Federico García Lorca (1898-1936) – Poeta a New York: «La luce è sepolta da catene e rumori in sfida impudica di scienza senza radici: qui non esiste domani né speranza possibile. Le monete a sciami furiosi penetrano e divorano bambini addormentati: sanno che vanno nel fango di numeri e leggi, nei giochi senz’arte, in sudori senza frutto».

Lorca, Poeta en Nueva York

 

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Edizione postuma (1940) di Poeta en Nueva York.
Si noti il nome di Antonio Machado sul frontespizio.

***

Federico García Lorca,
Poeta en Nueva York
(1929 – 1930)

***

L’aurora di New York ha
quattro colonne di fango
e un uragano di negre colombe
che sguazzano nelle putride acque.

L’aurora di New York geme
sulle immense scale
cercando fra le ariste
nardi di angoscia disegnata.

L’aurora arriva e nessuno la riceve nella sua bocca
perché qui non esiste domani né speranza possibile.
A volte le monete a sciami furiosi
penetrano e divorano bambini addormentati.

I primi che escono comprendono con le proprie ossa
che non ci saranno paradiso né amori sfogliati;
sanno che vanno nel fango di numeri e leggi,
nei giochi senz’arte, in sudori senza frutto.

La luce è sepolta da catene e rumori
in sfida impudica di scienza senza radici.
Nei suburbi c’è gente che vacilla insonne
appena uscita da un naufragio di sangue.

Federico García Lorca, Autoritratto a New York

F. G. Lorca, Autoritratto a New York.

Federico García Lorca, L’aurora, da: Poeta a New York, in Id., Tutte le poesie, a cura di Claudio Rendina, Newton Compton, 2002, 2 vol., vol. II, p.299.


Federico García Lorca, Un “Poeta a New York”:
la profezia e il dramma negli occhi del “niño”

 


***

Ce ne parla un altro poeta:

Rafael Alberti (1902 – 1999)

Rafael Alberti (1902 – 1999)

R. Alberti con Lorca

R. Alberti con Lorca

Poeta a New York
Quando, nella primavera del 1929 […] Federico García Lorca decide di partire per New York, è già uno dei poeti nuovi di maggior prestigio in Spagna. […] Tutto farebbe pensare che egli partisse per New York contento, desideroso di […] tuffarsi presto in quella città, che ancor prima di visitare – a quanto confessa da Granada in una lettera al suo amico cileno Carlos Moria – già gli sembra orribile. Ma quel viaggio […] è importante per la sua vita. Egli lo avrebbe compiuto in compagnia del suo vecchio maestro di Diritto, Fernando de los Rios, uno dei dirigenti più illustri del socialismo spagnolo. […] García Lorca se ne andava negli Stati Uniti anche perché scosso dagli avvenimenti spagnoli […]. E Federico proprio allora se ne va negli Stati Uniti – è la prima volta che esce dalla Spagna – e apre laggiù, alla sua poesia, una strana parentesi di confusione e di ombre. Alcune delle poesie iniziali del libro che più tardi sarà il Poeta a New York, apparvero su riviste di Madrid […]. Che profonda ferita nella gola del poeta di Granada! Quando arriva a giugno a New York nella Columbia University, dove lo accoglie la calda amicizia di uno dei suoi vecchi amici di Madrid, il professore Angel del Rio, che sarà poi il primo a descrivere questo strano periodo americano di Lorca. Federico entra nella mostruosa città come chi va a trascorrere «una stagione all’inferno». Luis Felipe Vivanco dice infatti, molto accortamente, che il libro scritto da Lorca in America potrebbe benissimo avere come titolo quello di Rimbaud. Il poeta granadino si scontra violentemente contro i duri spigoli di New ork, a cui, per cominciare, nega la gioia pura dell’aurora, il risveglio umano della gente:

L’aurora di New York ha
quattro colonne di melma
e un uragano di nere colombe
che sguazzano nelle putride acque.

Ed è tale la convulsione che Garda Lorca soffre nel suo intimo che egli, uscito da poco dalla drammaticità disinteressata, con accento andaluso di cante jondo, del suo Romancero gitano, assume d’un tratto la parte di accusatore di quel tremendo delitto tramutato in freddo cemento che si apre dinnanzi ai suoi occhi. E ormai il suo verso non scorre più con lo splendore di prima. Le metafore tendono in lui a offuscarsi sino a disperdersi e le stesse corde basse della sua chitarra finiscono per strapparsi di fronte al frastuono di dolore e crudeltà che egli vede e ode da ogni parte. È quello il paese della democrazia e New York il suo simbolo vivente? No, non è più così. I tempi dell’ottimismo del vecchio Whitman sono passati. Federico si rende conto che laggiù accade qualcosa, che vi è una gelida macchina che s’incarica di schiacciare tutto, di estrarre la linfa dal sangue, tramutando le persone in automi, i quali fin dall’alba

sanno che vanno al fango di numeri e leggi,
ai giochi senz’arte, a sudori senza frutto.

García Lorca inaugura con questi componimenti la sua poesia antiartistica. Non si preoccupa né della struttura rigorosa del componimento, né della bellezza verbale né della immagine. Il linguaggio è diretto. La città senza aurora riceve da lui una frustata in una serie di poesie scritte con una attenta coscienza ma insieme con una furia cieca, vicina nei suoi momenti migliori all’impeto quasi surrealista dei profeti biblici. Ed è allora che scopre Harlem, il quartiere dei negri. Ed entra in una delle visioni più angosciose della sua poesia. Sente l’oppressione di quegli antichi schiavi in mezzo a una civiltà che ancora di più li tortura e li umilia. E grida tutta l’amarezza, il sangue prigioniero di quel quartiere, dove il timore dell’ira, dell’odio dei potenti bianchi porta il povero negro a vivere con le porte socchiuse, sempre in attesa di qualsiasi prepotenza, che potrebbe concludersi in un linciaggio.

Ahi, Harlem l Ahi Harlem! Ahi Harlem!
Non c’è angoscia paragonabile ai tuoi rossi oppressi,
al tuo sangue rabbrividito entro l’oscura eclissi,
alla tua violenza scarlatta sordomuta in penombra,
al tuo gran re prigioniero, con abito da portinaio!

[…] È ancora New York, è ancora Wall Street con i suoi milioni di uffici che lo respingono e lo attraggono allo stesso tempo. Ed egli torna con più forza alla denuncia, alla denuncia di coloro che ignorano l’altra metà dei propri simili, alla denuncia del sangue sfruttato, gemebondo, che palpita al di sotto delle moltiplicazioni, degli oscuri e terribili affari che fanno precipitare il mondo in un abisso di miseria e di morte.
«Vi sputo sul viso», arriva a gridare disperato. Lorca, in conseguenza di questo urto brutale con la grande città disumanizzata, diventa un poeta del suo tempo e, senza saperlo, uno dei primi luminosi segni di tutta una poesia di carattere sociale e protestatario che sarebbe apparsa qualche tempo dopo. In primavera il poeta parte per l’Avana, dove recupera, alla sua luce travolgente e musicale, il ritmo preciso del suo sangue andaluso, del suo core già turbato e sempre sul punto di scoppiare durante quell’infernale stagione trascorsa nella città dei grattacieli.

Rafael Alberti, García Lorca, Compagnia Edizioni Internazionali, Milano, 1966, pp. 60-63.

 


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Curzio Malaparte (1898-1957) – L’uomo nella fortuna, l’uomo seduto sul trono del suo orgoglio, della sua potenza, della sua felicità; l’uomo vestito dei suoi orpelli e della sua insolenza di vincitore è uno spettacolo ripugnante.

Malaparte

Battibecco

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«Vi sono due modi di amare il proprio paese: quello di dir la verità apertamente, senza paura; sui mali, sulle miserie, sulle vergogne di cui soffriamo, e quello di nascondere la realtà sotto il mantello dell’ipocrisia, negando piaghe, miserie e vergogne, anzi esaltandole come virtù nazionali. Tra i due modi, preferisco il primo. Non solo perché a me sembra il giusto, ma perché la peggior forma di amor patrio è quella di chiudere gli occhi davanti alla realtà, e di spalancare la bocca in inni e in ipocriti elogi, che a nulla servono, neppure a nascondere a sé e agli altri i mali vivi e reali.
L’Italia in cui credo, in cui ho sempre creduto, per la quale ho combattuto in trincea, ho versato il mio sangue, ho sofferto la prigione e il confino, l’Italia per la quale son pronto, così oggi come ieri e come domani, a lottare e a soffrire, è la patria ideale dell’onore, della libertà, della giustizia, la patria di tutti coloro che hanno sofferto e soffrono per la verità, di tutti coloro che hanno dato la vita per combattere la menzogna: è l’Italia degli uomini semplici, onesti, buoni, generosi, chiusi da secoli in quella «prigione gratis» della miseria e della delusione,  […] dei privilegi di classe e della corruzione amministrativa».

Curzio Malaparte, Due anni di battibecco. 1953-55, Milano, Garzanti, 1955, pp. 18-20.


Kaputt

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«Ora che Hitler è morto già da alcuni anni, che il Nazismo è crollato, sarebbe cosa inutile, oziosa e stupida riparlar del Nazismo, se il Nazismo non mostrasse per molti segni non solo d’essere ancora vivo, ma di prepararsi a recitare, sotto altro nome e sotto altre bandiere, la stessa odiosa parte che ha recitato quando Hitler era ancora vivo. Non voglio essere profeta. E non si tratta qui di far profezie. Ma di veder chiaramente nel vostro avvenire. E poiché voi non avete il coraggio di dire la verità ai Tedeschi, perché avete paura del risorgimento del Nazismo, lasciate che sia un intellettuale a dir ciò che voi non osate dire».

Curzio Malaparte, Appendice ai Kaputt, ed. econ., Firenze, Vallecchi, 1966, pp. 411-12.


La pelle

«Non so quale sia piu difficile, se il mestiere del vinto o quello del vincitore. Ma una cosa so certamente, che il valore umano dei vinti è superiore a quello dei vincitori. Tutto il mio cristianesimo è in questa certezza, che ho tentato di comunicare agli altri nel mio libro La pelle, e che molti, senza dubbio per eccesso di orgoglio, di stupida vanagloria, non hanno capito, o hanno preferito rifiutare, per la tranquillità della loro coscienza.
In questi ultimi anni, ho viaggiato, spesso, e a lungo, nei paesi dei vincitori e in quelli dei vinti, ma dove mi trovo meglio, è tra i vinti. Non perché mi piaccia assistere allo spettacolo della miseria altrui, e dell’umiliazione, ma perché l’uomo è tollerabile, accettabile, soltanto nella miseria e nell’umiliazione. L’uomo nella fortuna, l’uomo seduto sul trono del suo orgoglio, della sua potenza, della sua felicità; l’uomo vestito dei suoi orpelli e della sua insolenza di vincitore, l’uomo seduto sul Campidoglio, per usare una immagine classica, è uno spettacolo ripugnante.
Non mi piace discutere con gente che non s’intende di quel che ragiona, o non sa ragionare, o di continuo travisa i fatti e i concetti. Né con gente che ingiuria, e dice cose in malafede, sol per aver l’aspetto della ragione, non la sostanza».

Curzio Malaparte, Appendice a La pelle, ed. econ., Milano, Garzanti, 1967, pp. 329-30.


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Antonio Machado (1875-1939) – Imparate da voi stessi quanto più limitato di quel che non si pensi è l’àmbito del necessario. Io vi insegno l’amore per la filosofia degli antichi greci e il rispetto per la sapienza orientale.

Machado
Il Castoro 59_Machado

Il Castoro, n° 59

 

Io vi insegno, o pretendo di insegnarvi, a contemplare […] A creare la distanza in questo continuo mondo variopinto di cui facciamo parte; quella distanza senza la quale gli occhi […] non ci servirebbero a nulla. Ecco un’attività essenzialissima che per un felice caso è incompatibile con la guerra.
lo vi insegno, o pretendo di insegnarvi, a rinunziare ai tre quarti delle cose che si considerano necessarie. E non per il gusto di sottomettersi a esercizi ascetici o a privazioni che vi siano ricompensate in paradisi futuri, ma affinché impariate da voi stessi quanto più limitato di quel che non si pensi è l’àmbito del necessario, quanto più ampio, quindi, l’àmbito della libertà umana, e in che senso si può affermare che la grandezza dell’uomo deve misurarsi dalla sua capacità di rinunzia. […]
lo vi insegno, o pretendo di insegnarvi, o cari amici, l’amore per la filosofia degli antichi greci, uomini di agilità mentale ormai disusata, e il rispetto per la sapienza orientale, molto più profonda della nostra e di molto piu ampio raggio metafisico. Né l’una né l’altra potranno indurvi a combattere; entrambe, invece, vi faranno perdere la paura per il pensiero, mostrandovi fino a qual punto la mera spontaneità pensante, ben condotta, può essere feconda nell’uomo. […].
lo vi insegno, infine, o pretendo di insegnarvi, l’amore del prossimo e del distante, del simile e del diverso, e un amore che superi alquanto quello che professate verso voi stessi, che potrebbe essere insufficiente. Non direte, amici miei, che vi preparo in qualche maniera alla guerra né ad essa vi incito e sprono come anticipato incitatore delle vostre imprese. Contro il celebre motto latino, io insegno: «Se vuoi pace, preparati a vivere in pace con tutti». Ma se arriva la guerra, poiché non sta in vostro potere evitarla, che cosa – mi direte – sarà di noi preparati alla pace? Vi rispondo: se la guerra arriva, voi senza esitare vi arruolerete dalla parte dei migliori, che non saranno mai coloro che l’hanno provocata, e a fianco di essi saprete morire con un’eleganza, della quale non saranno mai capaci gli uomini di vocazione bellicosa.

Antonio Machado, Juan de Mairena, postumo, in Prose, trad. di O. Macrì e di E. Terni Aragone, Roma, Lerici, 1968, pp. 492-494.

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lo vi saluto, giovani socialisti unificati, con un rispetto che non sempre posso sentire per gli anziani del mio tempo, perché molti di essi stavano disfacendo la Spagna e voi intendete farla. Da un punto di vista teorico io non sono marxista, non lo sono stato mai, è possibilissimo che non lo sarò mai. Il mio pensiero non ha seguito la via che discende da Hegel a Carlo Marx. Forse perché sono troppo romantico, per l’influsso, forse, d’una educazione troppo idealista, mi manca simpatia per l’idea centrale del marxismo; mi rifiuto di credere che il fattore economico, la cui enorme importanza non disconosco, sia il più essenziale della vita umana e il grande motore della storia. Vedo, nondimeno, che il Socialismo, in quanto comporta una maniera di convivenza umana fondata sul lavoro, sull’uguaglianza dei mezzi concessi a tutti per realizzarlo, e sull’abolizione dei privilegi di classe, è una tappa inevitabile sulla strada della giustizia; vedo chiaramente che è questa la grande esperienza umana dei nostri giorni, alla quale tutti in qualche modo dobbiamo contribuire. Essa coincide pienamente con la vostra gioventù, ed è un compito magnifico, siatene certi. Cosicché, non soltanto in qualità di giovani veri, ma anche di socialisti, io vi saluto con intera cordialità. E perché avete saputo unificarvi – che è cosa più grande che non unirvi o congiungervi per far rumore –, contate su tutta la mia simpatia e la mia sincera ammirazione.

Antonio Machado, Discorso alle Gioventù Socialiste Unificate (1° maggio 1937), in Prose,  cit., pp. 586-587.


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Massimo Bontempelli – La convergenza del centrosinistra e del centrodestra nella distruzione della scuola italiana.

La convergenza

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Massimo Bontempelli
L’agonia della scuola italiana

ISBN 88-87296-79-0, 2000, pp. 144, € 10,00

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La scuola italiana nel suo insieme è oggetto, per la prima volta dopo tre quarti di secolo, di una riforma complessiva ed incisiva. Le innovazioni che vi sono introdotte, però, esaminate attentamente nei loro effetti concreti, risultano tutte profondamente negative, sia sul piano della formazione educativa dei giovani, che su quello della professionalità degli insegnanti e della trasmissione di un sapere degno di questo nome. Il carattere pubblico e nazionale del sistema dell’istruzione, e la sua capacità di promuovere lo spirito critico e l’autonomia di giudizio dei giovani, ne risultano gravemente compromessi. Questo disastro è il prodotto di una cultura dogmatica e ideologizzata dei promotori della riforma, che li rende incapaci di pensare su un piano conoscitivamente alto, ed eticamente valido, il nesso tra scuola e società. Tale cultura è peraltro funzionale alle inconfessate esigenze totalitarie di un determinato sistema di potere. La scuola italiana, a questo punto, potrà essere salvata soltanto dalla resistenza consapevole degli insegnanti che vogliono continuare ad essere educatori. Il libro si articola in sette capitoli: L’innovazione distruttiva; Il didatticismo di regime; L’autonomia aziendalistica; L’educazione negata; La stupidità rivelata; La scuola del totalitarismo neoliberista; Il destino della scuola

******

Vorrei parlare non dei contenuti specifici del mio libro [L’agonia della scuola italiana], che chiunque, se vuole, può andare a leggere, ma dell’attuale evoluzione della scuola italiana dopo la riforma di Berlinguer, a cui il mio libro, pubblicato in quel momento, esclusivamente si riferisce. Per capire il senso profondo di tale evoluzione, bisogna cogliere le continuità di fondo dei tre ultimi ministri della pubblica istruzione, Berlinguer, De Mauro e Moratti, che invece appaiono al senso comune portatori di idee diverse. La pubblicistica ha visto addirittura De Mauro, diverso da Berlinguer. Con questo non voglio dire che tutto sia uguale. Ci sono diversità nelle rappresentazioni mentali dei tre personaggi, e diversità di superficie nei loro atti. Per esempio, nel mio testo insistevo sull’ossessione didatticistica che sembra ora declinante, nel senso che la lobby pedagogistica ha un po’ meno peso che con Berlinguer. Inoltre, più che di autonomia dell’istituzione scolastica oggi si parla di regionalizzazione. Però a mio avviso questi mutamenti rispondono alla medesima logica di fondo: la teleologia, la tendenza delle trasformazioni in atto nella scuola, pur con congegni diversi, rimane la medesima. Si tratta del progressivo smantellamento del sistema nazionale della pubblica istruzione, perseguito perché appare inutile e costoso ad una società organizzata in modo sempre più esclusivo da logiche di mercato. Prendiamo una delle cose che viene più strombazzata come elemento di conflitto: l’introduzione dei consigli di amministrazione nella scuola. Questo sembra un elemento di conflitto aspro, perché la destra sembra sostenere una questione di efficienza aziendalistica contro la sinistra arruffona e demagogica. La sinistra da parte sua accusa che si siano violati i diritti democratici del Collegio docenti e del Consiglio di istituto, espropriati da un consiglio di amministrazione.
Una modesta domanda: quando gli OOCC non discutono più assolutamente, perché non c’è lo spazio istituzionale, perché gli insegnanti non ne sono più capaci, di ciò che realmente si insegna, di ciò che dovremmo insegnare – dei problemi seri: si insegna cosa e perché non c’è traccia, ciò di cui si discute nei collegi è se tirare di scherma rientri nei crediti per l’esame di stato, oppure di progetti, oppure si discute della ripartizione dei finanziamenti sui progetti – se un Collegio deve fare questo, che lo faccia un consiglio di amministrazione conta poi molto, dal momento che è il contenuto della scuola che è stato svuotato? [Continua a leggere le nove pagine]

 

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Massimo Bontempelli,
La convergenza del centrosinistra e del centrodestra nella distruzione della scuola italiana

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Roberto Signorini, Una lettura critica del libro «L’agonia della scuola italiana». Con la risposta dell’autore: Massimo Bontempelli

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John Dos Passos (1896-1970) – Scrivere per denaro è almeno altrettanto stupido che scrivere per autoesprimersi. L’anima di una generazione è il suo linguaggio.

Dos Passos

ThreeSoldiers

Il ricordo dell’opera che avrei voluto scrivere non è ancora impallidito al punto da rendermi facile il leggere l’opera che ho scritto. Né è abbastanza impallidita la memoria della primavera 1919. Ogni primavera è tempo di cambiamenti, ma allora Lenin era vivo, lo sciopero generale di Seattle era sembrato l’inizio dell’inondazione anziché l’inizio del calo della marea, gli americani a Parigi erano sbronzi di teatro e pittura e musica; Picasso avrebbe ricostruito l’occhio, Stravinskij faceva risuonare nelle nostre orecchie le steppe russe, correnti d’energia sembravano irrompere d’ogni dove mentre baldanzosi giovani emergevano dalle loro uniformi, l’America imperiale era tutta un luccichio nell’idea del nuovo Ritz, da ogni parte i paesi del mondo si protendevano affamati ed arrabbiati, pronti a tutto purché fosse nuovo e turbolento; dovunque andassi vedevi Charlie Chaplin. Il ricordo della primavera 1919 non è impallidito abbastanza da rendere appena più facile la primavera del 1932. Non che l’oggi fosse allora piu piacevole di quel che è adesso, era forse il domani che sembrava piu vasto; tutti sanno come crescere sia il processo di cogliere i germogli di domani. Molti di noi, giovanissimi in quella primavera, ci siamo fatti un giaciglio e vi abbiamo giaciuto; un bel mattino ti svegli e scopri che quel che avrebbe dovuto essere solo una molla per spingerti nella realtà è una professione, che l’organizzazione della tua vita che avrebbe dovuto servire a farti vedere di più e più chiaramente si è rivelata una sorta di paraocchi costruiti in base a uno schema predestinato: il giovane che pensava di fare il vagabondo si ritrova miope intellettuale borghese (o vagabondo, va male comunque). Va bene, sei un romanziere. E allora? Che te ne fai? Che scusa trovi per non vergognarti di te stesso? Non che vi sia una qualche ragione, suppongo, per vergognarsi del mestiere di scrittore. Un romanzo è un bene di consumo che risponde ad una determinata esigenza; la gente ha bisogno di comprare sogni ad occhi aperti come ha bisogno di comprare gelati o aspirina o gin. Qui e là hanno perfino bisogno di comprare un pizzico di intellettualismo per ravvivare i propri pensieri e qualche goccia di poesia per stimolare i propri sentimenti. Quel che basterà a farti sentire soddisfatto del tuo lavoro sarà tirar fuori il miglior prodotto possibile, soddisfare il mercato di lusso e al diavolo tutto il resto […].
Guadagnarsi da vivere vendendo sogni ad occhi aperti, sensazioni, pacchetti di stimolanti mentali, va benone, ma ritengo che pochissimi la ritengano vita adatta ad un adulto sano. Naturalmente ci puoi fare quattrini ma, anche a parte la caduta del capitalismo, il profitto tende ad essere motivo consunto, destinato sempre più ad essere soffocato dal suo stesso potere e complessità.
Scrivere per denaro è almeno altrettanto stupido che scrivere per autoesprimersi […].
E allora per che cosa scrivi? Per convincere la gente di qualcosa? Questo è predicare ed è parte del mestiere di chiunque abbia a che fare con le parole: il non ammetterlo equivale a giocare con un fucile per poi blaterare che non sapevi che era carico. Ma al di là della predica c’è qualcosa come lo scrivere per lo scrivere. Un ebanista si diverte ad incidere il legno perché è un ebanista; così ciascun tipo di lavoro ha il suo inerente vigore. L’anima di una generazione è il suo linguaggio. Uno scrittore rende duraturi taluni aspetti di questo linguaggio stampandoli. Afferra le parole e le frasi di oggi e ne fa forme per forgiare l’anima della generazione di domani. Questa è storia. Uno scrittore che scrive direttamente è architetto di storia […]. Né sarebbe necessario ripetere cose di questo genere qualora non ci avvenisse di appartenere ad un paese e ad un’epoca di così peculiare confusione allorché la sensibilità dell’uomo medio alla carta stampata è stata prima accesa dal nebuloso sentimentalismo dei professori di letteratura che sostituiscono i classici con «buoni libri moderni», e poi atrofizzata dall’abbaiare degli imbonitori delle case editrici su un qualunque piatto di spazzatura contrabbandato tra una portata e l’altra. Oggi noi scriviamo per la prima generazione americana che non è stata educata sulla Bibbia, e nulla l’ha finora sostituita in termini di disciplina letteraria.
Questi anni di confusione, quando tutto deve essere rietichettato e le parole perdono di settimana in settimana il loro significato, possono essere veleno per il lettore ma sono cibo per lo scrittore […].
Chi di noi è sopravvissuto ha visto come questi anni abbiano strappato una ad una le grandi illusioni del nostro tempo; noi dobbiamo avere a che fare con la nuda struttura della storia ora, dobbiamo farlo presto, prima che sia essa a imprimerci il suo stampo e a metterci fuori gioco.

Dall’Introduzione di John Dos Passos alla edizione della Modern Library di Three Soldiers, 1932.

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Three Soldiers (1921, romanzo), tr. Lamberto Rem Picci, Il mondo fuori casa, Jandi Sapi, Roma 1944; tr. Luigi Ballerini, I tre soldati, Casini, Roma 1967.


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Ignazio Silone (1900-1978) – Il primo dovere di uno scrittore è la sincerità, ha il dovere morale di conoscere i problemi della propria epoca e di farsene un’opinione. Io sono dalla parte dell’uomo e non dell’ingranaggio.

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Intervista a cura di Ferdinando Virdia

Quale è, o quale ritieni possa essere, oggi, la funzione di uno scrittore rispetto alla società e alla vita politica del nostro tempo? Ritieni che uno scrittore debba trovarsi
 «impegnato» nei limiti di un'ideologia o in quelli di una determinata politica sociale?

Il primo dovere di uno scrittore è la sincerità. E il primo dovere di una società verso i suoi artisti e scrittori è di rispettarne la sincerità. Sono pertanto lontanissimo da ogni velleità di far prevalere tra gli scrittori una mia particolare concezione delle relazioni tra letteratura e politica. Personalmente io mi sono sempre sentito «impegnato», nel senso piu rigoroso del termine: «impegnato», direi quasi nel senso che il termine ha nel gergo del Monte di Pietà o Monte dei Pegni. Ma sono assolutamente avverso a farne una norma o una misura di valore. Non credo raccomandabile indurre altri scrittori, che spontaneamente non se la sentono, ad attenersi al medesimo criterio. Ogni scrittore deve esprimersi con la sua voce: non deve parlare o cantare in falsetto. Ho sempre riprovato nel concetto d’impegno di Sartre e dei comunisti l’errore di farne una norma e un giudizio di valore. Si è visto a quali disastrose conseguenze conduce una tale aberrazione, quando tale norma diventa legge dello Stato, com’è awenuto nei paesi d’oltrecortina.

 Ritieni che uno scrittore debba prendere posizione direttamente o indirettamente sui grandi temi del mondo contemporaneo, come quelli della minaccia nucleare, della pace mondiale, della povertà, del paesi sottosviluppati, dell'espansione del comunismo, del pericolo costituito tutt'oggi da dittature di destra o di sinistra presenti o future?

Uno scrittore, come ogni altro cittadino, avrebbe il dovere morale di conoscere i problemi della propria epoca e di farsene un’opinione. Ma, ovviamente, non può essere costretto. È da sperare che lo scrittore convinto di una qualche necessità sociale,  la esprima anche in dibattiti pubblici e polemiche. È utile che lo studio e la trattazione dei temi maggiori della nostra generazione non siano lasciati ai professionisti della politica. Ma uno scrittore decade subito nel rango di propagandista appena si fa il portavoce e il propagatore di parole d’ordine elaborate da altri per questioni da lui personalmente non studiate. È un malcostume ora abbastanza diffuso che getta il ridicolo su molti appelli e dichiarazioni di intellettuali. Anche a questo riguardo, dunque, sorge il richiamo alla sincerità. Gli scrittori hanno non l’obbligo, ma il dovere morale di contribuire ad illuminare l’opinione pubblica sulle questioni da essi studiate e approfondite. Si comportano però da autentici imbecilli quegli intellettuali o artisti che firmano qualunque appello o protesta su argomenti di cui non hanno la minima nozione, obbedendo a motivi di vanità o di opportunismo. Questo malcostume purtroppo ha come risultato di gettare il discredito anche sulle iniziative più serie.

 Come pensi possa essere Inquadrata la tua narrativa nell'attuale situazione e nelle linee di sviluppo della letteratura italiana d'oggi? A quale altro scrittore pensi di essere Iphi vicino ed affine?

Non so come possa essere inquadrata la mia narrativa nella nostra storia letteraria contemporanea. Sinceramente non lo so e non mi preoccupa, poiché non ritengo che sia compito mio di stabilirlo. Mi pare che gli accostamenti suggeriti finora dai critici siano inconsistenti. Poiché nei miei racconti ha una cert’a parte la politica, qualcuno in un primo momento ricordò … Domenico Guerrazzi; poiché il paesaggio è rustico un altro accennò a … Renato Fucini; poiché vi figurano dei preti e vi si parla di religione, qualche altro ha tirato in ballo … Fogazzaro; infine, ma non in fine, vari hanno naturalmente scomodato Verga. Mi pare che nessuna di queste varie presunte parentele regga alla riflessione. Vediamo un po’ … i miei romanzi non sono politici, ma antipolitici; in essi è rappresentata la condizione dell’uomo nell’ingranaggio della politica contemporanea, ed è evidente che l’autore è dalla parte dell’uomo e non dell’ingranaggio. In quanto al paesaggio, esso vi è accennato appena, come proiezione dell’animo dei personaggi. Il religioso o il sacro è quello terrestre della tradizione libertaria meridionale, che non ha nulla in comune con quello intellettuale dei modernisti. E i contadini non sono incatenati nella loro tragica pena; dalle sofferenze di Fontamara, malgrado tutto, sprizza un barlume di coscienza. Mi pare sia un elemento essenziale, una «conclusione» che dà carattere a tutto quello che precede. L’oratore non è piu marxista, ma non è passato invano per il  marxismo.

 La tua crisi di militante e di dirigente comunista, il tuo distacco dal partito comunista nel lontano 1927, è stata la causa determinante del tuo «passaggio» alla letteratura, o esisteva in te, prima di quell'evento, una vocazione letteraria, sia pure insicura o repressa?

Vi è una forma di rivolta esistenziale che contiene il germe di sviluppi assai diversi, politici ideologici morali estetici. Sono le circostanze della vita, e anche gli impulsi imprevedibili dello spirito, a favorire piu tardi uno sviluppo piuttosto che un altro. Posso dunque affermare che le vicende interne del comunismo facilitarono il mio distacco dall’azione politica e la mia concentrazione nel lavoro letterario, ma il bisogno di riflettere e di raccontare lo avevo avuto da sempre. È anche fuori dubbio che il senso della vita e dell’uomo, che era all’origine di quel bisogno, contribuì non poco alla rottura con una politica che ne era la negazione. Questo non significa che, di punto in bianco, io diventassi indifferente alla politica. Rimasi antifascista quanto o piu di prima. Tutto quello che ho scritto in seguito mi pare che stia a dimostrarlo.

C'erano stati prima di Fontamara tuoi tentativi letterari, magari non portati a termine a causa di altri Impegni politici o Intellettuali? L'esigenza di raccontare si manifestò in te come una continuazione e magari come un vero e proprio Ersatz dell'azione politica, o essa non passò in primo plano come una vocazione in certo senso primaria della tua vita?

Devo dire che un certo gusto del «bello scrivere» l’avevo fin da ragazzo ed esso fu incoraggiato in senso deleterio dal genere d’insegnamento letterario che ricevetti nei collegi di preti da me frequentati. Quando mi accinsi a scrivere Fontamara la prima precauzione che dovetti prendere fu appunto di dimenticare il bello scrivere appreso in collegio. Francamente non avevo modelli letterari a cui ispirarmi. Fui sorpreso non poco, nel leggere le prime recensioni apparse dopo le edizioni in tedesco e in inglese, di trovarvi menzionati nomi di autori tedeschi inglesi e americani, a me ignoti, che, secondo i critici, mi avrebbero ispirato. Se mi è lecito menzionare un antecedente non letterario, direi che il lavoro di scrittura di Fontamara poteva ricordarmi, in qualche momento, la redazione dei rapporti interni di partito, con in più quello che nei rapporti mancava. Devo aggiungere che le osservazioni che mi sono state mosse sullo stile e la forma, non mi hanno fatto né caldo né freddo, perché mi ricordano appunto l’insegnamento ricevuto in collegio da cùi mi sono liberato. La vita è troppo breve per tornare a discutere ancora di forma e contenuto.

 I tuoi romanzi rlspecchlano, sia pure In una loro particolare prospettiva fantastica, lirica e autobiografica, una certa realtà italiana, la realtà regionale di un mondo contadino che per la prima volta nella storia letteraria Italiana uno scrittore tratta immedesimandosi in esso e immedesimando in esso una sua visione storica ed ideologica e la sua polemica contro la società. Ritieni che quel mondo e quella società siano oggi diverse dall'epoca della tua esperienza giovanile e del tuoi primi libri? Possono essi continuare ad ispirare la tua opera di narratore?

La condizione sociale dei contadini meridionali è in una fase di rapida trasformazione, come, d’altronde, la società italiana in genere. Sono naturalmente soddisfatto di avere contribuito in modo particolare all’espropriazione del Fucino. Vari giornali la chiamarono la «Rivoluzione di Fontamara». Non direi però che la nuova situazione sia quella del Regno di Dio sulla terra. Anche se uno scrittore si applica a rappresentare la sorte di un ceto sociale che poi si trasforma, non si può dire che la sua visione della vita si esaurisca. Non vi sono riforme che possano modificare sostanzialmente il carattere problematico dell’essere umano, il contrasto dell’individuo col collettivo, della società con lo Stato, lo squilibrio tra la ricerca della felicità e il dolore. È giusto lottare per il benessere, ma non c’è da illudersi che esso risolva tutto: risolverà i problemi della miseria e sarà molto. Le incognite più essenzialmente umane risulteranno esasperate. Nel mio libro Uscita di sicurezza, mi occupo largamente di questo. Ma per me non è un tema nuovo, è solo un aspetto dell’unico tema di cui mi sia sempre occupato, la condizione dell’uomo nella società. Mancherei di rispetto verso me stesso se, per cupidigia di successo, mi mettessi anch’io a scrivere d’incesto e prostituzione, secondo la moda. La moda non m’interessa, che, se moda, passerà.

L’intervista è pubblicata in: Ferdinando Virdia, Silone, Il Castoro, Mensile diretto da  Franco Mollia, n. 6, La Nuova Italia, Giugno 1967, pp. 1-6.


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Robert Musil (1880-1942) – Ogni grande libro spira amore per i destini dei singoli individui che non si adattano alle forme che la collettività vuol loro imporre. Abbiamo troppo poco intelletto nelle cose dell’anima.

Musil 01

Das hilflose europa

Non abbiamo troppo intelletto e troppo poca anima,
ma troppo poco intelletto nelle cose dell'anima.

Robert Musil,
Das hilflose Europa, München 1922.

L'uomo senza qualità

«Come ci si può immaginare che l’uomo avrà ancora un’anima quand’abbia imparato a capirla e a trattarla perfettamente sotto l’aspetto biologico e psicologico?
[…] La conoscenza è un atteggiamento, una passione. Un atteggiamento illecito, in fondo; perché come la dipsomania, l’erotismo e la violenza, anche la smania di sapere foggia un carattere che non è equilibrato.
Non è vero che il ricercatore insegue la verità, è la verità che insegue il ricercatore. Egli la subisce. Il vero è vero, e il fatto è reale senza curarsi di lui; egli ne ha soltanto la passione, è un dipsomane della realtà, e questo foggia il suo carattere, e non gliene importa un fico che dalla sua scoperta venga fuori qualcosa di completo, di umano, di perfetto o di checchessia. È una creatura piena di contraddizioni, passiva, e tuttavia straordinariamente energica […]

Non esiste una sola idea importante di cui la stupidità non abbia saputo servirsi; essa è pronta e versatile e può indossare tutti i vestiti della verità. La verità invece ha un abito solo e una sola strada, ed è sempre in svantaggio […]

Ogni grande libro spira amore per i destini dei singoli individui che non si adattano alle forme che la collettività vuol loro imporre […] Estrai il senso di tutte le opere poetiche e ne ricaverai una smentita interminabile […] di tutte le norme, le regole e i principi vigenti sui quali posa la società che ama tali poesie! Per di più una poesia col suo mistero trafigge da parte a parte il senso del mondo, attaccato a migliaia di parole triviali, e ne fa un pallone che se ne vola via. Se questo, com’è costume, si chiama bellezza, allora la bellezza dovrebb’essere uno sconvolgimento mille volte più crudele e spietato di qualunque rivoluzione politica […]».

Robert Musil, L’uomo senza qualità, Torino, Einaudi, 1967, trad. di Anita Rho, Vol. I, pp. 248, 66 e 425.


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Albert Camus (1913-1960) – Il teatro è un luogo di verità: è per me esattamente il più alto dei generi letterari e in ogni caso il più universale.

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«Come? Perché faccio del teatro? Ebbene, me lo sono domandato spesso. E la sola risposta che abbia potuto darmi sino ad ora le sembrerà di una banalità scoraggiante: semplicemente perché una scena di teatro è uno dei luoghi del mondo in cui sono felice. Noti del resto che questa riflessione è meno banale di quanto sembri. La felicità, oggi, è un’attività originale. […] Sono ragioni d’uomo ma ho anche ragioni d’artista, vale a dire più misteriose. E innanzitutto trovo che il teatro è un luogo di verità. Generalmente si dice, è vero, che è il luogo dell’illusione. Non lo creda affatto. Sarebbe piuttosto la società a viver d’illusione e lei incontrerà sicuramente meno istrioni sulla scena che in città. Prenda in ogni caso uno di questi attori non professionisti che figurano nei nostri saloni, nelle nostre amministrazioni o, più semplicemente, nelle nostre sale di ripetizione generale. Lo metta su questa scena, esattamente in questo posto, scarichi su di lui 4000 watts di luce, e la commedia allora non durerà più, lo vedrà in un certo senso tutto nudo, nella luce della verità. Sì, le luci della scena sono spietate e tutte le truccature del mondo non impediranno mai che l’uomo, o la donna, che cammina o parla su questi sessanta metri quadrati si confessi a modo suo e declini, nonostante i travestimenti e i costumi, la sua vera identità. E degli esseri che ho a lungo e ben conosciuto nella vita, cosi come sembrano essere, sono assolutamente sicuro che li conoscerei veramente a fondo solo se mi facessero la cortesia di voler ripetere e recitare con me i personaggi di un altro secolo e di un’altra natura. Qualche volta mi si dice: «Come concilia nella sua vita il teatro e la letteratura?» In fede mia, ho fatto molti mestieri, per necessità o per gusto, e si deve pur pensare che sono riuscito a conciliarli con la letteratura, dato che sono rimasto uno scrittore. Ho persino l’impressione che cesserei di scrivere, se a un certo punto accettassi di essere unicamente uno scrittore. Per quanto riguarda il teatro, la conciliazione è automatica giacché il teatro è per me esattamente il più alto dei generi letterari e in ogni caso il più universale».

Albert Camus, «Gros pian», alla televisione, 12 maggio 1959.

 

 


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Jean Cocteau (1889-1963) – «Lettera agli americani». Americani, ciò che io vi raccomando non ha niente a che vedere con i soldi. Non si compra. È la ricompensa per coloro che non temono le scomodità. Ci impegna di fronte a noi stessi. È il nutrimento dell’anima.

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Americani,
Il successo è per voi obbligatorio.
Voi rifiutate di aspettare e di fare aspettare.
Voi che volete vivere il minuto presente, succubi della riuscita e del successo.
Non dimenticate che il ritmo del mondo è dato dal fatto che respira come voi.

 

Archinto_logo

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Jean Cocteau, Lettera agli americani, Archinto, 2003.


Dal risvolto di copertina

Sull’aereo che lo riporta in Francia, dopo venti giorni – «o vent’anni?» – trascorsi a New York, il turista Jean Cocteau si concede un gesto intellettuale avventuroso in una forma letteraria defilata: accosta l’occhio alla lente della città punta di diamante dell’America e getta uno sguardo critico sul popolo destinato a guidare il mondo. È il 1949. Cocteau vede l’alba di un difficile e diseguale confronto tra il Vecchio e il Nuovo mondo, che solo oggi sembra lasciar affiorare qualche dubbio e nuove prospettive. «Qual è l’incubo della vostra città che dorme in piedi, vi chiedo? La bomba atomica.» «Non sarete salvati né dalle armi né dalla fortuna. Sarete salvati dalla minoranza di coloro che pensano.» «Dappertutto in America una minoranza palpita e si trova prigioniera di una libertà fittizia.» In cielo, tra viaggiatori sonnacchiosi, Jean Cocteau scrive di getto «agli americani» e si trasforma in profeta, perché in lui scorre «il sangue di un poeta».


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«Americani,

[…] il successo è per voi obbligatorio (p. 6) […] Voi rifiutate di aspettare e di fare aspettare (p. 8) […] Di contunuo, da voi, ci si trova di fronte all’audacia e al timore dell’audacia (p. 11) […] Voi avete il comfort. Vi manca il lusso. […] Il lusso che io raccomando non ha niente a che vedere con i soldi. Non si compra. È la ricompensa per coloro che non temono le scomodità. Ci impegna di fronte a noi stessi. È il nutrimento dell’anima. (p. 16) […] Voi che volete vivere il minuto presente, succubi della riuscita e del successo (è. 30) […] Non dimenticate che il ritmo del mondo è dato dal fatto che respira come voi […] Siamo vittime di un’epoca in cui i polmoni si svuotano. Il mondo espira. Non pensa più, dissipa. (p. 31) […] È molto pericoloso volere l’ordine e non mettere in atto una sorta di disordine in cui l’anima se la sbrogli invece di inaridire tra linee morte. (p. 37) […] Qui in Francia il suddetto disordine mi permette di affronate qualunque cosa in un fim […] se qualcosa cade nel dominio dell’impossibile […] io ne parlo ai miei collaboratori. Ognuno di loro cerca di rendere possibile l’impossibile. (p. 38) […] Mi è difficile prendere sul serio le preoccupazioni dei dittatori e di tutte le persone che vagheggiano la gloria (p. 44) […] Mi rivolgo sempre a quelli che cercano disperatamente di essere liberi e che devono, come me, aspettarsi lo schiaffo, al punto di chiedersi, quando ricevono dei complimenti, se non si sono resi colpevoli di qualche errore (p. 47)».

 

Jean Cocteau ritratto da Amedeo Modigliani nel 1916. Modigliani,_Amedeo_(1884-1920)_-_Ritratto_di_Jean_Cocteau_(1889-1963)_-_1916

 


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Günter Anders (1902-1992) – L’Apprendista stregone è invidiabile perché fa ancora il tentativo di fermare ciò che ha provocato o che è sul punto di provocare. Oggi viviamo in una foresta di manici di scopa che diventa sempre più fitta

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Illustrazione di Ferdinand Barth dall'edizione di Der Zauberlehrling di Goethe del 1882

Illustrazione di Ferdinand Barth dall’edizione di Der Zauberlehrling di Goethe del 1882.


Parliamoci chiaro. Ciò che Goethe* ha messo in poesia come un qualcosa che provoca terrore, come un evento di eccezione, degno di una ballata avventurosa, questo qualcosa a noi capita ininterrottamente, a noi accade senza tregua, per quanto si possa ancora parlare di «accadere». Parlare di «accadere», infatti, ha senso solo se ciò che accade si stacca come un fatto eccezionale dallo sfondo di una innocua e regolare quotidianità. Ma, oggigiorno, non è questo il caso. Ciò che rende il nostro tempo avventuroso è, al contrario, il fatto che lo straordinario, invece di dare nell’occhio, è proprio la regola; che i «manici di scopa» divenuti autonomi, cioè gli apparati (sia in senso amministrativo che in senso fisico-tecnico), come le centrali elettriche, i missili atomici, gli apparecchi spaziali e i grandi impianti industriali necessari per la loro produzione, formano tutti insieme il nostro mondo quotidiano. Milioni di persone vivono del fatto che la produzione di questi apparecchi è divenuta autonoma; l’economia d’interi continenti crollerebbe se la loro fabbricazione improvvisamente venisse a cessare: tutte queste cose oggi non sono eccezioni né sensazioni che si possano cantare a mo’ di ballata, come l’avvenimento sensazionale cantato da Goethe.

E allo stesso modo fa parte delle regole della quotidianità che non pensiamo neppure a ribellarci contro ciò che i nostri «spiriti» fanno e pretendono da noi. Al contrario vediamo nell’autonoma, ovvero automatica efficacia di ciò che abbiamo prodotto che agli occhi di Goethe era parso ancora qualcosa di terrorizzante qualcosa di normale, anzi, persino qualcosa che ci rallegra: cioè la garanzia che anche la nostra esistenza personale continuerà a funzionare in modo piano, e che il peso della responsabilità personale (che sentiamo già come qualcosa di antiquato, come una moda di avantieri) ci verrà tolto una volta per sempre.

Oltre a ciò, infine, c’è il fatto che i nostri «spiriti» hanno la mania di diffondersi e di moltiplicarsi; che essi, cioè, non solo restano indipendenti da noi, così come già erano subito dopo la loro «nascita», ma diventano sempre più indipendenti; e al contrario rendono noi, per l’accumularsi del loro potere e della loro indipendenza, sempre più dipendenti. Goethe, allorché continuò a far lavorare un robot tagliato in due metà come un doppio robot, aveva già in vista una tale accumulazione. Noi sappiamo, oggi, che gli apparati sono sempre spinti dalla tendenza a collegarsi gli uni con gli altri e unificarsi in «rete» (come si dice in elettrotecnica). E ciò vale anche per ciò che riguarda le reti, dato che anch’esse s’intrecciano di nuovo in reti di odine superiore, senza riguardo per ciò che in tal modo potrebbero provocarci. In breve: mentre in Goethe entra in scena un unico e solitario manico di scopa, divenuto autonomo in modo straordinario (e poi una coppia di manici di scopa), oggi viviamo in una foresta di manici di scopa che diventa sempre più fitta. E visto che non esiste alcuna possibilità di tagliare questo bosco o di scappare da esso, questo è il nostro mondo.

Tempi felici erano dunque quelli in cui, come Goethe, si poteva rappresentare un robot come un orripilante caso a sé e non come il quotidiano modus operandi del mondo; e nei quali ancora si aveva la possibilità di trattare un tale evento in forma di poesia, il che oggi (nel senso del detto di Adorno sulla poesia dopo Auschwitz) sarebbe già problematico, forse persino disdicevole. Tempi felici, nei quali ci si poteva permettere, senza rischiare di essere scherniti come ingenui e non realistici, di creare la figura di un maestro, cioè di un uomo che padroneggiava l’antidoto e al quale bastava aprire le labbra per rendere ancora possibile lo happy ending. Tempi felici davvero! Paragonato a noi, uomini d’oggi, persino l’Apprendista stregone, nonostante la situazione calamitosa in cui si era messo da sé, e nonostante l’acuta disperazione con la quale grida aiuto, è ancora una figura invidiabile.

Ma che cosa significa qui «nonostante»? Infatti, al contrario, egli è invidiabile proprio perché, a differenza degli uomini d’oggi, percepisce con i propri occhi il pericolo da lui stesso evocato; perché ancora capisce che esiste un motivo di disperazione; e perché, per tale motivo, fa ancora il tentativo di fermare ciò che ha provocato o che è sul punto di provocare. Confrontata con la nostra situazione attuale, quella dell’Apprendista stregone di Goethe era una semplice calamità; un episodio eccitante.

Günter Anders, L’uomo è antiquato, Bollati Boringhieri, 1992, pp. 374-376.


* L’apprendista stregone (in tedesco Der Zauberlehrling) è una ballata composta nel 1797 da Wolfgang Goethe, ispirata a un episodio del Φιλοψευδής (Philopseudḗs, ovvero “l’amante del falso”) di Luciano di Samosata. Cfr. «Luciano di Samosata e l’apprendista stregone». Nelle Philopseudes, dello scrittore satirico greco Luciano di Samosata, si narra, infatti, di Eucrate, giovane apprendista del mago Pancrate, desideroso di carpire i segreti del suo maestro. Trovatosi un giorno da solo, il ragazzo sperimenta un sortilegio che aveva visto fare allo stregone che, grazie ad alcune parole magiche, riusciva ad animare un pestello ed inviarlo ad attingere acqua con un’anfora. L’incantesimo riesce e il pestello svolge il suo compito, ma Eucrate, ignorando la formula necessaria per riportare l’oggetto allo stato iniziale, non è in grado di fermarlo, per cui esso continua imperterrito a prendere l’acqua e a versarla dentro la casa del mago. A questo punto il giovane tenta di risolvere il problema tagliando il pestello con un’accetta, ma ottiene come unico risultato la formazione di due “gemelli”, di dimensioni più piccole, che si muovono ancora più velocemente. Solo il ritorno del mago porrà fine a quella situazione incresciosa ed anche all’apprendistato di Eucrate. La storia fu ripresa nel 1797 da Wolfgang Goethe, che la trasformò in una ballata di 14 strofe dal titolo Der Zauberlehrling dove, rispetto all’originale, il pestello era sostituito da una scopa, che doveva riempire d’acqua la vasca situata nella casa del mago ed il finale non specificava la sorte toccata all’apprendista. Giusto un secolo dopo, il francese Paul Dukas (1865-1935), ispirandosi a Goethe, compose L’apprendista stregone. La composizione ebbe subito successo e la sua notorietà proseguì negli anni successivi, raggiungendo la consacrazione definitiva quando fu utilizzata da Walt Disney, che affidò a Topolino il ruolo dell’apprendista, in uno degli episodi più riusciti del cartone animato “Fantasia”.

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      Günter Anders, L’Apprendista stregone invidiabile

 


PAUL DUKAS (1865-1935) “L’Apprenti sorcier” – YouTube


Cernicchiaro Alessio – Günther Anders. La Cassandra della filosofia. Dall’uomo senza mondo al mondo senza uomo. Prefazione di Giacomo Pezzano

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Alessio Cernicchiaro,

Günther Anders. La Cassandra della filosofia.
Dall’uomo senza mondo al mondo senza uomo
.
Prefazione di Giacomo Pezzano: Anders e noi.
ISBN 978-88-7588-132-0, 2014, pp. 400, formato 140×210 mm., Euro 25
Collana “Il giogo” [59]. In copertina: Günther Anders ottantenne, 1982.


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