.[11]
Osserviamo inoltre, a conclusione della retrospettiva, che l’immenso flusso di opere risalenti alla fase argentina della vita di Mondolfo appare connotata non soltanto dall’ormai acquisito primato degli studi di filosofia greca sugli altri temi, ma anche da un vasto recupero dei lavori pubblicati prima di mettersi alla prova anche come antichista, dunque lavori sulla filosofia moderna e contemporanea che allargano il quadro, documentano la vastità e ricchezza degli orizzonti, lasciano intravedere una concezione organica della tradizione filosofica occidentale in cui tanto gli uni quanto gli altri studi possono ben trovare la loro legittimazione.
Appare nondimeno significativo che i due ambiti non danno luogo a nessuna tentazione di raccordare ciò che inizialmente era – o poté sembrare – irrelato e giustapposto. La giustapposizione è rimasta, ed è significativo che qualche connessione ha preso forma, semmai, in Problemi e metodi di ricerca nella storia della filosofia, vale a dire in un testo anch’esso professionale che si propone di fornire criteri ed esempi di come si procede a fare storia della filosofia in genere, e che permette all’autore di aprire di tanto in tanto una finestra sui procedimenti che entrano in gioco quando il filosofo non è così antico come quelli da lui tanto a lungo prediletti. Il che equivale a ribadire il sacrosanto rispetto dell’autore per la specificità degli studi nei singoli settori, con connessa disponibilità ad accettare di presentarsi come una sorta di Giano bifronte.
Mondolfo apripista per gli italiani e gli argentini
Che altro aggiungere? Con quanto si è riferito fin qui, non ha già preso forma un encomio eloquente e certamente più che meritato, ma proprio per questo anche un po’ scontato e prevedibile?
Mi permetto di affermare che le cose non stanno in questo modo. Il dato quantitativo, pur così imponente, richiede che siano evocati e immessi in circolo anche altri dati, perché altrimenti non si perverrebbe nemmeno a sospettare l’ulteriore valore aggiunto di cui si è fatta portatrice questa produzione così esemplarmente disciplinata sotto il profilo del rispetto per la specificità di singoli ambiti di ricerca. Il valore aggiunto di cui ora vorrò brevemente far cenno attiene alla fama in un senso, di nuovo, raro, rarissimo. Sappiamo che la comunità accademica di tanto in tanto esprime maestri che riempiono gli scaffali dei loro libri e si circondano di allievi, dando luogo a una diffusione vasta o vastissima dei loro scritti e a sempre nuove Festschriften, ma anche a fenomeni di saturazione, per cui accade talvolta che il decesso del grande maestro si traduca in un improvviso, irreversibile abbassamento della curva di attenzione diffusa per le sue opere. Orbene, Mondolfo non poté vantare un nugolo di allievi, né una vasta discendenza accademica. Al contrario, la sua collocazione nel sistema universitario argentino fu e rimase decisamente marginale, né ebbe luogo un flusso importante di riconoscimenti dell’ultima ora, anche se sono disponibili evidenze certe relative ad una non grande serie di iniziative congrue che furono assunte in Argentina come presso l’Università di Bologna e nella nativa Senigallia. Il rispetto e la considerazione furono semmai di sostanza.
Ed è in questa cornice che viene fuori una cosa importante sempre nel campo della filosofia antica. Comincerò col ricordare che, se Rossica non leguntur, anche Italica necnon Hispanica modice leguntur. Che la comunità scientifica internazionale fosse tradizionalmente ferma a tre sole lingue internazionali – il tedesco, l’inglese e il francese – è cosa arcinota. Ora il Mondolfo ha pubblicato appena qualche articolo in tedesco e in inglese, mentre solo pochi suoi libri in spagnolo vennero pubblicati in altri paesi terzi, come il Messico e il Venezuela, e solo poche cose vennero tradotte in portoghese per iniziativa di case editrici brasiliane. Ciò avrebbe potuto far pensare a un ostacolo linguistico di rilievo ai fini della circolazione della sua opera. In realtà è accaduto esattamente il contrario. Mondolfo ha contribuito come pochi ad imporre l’uso dell’italiano e dello spagnolo nel campo della filosofia antica. Agli occhi della comunità scientifica internazionale – e, se non altro per limiti nelle mie conoscenze, in questo caso confesserò volentieri di fare riferimento alla sola area antichistica – fu semplicemente necessario accedere alle sue opere più marcatamente specialistiche indipendentemente dalla lingua in cui venivano scritte.[12]
Il risultato è stato un processo di sempre meno episodica attenzione degli specialisti di filosofia antica tanto alla produzione in lingua italiana quanto alla produzione in lingua spagnola che, naturalmente, si è nutrito anche dell’operosità scientifica di interi gruppi di altri studiosi formatisi in maniera sostanzialmente indipendente dal Mondolfo. Sembra appropriato fare dei nomi, sia pure con il rischio di incorrere in peccati di omissione sempre spiacevoli.
Per quanto riguarda l’Argentina, è unanimemente riconosciuta la funzione di volano svolta da Mondolfo, in primo luogo quale fattore eminente di stimolo che invogliò giovani leve a impegnarsi a fondo in questi studi. Sapere che un argentino (un argentino acquisito, uno dei tantissimi argentini di origine italiana) era un maestro ed era trattato come tale dalla comunità scientifica internazionale, ha contribuito non poco nell’indurre più d’uno a proporsi di tener alta la bandiera. Come non molti sanno, un ruolo particolarmente importante in questo campo è stato giocato da Conrado Eggers Lan (1927-1996), che è stato professore della disciplina nell’Università di Buenos Aires, ha fortemente contribuito a tessere legami con la comunità scientifica internazionale, ha formato allievi, ha diretto e in parte realizzato i tre tomi di Los filosófos presocráticos con l’editrice madrilena Gredos, ha fondato Méthexis. Revista argentina de filosofía antigua (un periodico che non a caso ha ora una redazione in Cile e si pubblica in Germania, accogliendo contributi di frequente provenienza europea, oltre che latinoamericana), ed è stato tra gli animatori della International Plato Society fondata, se posso ricordarlo, a Perugia nel 1989, ma con un precedente importante costituito dal Symposium Platonicum 1986, che proprio Eggers organizzò in Messico (dove pure seppe dar vita a un gruppo di giovani specialisti). Ora Eggers – l’altro nome trainante espresso dall’Argentina nel corso del secolo ventesimo, grande studioso del pitagorismo e di Platone – non fu allievo di Mondolfo, anche se poté conoscerlo, ma fu assiduo lettore delle sue opere e fu tra i primi a rendersi conto del clima di attenzione per la filosofia antica e per gli studi di settore made in Argentina che si era venuto instaurando, clima che, senza la migrazione mondolfiana in quella terra, sarebbe stato semplicemente inimmaginabile.
Orbene, è almeno possibile che un comparabile effetto di rimbalzo sia avvenuto anche in Italia! Si deve considerare, in effetti, che ai tempi di Mondolfo gli studi di filosofia antica in Italia vennero coltivati da un ristretto manipolo di specialisti senza che, tolte poche eccezioni, i loro scritti avessero una diffusione comparabile in altri paesi. Naturalmente dobbiamo considerare l’angustia dei tempi (la guerra, i suoi prodromi e i suoi postumi), e sarebbe azzardato dare del fenomeno una lettura a senso unico. Sta di fatto però che gli anni Sessanta-Settanta fecero registrare una vistosa impennata degli studi in questo campo e una corrispondente impennata dell’attenzione della comunità scientifica internazionale per ciò che si veniva producendo nel nostro paese, con conseguente diffusione dell’idea che lo studioso di filosofia antica non potesse permettersi di ignorare la nostra lingua.
Da qui la domanda: siamo proprio sicuri che ciò non sia anche merito della celebrità raggiunta dal Mondolfo con le sue opere antichistiche? Che egli possa aver svolto funzioni reali come apripista è, come minimo, una eventualità che non si può escludere. Ma direi qualcosa di più, anche se mi rendo conto di avventurarmi, con ciò, in un terreno insidioso nel quale non può esserci posto per le certezze: direi che non c’è paragone tra la diffusa percezione di non poter non tener conto dell’opera del maestro di Senigallia e l’accesso molto più episodico ad una varietà di altri contributi specialistici dovuti ad autori italiani indipendentemente dal valore, talora cospicuo, di singoli contributi. In questo senso è appropriato riconoscere un ruolo nel promuovere gli studi italiani di filosofia antica anche alle note di aggiornamento dello “Zeller-Mondolfo”!
Va detto infine che questa funzione di apripista è legata molto più agli studi di filosofia antica che alla vasta messe di altri studi sulla tradizione filosofica occidentale che pure si devono al medesimo autore. Infatti la sua irruzione nel campo della filosofia antica fu di gran lunga più incisiva e si fece notare molto, molto di più. Emergono, in tal modo, più che solide ragioni per raccomandare che del personaggio si ricordi non solo la sua operosità come “modernista”, la sua inequivoca collocazione tra i marxisti non leninisti, il ruolo da lui svolto come opinionista autorevole o i significativi rapporti intercorsi con Turati, Gramsci e altri leader della sinistra italiana nei primi decenni del secolo, ma anche la grande rilevanza della sua opera come studioso della filosofia antica.[13]
Livio Rossetti
[1] Rodolfo Mondolfo, nato a Senigallia nell’agosto 1877, morì a Buenos Aires nel luglio 1976. [2] Su questi temi il Mondolfo ha pubblicato, tra il 1895 e il 1929, una decina di volumi e quasi trenta articoli. [3] Buona parte degli articoli di impegno politico sono apparsi sulla rivista Critica sociale. [4] Si tratta di un volume di quasi 850 pp. [5] Aggiungiamo che tra le opere del maestro senigalliese figurano due testi scolastici – Descartes, Discorso sul metodo e Descartes, Principi di filosofia – pubblicati da Sansoni nel 1946 e dovuti, per l’appunto, alla collaborazione tra Mondolfo e Garin. [6] Il volumetto (96 pp.) include cinque discorsi di omaggio e commemorazione risalenti ad epoche diverse, e si conclude (pp. 71-94) con una pregevole bibliografia delle opere di Mondolfo. Ricordo che in questi cinque discorsi si parla del Mondolfo pensatore che vive intensamente il suo tempo, senza quasi una parola sul Mondolfo grande specialista di filosofia antica. [7] Si tratta della voce «Mondolfo» di Il movimento operaio italiano: Dizionario biografico 1853-1943, a cura di F. Andreucci e T. Detti (Roma 1975-1979), vol. III, pp. 523-535. [8] Il passo figura alle pp. 531-2 della voce «Mondolfo» ricordata nella nota precedente. [9] Va detto, peraltro, che l’opera giunse alla nona edizione nel 1913, «via via arricchendosi nella serie delle edizioni, curate da vari studiosi» (così lo stesso Mondolfo nella Prefazione a Il pensiero antico). [10] Sorge infatti un dubbio sulla possibilità di porre sullo stesso piano alcune grandi opere e un certo numero di volumetti. [11] Non sarà male far presente che questo titolo non trova posto nella pur eccellente bibliografia mondolfiana del 1992 (di cui alla precedente nota 6), che pure si spinge, con gli ultimi titoli, fino al 1975. [12] Posso forse ricordare, per analogia, che anche Chaïm Perelman scrisse sempre e soltanto in francese, e Martin Heidegger in tedesco. [13] Riconosco, non senza un certo rammarico, di non aver indugiato a sufficienza, in queste note, sul modo in cui Mondolfo ha coltivato gli studi di “antica” e sulle idee di cui si è fatto promotore, ma non si può parlare di tutto, e in questo caso mi premeva fare appunto una sottolineatura storiografica su chi egli sia veramente stato. Sul suo modo di fare storia della filosofia antica si potrà magari ritornare in un’altra occasione.
Saggio già pubblicato in: Piergiorgio Grassi, Antonio Pieretti, Livio Rossetti, Giancarlo Galeazzi, Vittorio Mencucci, Rodolfo Mondolfo 1877-1976, Introduzione cura di Galliano Crinella, Fabriano, AN, Centro Studi Don Giuseppe Riganelli, 2006.
Il 2 ottobre 2018, nell’Aula IV del Dipartimento di Filosofia dell’Università di Roma La Sapienza (Via Carlo Fea, 2 Roma), nell’ambito dell’incontro organizzato per il Dottorato in Filosofia, La novità nella continuità. L’idea di progresso nella concezione della storia di Rodolfo Mondolfo [Sessione I: La ricerca del socialismo e l’interpretazione del marxismo; Sessione II: La “continuità” nella storia. Mondolfo storico della filosofia) – Relatori: Marcello Mustè, Elisabetta Amalfitano, Luca Basile, Francesco Fronterotta, Giovanni Casertano, Livio Rossetti, Coordinatore per il Dottorato di Filosofia Prof. Piergiorgio Donatelli –, Livio Rossetti, dell’Università di Perugia, ha svolto il tema: La novità nella continuità. L’idea di progresso nella concezione della storia di Rodolfo Mondolfo.
Livio Rossetti(1938) è stato professore di filosofia greca all’Università di Perugia per decenni. Nel 1989 ha fondato la Intern. Plato Society a Perugia, nel 2006 ha dato il via agli incontri di Eleatica che si tengono tuttora a un passo dagli scavi di Elea (in pieno Cilento) e nel 2018 ha fondato la Intern. Society for Socratic Studies a Buenos Aires. Tra i suoi studi su Parmenide e Zenone ricordiamo: Un altro Parmenide (2 voll., Bologna 2017) e Una tartaruga irraggiungibile (fumetto, Bologna 2013): nel 2019 questo volumetto è stato pubblicato in spagnolo, a Buenos Aires. Nel 2020 è in pubblicazione La filosofia virtuale di Parmenide Zenone e Melisso.
In epoca moderna il filo-sophós, decadimento del sophós, decade ulteriormente a intellettuale, che non solo ha perduto come il primo ogni contatto con la sfera della sophia, ma anche è diventato incapace di pronunciare una visione del mondo dotata di una profonda radice sapienziale, e si è ridotto a ermeneuta del pensiero precedente o esegeta del costume contemporaneo, attraverso l’esercizio di una ratio ben diversa, per esempio, dal lógos unificante e intuitivo eracliteo.
La sfida che si pone è lavorare per una civiltà della consapevolezza, della pace, della solidarietà e dell’equilibrio ecologico
A. Tonelli
«La conoscenza non coincide con la padronanza filosofica e scientifica del pensiero, o l’accumulo di informazioni corrette intorno alla vita, ma con la stabilizzazione di livelli di coscienza illuminati, attraverso una costante disciplina interiore. I cardini di questa Sapienza che rigenera la vita individuale e quindi collettiva vanno restaurati nella psiche dell’umanità di oggi attraverso un viaggio alle radici della sua cultura, e dunque in direzione delle tradizioni iniziatiche originarie e dello sciamanesimo, che sono la prima manifestazione di spiritualità umana: noi occidentali dobbiamo rivolgere lo sguardo ai Misteri Eleusini, alle iniziazioni orfiche, e a quei pensatori che Platone definiva sophoí, ovvero Sapienti, e che hanno nome Eraclito, Empedocle, Parmenide, Pitagora, ma anche ai grandi maestri della conoscenza tragica (páthei máthos, “patendo conoscere”), Eschilo, Sofocle, Euripide, per non citare che i maggiori tra i Greci. E guardare alle radici della nostra cultura significa anche guardare alla Sapienza d’Oriente, perché anche di essa (oltre che dello sciamanesimo iperboreo e della spiritualità egiziana, persiana e mesopotamica) era pervasa la Sapienza di Pitagora, Eraclito, Parmenide, Empedocle, Democrito e Platone. Questo tragitto “sulle tracce della Sapienza” a cui ho dedicato un omonimo libro [Sulle tracce della Sapienza, Moretti & Vitali, Bergamo 2009], consente di fare collidere e colludere la grande esperienza conoscitiva originaria occidentale-orientale con le domande di rinnovamento culturale e interiore poste dalla crisi della civiltà contemporanea, di gettare uno sguardo non intellettualisticamente filosofico o scientistico sulla vita e i suoi enigmi, e di apprestare strumenti insieme antichi e nuovi per attraversarla con il massimo possibile di serenità, creatività e consapevolezza» (p. 14).
«Nella prospettiva di una conoscenza che culmina nella possibilità di illuminazione a cui tutti, prima o poi, possono attingere, la riflessione si volge al luogo della relazione tra gli esseri umani, ovvero la civitas collettiva, perché la meta terrestre e la misura concreta dell’evoluzione individuale coincide proprio con la capacità di concorrere alla realizzazione di una società etica, solidale, illuminata, che si compone di individui etici, solidali, illuminati […]. Questa […] la sfida per le donne e gli uomini dei prossimi decenni, perché finalmente la Storia impone la più severa delle alternative: evolvere culturalmente e spiritualmente, ripensando i cardini della consociazione planetaria, o sprofondare nella barbarie e nella devastazione irreversibile e già in atto dello habitat naturale e umano» (p. 15).
«Già il filo-sophós greco – un Platone, un Aristotele – era frutto di un decadimento della figura del sophós (sapiente), che incarna uno stato di coscienza-verità (sophia) e non un insieme di metodi e contenuti di pensiero (filo-sophia): si pensi a Pitagora, Eraclito, Parmenide, Empedocle, per citare solo i maggiori del nostro Occidente preplatonico; e in Oriente a Buddha e ai grandi maestri della sapienza upanishadica, taoista, yogica eccetera. Potremmo anche affermare che la sophia ha dimora nel Sé, la filo-sophia nell’Io. In epoca moderna il filo-sophós, decadimento del sophós, decade ulteriormente a intellettuale, che non solo ha perduto come il primo ogni contatto con la sfera della sophia, ma anche è diventato incapace di pronunciare una visione del mondo dotata di una profonda radice sapienziale, e si è ridotto a ermeneuta del pensiero precedente o esegeta del costume contemporaneo, attraverso l’esercizio di una ratio ben diversa, per esempio, dal lógos unificante e intuitivo eracliteo. Le conseguenze di tutto questo sono estremamente gravi, perché la civitas umana si è evoluta a livello tecnico-scientifico, ma è rimasta priva di maestri di verità che non fossero reclutati nei vari miti-istituzioni religiosi (cristiano, islamico, buddhista) o ideologici (marxismo, liberismo, fascismo ecc.), e fossero liberi da questi blocchi di potere ideologico-politico-religioso: insieme sacrali e laici, capaci di testimoniare e ispirare i valori fondamentali dell’etica civile – solidarietà, giustizia, consapevolezza, compassione, onestà, spirito di servizio – e di indicare i contenuti e soprattutto i metodi adatti per formare popoli e reggenti eticamente saldi e consapevoli. Se pensiamo che la crisi ecoantropologica in atto è frutto di una scorretta gestione del pianeta, che a sua volta deriva da una carenza della mente collettiva e dei suoi rappresentanti nella amministrazione della civitas, risulta evidente la responsabilità di quanti si occupano del pensiero e della sua comunicazione nel collasso di un sistema fondato su tutto fuorché su una gestione sapienziale – vale a dire consapevole – della cosa pubblica: sono figli della cultura controsapienziale i politici corrotti e inadeguati, e gli economisti che speculano sulla povertà degli altri, tutti incapaci di limitare, in primis nella propria interiorità, gli impulsi della avidità, della prevaricazione e dell’ignoranza, attraverso i metodi che la Sapienza ha approntato nel corso dei millenni, ma che vengono occultati dalle armi di distrazione di massa. E di élite. Priva di una cultura della saggezza, dell’equilibrio e dell’illuminazione che la sostenga, la democrazia si sfalda perché non esiste più il démos (ovvero il popolo dotato di una propria identità), ma solo una sorta di ochtos (folla, insieme di individui mimetici), manipolata dai mass media consciamente o inconsciamente asserviti ai poteri e al dio denaro, e incapace di esprimere il proprio disgusto o dissenso con metodi che non siano manifestazioni violente, o adesione a caricature della demagogia o a apparati ideologici e partitici di destra, di sinistra o di centro, cattolici, marxisti o liberisti: congreghe che, ottenuto il potere grazie ai metodi della sofistica massmediatica imperante, lo gestiranno svincolandosi da coloro stessi che li hanno eletti a propri rappresentanti. La sfida che si pone è lavorare per una civiltà della consapevolezza, della pace, della solidarietà e dell’equilibrio ecologico, riunendo le origini antiche del pensiero con le nuove acquisizioni, per fornire strumenti culturali adeguati a chi, cittadino o professionista della politica, deve traghettare la società al di fuori delle acque tempestose della crisi ecoantropologica e gestire la rischiosa rivoluzione cibernetica in atto» (pp. 191-192).
Angelo Tonelli, Attraverso oltre. Della conoscenza, della solidarietà, dell’azione, Moretti & Vitali, Bergamo 2019.
Angelo Tonelli, poeta, performer, autore e regista teatrale è tra i massimi studiosi e traduttori italiani di classici greci. Edizioni di classici: Oracoli caldaici, Coliseum 1993 – Rizzoli 1995 e 2005; Eraclito, Dell’Origine, Feltrinelli 1993 e ristampa riveduta 2005; Properzio, Il libro di Cinzia, Marsilio 1993 (4 edizioni); T. S. Eliot, La Terra desolata e Quattro Quartetti, Feltrinelli 1995 (6 edizioni, con ristampa riveduta per il 2005); Seneca, Mondadori 1998; Zosimo di Panopoli, Coliseum 1988, Rizzoli 2004; Eschilo, Tutte le tragedie, Marsilio 2000 (vincitore Premio Città dei Trulli per la traduzione); Empedocle, Origini e Purificazioni, Bompiani 2002; Sofocle, Tutte le tragedie, Marsilio 2003. Euripide, Tutte le tragedie, Marsilio 2007. I lavori sui tragici sono raccolti in un unico cofanetto di 1750 pagine: Tutta la tragedia greca, Marsilio 2007. Opere di poesia: Canti del Tempo (vincitore premio Eugenio Montale), Crocetti 1988; Dell’Amore, Abraxas 1994; Dall’Ade, Abraxas 1995; Poemi per l’era dell’Acquario, Abraxas 1996; Della morte, Abraxas 1997; Frammenti del perpetuo poema, Campanotto 1998; Alphaomega, variazioni per violino e voce, Abraxas/Keraunós 2000; Poemi dal Golfo degli Dèi/Poems from the Gulf of the Gods, Agorà 2003; Canti di apocalisse e d’estasi, con appendice di traduzioni in inglese, tedesco, ungherese, latino (Campanotto 2008, vincitore assoluto Premio Città di Atri; menzione d’onore premio Lorenzo Montano 2009). Tra la letteratura critica sulla sua opera poetica si segnalano giudizi positivi sulla sua opera in lettere di Vittorio Sereni (non datata) e di Attilio Bertolucci (6/ 2/1988); M. Bacigalupo, Angelo Tonelli, un neoromantico poeta estivo, “Il Secolo XIX”, 22/10/1998; S. Crespi, L’eterno canto dell’amore là dove stridono i gabbiani, “Il Sole 24 ore”, 10/07/1988 e Il frammento e il perpetuo, “Il Sole XIV ore” 12/7/1998; G. Galzio, Angelo Tonelli, in G. Galzio, a cura di, Gli Argonauti. Eretici della poesia per il XXI secolo, Milano, Archivi del Novecento, 2001, pp. 199-202. E. Grasso, Nota su Canti del tempo, “Cenacoli esoterici”, 4, 1989 (Benevento, Ripostes); J. Marban, Closing Remarks in M. Maggiari, a cura di, “The Waters of Hermes”, II, Agorà, La Spezia 2002; S. Verdino, Angelo Tonelli, in S. Verdino, a cura di, La poesia in Liguria, Forum – Quinta generazione, Forlì 1986; M. L. Vezzali, Peregrinare nella luce, “Steve 21. Rivista di poesia”, Edizioni del Laboratorio, Modena autunno 2000. Tra i testi filosofici si segnalano: Apokalypsis, pensieri intorno all’ apocalissi in atto nel pianeta Terra. E altro; Il dio camaleonte (Abraxas 2009). Opere teatrali: Apokálypsis, 1995; Katábasis, 1996; Máinomai, 1997; Mysterium, 1998; Eleusis, 1999; Drómena, 2000; Alphaomega, 2002 (da Sette contro Tebe di Eschilo); New World Order, 2003; V.I.T.R.I.O.L.U.M. Alchimia per Edipo re, 2004; Orghia, ovvero il trionfo della sapienza sul potere (da Baccanti di Euripide), 2005 e 2009; La terra desolata di T. S. Eliot, 2005; Orestea, 2006; Alcesti, mysterium mortis mysterium amoris, 2007; Antigone, ovvero la legge del cuore contro la logica spietata del potere, 2008; Baccanti, 2009; Christus rediens, 2009. E’ intervenuto in programmi culturali della RAI tra cui, nel dicembre 2000 Tutti dicono poesia (Rai 1) con una performance mistico-apocalittica. Dal 1998, su incarico della Città di Lerici, è Presidente della Associazione Culturale Arthena e della omonima Scuola di Arti e Mestieri, e Direttore Artistico di Altramarea, Rassegna Nazionale di Poesia Contemporanea e di Argonauti nel Golfo degli Dèi. Nella primavera del 2005 ha pubblicato Per un teatro iniziatico, un libro sui primi dieci anni del teatro, e del genere di teatro, da lui stesso fondato. Nell’ottobre del 2007 ha dato alle stampe Alla ricerca del Sé (Tipografia Stella-Edizioni dell’Arthena) una miscellanea di saggi e conferenze intorno ai temi della sapienza, della psicoanalisi e della meditazione. Suoi testi, con una nota introduttiva di Roberto Bertoni, compaiono in Sei poeti liguri, Bertolani, Bugliani, Conte, Giudici, Sanguineti, Tonelli, a cura di Roberto Bertoni (Trauben, 2004) e nella antologia dedicata a 9 poeti liguri e curata da Roberto Bertoni e Roberto Bugliani, Voci di Liguria, Manni editore, 2007. Di recente pubblicazione Sulle tracce della Sapienza (Moretti e Vitali editore 2009), un libro in cui sintetizza trenta anni di ricerche sulla sapienza presso i Greci, in Oriente, in Jung e in Eliot; il primo volume, Parmenide Zenone, Melisso, Senofane di Le parole dei Sapienti, in sette volumi per Feltrinelli, sul pensiero dei sapienti greci preplatonici; Sperare l’insperabile. Per una democrazia sapienziale (Armando 2010). Si segnala l’edizione Bompiani con testo greco a fronte di Tutta la tragedia greca già pubblicato con Marsilio; Attraverso oltre. Della conoscenza, della solidarietà, dell’azione, Moretti & Vitali, 2019.
Tra i libri di Angelo Tonelli
Zozimo di Panopoli, Coliseum, 1988.
Eraclito. Dell’Origine, traduzione e cura di A. Tonelli, Feltrinelli, 1993.
Oracoli caldaici, cura e traduzione di Angelo Tonelli, Rizzoli, 1995.
Oracoli caldaici, cura e traduzione di Angelo Tonelli, Rizzoli, 1995.
Thomas S. Eliot, La terra desolata. Quattro quartetti, Traduzione e cura di Angelo Tonelli, Feltrinelli, 1995.
Frammenti del perpetuo problema, Camparotto editore, 1998.
Altramarea. Poesia come cosa viva. Antologia di poesia contemporanea, a cura di A. Tonelli, Camparotto editore, 1998.
Questo non è un libro di poesia nel senso vulgato del termine, perché i testi che compongono la raccolta sono giunti al curatore attraverso la comunicazione orale, diretta, formulata in un adeguato “témenos”, proprio come accadeva agli albori della poesia, nelle corti micenee di Omero, o nei giochi sacri di Pindaro, o nel tiaso di Saffo, o ancora, più vicino a noi nel tempo, nelle conversazioni dei poeti decadenti francesi, o dei futuristi. Questo non è un libro in senso stretto e tipico, ma – per usare un termine con cui Giorgio Colli rendeva “Erlebnis” – l’eco di “vissutezze” poetiche reiterate nel corso degli anni – e destinate a reiterarsi ancora, a ogni solstizio d’estate, con “Argonauti” nel Golfo degli Dei, e nell’agosto rovente, con “Altramarea” – che a quella “vissutezza” intende alludere, perché è in essa che la poesia si è fatta vita e sguardo sulla vita, ha acceso entusiasmi e presagito orrori planetari, creato incanto e graffiato con stridori metallici, nella circolazione vivente della parola incarnata dal suo autore, a rispecchiarsi nell’anima di un uditorio vivo. […].
María Zambrano, Seneca, Traduzione di Angelo Tonelli, Bruno Mondadori, 1998.
Properzio, Il libro di Cinzia. Elegie. Testo latino a fronte. Vol. 1, trad di A. Tonelli, Marsilio, 1999.
“Cinzia fu l’inizio, Cinzia sarà la fine”: con questo impegno di fedeltà il ventiduenne Properzio fissava in una formula emblematica l’essenza dell’amore elegiaco, assoluto e totalizzante. Con l’autorità e il fascino della donna bella, colta e raffinata, Cinzia segna il primo libro delle elegie properziane, il libro che rappresenta in modo esemplare la complessità di sentimenti del poeta innamorato: gelosie, tradimenti, riconciliazioni, momenti di tenerezza e di dedizione, di freddezza e di rifiuto. La sincerità della passione si unisce alla finzione letteraria, spesso filtrata attraverso la rievocazione del mito. Scelta di vita e scelta di poesia tendono a identificarsi creando un codice letterario, quello del genere elegiaco, che nella sua perfezione formale e nella sua breve vitalità rimase modello insuperato di poesia d’amore e specchio della vita mondana della società augustea.
Eschilo, Le tragedie, a cura di Angelo Tonelli, Marsilio, 2000.
Miti eterni, storie immortali che sfidano ogni epoca con la loro poesia e con il loro mistero, legami inestricabili con un passato che in modo immutato ancora ci seduce e ci angoscia con i suoi enigmi. Una voce poetica, tesa e vibrante, ci canta il lutto del re di Persia sconfitto dai greci, la disperazione del Prometeo crocifisso per amore, la tragedia dei figli di Edipo che si uccidono in un estremo duello alla settima porta di Tebe, il delirio di Cassandra e la furia di Clitennestra uxoricida, la vendetta, la follia e l’assoluzione di Oreste per l’assassinio della madre.
Sofocle, Le tragedieLe tragedie, a cura di Angelo Tonelli, Marsilio, 2004.
Celebrato per la purezza dello stile e per la perfezione della struttura drammaturgica, Sofocle è il più limpido ma anche il più complesso ed enigmatico dei tre grandi tragici greci. Ateniese, innamorato della sua città, ne esaltò la bellezza, ne difese le istituzioni, ma intravide anche i pericoli del passaggio epocale dall’individualismo conservatore delle famiglie aristocratiche all’egualitarismo democratico dello stato di diritto. Cantore della polis, ma anche di eroi perdenti e sfortunati, di donne assetate di giustizia e di vendetta, Sofocle è soprattutto il creatore del personaggio di Edipo re di Tebe, metafora esemplare delle alterne vicende della vita e della cieca crudeltà del caso.
Zozimo di Panopoli, Visioni e risvegli, a cura di Angelo Tonelli, Rizzoli, 2004.
Personaggi misteriosi, mostri crudeli, sacrifici rituali e “riti terribili” popolano questo testo complesso e affascinante che con la violenza delle sue visioni ha sedotto lo stesso Jung, a cui si deve il merito di averlo sottratto a un oblio millenario. Scritto agli inizi del IV secolo, Visioni e risvegli raccoglie quattro brevi trattati di alchimia, il più famoso dei quali, Sulla virtù, descrive con toni onirici e fantasiosi i diversi gradi di un rito di iniziazione. Dell’antica storia di questi testi, ricchi di aneliti mistici ed echi religiosi, parla nell’introduzione Angelo Tonelli, che analizza anche i legami tra l’alchimia greca e la psicologia dell’inconscio di Jung.
Euripide, Le tragedie, a cura di Angelo Tonelli, Marsilio 2007.
Con la traduzione integrale delle tragedie di Euripide si conclude un progetto di grande rilievo editoriale iniziato da Angelo Tonelli nel 2000 con la versione completa di Eschilo, cui è seguita nel 2004 quella di Sofocle. Per la prima volta e non solo in Italia, si possono leggere tutte le tragedie greche nella traduzione di uno studioso che è un profondo conoscitore del greco antico, esperto di drammaturgia antica e moderna, poeta egli stesso e creatore di eventi.
Canti di Apocalisse e d’estasi, Camparotto Editore, 2008.
Sulle tracce della sapienza. Per una rifondazione etica della contemporaneità, Moretti & Vitali, Bergamo 2009.
Frutto e sintesi di trenta anni di ricerche filologiche intorno alla Sapienza, il libro di Tonelli ne presenta campionature significative, dalla tradizione iniziatica eleusina allo sciamanesimo originario, dai grandi tragici ai Presocratici, a Platone, alla teurgia degli Oracoli Caldaici, alle visioni dell’alchimista Zosimo di Panopoli, fino a un’incursione nel Moderno, con la rilettura di The Waste Land e di Four Quartets di Eliot in chiave mistico-rituale, e della psicologia analitica junghiana in chiave alchemica e gnostica. Per quel che riguarda la Sapienza d’Oriente, l’attenzione si concentra sulla sua dimensione di pratica spirituale, perché il Buddhismo e l’Induismo hanno saputo concretare nell’unità corpo-mente la condizione sapienziale, affinando tecniche meditative adatte a lenire la sofferenza e favorire lo sviluppo delle qualità etiche positive. In chiusura, l’autore riannoda il filo che lega l’inizio della filosofia con il principio della sua fine, ovvero Platone con Kant, per quel che riguarda la possibilità dell’esercizio di una influenza dei pensatori sul potere, rintracciando la causa della loro inefficacia, pur nella nobiltà del gesto, proprio nell’essere filosofi, e non Sapienti, e dunque propagatori di un modo di pensare, e non di un modo di essere totale.
Le parole dei Sapienti. Senofane, Parmenide, Zenone, Melisso. Testo originale a fronte. Traduzione e cura di Angelo Tonelli, Feltrinelli, 2010.
Sapienza è una condizione dello spirito, un modo di essere, e non un insieme di contenuti che si ritengano veri e saggi. Il Sapiente è radicato nella sorgente delle cose, e dell’esperienza sapienziale possono farsi testimonianza scritta o orale parole, come quelle di Eraclito, Parmenide, Empedocle in Occidente, e delle Upanishad o dello ChuangTzu in Oriente, che vibrano della risonanza mistica da cui sorgono. A differenza della filosofia, la Sapienza è un modo di essere, non di pensare, ed è frutto del sé, mentre la filosofia lo è dell’ego. I Sapienti greci non erano uomini di scrivania, come forse amerebbero dipingerli a propria immagine e somiglianza gli esangui ermeneuti contemporanei, bensì individui che intraprendevano una via di continua ricerca di se stessi, all’insegna del motto delfico gnõthi sautón, e da questa pratica di ricerca spirituale venivano trasformati fin nelle intime midolla, come i Sapienti d’Oriente. Nel versante orientale, la Sapienza è un immenso commentario intorno alle folgorazioni mistiche e alle formulazioni religiose dei Veda, che trovano sistemazione nelle Upanishad. Diversa è la Sapienza greca, in cui fioriscono personalità spiccate, con maggiore differenziazione di linguaggio e di pensiero. Ma i temi di fondo sono gli stessi, e con ogni evidenza la Madre della Sapienza d’Oriente e d’Occidente è una sola e la medesima, benché da essa germoglino frutti ben diversi.
Sperare l’insperabile. Per una democrazia sapienziale, Armando, 2010.
Le tendenze negative di base – ignoranza, avidità, violenza e il dio denaro – hanno esercitato ed esercitano una pressione preponderante sulla psiche dell’umanità nel suo complesso, e hanno condotto a una situazione di discrimine: o si riesce a creare una nuova direzione, illuminata, della civitas globale, in grado di agire in controtendenza rispetto alla crisi ecoantropologica in atto, oppure si andrà a una vera e propria catastrofe della civiltà. E poiché la devastazione dell.habitat e gli ordigni di guerra nascono nella testa degli uomini, è lì che occorre disinnescarli.
Poemi dal Golfo degli Dèi, Ediz. italiana e inglese, Agorà & Co., Sarzana, 2011.
Sapienza ritrovata, Arcipelago Edizioni, 2011.
Tutte le tragedie greche. Testo greco a fronte, Bompiani, Milano 2011.
Frutto di oltre dieci anni di lavoro, questa edizione di tutta la tragedia greca con testo a fronte, la prima a essere realizzata interamente da un unico curatore, insieme poeta e filologo, consente di cogliere con sguardo unificante la fulgida stagione della tragedia ellenica che vide fiorire il genio creativo di Eschilo, Sofocle ed Euripide. Viene così restituita al lettore moderno, in tutta la sua feconda inattualità, una delle culminazioni dell’arte sapienziale e iniziatica del nostro Occidente, capace di riverberare la spiritualità orfeodionisiaca eleusina nella sua dimensione essoterica: in maniera esplicita, attraverso tragedie vistosamente iniziatiche come Baccanti, Oresteo, Alcesti, Edipo re ed Edipo a Colono; e in maniera indiretta, grazie alla forma apollodionisiaca dell’opera drammatica nella sua espressione scritta. Forma che a sua volta rinvia alla struttura stessa del théatron, che è luogo sapienziale in cui si contempla (theàomai) il gioco delle passioni con empatia e distacco. Con il greco a fronte i capolavori dei tragediografi a noi pervenuti brillano nella lingua in cui furono composti, e consentono di restituire con sufficiente approssimazione la phoné originaria in cui furono pronunciati: nel rito consacrato a Dioniso, alla luce del sole ellenico, sotto lo sguardo della collettività riunita nel nome del dio dell’ebbrezza e della contemplazione.
Ritografie. Opere figurative 1995-2012. Ediz. illustrata, Agorà & Co, 2012.
Seminare il possibile. Democrazia e rivoluzione spirituale, Alboversorio, 2015.
Questo pamphlet ha un intento: seminare slancio e speranza nel futuro mentre tutto sembra congiurare contro una possibilità di rinascita collettiva. Urge che si aboliscano i partiti, come già suggeriva Simone Weil, e si catalizzino energie nuove. Questo movimento, che è già in atto e trova già espressione in eventi dedicati alla relazione tra spiritualità, etica e politica, ha il compito fondamentale di preparare la democrazia del futuro, che sorgerà sulle rovine del sistema politico nazionale e internazionale fondato sul dominio del dio denaro.
Eleusis e Orfismo. I misteri e la tradizione iniziatica greca. Testo greco a fronte, a cura di Angelo Tonelli, Feltrinelli, Milano 2015.
A Eleusi, il centro iniziatico maggiore di tutta la grecità, nel mese di Boedromione (il nostro settembre-ottobre) affluivano tutti coloro che avessero i requisiti necessari per ricevere l’iniziazione, ovvero avere “mani pure”, non macchiate da delitto, e parlare la lingua greca. Sicuramente furono iniziati ai livelli più alti Sofocle, Eschilo, Pindaro, Platone. La suprema iniziazione, a cui si poteva accedere dopo avere fatto trascorrere un lungo periodo dalla partecipazione al rituale collettivo dei Grandi Misteri, dischiudeva all’esperienza diretta dell'”unità di tutte le cose” e della morte-rinascita, simboleggiata dalla spiga, che il mistero condivideva con Dioniso, il dio che muore e rinasce, come l’Osiride degli Egiziani. L’Orfismo introduce nella grecità una via ascetica e purificatoria, fondata sulla credenza nella reincarnazione, e nella necessità di un tragitto di progressiva liberazione dalla prigione della materia per ricongiungersi con la propria essenza divina. Le testimonianze consentono di ricostruirne le complesse e suggestive cosmoteogonie, e i miti fondamentali, tra cui la discesa agli Inferi di Orfeo alla ricerca della sposa Euridice e lo specchio di Dioniso, che rivela il mondo visibile come lampeggiamento transimmanente dello sguardo del dio su uno specchio.
[Giuliano il Teurgo], Oracoli caldaici, a cura di Angelo Tonelli, Bompiani, 2016.
Composti verso la fine del II secolo dopo Cristo, gli “Oracoli Caldaici” sono attribuiti a Giuliano il Teurgo, figlio dell’altro Giuliano che, secondo Suidas, compose un’opera sui demoni. Poeta e sciamano dei misteri teurgici, in cui la figura del mßntis-doche·s (il nostro medium) coincide con quella del profétes, Giuliano comunica in frammenti oscuri e insieme luminosi, come si addice all’oracolo, un’esperienza visionaria individuale fiorita nell’ambito di un Erlebnis mistico e sapienziale collettivo. Gli “Oracoli caldaici”, che Proclo paragonava per importanza al “Timeo” di Platone, sono una raccolta di frammenti in cui un medium in trance parla con la voce del nume, e ne comunica la Sapienza che conduce gli umani oltre il velo delle apparenze, fino all’intuizione dell’Assoluto e al congiungimento con esso. Unica testimonianza diretta di una tradizione esoterica che associava metafisica e magia in un accordo inscindibile, gli oracoli consentono di guardare dietro le quinte di una esperienza mistica e iniziatica di grande densità immaginale, che viene comunicata in un linguaggio densamente poetico. E’ un viaggio verso l’Assoluto che sta alla radice di tutte le cose, o meglio ancora verso il Divino indicibile che si manifesta attraverso ipostasi e numi, che prendono nome di Padre, Ecate, No³s, e la cui quintessenza brilla nell’animo dei teurghi.
Guardare negli occhi la Gorgone. Piccolo vademecum per attraversare le paure, Agorà & Co., Sarzana, 2016.
L’esperienza della paura è costitutiva della condizione umana, e nessuno ne è mai stato esente: non Cristo, che sulla croce grida il suo “Eli Eli lema sabachthani?”: “Padre Padre, perché mi hai abbandonato?”; non Buddha Sakhyamuni, che prima di imboccare la via dell’ascesi si imbatte, sgomento, nelle figure della vecchiaia, della malattia, della morte. Nessuno ha calcato il suolo di questo pianeta senza avere provato, in misura maggiore o minore, la vampa dell’ansia o l’angoscia dell’incubo notturno, il morso del panico, l’irrequieto aggirarsi del pensiero nelle lande livide del timore di ammalarsi o di morire, o del lutto per il trapasso di una persona preziosa, o per la fine di un grande amore. Qui si indicano alcune vie, tra cui la psicoanalisi junghiana, lo psicodramma, la danzaterapia, la meditazione e altre pratiche spirituali tratte da varie tradizioni, per attraversare indenni questa selva oscura, e trarne stimolo alla crescita spirituale.
Sulla morte. Considerazioni sul possibile oltre, La Parola, 2017.
Questo libro è il frutto di molti anni di riflessioni sulla morte e il possibile Oltre, con un approccio non accademico, ma neanche privo di riferimenti alla letteratura scientifica sul tema, nella convinzione che il momento più impegnativo, insieme con la nascita, della nostra permanenza sul pianeta terra, sia evento solenne e culmine di conoscenza, a cui è bene giungere il più possibile consapevoli e preparati. Vi si troveranno riferimenti allo sguardo sapienziale greco (il Fedone di Platone, Le lamine d’oro orfiche) e orientale (Il libro tibetano dei morti) sul grande passo, ma anche alla letteratura relativa alle esperienze di quasi morte (NDE), tra cui quella di C.G. Jung (e anche quella di Er, raccontata ne La Repubblica di Platone), e alle conseguenze che le esperienze documentate di OBE (Out Body Experience), ovvero di fuoriuscita dal corpo durante gli stati di coma, hanno sulla vexata quaestio del rapporto coscienza-cervello, anche alla luce della fisica quantistica. Un excursus esaustivo e indispensabile per farsi un’idea precisa sulla morte e sull’aldilà.
La degenerazione della politica e la democrazia smarrita. Una nuova etica per la sopravvivenza della civiltà, Armando, 2018.
Le tendenze negative di base – ignoranza, avidità, violenza e il dio denaro – hanno esercitato ed esercitano una pressione preponderante sulla psiche dell’umanità nel suo complesso, e hanno condotto a una situazione di discrimine: o si riesce a creare una nuova direzione, illuminata, della civitas globale, in grado di agire in controtendenza rispetto alla crisi ecoantropologica in atto, oppure si andrà a una vera e propria catastrofe della civiltà. E poiché la devastazione dell’habitat e gli ordigni di guerra nascono nella testa degli uomini, è lì che occorre disinnescarli. Sarà la Storia stessa in quanto bestemmia alla natura illuminata degli umani a generare dal suo grembo il seme della civitas illuminata: per sopravvivere la specie dovrà abdicare dalla propria tenebra interiore. Sono tre i metodi fondamentali che convergono in una sola via, per risorgere: la meditazione di presenza, l’indagine dell’inconscio e l’integrazione dell’Ombra e la frequentazione di testi ed esperienze sapienziali. In una parola, la vita come iniziazione: alla consapevolezza, alla liberazione, all’immortalità che nasce dall’esperienza óeWunità di tutte le cose (hèn pànta), secondo la folgorante sintesi di Eraclito, che è il mentore metaspaziotemporale di questo libro.
Attraverso oltre. Della conoscenza, della solidarietà, dell’azione, Moretti & Vitali, 2019.
La conoscenza non coincide con la padronanza filosofica e scientifica del pensiero, o l’accumulo di informazioni corrette intorno alla vita, ma con la stabilizzazione di livelli di coscienza illuminati, attraverso una costante disciplina e apertura interiore. Noi Occidentali dobbiamo rivolgere lo sguardo ai Misteri Eleusini, alle iniziazioni orfiche, e a quei pensatori che Platone definiva sophoí, ovvero Sapienti, e che hanno nome Eraclito, Empedocle, Parmenide, Pitagora, ma anche ai grandi maestri della conoscenza tragica (“patendo conocere”), Eschilo, Sofocle, Euripide, per non citare che i maggiori tra i Greci. Guardare alle radici della nostra cultura significa anche guardare alla Sapienza d’Oriente, perché anche di essa (oltre che dello sciamanesimo iperboreo e della spiritualità egiziana, persiana e mesopotamica) era pervasa la Sapienza di Pitagora, Eraclito, Parmenide, Empedocle, Democrito e Platone. Di questa connessione originaria tra Occidente, in particolare la nostra Magna Grecia, e Oriente, a cui Angelo Tonelli ha dedicato trenta anni di ricerche e di cui ha già fornito ampie documentazioni, viene qui presentata, in anteprima assoluta, una testimonianza archeologica di inconfutabile evidenza: la fotografia del ritratto del “Mongolo di Taranto”, raffigurato in una ceramica protolucanica databile al IV secolo a.C., ai tempi di Platone, in cui compare un volto di chiara etnia mongola, a dissipare ogni eventuale dubbio sulla interazione tra Mediterraneo greco e Estremo Oriente, in epoca antica, interazione fino a oggi silenziata o negata da un’Accademia ancora arroccata alle Termopili immaginarie per contrastare la manifesta presenza dell’Oriente nel nostro Occidente sapienziale. E questa obliterazione ha gravato e grava sulla nostra cultura, perché se ne è ignorata la radice eurasiatica meditativa, sciamanica, noetica, condannando gli individui, e con essi la civiltà d’Occidente, a livelli di interiorità, saggezza e consapevolezza infantili, che sono alla base della crisi ecoantropologica in atto: una sorta di “furto d’organo”, il nous, ovvero il luogo di connessione tra l’umano e il divino nella coscienza unitaria e illuminata. Questo tragitto “sulle tracce della Sapienza” a cui l’autore ha già dedicato un omonimo fortunato libro, di cui questo costituisce in qualche modo la continuazione, consente di fare collidere e colludere la grande esperienza conoscitiva originaria occidentale-orientale con le acquisizioni della scienza più avanzata e le domande di rinnovamento culturale e interiore poste dalla crisi della civiltà contemporanea.
María Zambrano, Seneca. Con una antologia di testi, traduttori Claudia Marseguerra e Angelo Tonelli, SE, 2019.
«Seneca non avrebbe potuto essere un martire: fu sempre un intellettuale e niente di più. Un intellettuale per cui la gloria è impossibile. Fedele a una ragione senza trascendenza, a una ragione naturale. La ragione di Platone e di Plotino, l’idea, non era più di questo mondo, come non lo è la pura verità. Seneca celebrava la ragione della mediazione, della relatività. Per questo il suo pensiero, e ancora più del suo pensiero, la sua immagine, la sua figura, è viva in tutti i tempi in cui la ragione, senza fede, vuole mediare tra un mondo irrazionale e il regno puro che ha dovuto lasciare. Seneca tornerà in vita ogni volta che di fronte all’inesorabilità della morte e del potere umano si troverà, tra una fede che si estingue e un’altra che la sostituisce, una Ragione abbandonata».
“Mi ha sempre interessato l’aula giudiziaria come luogo dei diritti
in movimento, del confronto tra le istanze della società e i rapporti
codificati di potere, di una dialettica tra le parti che tende a
discutere e a ridefinire i confini di ciò che si intende per giusto o
ingiusto della vita sociale.”
“Nel mestiere e nella militanza ho cercato di far valere contro la legge del più forte i diritti dei più deboli. Non mi sono mai sentita antagonista per principio: quando mi sono battuta contro qualcuno era per difendere qualcun altro. Mi è piaciuto il fare e ho fatto quel che ho potuto cercando sempre di essere me stessa. Nel mio operare ho anteposto i fatti concreti ai discorsi, la moralità delle persone alle idee. Non sono scontenta della mia vita non ho particolari rimpianti o rammarichi. Ne ho raccontato tutto il percorso lungo quasi un secolo tra le tante storie di giustizia ingiustizia che mi hanno coinvolto non solo professionalmente e in cui ho trovato un senso da dare al tempo che mi è toccato in sorte”.
In pieno spirito di resistenza culturale riproponiamo al lettore il raro, prezioso discorso che Bianca Guidetti Serra, scomparsa il 24 giugno 2014, pronunciò per l’amico Primo nel fatale 1987 a pochi giorni da quell’attonito, orrendo sabato 11 aprile in cui si consumò «il mistero insindacabile della sua scelta» a cui, tuttavia, non sappiamo ancora rassegnarci.
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