Gallese Vittorio, Guerra Michele, «Lo schermo empatico. Cinema e neuroscienze», 2015

 

Lo schermo empatico

Gallese Vittorio, Guerra Michele,
Lo schermo empatico. Cinema e neuroscienze,
Raffaello Cordina Editore, 2015, pp. 318

cortina-editore_logo_header

Il Libro

Perché i film ci appaiono così reali mentre sono così scopertamente artificiali? Perché, pur restando fermi nelle nostre poltrone, abbiamo la sensazione di muoverci e orientarci nello spazio virtuale dello schermo? Un neuroscienziato e un teorico del cinema analizzano alcuni grandi capolavori (Notorious, Persona, Shining, Il silenzio degli innocenti) a partire dal tipo di coinvolgimento che questi film esercitano sul corpo degli spettatori e dalle forme di simulazione prodotte dai movimenti della macchina da presa e dal montaggio. Le analisi sono sostenute da esperimenti neuroscientifici e sono ispirate dalla scoperta dei neuroni specchio e dalla teoria della “simulazione incarnata”. L’obiettivo è comprendere i molteplici meccanismi di risonanza che costituiscono uno dei grandi segreti dell’arte cinematografica e riflettere sul potere delle immagini in movimento, che in forme sempre più nuove e pervasive fanno parte della nostra vita di tutti i giorni.

Gli autori

Vittorio Gallese ha fatto parte del gruppo che nel 1992 ha individuato i “neuroni specchio”, la scoperta italiana più citata nella letteratura internazionale. Insegna Fisiologia all’Università degli studi di Parma.

Michele Guerra insegna Teorie del cinema all’Università degli studi di Parma. Da alcuni anni si occupa delle relazioni tra cinema e neuroscienze cognitive.

 

 

***********************************************

Seguici sul sito web 

cicogna petite

Luis Bonilla-Molina – È in atto una gigantesca controriforma educativa sponsorizzata dall’Ocse e dalla Banca mondiale

luis_bonillaLuis Bonilla-Molina

 

«I cambiamenti in corso nel modello educativo dei paesi capitalistici mostrano l’avvio di una gigantesca controriforma educativa sponsorizzata dall’Ocse e dalla Banca mondiale, che mette in pericolo il diritto umano all’educazione e indica un cambiamento di indirizzo sostanziale nella democrazia rappresentativa per come la si è conosciuta nei paesi occidentali. […] La scuola con il suo sistema di relazioni, il suo compito […] sono seriamente minacciati»

 

Luis Bonilla-Molina – presidente del Centro Internacional Miranda (Cim) a Caracas, Venezuela.

Educación en tiempos de revolución Bolivariana

Aporrea – artículos de Luis Bonilla Molina

Luis Bonilla-Molina (@Luis_Bonilla_M) | Twitter

Luis Bonilla-Molina | Facebook

Intervista a cura di Geraldina Colotti a Luis Bonilla-Molina, pubblicata su “Le Monde diplomatique”-il manifesto, settembre 2015, p. 23

 

***********************************************

Seguici sul sito web 

cicogna petite

Franco Fortini (1917-1994) – «I confini della poesia», Castelvecchi, 2015: «Misura, ossia senso del limite opportuno ma anche dell’illimitato che sta al di là»

 

Franco_Fortini

 

«Metrica come misura,
mezura ossia senso del limite opportuno
ma anche dell’illimitato che sta al di là […].
Certi campioni di misura, in meccanica fine, si chiamano giudici.
Metrica, giudizio».

 

Franco Fortini, I confini della poesia, Castelvecchi, 2015. A cura di Luca Lenzini.

 

I confini della poesia

logo_Castelvecchi

Tra il 1978 e il 1980, in due conferenze, Franco Fortini fornì una sintesi della propria concezione della poesia, prima in chiave teorica e in dialogo con le tendenze critiche correnti, poi in chiave soggettiva e dichiaratamente autobiografica. È una riflessione durata tutta l’esistenza, che giunge in questi testi a un’articolazione particolarmente ricca e nitida. Il primo saggio, Sui confini della poesia, illumina i modi d’essere della poesia nel tempo, ovvero in correlazione con i mutamenti storici (non solo novecenteschi) che ne orientano l’interpretazione, fino al «trionfo della trasformazione della società in spettacolo». Metrica e biografia, d’altra parte, ripercorre un intero itinerario biografico dal punto di vista della psicologia individuale alle prese con i condizionamenti culturali, le risorse formali della tradizione e l’esperienza degli altri poeti. In entrambi i casi, cruciale è la nozione di confine, come si conviene al pensiero dialettico di chi ha sempre sfidato il rischio delle «questioni di frontiera».

Luca Lenzini
Ha dedicato studi e commenti all’opera di Vittorio Sereni, Franco Fortini, Guido Gozzano e numerosi altri autori novecenteschi. Dirige la Biblioteca Umanistica dell’Università di Siena ed è membro del Centro studi Franco Fortini.

***********************************************

Seguici sul sito web 

cicogna petite

Marcello Cini (1923-2012) – C’È ANCORA BISOGNO DELLA FILOSOFIA PER CAPIRE IL MONDO?

Marcello Cini

  1. INTRODUZIONE

È possibile “collegare e raccordare scienza da una parte e cultura e senso comune dall’altra”? Marino Badiale risponde affermativamente, argomentando che spetta alla filosofia il compito di effettuare questa mediazione attraverso una attività razionale di sintesi e di interpretazione delle idee e dei risultati della scienza. Sintesi significa, in questo contesto, “cogliere gli aspetti concettuali più significativi di una disciplina scientifica: le categorie con le quali essa organizza il suo particolare dominio di oggetti, la metodologia nella quale sintetizza il proprio concreto operare, i valori e gli scopi conoscitivi nei quali riassume il fine della propria ricerca”. Interpretazione vuol dire “comprendere il significato culturale e umano di tutto questo, collegando i concetti fondamentali delle varie discipline con le altre dimensioni della cultura e dell’operare umano in una unità comprensibile e sensata”. Si tratta, in definitiva, di “capire cosa la scienza stessa ci dice dell’essere umano e del mondo che egli si costruisce”.
Questo è, del resto, argomenta Badiale, ciò che ha fatto la filosofia in Occidente, almeno fino a poco tempo fa: i suoi maggiori esponenti si sono posti come fine una comprensione razionale delle varie dimensioni dell’esistenza umana e della loro sintesi in una visione unitaria e armonica. Oggi, tuttavia questo obiettivo sembra diventare sempre più irraggiungibile. Due tendenze divaricanti infatti dominano da un lato la scienza e dall’altro la cultura, tanto nelle sue manifestazioni elitarie come in quelle di massa.
Da parte sua la scienza è sempre più caratterizzata da un processo esponenziale di “specializzazione parcellizzante” che esclude la possibilità di una sintesi filosofica che ne colga gli aspetti concettuali fondamentali, e vanifica dunque la ricerca di un senso complessivo per le sue azioni e i suoi fini. Al tempo stesso infatti, la filosofia, sottoposta allo stesso processo, cancella questo compito dalla sua agenda, mentre le discipline scientifiche sempre più cercano nell’autoreferenzialità della loro pratica la propria legittimazione.
La cultura di massa è a sua volta dominata dal rifiuto di “un aspetto fondamentale della tradizione filosofica occidentale” cioè della “discussione razionale sui grandi temi della vita umana: il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, il modo migliore di organizzare la vita degli esseri umani”. Essa si presenta dunque come una forma di irrazionalismo diffuso, come un immane sforzo per non sapere ciò che stiamo facendo (a noi stessi e al nostro mondo).
Il procedere di questi due processi – la specializzazione parcellizzante della scienza e l’espulsione del pensiero critico dalla cultura di massa – porterebbe dunque a concludere che la riflessione filosofica di sintesi e di interpretazione inizialmente proposta è impossibile. Non resterebbe allora altro da fare, secondo Badiale, se non tentare di attestarsi su alcune linee di resistenza, nella scuola soprattutto ma anche in alcuni punti chiave all’interno delle facoltà scientifiche e delle istituzioni della ricerca, nell’attesa che la scienza diventi adulta, capace cioè di “rinunciare al desiderio infantile di onnipotenza” e di “riconoscere la propria funzione, il proprio ruolo, e quindi, contemporaneamente, il proprio valore e i propri limiti”.
Dico subito che non mi riconosco interamente in questo discorso, anche se condivido molte delle argomentazioni che lo sorreggono ed alcune delle conseguenze che se ne traggono. È come se mi trovassi di fronte a una figura che, pur essendo composta da molti pezzi che mi sono familiari, finisce, per il diverso ordine con il quale vengono disposti o per l’assenza di altri che secondo me sarebbero necessari, col rappresentare un quadro diverso da quello che appare ai miei occhi.
Fuori di metafora, mi sembra per esempio che l’analisi schematicamente riassunta in precedenza dei due processi che hanno trasformato la scienza e la cultura di massa, pur rappresentandone correttamente alcuni tratti evidenti, non colga appieno la natura della profonda svolta che entrambe queste componenti fondamentali della società contemporanea hanno vissuto negli ultimi decenni del secolo appena finito. In particolare mi sembra che questa analisi parli delle norme metodologiche e dei criteri epistemologici delle diverse discipline scientifiche come se avessero una radice comune in un ideale di scienza che in ultima analisi assume la fisica come modello. Non è un caso, mi sembra, che gli esempi utilizzati abbiano tutti a che fare con questa disciplina e che le discipline della vita e della mente non siano mai nominate.
Non tiene conto, per esempio, del fatto che, via via che si attinge ai livelli più elevati di organizzazione della materia, il consenso degli scienziati sul linguaggio disciplinare considerato appropriato si indebolisce, e si assiste alla moltiplicazione dei linguaggi adottati da gruppi diversi della comunità. Questi linguaggi non sono necessariamente in contraddizione: essi corrispondono a differenti modellizzazioni del dominio fenomenologico e a differenti punti di vista (culturali, epistemoligici, tecnologici) a partire dai quali si costruiscono le categorie concettuali e i metodi pratici utilizzati per analizzare il dominio considerato. In queste discipline sarà dunque sempre più difficile inventare un “esperimento cruciale” capace di decidere chi ha ragione e chi ha torto, perché tutti i modelli sono parziali e unilaterali. Ognuno di essi è al tempo stesso” oggettivo”, perché riproduce alcune proprietà del reale, e “soggettivo” perché il punto di vista è scelto dai gruppi diversi in conflitto fra loro.
Una rappresentazione della scienza che non assuma questa varietà di punti di vista in competizione, secondo me, impedisce a sua volta di individuare la novità e la ricchezza del compito che la filosofia si trova a dover affrontare, rispetto a quello di sintesi e di interpretazione assegnato ad essa nel saggio introduttivo; un compito che del resto appare all’autore stesso impossibile da raggiungere nelle condizioni attuali.
In questo lavoro mi propongo dunque di discutere anzitutto (§ 2) la natura della svolta che ha caratterizzato la scienza nel passaggio dal XX al XXI secolo. Successivamente analizzerò rispettivamente i rapporti fra scienza ed epistemologia, rispettivamente per le discipline della materia inerte (§ 3) e per quelle della materia vivente (§ 4) e pensante (§ 5). Il § 6 è dedicato invece al rapporto fra scienza ed etica. Nelle conclusioni (§ 7) cercherò di argomentare perché sono convinto che la filosofia sia un bisogno insopprimibile della mente umana: come l’Araba Fenice risorge sempre dalle sue ceneri.

  1. LA SVOLTA NELLA SClENZA DAL XX AL XXI SECOLO

Nel secolo appena finito l’uomo ha instaurato il suo pieno dominio sulla materia inerte. Dopo essere riuscito, nel ‘700 e ‘800, a formulare le grandi leggi universali che ne regolano le proprietà a livello macroscopico e aver individuato le diverse forme di energia di cui può essere dotata, nel ‘900 ha appreso, attraverso la conoscenza sempre più approfondita dei suoi costituenti elementari, a trasformarla in forme e aggregati nuovi, in modo da riuscire a progettare e costruire un mondo artificiale fatto di sostanze, macchine, apparati, finalizzato ad incrementare al di là di ogni immaginazione, mediante protesi sempre più potenti e penetranti, la portata e l’intensità delle proprie capacità naturali di percezione, di azione e di controllo del mondo esterno. Il nuovo secolo sarà il secolo del dominio dell’uomo sulla materia vivente e del controllo sui fenomeni mentali e sulla coscienza. La prima barriera, che separa la materia inanimata e quella vivente, sta crollando vistosamente, dopo che, da un lato, sono state decodificate le modalità di autorganizzazione della vita e sono stati identificati i geni come sue unità elementari, e, dall’altro, è stato ricostruito il processo evolutivo che ha dato origine alla immensa varietà e complessità delle sue diverse manifestazioni. La seconda, quella tra corpo biologico e mente (e, in particolare, tra cervello e coscienza) sta cedendo sotto i colpi dei progressi delle neuroscienze nell’individuazione della gerarchia delle diverse strutture cerebrali e delle loro funzioni, dai singoli neuroni fino alla rete delle loro reciproche connessioni.
Dopo aver cominciato ad apprendere come trasformare la vita in forme e aggregati nuovi, e come controllare i fenomeni mentali, gli uomini si apprestano dunque a progettare e costruire una biosfera artificiale fatta di organismi transgenici, chimere, cloni, e chissà quali altre forme viventi, regolata da una rete di menti artificiali di complessità crescente, con conseguenze imprevedibili.
È essenziale riconoscere che questa svolta cambia profondamente la natura stessa della scienza. Essa infatti comporta l’abbattimento di due steccati che tradizionalmente separavano la scienza dalle altre attività sociali umane: uno separava la scienza (in quanto conoscenza disinteressata della natura ottenuta attraverso la scoperta) dalla tecnologia (in quanto utilizzazione pratica dei risultati della prima realizzata attraverso l’invenzione), e l’altro separava le attività che si occupano difatti da quelle che si occupano dei valori che stanno alla base delle norme (etiche e giuridiche) intese a regolare le finalità e i comportamenti degli individui nei loro rapporti privati e nelle loro azioni sociali.
Entrambe queste separazioni nette tendono a scomparire. Per quanto riguarda la prima è evidente che il nesso tra la ricerca scientifica “pura”, cioè perseguita al solo scopo di conoscere in modo disinteressato la natura, e l’innovazione tecnologica, stimolata dall’interesse a inventare continuamente nuovi strumenti per soddisfare la domanda di un mercato sempre più esigente e sofisticato, si è fatto sempre più stretto, fino a diventare un intreccio difficilmente districabile. Per convincersene basta osservare quanto sia ambiguo e intimo il rapporto fra la biologia molecolare, disciplina fondamentale quant’altre mai, e l’ingegneria genetica, tecnologia di punta per eccellenza, per convincersi che è impossibile decidere se una delle due venga prima dell’altra. Lo stesso si può dire per le discipline coinvolte in tutti i problemi ambientali, o in quelle che intervengono nei fenomeni cerebrali e mentali.
Anche per quanto riguarda la separazione fra fatti e valori la svolta ha un effetto dirompente. È ormai esperienza comune che i dibattiti e le polemiche interne alla scienza cominciano a entrare nelle arene del discorso e dell’azione non scientifiche. Le scoperte scientifiche sono messe in discussione, criticate o utilizzate insieme ad altre fonti di conoscenza disponibili da parte di un pubblico sempre più vasto. Una cosa è infatti manipolare, controllare, forgiare un oggetto fatto di materia inerte e altra cosa è compiere le stesse operazioni su un organismo vivente o addirittura sull’uomo. Nel primo caso illecito coincide con l’utile, nel secondo illecito dovrebbe per lo meno dipendere anche da una valutazione di natura etica. Dunque anche la seconda separazione tende a svanire: diventa sempre più difficile decontaminare i fatti dai valori ed estirpare gli interessi dalla conoscenza. Le “verità” della scienza e gli “strumenti” della tecnologia acquistano proprietà che dipendono dal contesto. Nasce il problema del rapporto fra conoscenza e valori, cioè del nesso fra la ricerca della “verità” e il perseguimento di “retti” comportamenti individuali e collettivi.
È tuttavia evidente che la svolta non viene percepita, nell’immaginario collettivo, in tutta la sua radicalità. Sia gli scienziati che i decisori, nella sfera pubblica (politici e amministratori) come in quella privata (industriali e managers), si affannano infatti, attraverso i mezzi di comunicazione di massa, a mantenere intatta l’immagine tradizionale della scienza, come ricerca disinteressata e oggettiva (avalutativa) della verità capace di rappresentare la realtà così com’è, in modo sempre più fedele e dettagliato. I primi perché sono interessati a sottolineare la continuità del “metodo scientifico” che garantirebbe una volta per tutte uno statuto epistemologico privilegiato a questa forma di conoscenza, conferendo nel contempo alla categoria un elevato prestigio sociale e non disprezzabili porte di accesso alla sfera del potere. I secondi perché sono ancor più interessati a marcare la continuità delle leggi dell’economia e del mercato come regolatrici ultime dell’introduzione di innovazione scientifica e tecnologica di qualsiasi natura nel processo produttivo. “Il fatto che una cosa abbia natura biologica e si autoriproduca –afferma a questo proposito un oscuro ma aggiornato biotecnologo di Oakland – non basta a renderla diversa da un pezzo di macchina costruita con dadi, bulloni e viti”. Portare alla luce la vera portata di questa svolta diventa dunque un primo compito essenziale della riflessione filosofica. La pionieristica opera di Gregory Bateson, questo grande “filosofo naturale”, emarginato dalla comunità scientifica quando era in vita e quasi completamente dimenticato dopo la sua morte, può essere, da questo punto di vista, assolutamente fondamentale. Altri nomi che a questo punto è d’obbligo fare sono quelli di Hans Jonas e di Paul Ricoeur. Come vedremo più avanti, non si parte da zero. Occorre però compiere un riordinamento gestaltico nell’immagine della scienza che incontra ancora molte resistenze. Sarà la forza delle cose a costringerci a farlo.

  1. 3. L’EPISTEMOLOGIA DELLE SCIENZE DELLA MATERIA INERTE

Il compito di “sintesi” assegnato da Badiale alla filosofia è indubbiamente reso difficile dai due processi – la specializzazione parcellizzante della scienza e l’espulsione del pensiero critico dalla cultura di massa – che caratterizzano la nostra società capitalistica avanzata. Mi sembra però che ci sia nella stessa definizione di “sintesi” una difficoltà più profonda, che riguarda tutta la scienza, a partire dalla fisica, la disciplina della materia inerte per eccellenza.
Mi sembra infatti che il concetto di “sintesi” inteso come “estensione a un livello molto generale e astratto di un aspetto essenziale della pratica quotidiana della scienza” sia fondato su una immagine inadeguata di questa pratica.
Secondo Badiale, essa comincia “dallo studente che, svolto il calcolo suggerito dal docente, deve capire perché esso rappresenti la soluzione del problema fisico dato”, continua con lo “sperimentatore che si sforza di interpretare i segnali che i suoi strumenti gli mandano”, arriva al “teorico che sintetizza i dati sperimentali e deduzioni matematiche in una nuova immagine del mondo”, per sfociare nella “intera prassi scientifica [che vive] di un continuo sforzo di sintesi e di interpretazione dei propri stessi risultati”.
Forse questa immagine della scienza è un po’ troppo semplice. Se fosse vera, tra l’altro,la filosofia non avrebbe mai avuto un ruolo nel suo processo di sviluppo. È essenziale infatti, per capire questo ruolo, abbandonare la vecchia immagine, criticata da Kuhn già quarant’anni fa, del progresso della scienza come processo lineare, tutto interno, di accumulazione di verità che man mano sostituiscono vecchi errori e colmano precedenti lacune. Se così fosse, in effetti, non ci sarebbe bisogno della filosofia: la “verità” verrebbe fuori da sé.
Bisogna dunque per prima cosa cominciare a distinguere fra gli aspetti concettuali che sono entrati a far parte del patrimonio comune di conoscenze, sui quali il dibattito è ormai chiuso (ma alle volte può riaprirsi: c’è voluto Einstein per rimettere in discussione, dopo due secoli di accettazione unanime, la meccanica newtoniana), e i diversi aspetti concettuali che sono, nel corso del processo di acquisizione di nuove conoscenze, oggetto di discussione e di conflitto fra i sostenitori di proposte epistemologiche e metodologiche alternative. È in questo processo che può intervenire la filosofia. Non ha senso che intervenga post factum. Una volta che gli scienziati si sono messi d’accordo la filosofia può solo fare la mosca cocchiera.
È infatti proprio nel corso di questo dibattito che si forma il consenso attorno a posizioni che via via si consolidano ed entrano a far parte del patrimonio di conoscenze accettato da tutti. A volte questo consenso non si raggiunge e la comunità si divide. Il punto fondamentale è che, anche quando il consenso è stato raggiunto su un tema controverso, il dibattito non finisce, ma si sposta su un fronte più avanzato. È il confronto fra posizioni differenti che genera la nuova conoscenza. Certo, come lo stesso Kuhn ha mostrato, ci sono periodi di svolta in cui il dibattito è particolarmente acceso e contrastato, e periodi di continuità in cui la conoscenza procede per approfondimento e allargamento all’interno di un “paradigma” riconosciuto.
Ma come si raggiunge il consenso? Non è vero che è soltanto la “natura” a decidere chi ha ragione e chi ha torto. Le esperienze “cruciali”, ci avverte Lakatos, diventano tali solo retrospettivamente, dopo che l’accordo è stato raggiunto. La valutazione delle proposte alternative in competizione avviene invece sulla base di molteplici fattori che portano all’accettazione di alcune e al rifiuto di altre. Questi fattori possono comprendere una serie di criteri differenti. Essi vanno, per esempio, da quelli adottati per esprimere un “giudizio di scientificità” sulla proposta in discussione o della sua pertinenza all’ambito disciplinare (cioè della sua compatibilità con i capisaldi della disciplina che non possono, allo stato delle cose, essere messi in discussione), fino ai criteri per giudicare dell’esistenza o meno di un problema aperto da risolvere o da accantonare (in questo caso si tratta di decidere se un certo fenomeno richiede una spiegazione oppure non ne ha bisogno perché è evidente, o può essere assunto come dato a priori). Oppure possiamo trovare criteri di carattere formale. Rientrano fra questi quelli relativi alla semplicità, all’eleganza, alla coerenza interna di una teoria o di un formalismo.
Certo sono anche importanti i criteri adottati per giudicare dell’adeguatezza empirica di una teoria. Ma non sono i soli che contano per decidere. Può accadere infatti che l’accordo o il disaccordo con una determinato esperimento sia considerato più o meno importante a seconda del grado di attendibilità di cui il paradigma dominante gode presso la comunità. In certi casi si accetta una nuova teoria nonostante il suo disaccordo con dati sperimentali che successivamente verranno smentiti; altre volte invece nuovi dati vengono ignorati per mantenere in vita la vecchia teoria in mancanza di una più soddisfacente.
È chiaro a questo punto quale sia il ruolo essenziale della riflessione filosofica nel contribuire a risolvere il conflitto fra sostenitori di punti di vista diversi e a determinarne l’esito. Essa infatti deve aiutare a formulare in forma esplicita e razionale le premesse meta teoriche, implicite o addirittura nascoste nell’inconscio individuale dei singoli scienziati, che stanno alla radice del conflitto. È un ruolo che può avere come protagonisti sia gli scienziati più creativi e consapevoli del valore culturale, esterno alla comunità, delle scelte possibili, sia i filosofi capaci di cogliere, al disotto dei dettagli tecnici formali delle diverse alternative, i loro diversi aspetti epistemologici e metodologici.
Essi possono così individuare legami fra proposte di innovazione avanzate anche in campi disciplinari diversi che tuttavia condividono la stessa “metafisica influente” (Lakatos), o gli stessi “stili di pensiero”, o gli stessi “ideali del sapere” (Amsterdamski), rintracciandone le radici nel retroterra culturale che caratterizza lo Zeitgeist dell’epoca considerata. Ha dunque ragione Badiale nel sottolineare che la riflessione filosofica è efficace quando rivela il nesso che lega una svolta concettuale introdotta in una data disciplina scientifica con i temi importanti e urgenti che permeano la cultura del contesto sociale corrispondente. Ma individuare le ragioni del contendere aiuta a capire come e dove ciò che è stato possibile una volta può ancora accadere oggi.
Gli esempi che Badiale presenta dei grandi protagonisti delle svolte importanti della scienza che sono riusciti a svolgere efficacemente questo compito di “sintesi” filosofica sono da questo punto di vista significativi, ma lasciano in ombra, mi pare, il fatto fondamentale che questa “sintesi” più che essere una conseguenza necessaria del successo del nuovo modo di descrivere la realtà, è stata un fattore importante per raggiungere questo successo nel conflitto con i sostenitori della rappresentazione dei fenomeni considerati accettata fino a quel momento.
Prendiamo il caso di Galileo, la cui “opera di costruzione e difesa della nuova scienza” è giustamente presentata come la “proposta di alcuni principi metodologici … che sono diventati costitutivi dell’immagine moderna della scienza”. Ma forse non basta il riferimento a quei principi metodologici – come quello del rapporto fra “sensate esperienze” e “certe dimostrazioni”, o l’idea che il libro dell’Universo “è scritto in lingua matematica” – a spiegare la drammaticità del conflitto che oppone Galileo ai suoi oppositori aristotelici e il carattere epocale della svolta che ne è seguita.
Occorre forse riconoscere che alla base di quelle differenze c’era uno scontro su questioni filosofiche fondamentali. È infatti su questo terreno che Galileo conduce la sua battaglia, come dimostrano con evidenza i suoi dialoghi. Se si fa questo, fra l’altro, si evita di assolutizzare il famoso metodo attribuendogli quel carattere di ricetta universale ed eterna per raggiungere la verità che gli viene attribuito nei libri di scuola; una ricetta che oggi, come discuteremo fra poco, si applica male alle scienze della vita e della mente.
Il contrasto dunque non era – o non era soltanto – sul metodo, ma tra due concezioni del mondo antitetiche. Per Aristotele c’era una dicotomia netta fra il mondo sublunare, caratterizzato dall’irreversibilità, la caducità e la mutevolezza di una materia corruttibile e quello delle sfere celesti, dove regnano l’armonia, la regolarità, la perfezione del moto circolare, tutte manifestazioni di una sostanza eterna ed eterea. Per Galileo, al contrario, non c’è barriera fra cielo e terra. La sostanza dei corpi celesti è la stessa di quelli terrestri. E poiché i primi rivelano che l’unico mutamento reale è il movimento, anche sulla Terra deve essere possibile ricondurre ogni mutamento, per quanto sostanziale e irreversibile possa apparire, al moto delle sue infime parti. Al disotto delle apparenze, dunque, il mondo dei fenomeni terrestri è semplice, regolare, ripetibile, così come si mostra in cielo.
Ed è perciò intelligibile – ecco la conseguenza – a patto di imparare a “intender la lingua e conoscer i caratteri ne’ quali è scritto”, che è, appunto la “lingua matematica” . Non è dunque il metodo che gli permette di scoprire come è fatto ilmondo. È la sua convinzione che il mondo è fatto in un certo modo che gli suggerisce il modo migliore per costringere la natura a dargli ragione, anche a costo di tralasciare altre evidenze empiriche contrarie (per esempio sulla questione della natura delle comete Galileo aveva torto e padre Grassi ragione). Insomma, se si ignorano le ragioni (serie, dopotutto, visto che Aristotele aveva retto per più di duemila anni) di entrambi i contendenti, la filosofia non ha più nulla da dire, perché scompare la materia del contendere. Si rischia così di precipitare dalla sfera dei più elevati dibattiti della storia del pensiero filosofico allivello di una banale lezione di fisica di liceo.
Un discorso analogo si potrebbe fare per le due figure di Cartesio e di Newton, ma ci porterebbe via troppo spazio. Mi limito a segnalare che anche qui ci sarebbe un dibattito filosofico da portare alla luce. Sarebbe interessante infatti ricordare come le differenti posizioni filosofiche di questi due grandi personaggi, esplicitate nella polemica fra Newton e i cartesiani, fossero indissolubilmente legate alle rispettive differenti concezioni del concetto di forza (per contatto o a distanza) che a loro volta sono all’origine di due diverse formulazioni, a livello tecnico, della meccanica (leggi di conservazione vs. leggi della dinamica), formulazioni che ancora oggi hanno un significato epistemologico profondamente differente (le leggi di conservazione, che per la loro generalità valgono anche nella meccanica quantistica, sono vincoli da rispettare, mentre quelle della dinamica newtoniana sono prescrizioni da eseguire).
Se dunque è vera la mia tesi, cioè che la riflessione filosofica può avere un ruolo importante nella scienza dove e quando c’è un dibattito fra scienziati portatori di varianti alternative del linguaggio disciplinare basate su presupposti meta teorici differenti, si capisce anche perché oggi questo ruolo non possa più essere esercitato all’interno della fisica. L’ultimo conflitto all’interno di questa disciplina basato su concezioni alternative del mondo, e dunque tale da investire la cultura in generale (gettando un ponte fra le due culture”) è stato quello tra Einstein e Bohr attorno alla domanda se Dio giocasse o meno ai dadi. (La questione del “realismo” è strettamente connessa a questa, ma sul loro nesso non posso dilungarmi). Risolta la questione negli ultimi decenni del secolo con la conclusione che il Personaggio è un accanito giocatore (e in questo caso la risposta della natura è stata “cruciale”), le proprietà della materia inerte, come ho cercato di argomentare nel § 2, non hanno più nulla da dire di significativo per l’uomo, e dunque per la filosofia.
È per questo che la conclusione che Badiale trae da un colloquio immaginario tra un fisico e una generica persona colta, secondo la quale “la scienza moderna si pone ormai al di fuori della cultura umana, perché non riesce più a rendere comune al genere umano il significato del proprio operare”, mi sembra ingiustificata. In primo luogo perché il confronto fra uno scienziato e una persona colta non può mai avvenire (ed è sempre stato così anche in passato) sul terreno del linguaggio specialistico della disciplina, ma soltanto su quello del suo livello meta teorico. In secondo luogo perché la fisica non è più rappresentativa della “scienza moderna”, mentre, come adesso vedremo in maggior dettaglio, è nell’ area delle discipline della vita, dell’uomo e della mente che la mediazione fra scienza e contesto culturale è oggi necessaria e possibile.

  1. UNA EPISTEMOLOGIA DELLE SCIENZE DEL MONDO VIVENTE

Ho già sottolineato all’inizio che, quando si sale ai livelli più elevati di organizzazione della tnateria, si assiste alla moltiplicazione dei linguaggi adottati da gruppi diversi all’interno di una data comunità disciplinare, fondati su differenti modellizzazioni del dominio di fenomeni considerato e su differenti punti di vista (culturali, epistemologici, tecnologici) adottati per esplorarlo. In particolare, il passaggio dalle discipline che studiano la materia inerte a quelle che si pongono come obiettivo l’investigazione del mondo della vita e di quello della mente, deve tener conto della natura della barriera che separa la materia inerte dalla materia vivente. Sorvolo per ora su quella etica, perché ci torneremo alla fine del nostro discorso. Ma mi soffermo brevemente sui suoi aspetti epistemologici ed ontologici. La logica che sta dietro alla interpretazione delle proprietà della materia inerte è riduttiva: dalla conoscenza dei componenti elementari e delle loro interazioni si risale alle proprietà del sistema. Quella che occorre adottare per spiegare le proprietà della materia vivente è una logica evolutiva: essa si basa sul riconoscimento dei due momenti indipendenti e complementari che ne sono all’origine: quello della generazione aleatoria della diversità a livello genotipico e quello della selezione da parte dei vincoli (esterni ed interni al sistema) a livello fenotipico. Questo implica che l’adozione di un criterio riduzionista (per esempio la credenza ancora diffusissima nella validità della formula “un gene=un carattere”) per la progettazione del vivente può condurre a errori macroscopici e gravissimi.
Dal punto di vista ontologico poi, la barriera stabilisce una differenza fondamentale tra i due mondi: l’assenza o la presenza di autonomia. Una volta fabbricati gli artefatti biologici sono autonomi: prevederne il futuro diventa problematico e riacchiapparli una volta che se ne sono andati in giro per il mondo addirittura impossibile.
Due libri recentissimi, uno di un biologo, Marcello Buiatti, intitolato Lo stato vivente della materia, l’altro di una epistemologa, Elena Gagliasso, intitolato Verso un’epistemologia del mondo vivente, sembrano scritti apposta per dimostrare che in queste discipline la mediazione fra scienza e contesto culturale può avere per protagonisti – come dicevo poc’anzi – sia gli scienziati più creativi e consapevoli del valore culturale, esterno alla comunità, delle scelte possibili, sia i filosofi capaci di cogliere, al disotto dei dettagli tecnici delle diverse alternative, i loro diversi aspetti epistemologici e metodologici.
Il libro di Buiatti ci insegna infatti a guardare il mondo della vita da un punto di vista che riesce ad essere tanto più originale sul piano dello schema interpretativo generale quanto più risulta solidamente ancorato alle più recenti acquisizioni fattuali della ricerca biologica. Esso dimostra che, quando uno scienziato alza gli occhi dai suoi strumenti e dai suoi calcoli, e riflette sul senso e sulle ragioni delle domande che egli stesso e i suoi colleghi pongono alla natura, le sue riflessioni non solo sono perfettamente accessibili alle “persone colte” ma introducono anche all’interno della comunità gli stimoli per un dibattito fecondo di nuove domande. In concreto il punto di vista adottato in questo libro fa cadere molte delle barriere tradizionali che separavano approcci concettuali nettamente contrapposti – per esempio fra i sostenitori della localizzazione di proprietà specifiche in strutture determinate e i sostenitori dell’esistenza di proprietà diffuse all’interno di una rete di componenti diverse – e sgretola molte separazioni rigide fra modellizzazioni differenti dei fenomeni vitali. Le conseguenze culturali di questo approccio sono profonde.
Per quanto riguarda il genoma, ad esempio, il libro dimostra, dati alla mano, l’insensatezza della pretesa corrispondenza biunivoca tra geni e caratteri: da quelli somatici a quelli caratteriali fino a quelli comportamentali (addirittura, sfiorando il ridicolo, come il “gene” dell’adulterio o dell’omosessualità). È una tesi, non solo presente ancora negli ambienti scientifici ma soprattutto prevalente nella cultura diffusa dai mezzi di comunicazione di massa, che ha basi eminentemente ideologiche e permette di giustificare le peggiori discriminazioni ed emarginazioni. La conclusione del nostro autore è categorica: “affidare a uno o pochissimi geni comportamenti sociali (non biologici) complessi [è] del tutto erroneo dal punto di vista scientifico”.
Utilissimo è dunque il contributo “filosofico” che questo libro può dare per contrastare la concezione pesantemente deterministica della vita prevalente nell’immaginario diffuso, che la considera assolutamente prevedibile una volta conosciuto il contenuto del patrimonio genetico. “Secondo questa visione – scrive Buiatti nell’ultimo capitolo – l’uso di nuove tecnologie biologiche permetterebbe di liberare noi e gli altri esseri viventi da tutti i pericoli di eccessivo disordine derivante dal rumore indotto dall’ambiente, di guasti interni, dalla stessa variabilità genetica il cui valore biologico essenziale viene accuratamente dimenticato (rimosso). Di qui l’implicita sgradevole utopia positivistica della possibilità di modificare a volontà gli esseri viventi secondo progetti reificati nella materia vivente, paralleli a quelli costruiti per l’adattamento ai nostri bisogni veri o presunti, di quella non vivente”.
Dal canto suo, sul versante della filosofia, Elena Gagliasso così ci spiega il compito che la sua ricerca si prefigge. “Il libro – leggiamo nell’introduzione – si muove costantemente tra due piani, pur scegliendo di esaminarli insieme nelle diverse sezioni. Esiste infatti una sorta di crocevia che permette, a seconda dell’utilità, di intrecciare o di distinguere due livelli di discorso mutuamente vincolati, se si vuole oggi trattare un’epistemologia specifica delle scienze del mondo vivente”. Da un lato si tratta di una epistemologia che “si è aperta a riflettere anche su ciò che investe il pensiero scientifico prima del metodo o in modo circostante ad esso: una epistemologia dunque sensibile a inseguire le varie e controverse storie plurali della ricerca, i processi del farsi concreto delle teorie e degli stili di pensiero, più che a modellizzare la storia scientifica in modo normativo”. Dall’altro abbiamo una attenzione specifica “all’arcipelago di competenze e di ‘ritagli’ sulla molteplicità di piani che mostra la natura vivente”. L’intenzione è dunque di “fornire chiavi interpretative per mettere a fuoco i mutamenti epistemologici tra filosofia della scienza in generale e filosofia delle scienze del mondo vivente.” È proprio dunque il contrario di ciò che teme Badiale quando vede una tendenza della filosofia della scienza a dividersi essa stessa in sottodiscipline mimando il movimento di specializzazione parcellizzante della scienza stessa.”
Può essere esemplare, a questo punto, per mostrare meglio in concreto in che modo oggi la riflessione filosofica possa diventare una componente essenziale del processo di crescita della conoscenza scientifica, riferirsi al dibattito in corso sul tema dell’evoluzione biologica. La figura di Stephen J. Gould ha in esso un ruolo centrale.
Egli infatti si presenta come un darwiniano che intende valorizzare l’opera di Darwin polemizzando al tempo stesso anche con gli eredi più “ortodossi”.La sua polemica nei loro confronti riguarda tre punti essenziali. Il primo riguarda la natura dei soggetti dell’evoluzione. “Secondo me – scrive in polemica con Richard Dawkins – Richard è un iperdarwinista. Per Darwin la spiegazione viene abbassata [da un Dio provvidenziale] al livello degli organismi, che perfezionano le loro caratteristiche attraverso la lotta per la riproduzione, ossia per il loro vantaggio personale. [ … ] Richard ha voluto spostare il livello di spiegazione al gradino più basso: non sono gli organismi, ma i geni che lottano per riprodursi. Gli organismi sono solo i veicoli dei geni. Ma Richard ha torto. In natura sono gli organismi che lottano fra loro. Se essi potessero essere definiti come un’addizione cumulativa di quello che fanno i geni, allora si potrebbero ricondurli ad essi. Ma non è così, perché gli organismi hanno miriadi di caratteristiche emergenti. In altre parole [e qui ritroviamo ciò che dice Buiatti; M. C.)] i geni interagiscono in modo non lineare; questa interazione definisce l’organismo, il quale non può essere ridotto a una mera sommatoria dell’azione di un gene o di quell’ altro”.
Il secondo punto riguarda il gradualismo dell’evoluzione biologica. Esso è il più noto, e ad esso si riferisce la teoria degli equilibri punteggiati formulata da Gould con Niles Eldredge negli anni ’70. A questo proposito egli commenta: “Il concetto di tempo geologico è considerato indispensabile dai darwinisti ortodossi per applicare la cosiddetta estrapolazione biouniformista: essa consiste nell’osservare i piccoli cambiamenti che si verificano nella storia delle popolazioni locali per poi estrapolarli nella scala dei tempi geologici. Ma se sul piano delle ere geologiche entrano in gioco nuove cause che non possono essere comprese nel tempo breve, allora la strategia darwinista non funziona più. Ecco perché lo stesso Darwin faceva finta di ignorare le estinzioni di massa: la geologia mette in crisi l’aspetto uniformista o estrapolazionista, del pensiero darwiniano”.
Il terzo infine riguarda l’adattazionismo. “Nel lungo periodo – egli osserva – si scopre che la storia della vita sfugge al controllo adattativo. Entrano in gioco infatti nuovi fattori contingenti, come le estinzioni in massa e l’emergere di nuove specie per via dell’equilibrio punteggiato. Il successo a lungo termine nei vari gruppi di organismi dipende più dal tasso di specializzazione che dalle morfologie costruite dalla selezione naturale”.
“È chiaro – Gould aggiunge – che in natura l’adattamento gioca un ruolo importante. La mano e il piede, per esempio, sono strutture così ben funzionanti solo in virtù della selezione naturale. “Tuttavia, egli prosegue, “alcune strutture possono emergere come semplici effetti secondari di altre che hanno scopo adattativo. Prendiamo il cervello umano: pur assolvendo a funzioni ben determinate, esso è anche un computer straordinariamente complesso che non è necessariamente il frutto della selezione naturale. Di sicuro la selezione non gli ha insegnato a leggere e scrivere, perché queste funzioni sono state acquisite molto recentemente”. Infine Gould sostiene una tesi radicale sul ruolo del caso nell’evoluzione della vita sulla Terra. Cosa succederebbe, si domanda, se il nastro della vita fosse fatto girare un’altra volta? Egli risponde che l’evoluzione è fondamentalmente il risultato della contingenza, e pertanto che il suo esito sarebbe completamente diverso se essa ricominciasse da capo. “Se ci poniamo la domanda fondamentale di tutte le epoche – perché esistono gli esseri umani? – una parte essenziale della risposta … deve essere: perché Pikaia [il nome dato a un esemplare insignificante, che mostra una traccia di rudimentale corda spinale, trovato nel giacimento fossile della Burgess shale formatasi 570 milioni di anni fa] sopravvisse alla [successiva] grande decimazione della popolazione di Burgess. Questa risposta non cita alcuna legge della natura, non contiene alcuna affermazione sui cammini evolutivi prevedibili, né alcun calcolo di probabilità basato su regole generali dell’anatomia o dell’ecologia. La sopravvivenza di Pikaia è stato soltanto un evento contingente della storia”.
Negli ultimi anni sta tuttavia affermandosi una scuola di pensiero formata da coloro che, pur ammettendo che il caso possa giocare un ruolo importante nel processo evolutivo, ritengono ragionevole affermare che alcune caratteristiche della vita si ripresenterebbero comunque invariate, in quanto risultato di regolarità emergenti dalle proprietà di autorganizzazione dei sistemi formati da un gran numero di semplici elementi reciprocamente interagenti. Questa linea di ricerca si riallaccia dunque alla tradizione della scienza “newtoniana”, tornando a rivendicare anche per la biologia il ruolo, già svolto in passato dalla fisica, di scienza nomomologica, che aspira a fornire spiegazioni universali e astoriche dei fenomeni biologici fondate su leggi matematiche strutturali o morfogenetiche (sulla scìa della tradizione della biologia della forma e della struttura che ha avuto nel ‘900 esponenti come Ludwig von Bertalanffy, D’Arcy Thompson e Conrad Waddington e i contemporanei René Thom e Brian Goodwin). Per questa scuola di pensiero, che ha come esponente di spicco Stuart Kaufmann e come centro di riferimento il Santa Fé Institute in California, l’unico modo per tentare di rispondere a questa domanda, visto che non è possibile ricominciare da capo l’evoluzione della vita sulla terra, è costruire un modello di universo “ragionevole” da sottoporre a una molteplicità di processi evolutivi in condizioni differenti, in modo da identificare quali siano le caratteristiche che compaiono comunque indipendentemente dai fattori contingenti operanti in ognuno di questi processi.
Per mezzo di questa procedura Kaufman arriva a concludere che “gran parte dell’ordine negli organismi non sia il risultato della selezione, ma della capacità di ordine dei sistemi autoorganizzati. L’ordine degli organismi è naturale, non è il trionfo inaspettato della selezione naturale contro la marea entropica montante.”
In sostanza, mentre per Gould nell’evoluzione prevale la contingenza, e dunque le forme della vita sarebbero completamente diverse se ricominciasse tutto da capo, per Kaufmann prevale l’ordine, e tutto si ripeterebbe all’incirca nello stesso modo.

  1. IL PROBLEMA CORPO/MENTE

Il tema senza dubbio più attuale e controverso, dove maggiormente i presupposti metateorici si intrecciano con il linguaggio formale adottato dando origine a una grande varietà di teorie in competizione è quello del rapporto corpo/mente, e della natura della coscienza. È interessante a questo proposito il tentativo di esplorare questo terreno esposto in un libro recente (La nature et les règles, Odile Jacob, Parigi, 1998), nel quale il neurobiologo Jean Pierre Changeux e il filosofo Paul Ricoeur affrontano il discorso alla luce rispettivamente dei risultati più recenti delle neuroscienze e delle posizioni filosofiche della fenomenologia di derivazione husserliana. È un tentativo di costruire un “terzo discorso” che rispetti al tempo stesso i vincoli imposti alla vita dell’uomo dalla materialità della sua natura e i suoi bisogni di dare un significato al suo vissuto individuale. Non è possibile, ovviamente, ripercorrere le vie che ognuno dei due ha seguito per cercare di incontrarsi. Qui mi limito a riassumere brevemente le premesse di questo dibattito.
“In che misura – si chiede all’inizio il neurobiologo – il progresso spettacolare delle conoscenze sul cervello e la sua evoluzione, l’emergere di un dominio completamente nuovo, quello delle scienze cognitive – fisiologia, biologia molecolare, psicologia e scienze umane – ci portano a riesaminare la vecchia questione” del rapporto corpo-mente, cervello-pensiero? È possibile accedere oggi a una visione più unitaria, più sintetica tra dominio riservato alla filosofia e quello delle conoscenze sul cervello e delle sue funzioni? Può un neurobiologo legittimamente interessarsi ai fondamenti della morale, e reciprocamente può un filosofo trovare materia di riflessione e di arricchimento nel campo delle neuroscienze contemporanee? Ci si può interrogare sulla relazione tra la natura e la regola?”.
Il filosofo gli risponde: “Prima ancora di affrontare queste domande, occorre sgombrare il campo dal problema tradizionale dell’ontologia fondamentale, del problema cioè se l’uomo sia fatto di una o due sostanze. La mia tesi iniziale è che i due discorsi tenuti da una parte sul corpo e sul cervello e dall’altra su quello che chiamerò il mentale, della conoscenza, dell’azione e dei sentimenti, si riferiscono a due prospettive eterogenee, cioè irriducibili l’una all’altra, cioè non derivabili l’una dall’altra. Si tratta però di un dualismo semantico, di un dualismo di prospettive. Bisogna evitare di scivolare da un dualismo di discorso a un dualismo di sostanze. L’interdizione di questa estrapolazione dal semantico all’ ontologico implica che il termine mentale che io impiego non è uguale a non-materiale, non-corporeo. Il mentale vissuto implica il corporeo, ma in un senso irriducibile al corpo oggettivo conosciuto dalle scienze della natura. Al corpo-oggetto oppongo il corpo-vissuto. Il corpo come parte del mondo, e il corpo da dove apprendo il mondo per orientarmici e viverci”.
Le posizioni di partenza sono dunque chiare. Il neurobiologo è un riduzionista che identifica l’esperienza soggettiva dei pensieri e delle emozioni con le loro tracce nelle strutture cerebrali e il filosofo è invece convinto dell’irriducibilità delle categorie del corpo-vissuto alle categorie del corpo-oggetto. Non è questa la sede per illustrare le molte questioni trattate nel corso del dibattito. Mi limito a segnalare che, pur concordando sull’obiettivo, che è quello di cercare le origini delle condotte morali nel processo di evoluzione delle specie, le reciproche posizioni restano alla fine, ancora abbastanza lontane. A mio giudizio la responsabilità maggiore ricade principalmente sul neurobiologo, che crede ancora alla unicità della rappresentazione scientifica della realtà e dunque, in ultima analisi, alla sua oggettività assoluta. Al filosofo tuttavia, che pure insiste giustamente sulla relativa autonomia dei linguaggi delle diverse discipline e sulla necessità di riconoscere l’esistenza di una sfera dell’indicibile nella psiche umana (anche se in questo dialogo stranamente non si parla mai dell’inconscio), manca la capacità di chiarire il carattere di meta linguaggio del linguaggio filosofico rispetto ai linguaggi delle discipline scientifiche. Solo a questa condizione, infatti, si apre la possibilità di andare oltre il “dialogo fra sordi” rappresentato dal confronto sterile fra le proposizioni fattuali e relazionali della scienza e i concetti che la filosofia utilizza per descrivere la soggettività della mente umana.
Conviene a questo punto passare in rapidissima rassegna le tesi di alcune delle teorie che si confrontano. Francisco Varela, un notissimo neurofisiologo recentemente scomparso che ha dedicato a questo problema gli ultimi anni della sua vita riassume il nodo della questione dicendo che “ogni scienza della cognizione e della mente deve, prima o poi, fare i conti con la condizione ineludibile secondo la quale non abbiamo alcuna idea di come potrebbe essere il mentale o il cognitivo al di fuori della stessa esperienza che ne abbiamo”. Egli presenta in uno schema grafico quattro gruppi di posizioni diverse, collocando in alto quelli funzionalisti, da un lato quelli riduzionisti, in basso quelli “rassegnati al mistero” e dall’altro lato quelli (tra i quali si colloca egli stesso) che si richiamano alla fenomenologia.
L’esponente più tipico del riduzionismo fisico è il filosofo Paul Churchland (e vicino a lui troviamo lo scopritore della doppia elica Francis Crick), secondo il quale l’attività funzionale del cervello (attività cognitiva) è una attività di calcolo distribuito parallelo (CDP). Questa attività trasforma gli input sensoriali, passando attraverso una vasta rete di connessioni sinaptiche, in output di varia natura (motoria, razionale, emotiva ecc.) o in informazioni immagazzinate in memorie di vario tipo che vengono utilizzate a loro volta nell’attività di calcolo. Sulla base di questo modello Churchland affronta l’enigma della coscienza umana. Concretamente egli propone di procedere elencando alcune caratteristiche che egli considera salienti della coscienza umana, e facendo vedere che tutte queste caratteristiche sono ricostruibili in termini neurocomputazionali, con un modello di rete neurale ricorrente di calcolo distribuito parallelo. Esse sono riproducibili mediante una semplice rete specifica, formata da tre strati di neuroni con connessioni feedfonvard e retroazioni feedbackward. “In termini neurocomputazionali – conclude Churchland – riusciamo a capire come ciascuna di queste caratteristiche possa essere realizzata, ed è concepibile che esse vengano effettivamente realizzate in una struttura fisica reale, il nostro cervello”.
Un’altra forma di riduzionismo, questa volta di tipo informatico, è quello dei fautori del programma “forte” di Intelligenza Artificiale, che anch’essi assumono come modello il computer, ma, invece di concentrarsi sulle proprietà del cervello come hardware, equiparano la mente al suo software. Secondo il filosofo Daniel Dennett, per esempio, la coscienza umana nasce dall’operazione di un qualche programma informatico, da lui definito “macchina virtuale” che “gira” sul cervello. “[Se] tutti i fenomeni della coscienza umana trovano spiegazione ‘solo’ in quanto attività di una macchina virtuale realizzata nelle connessioni astronomicamente regolabili del cervello umano, allora, in teoria, un robot programmato ad hoc, il cervello di un computer a base di silicio, sarebbe conscio, avrebbe un sé”.
Agli antipodi di entrambi troviamo da un lato Varela, e dall’altro il filosofo John Searle. Per entrambi questi autori, i riduzionisti eliminano il problema negandolo, anche se le soluzioni che essi propongono sono diverse. Per il primo, infatti, il riduzionismo “cerca di risolvere il problema eliminando il polo dell’esperienza a favore di una qualche forma di spiegazione neurobiologica a cui sarà affidato il compito di generarla. Ovvero, per dirla con la tipica rudezza di Crick: ‘Non sei che un ammasso di neuroni”‘. Egli sostiene al contrario, che “l’esperienza in prima persona è un fatto fondamentale da inserire nel futuro della disciplina”, e propone un “particolare procedimento di esplorazione dell’esperienza” secondo un approccio fenomenologico nel senso di Husserl. “Non possiamo – egli argomenta – in alcun modo immaginarci la soggettività come parte della nostra visione del mondo, perché proprio la soggettività in questione è la capacità stessa di immaginare”.
Per John Searle invece non c’è una irriducibilità sostanziale tra descrizione oggettiva in terza persona ed esperienza soggettiva in prima persona: il cervello è una macchina, ma una macchina cosciente. Il “mistero” della coscienza “verrà progressivamente rimosso quando risolveremo il problema biologico della coscienza. Il mistero non costituisce un ostacolo metafisico ad una comprensione del funzionamento del cervello; il senso del mistero deriva piuttosto dal fatto che attualmente non soltanto non sappiamo come esso funziona, ma non abbiamo nemmeno un’idea chiara di come il cervello potrebbe funzionare per causare la coscienza. “L’errore dei riduzionisti è dunque quello di tentare di duplicare i “processi mentali interiori, qualitativi e soggettivi [ … ] duplicando gli effetti osservabili del comportamento esteriore di questi processi. Sarebbe come tentare di duplicare i meccanismi interni del vostro orologio costruendo una clessidra”.
In mezzo ai due estremi troviamo due fra i maggiori protagonisti di questo dibattito, Antonio Damasio e Gerald Edelman, entrambi scienziati all’avanguardia nella ricerca di punta. Per entrambi l’idea che la ricchezza dell’esperienza umana sia indipendente dal substrato biologico è una sciocchezza. Secondo Gerald Edelman la ricchezza dell’esperienza umana del ricordo “non può essere adeguatamente rappresentata dal linguaggio impoverito della scienza informatica: ‘memorizzazione, recupero, input, output”‘.
Questo, tuttavia, non significa che ci sia qualcosa di misterioso. Al termine del libro scritto in collaborazione con Giulio Tononi, Come la materia diventa coscienza, leggiamo: “Il pensiero cosciente è un insieme di relazioni dotate di senso che vanno oltre l’energia e la materia (anche se le implicano). Che cos’è allora la mente nella quale questo pensiero nasce? La risposta è che essa è al tempo stesso materiale e dotata di senso. [ … ] Sono le strutture materiali straordinariamente complesse del sistema nervoso e del corpo che danno origine ai processi dinamici mentali e alla produzione di senso. Non è necessario postulare niente altro – né altri mondi, né altre menti o forze ancora inimmaginabili come la gravità quantistica”. Le conclusioni di Damasio (che fra l’altro ha scritto un fortunato libro intitolato L’errore di Cartesio, esempio quanto mai pertinente di intervento della filosofia in una controversia scientifica) sono simili. Per questo autore “il potere della coscienza deriva dalla connessione efficace che stabilisce fra il meccanismo biologico di regolazione della vita individuale e il meccanismo biologico del pensiero. Questa connessione è la base per la creazione di un impegno individuale che permea tutti gli aspetti dei processi di pensiero, focalizza tutte le attività di problem solving, e ispira le conseguenti soluzioni.”
È tuttavia interessante che egli sottolinei, avvicinandosi in questo a Varela, come “non sia verosimile pensare che nuove conoscenze sulla biologia che sta dietro alle immagini mentali possano produrre, nella mente di chi possiede queste conoscenze, l’equivalente dell’ esperienza di una immagine mentale nella mente dell’organismo che la crea”. In altri termini: “Quando tu guardi l’attività del mio cervello, tu non vedi quello che io vedo. Tu vedi una parte dell’attività del mio cervello mentre io vedo quello che vedo”. Questo non vuol dire, però, che la conoscenza neurofisiologica non è in grado di spiegare l’esperienza mentale. Vuol dire semplicemente che spiegare in termini scientifici come fare qualcosa di mentale è cosa completamente diversa dal fare direttamente quel qualcosa di mentale.

  1. SCIENZA E VALORI

Il ruolo del discorso filosofico nel dibattito fra proposte alternative di rappresentazione della realtà non si limita al piano epistemologico, ma assume una nuova dimensione quando si passa dalle discipline della materia inerte a quelle della materia vivente e pensante. È la dimensione dell’etica. La tradizionale separazione fra il compito di una scienza che persegue in completa autonomia l’obiettivo di acquisire conoscenza oggettiva e disinteressata, basata su “fatti” certi, e quello di utilizzarne i risultati per soddisfare i bisogni dei membri di una comunità in base a priorità e vincoli economici, sociali e morali in accordo con le norme che ne regolano la convivenza, non regge più. Il dogma della avalutatività delle affermazioni della scienza è crollato. L’ideale della “conoscenza fine a sé stessa” si rovescia nella pratica della “ragione strumentale”. Il motivo è semplice: i “fatti” non sono neutri, perché, per definizione, i “fatti” che condizionano nel bene e nel male la vita delle persone – e sono sempre di più i “fatti” di questa natura che la scienza produce direttamente – diventano carichi di “valori”. E lo diventano ancor di più quando condizionano in modo diverso la vita di persone diverse. Questo implica che, alle scelte dei problemi da affrontare, delle nuove direzioni da esplorare e soprattutto delle azioni da intraprendere, dovrebbero concorrere in modo esplicito e trasparente oltre agli scienziati con i loro dati, ai politici con le loro ideologie, alle imprese con i loro interessi, anche i soggetti sociali che di queste scelte dovranno subire le conseguenze, con la loro concretezza materiale, che esprime bisogni, condizioni di vita e aspettative per il futuro.
Dice il filosofo Hans Jonas nel suo libro dedicato al tema Tecnica, medicina ed etica: “Con quello che facciamo qui, ora, e per lo più con lo sguardo rivolto a noi stessi, influenziamo in modo massiccio la vita di milioni di uomini di altri luoghi e ancora a venire, che nella questione non hanno avuto alcuna voce in capitolo […]. Il punto saliente è costituito dal fatto che l’irrompere di dimensioni lontane, future, globali nelle nostre decisioni quotidiane, pratico-terrene, costituisce un novum etico, di cui la tecnica ci ha fatto carico; e la categoria etica che viene chiamata principalmente in causa da questo nuovo dato di fatto si chiama: responsabilità”. E ancora: “Una volta era facile distinguere fra tecnica benefica e tecnica dannosa, considerando semplicemente l’impiego dei suoi strumenti. I vomeri, si diceva, sono buoni, le spade, cattive. Ma qui salta all’occhio il tormentoso dilemma della tecnica moderna: a lungo termine i suoi ‘vomeri’ possono essere dannosi quanto le sue ‘spade”‘. E prosegue: “In questo caso sono loro, i benefici ‘vomeri’ e i loro simili, il vero problema”. È un problema che diventa ogni giorno più urgente affrontare. Già più vent’anni fa Jeremy Rifkin – un autore molto noto e molto discusso per le sue previsioni sui rischi e sulle promesse delle nuove tecnologie, considerate per lo più come profezie allarmistiche dagli esperti, dai leaders politici e dai mass media in genere, ma che a me, al contrario, sembrarono all’epoca molto realistiche – prospettava in un libro, intitolato Who should Play God? la possibilità di realizzare, entro la fine del secolo, specie transgeniche, chimere animali, cloni, bambini in provetta, e di avviare la fabbricazione di organi umani e la chirurgia genetica. Nel libro, inoltre si affermava che lo screening per le malattie genetiche sarebbe diventato una pratica diffusa, sollevando problemi molto seri di discriminazione genetica da parte di datori di lavoro, compagnie di assicurazione e scuole. Si esprimevano inoltre preoccupazioni per la crescente commercializzazione del pool genetico della Terra da parte delle aziende farmaceutiche, chimiche e biotecnologiche, e si sollevavano domande inquietanti sull’impatto potenzialmente devastante e a lungo termine che il rilascio nell’ambiente di organismi geneticamente modificati avrebbe potuto avere.
Dopo vent’anni le previsioni di Rifkin si sono avverate tutte e le sue preoccupazioni sono sempre più largamente condivise. Anzi, nuove tecnologie sempre più potenti sono state realizzate. La letteratura in proposito è ormai sterminata. Cito soltanto un documento, scritto recentemente da Bill Joy, un informatico assai noto, autore del software Java, intitolato Il futuro non ha necessariamente bisogno di noi che ha per sottotitolo Le nostre più potenti tecnologie del 21° secolo – la robotica, l’ingegneria genetica e la nanotecnologia stanno minacciando di fare degli umani una specie a rischio.
Il punto essenziale è che queste tecnologie rappresentano una minaccia diversa da quella insita nelle tecnologie precedenti: esse infatti hanno in comune un fattore di amplificazione finora sconosciuto, perché possono autoreplicarsi. Una bomba scoppia una sola volta, ma un organismo artificiale può generarne molti, e rapidamente sfuggire a ogni controllo. Non è fantascienza. È di questi giorni la notizia che una supererba infestante, nata dall’incrocio tra un’erbaccia comune e sementi di colza geneticamente modificata per resistere a tutti gli erbicidi noti, seminata all’aperto per errore, sta diffondendosi in Inghilterra producendo miliardi di danni.
La conclusione delle riflessioni di Joy è drastica: “Stiamo proiettandoci nel nuovo secolo senza un piano, né un controllo né freni. Siamo già andati troppo avanti, giù per la china per poter fermare la corsa? Forse no, ma non ci stiamo nemmeno provando, e l’ultima occasione per istituire un controllo – il punto di non ritorno – sta avvicinandosi rapidamente”.
Non nascondiamoci l’enorme difficoltà del compito che ci sta di fronte. Se già è difficile il confronto fra epistemologie diverse, il contrasto tra etiche basate su valori differenti rischia di diventare un conflitto devastante. Detto per inciso, che altro è, se non questo, lo scenario sconvolgente che si apre dopo l’11 Settembre? Ma non è questa la sede per affrontare questo discorso. Mi limito ad accennare al tenue spiraglio di luce che il dialogo, già citato, fra Changeux e Ricoeur getta su questo buio pauroso. Nella fase finale del dibattito essi affrontano infatti la questione se esistano fondamenti naturali dell’etica. Per Ricoeur il termine fondamenti naturali è ambiguo: da un lato ha il significato di elemento di base, di preliminare, e dall’altro quello di legittimazione, di giustificazione. La storia culturale dell’umanità ha portato alla coesistenza di molti sistemi di legittimazione. Il problema è di accedere allo stadio in cui più tradizioni si riconoscano come cofondatrici al fine della sopravvivenza comune. Per Changeux il termine giustificazione è pericoloso perché implica un giudizio di “giustizia” assoluta che può aprire le porte ai fondamentalismi e impedire il dialogo. Egli insiste sul fatto che epigenesi e apprendimento contribuiscono entrambi tanto alla diversità individuale che all’unità di ogni persona umana. Il termine “fondamento naturale” fa riferimento semplicemente alla sua natura materiale, a una “realtà unica e sufficiente”. Per questo un processo di intercomprensione benevolente e illuminata, in cui tutte le opinioni si esprimono, ma restano libere di evolversi è l’obiettivo al quale occorre mirare.
I temi sui quali questa fase finale si articola sono molti: ne accenno brevemente. Sul rapporto fra religione e violenza entrambi i dialoganti sono d’accordo che le religioni quasi sempre generano violenza. Tuttavia, la differenza fondamentale che li separa riemerge ancora una volta. Per Changeux solo il linguaggio scientifico può eliminare la violenza, mentre per Ricoeur la critica al settarismo delle religioni può soltanto farsi facendo ricorso alla sfera del “fondamentale religioso” dell’esperienza umana alla quale solo attraverso il linguaggio del “religioso” si può accedere. Di qui deriva anche una diversa concezione del cammino verso la tolleranza. Per lo scienziato, a partire dalla constatazione dei conflitti generati dalle differenze cuI tura li, è necessario sforzarsi di riflettere sui fondamenti di un etica universale e di trovare dove si situa concretamente quello che il filosofo designa come “fondamentale”. Per quest’ultimo invece, non può essere la scienza che detiene da sola la chiave del problema della violenza tra gli uomini. La tolleranza non consiste solo nel sopportare ciò che non si può impedire. “È dall’interno della mia relazione con il fondamentale che posso comprendere che ci sono altre convinzioni oltre alla mia”.
Infine, il problema dello scandalo del male. Qui, nonostante la diversità dei punti di vista l’obiettivo è, nella sostanza, comune. Per lo scienziato la ricerca della conoscenza oggettiva e il dibattito argomentato e critico che l’accompagna possono farci meglio comprendere la violenza e le sue origini, e arbitrare più efficacemente i conflitti in vista di una pacificazione. L’obbiettivo è la formazione di una etica laica, che non faccia intervenire alcuna metafisica superiore, ma, partendo da fatti oggettivi e da ingiunzioni pratiche “civilizzatrici”, valutabili in termini delle loro conseguenze, faccia appello all’immaginario mobilitando la sfera del simbolico per mettere in sinergia il desiderio, e magari anche il piacere con il normativo.
Il filosofo è d’accordo, a patto di considerare, alla base di questa etica universale laica, tre correttivi: il primo è il riconoscimento che c’è del religioso anche al di fuori della mia religione. Il secondo è che non c’è solo il religioso delle altre religioni, ma anche il non religioso dei miei contemporanei; il terzo è il pensare la politica come regola procedurale per vivere insieme in una società dove ci sono religiosi e non religiosi. Termina così questo dialogo serrato e non inutile.

  1. CONCLUSIONI

Cerchiamo di trarre le fila. Che non basti la scienza per capire il mondo, ma ci sia anche bisogno della filosofia, mi sembra dunque ovvio. Direi di più. Non basta nemmeno la filosofia. Direbbe Bateson che ci vogliono anche, per esempio, l’arte, la bellezza, il gioco, l’umorismo e persino il sacro. Ma il vero drammatico problema è che nella società contemporanea tutto è ormai ridotto a merce, e dunque che non si può capire il mondo senza andare al supermercato.
Nel XX secolo il meccanismo di accumulazione del capitale si è fondato sulla formazione del profitto nel processo di produzione delle merci materiali (molecole) e sull’espansione del loro consumo da parte dei lavoratori stessi (fordismo). Di qui ha avuto origine il conflitto drammatico tra capitale e lavoro che ha segnato il secolo “breve”. Nel XXI secolo il meccanismo di accumulazione del capitale sempre più si fonderà sulla formazione del profitto nella produzione di merci immateriali (bit) (“informazione”, “conoscenza” o, semplicemente “comunicazione”). Più propriamente la formazione del profitto si sgancia dal “tempo di lavoro”, perché le merci immateriali possono essere moltiplicate all’infinito senza costo, e dunque il profitto, una volta fatto il prototipo, può crescere illimitatamente al crescere del consumo.
La necessità da parte del capitale di invocare una continuità tra la new economy e la old economy deriva dal tentativo di mantenere il vecchio meccanismo di accumulazione (valido per la produzione di merci materiali), che sta entrando in crisi per limiti fisici (saturazione di mercati, disastri ecologici, ecc.), anche per un processo produttivo di beni che per natura potrebbero essere fruiti da tutti i membri della società. Per sopravvivere ed espandersi il capitale ha bisogno di rendere artificiosamente scarsi i beni che potrebbero essere liberamente fruiti da tutti.
La proprietà fondamentale dei beni immateriali è infatti che, a differenza di quelli materiali, la fruizione da parte di un “consumatore” non ne impedisce la fruizione da parte di altri. Le merci immateriali, in realtà non si “consumano”. In un disco non è la plastica che conta, è la canzone che c’è incisa. Ma la canzone non si consuma se io l’ascolto: la possono ascoltare altre milioni di persone. Il trucco del capitale sta nel far credere che la merce venduta è indissociabile dal suo supporto materiale, e giustifica in tal modo le leggi che vietano la riproduzione libera del contenuto. Ma se anche il supporto diventa immateriale, il trucco si scopre (mi dicono che è facile scaricare canzoni da Internet senza pagare una lira, anche se le case discografiche fanno il diavolo a quattro per impedirlo).
C’è di più. Anche le relazioni fra persone diventano merce. Nessuno può più comunicare con gli altri se non paga un pedaggio al capitale che ha ridotto a merce tutti i mezzi indispensabili per mettere in relazione reciproca i membri della società. Senza queste merci l’individuo non può sopravvivere come individuo sociale. Diventa rifiuto, spazzatura, scompare.
In questo quadro che si può fare? Mi limito a poche osservazioni su alcune questioni urgenti. La prima riguarda le incertezze. Gli “scienziati”, per definizione, si occupano solo di quei fatti dei quali possono acquisire certezza. Essi tendono dunque a selezionare i temi che possono dare risultati certi, finalizzati al raggiungimento di un obiettivo ben determinato, a breve termine. Si accontentano, per esempio, di dire: “non ci sono evidenze certe che la tal cosa sia dannosa”. Oppure cercano rimedi per disastri già avvenuti (AIDS, mucca pazza).
I “decisori” a loro volta utilizzano queste certezze come base di partenza per realizzare gli obiettivi da perseguire sulla base dei loro “valori”. Anch’essi vogliono risultati, sul terreno sociale, a breve termine. Dicono: “visto che la tal cosa non è dannosa possiamo utilizzarla per ciò che riteniamo essere un obiettivo prioritario (a seconda della situazione sviluppo economico, salute, sicurezza o quant’altro possa far vincere le elezioni)”.
Ma chi si occupa delle incertezze? Chi si occupa dei costi che forse noi stessi, ma certamente qualcun altro, già oggi o in un futuro più o meno prossimo, dovrà pagare per i benefici che le certezze delle tecnologie di punta possono riversare nell’immediato su di noi? Perché di questi costi nessuno parla? Perché nessuno si domanda, per esempio, se la creazione, la produzione di massa e il rilascio su vasta scala nell’ ambiente naturale di migliaia di forme di vita manipolate geneticamente non causeranno un danno irreversibile alla biosfera, facendo dell’inquinamento genetico una minaccia per il pianeta ancora più grave dell’inquinamento nucleare e chimico? Oppure si domanda che conseguenze potrebbe avere per l’economia globale e per la società ridurre il pool genetico del mondo allo stato di proprietà intellettuale brevettata sotto il controllo esclusivo di un ristretto numero di multinazionali? O ancora si chiede quale sarà la condizione umana in un mondo dove i bambini vengono progettati geneticamente – certo, per il loro bene – e dove le persone vengono identificate, classificate e discriminate in base alloro genotipo?
Il primo obiettivo è dunque: orientare la ricerca pubblica verso la previsione di scenari futuri e sui mezzi di prevenzione dai pericoli dei “vomeri”.
La seconda questione riguarda i conflitti di interesse. Come facciamo ad essere sicuri che le scelte del capitale siano le migliori possibili dal punto di vista dei soggetti sociali inevitabilmente e pesantemente coinvolti, che non sono una generica “umanità”, ma i popoli, le classi, le categorie economiche, le comunità culturali, gli individui, che si trovano oggi e si troveranno domani a doverne subirne le conseguenze, nel bene e nel male?
Gli interessi dei diversi soggetti sociali sono in genere diversi, ma molti sono in conflitto con gli interessi delle multinazionali. Produttori di prodotti locali messi fuori mercato dalla produzione di massa. Malati che non si possono pagare le medicine delle grandi imprese farmaceutiche (Mandela vs. Big Pharma). Masse escluse dall’istruzione. Popolazioni derubate delle ricchezze contenute nel genoma delle specie vegetali e animali che vivono nelle nicchie ecologiche dei loro paesi. Comunità cacciate dalle terre di origine dalle catastrofi “naturali” prodotte dalle modificazioni climatiche e dalle catastrofi economiche e belliche. Nuovi lavoratori atipici privi di qualunque protezione sociale. E così via.
Il secondo obiettivo è dunque: favorire la diversificazione, difendere i più deboli dall’esclusione dall’accesso ai beni resi artificiosamente scarsi dal capitale. La terza questione riguarda come affrontare il tema della libertà della ricerca. Molti scienziati temono che un controllo sociale della loro attività invocato per prevenire disastri o evitare pericoli (principio di precauzione) possa imporre loro divieti inaccettabili (“non si può mettere il lucchetto al cervello” è il loro slogan) o addirittura forzarli a seguire cammini impercorribili. Invocano il dogma tradizionale della avalutatività delle affermazioni della scienza per rifiutare ogni ingerenza esterna. Tullio Regge, per esempio, polemizzando con me sulla rivista Le Scienze, dopo aver ribadito che “il mondo scientifico deve attenersi ai fatti ed esporli, ma sono i politici a decidere”, attribuisce agli ambientalisti la pretesa di avere la “certezza assoluta” che un determinato agente non nuoccia alla salute o comunque non abbia effetti dannosi, e, argomenta che “non esiste attività umana a rischio nullo” per concludere che “il principio […] diventa così strumento per bloccare innovazioni ideologicamente sgradite”. Ma, come accade per la Libertà senza aggettivi, il limite alla libertà di ognuno è la libertà altrui. Perciò la libertà di fare ricerca nell’interesse di un soggetto particolare non può impedire la formulazione di vincoli per la prevenzione dei danni possibili e il controllo sociale a vari livelli (locale, regionale, nazionale e internazionale) sui costi e benefici dalla utilizzazione dei suoi risultati. Il terzo obiettivo deve essere dunque l’istituzione di sedi competenti (magistratura tecnoscientifica) per giudicare conflitti derivanti da uso improprio della ricerca. Strettamente connessa con la precedente è dunque la domanda: Chi paga la ricerca? La ricerca privata deve essere libera, ma deve essere pagata da chi ha un interesse diretto a farla. La ricerca pubblica deve avere due obiettivi. Il primo è quello di sviluppare ricerca senza obiettivi immediati di utilizzazione o con obiettivi di utilizzazione senza scopo di lucro. Il secondo, l’abbiamo già detto, è quello di controllare quella privata nell’interesse dei cittadini e delle generazioni future. Il quarto obiettivo deve essere dunque: rendere praticabile l’adozione del principio di precauzione. Infine una domanda di scottante attualità: Si può brevettare la vita? Poiché il brevetto è stato istituito per proteggere una invenzione e la scoperta non è per principio brevettabile, occorre concludere che gli organismi viventi, anche se artificialmente modificati non possono essere brevettati. Ogni ogm è una modifica di un organismo naturale, e la natura non si brevetta. Del resto gli elementi transuranici artificiali, in quanto ottenuti da modificazione di elementi naturali non sono stati brevettati. Tagliare il cordone ombelicale che lega la ricerca alla produzione di conoscenza in forma di merce è il solo modo per assicurare la libertà di ricerca. Le imprese potranno brevettare i procedimenti specifici per ottenere un determinato prodotto vivente, ma non il prodotto stesso. Solo in questo modo la ricerca riacquisterà un ampio ventaglio di motivazioni, giustificazioni, stimoli, al di fuori dell’unico imperativo attuale, che, come dice Giorgio Bocca si riduce alla regola: “attenersi a ciò che rende e trascurare ciò che non dà guadagni”. Il quinto obiettivo dunque è: la vita non si brevetta.

Marcello Cini

Questo saggio di Marcello Cini è già stato pubblicato su Koinè, Periodico culturale, Anno X, nn. 1-2, Gennaio-Giugno 2002,  pp. 53-76; direttore responsabile Carmine Fiorillo; il volume collettaneo reca il titolo  Scienza cultura, filosofia.

Koiné

Scienza, Cultura, Filosofia

indicepresentazioneautoresintesi

 

Problemi tra scienza e cultura
Sintetizzare e interpretare/Darsi dei limiti/Sulla diffidenza per la filosofia/Una confutazione dello scientismo/I problemi della divulgazione/Specializzazione parcellizzante/Una catastrofe culturale?/Uno sguardo sulla cultura/Linee di resistenza/E se fosse colpa del capitalismo?/Conclusioni. Una modesta utopia.

Lucio Russo
Cosa sta accadendo alla scienza?
Premessa/Cos’è la scienza? La scienza esatta/Scienza esatta e tecnologia /Scienze biologiche (e altre scienze empiriche)/Il problema della verità/Divulgazione scientifica e imposture intellettuali/La crisi attuale/Il nuovo ruolo della biologia: le biotecnologie/Complessità /Quale futuro?

Marcello Cini
C’è ancora bisogno della filosofia per capire il mondo?
Introduzione/La svolta nella scienza dal XX al XXI secolo/L’epistemologia delle scienze della materia inerte/Una epistemologia delle scienze del mondo vivente/Il problema corpo/mente/Scienza e valori/Conclusioni.

Alberto Artosi
Lettera a uno scienziato sulla ragione, la razionalità e il razionalismo
Caro Scienziato/Bisogna guardarsi da un’immagine ingenuamente razionalistica della scienza/Anche gli scienziati più aperti sono dei razionalisti (e degli elitisti) ingenui/Bisogna sottrarsi al culto delle argomentazioni “razionali” /Il caso dell’archeoastronomia/ Il razionalismo ingenuo è intollerante/Sulla “cultura di massa”/Commiato.

Massimo Bontempelli
Il pregiudizio antimetafisico della scienza contemporanea
Popper: la teoria come congettura/Hegel e la filosofia della scienza/La teoria della verità come idealità matematica/Gödel: la logica matematica non può giustificare il proprio principio di coerenza/Matematica senza fondamento/Barrow: la base teorica universale della matematica/Hegel: la quantità come “qualità tolta”/Il gran libro della Natura è scritto in caratteri matematici?/Il risultato culturale della rivoluzione scientifica/La semplificazione galileiana del mondo reale/La quantità matematizzabile come dominabilità del mondo/I limiti del meccanicismo/La fisica delle particelle come pura astrazione teorica/Le teorie del tutto/Il determinismo dell’elettrodinamica quantistica/Feynman: la Natura è assurda/La povertà conoscitiva del determinismo matematico della fisica/Il crollo del determinismo fisico di fronte alle forme biologiche/La concezione biologistica della verità/La povertà della moderna coscienza antimetafisica /Il pregiudizio antimetafisico della mentalità odierna/Realtà e verità nella filosofia ontologic/La sapienza di Platone.

Fabio Bentivoglio
Scienza, Natura e destino dell’uomo. Riflettiamo con Aristotele
Che cosa è, oggi, la sapienza?/La Natura/Le onde e la scogliera/Un’etica per la civiltà tecnologica/Dogmi di ieri e dogmi di oggi/L’elogio del senso comune.

Jean Bricmont
Contro la filosofia della meccanica quantistica
Riassunto/Introduzione/Realismo e positivismo/Il problema della meccanica quantistica/La non località/Soluzioni possibili al problema della misura/Conclusioni/Appendice I: Il problema della misura/Appendice II: Il teorema di Bell/Appendice III: La teoria di Bohm/Appendice IV: Bibliografia/Ringraziamenti/Riferimenti.

Fabio Acerbi
Concetto ed uso dei modelli nella scienza greca antica
Il concetto di modello/La controversia storiografica: strumentalismo versus realismo/Cenni al dibattito epistemologico in età ellenistica/L’approccio per modelli nella scienza antica: alcuni esempi: a. Astronomia; b. Meccanica; c. Ottica; e. Teoria musicale; f. Medicina/Conclusioni.

Jules-Henri Poincaré
La matematica e la logica

Giancarlo Chiariglione – La caricatura e il suo doppio ovvero: Elio Petri e i nodi del cinema politico italiano

Elio Petri

Parlando di Elio Petri, viene da domandarsi come quest’autore abbia potuto occupare così autorevolmente la categoria del politico (cineasta d’impegno, regista del cinema politico) ed essere al contempo oggetto di un ostracismo critico che sovente ne ha fatto il prototipo di tutto quanto andava evitato al cinema negli anni sessanta e settanta. L’esiguo numero di pubblicazioni[1] che lo riguardano, testimonia, infatti, di come egli, nel panorama delle analisi dei film italiani del dopoguerra, sia stato relegato in una zona oscura, ambigua, che in malo modo si concilia con il cristallino apprezzamento (sconfinante spesso nel plebiscito) ottenuto da alcune sue pellicole presso il grande pubblico. Provare a definire i caratteri della vicenda Petri, diventa pertanto un’operazione complessa, nonostante sia diffusa la sensazione che si stia forse entrando in una nuova fase degli studi sul regista romano[2]; che sia finalmente possibile operare un ripensamento generale alieno sia ai passati radicalismi che hanno, come vedremo, compromesso un’analisi accurata della sua opera, sia a possibili future canonizzazioni acritiche.
Noto soprattutto come regista e artista, l’autore romano è stato anche un uomo lucido (e inquieto) che ha riflettuto molto sul senso del suo lavoro, un intellettuale che ha partecipato da protagonista alla discussione nata dai fuochi della contestazione che nei decenni “caldi” divampavano su tutti i fronti, un attento indagatore del nostro sociale che, senza mai sacrificare la propria soggettività a dogmatismi e ragioni di partito (il riferimento è chiaramente al PCI), ha utilizzato tutte le risorse che lo spettacolo gli metteva a disposizione per mostrare al pubblico l’estrema complessità del reale.
Elio Eraclio Petri nasce il 29 gennaio del 1929 in via dei Giubbonari, allora cuore “popolare” di Roma. Figlio unico in un’epoca di famiglie assai numerose, cambia varie volte casa e quartiere. Suo padre, di corporatura minuta e di indole mite, faceva lo stagnino (la sua figura personificata dall’attore Salvo Randone, ritorna più volte nelle pellicole petriane), mentre la madre dall’aria dolce e così rassomigliante fisicamente al figlio, la casalinga. Un po’ perché di famiglia modesta e un po’ per incostanza, il giovane Petri abbandona gli studi (Istituto Tecnico Superiore) prima della maturità, per inseguire con l’insaziabile fame dell’autodidatta una cultura fatta di vita di strada e di convinta militanza politica:

«Mi cacciarono due volte dalla scuola e, infine, fui io a rifiutarmi di prendere il titolo di studio. Tutto pareva, anche allora, più necessario dell’andare a scuola. […] erano anni di guerra e di dopoguerra […] Le strade puzzavano ancora di morte e di fascismo. Se feci, quindi, una scuola fu per le strade, nelle cellule del partito comunista, nei cantieri del genio civile, al cinema, al varietà, nelle biblioteche comunali, leggendo i giornali e le riviste di partito, amando «Politecnico», facendo scuola di partito, nelle lotte dei disoccupati, in camera di sicurezza, anche a Regina Coeli, negli scontri con la polizia, nelle sparatorie, nei linciaggi, nei postriboli, negli studi dei pittori della mia età, in tipografia, da Rosati a Piazza del Popolo, nei cineclub, nei comizi, tra coloro che a quel tempo venivano ancora chiamati rivoluzionari di professione. I miei testi li trovavo nelle sezioni del partito comunista e sui carrettini dei libri usati. I miei eroi: Totò, Bogart e Julien Sorel»[3].

E di questa tenace volontà di rincorrere ogni interesse o suggestione, di questa ostilità verso qualsiasi compiutezza e stabilità, verso una deterministica concezione del mondo, tutte le opere di Petri porteranno le tracce tanto nell’immaginario (plateale ed eccentrico), quanto nello stile (così vitalistico da sfiorare spesso l’eccesso). Per quel che riguarda, invece, il partito comunista, l’autore romano, appassionato di politica sin da giovanissimo, si iscrive allo stesso nel 1946 e aderisce alla Federazione giovanile. Petri è un giovane comunista intraprendente e disciplinato, che dapprima partecipa in modo attivo al referendum monarchia-repubblica e alle proiezioni e ai dibattiti del Circolo romano del cinema fondato da Cesare Zavattini, e poi, divenuto a sua volta dirigente della Federazione, si impegna per diffondere celebri film sovietici nelle più disparate sale cinematografiche della provincia (il ricordo di quegli estenuanti viaggi e dei tentativi, spesso vani, di convincere gli esercenti a proiettare opere come Biancheggia una vela solitaria [Beleet Parus Odinokij, 1937] di Vladimir Legoscin, Il Compagno “P” [Ona Zasciscjajet Rodinu, 1943] di Friedrich Ermler e Il destino di un uomo [Sud’ba? Eloveka, 1959] di Sergei Fyodorovich Bondarchuk, saranno in futuro rivissuti dal cineasta con divertimento e nostalgia). Negli stessi anni Petri si distingue anche per l’originalità con cui firma alcuni articoli per il periodico «Gioventù nuova», in virtù dei quali, viene invitato a collaborare alla rubrica cinematografica de «l’Unità» come vice di Tommaso Chiaretti. Tramite questa vera e propria pratica sul campo[4], il nostro approda, infine, al mondo del cinema. Coloro che lo introducono nell’ambiente sono il direttore del quotidiano comunista Pietro Ingrao e l’amico Gianni Puccini, già direttore della rivista «Cinema» e sceneggiatore di Ossessione (1943) con Visconti, Mario Alicata, Antonio Pietrangeli e Giuseppe De Santis.
Proprio a quest’ultimo, alla disperata ricerca di un cronista “romano de Roma” capace di fare un’inchiesta su un tragico fatto che aveva scosso la città, i due sopraccitati consigliano il futuro regista di Indagine. In pieno clima neorealista, la cronaca alimentava la fantasia e la coscienza di intellettuali ed artisti, pertanto, anche De Santis, interessato a trasporre cinematograficamente la vicenda dell’incidente che il lunedì 15 gennaio 1951 aveva coinvolto più di duecento giovani donne richiamate in via Savoia 31 da un annuncio che prometteva un posto da dattilografa[5], decide di promuovere un’indagine sul campo. Data l’applicazione con la quale ha portato avanti la ricerca e i buoni risultati raggiunti, Petri viene invitato a prendere parte alla realizzazione della sceneggiatura con lo stesso regista, Basilio Franchina, Rodolfo Sonego, Zavattini, Puccini e anche se alla fine non viene accreditato nei titoli di testa, questa collaborazione risulterà decisiva per la sua carriera. Nell’autunno del 1951, infatti, hanno luogo le riprese di Roma ore 11 (1952) e il giovane Elio è promosso a secondo assistente alla regia a fianco di Basilio Franchina. Tale apprendistato sancisce anche l’inizio di un rapporto di amicizia con il maestro ciociaro che crescerà nel tempo («per me fu più di un fratello» disse a tal riguardo il nostro)[6] e che sosterrà Petri sino ai tempi del suo esordio con L’assassino (1961). Dal canto suo, De Santis, affezionatosi a quel ragazzo umorale ma così pieno di curiosità e intraprendenza (e soprattutto comunista ortodosso come lui), commissionandogli altre cinque sceneggiature[7], contribuirà in modo consapevole a consolidare un imprinting che influenzerà il suo stile marcato e visionario, fatto di una presa diretta della realtà umana e sociale, come pure il suo gusto per la composizione ampia e articolata abbinata ad audaci movimenti della macchina da presa (secondo le cadenze e i ritmi della cinematografia americana).
Con questo percorso tipicamente neorealista fatto di inchieste giornalistiche, scripts e documentari[8], Petri realizza un primo nucleo di opere che potremmo definire di “assestamento”. Il controllato film d’esordio L’assassino, l’antonioniano I giorni contati (1962) e Il maestro di Vigevano (1963), originale adattamento dell’omonimo romanzo di Lucio Mastronardi, denotano, infatti, la ricerca da parte dell’autore di una strada propria, di un linguaggio personale. Il quale si appalesa in forma satirica nell’episodio Peccato nel pomeriggio del corale Alta infedeltà (1964)[9] e nel graffiante apologo fantascientifico La decima vittima (1965). La fase successiva è quella della produzione matura, nella quale Petri, rielaborati i nodi tematici ed espressivi più importanti del quinquennio d’avvio in termini rivoluzionari, raggiunge infine un suo equilibrio e una sua, personalissima, misura. Sono gli anni inaugurati dal letterario A ciascuno il suo (1967), che proseguono con l’elegante Un tranquillo posto di campagna (1968) e culminano infine nella fortunata accoppiata di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) e La classe operaia va in paradiso (1971). Questa stagione solenne, figlia anche dell’armoniosa collaborazione tra il cineasta romano, l’attore feticcio Gian Maria Volonté e lo sceneggiatore Ugo Pirro è però destinata a concludersi, lasciando il posto al terzo e ultimo periodo della filmografia di Petri in cui l’efficacia e l’intensità del suo discorso si esasperano nella metafora livida e soffocante de La proprietà non è più un furto (1973), nel tetro giallo politico di Todo Modo (1979), nel sartriano Le mani sporche (1979) e nel disperato e a tratti apocalittico Le buone notizie (1980).
Al di là delle varie fasi creative che hanno segnato la sua opera, il comun denominatore della produzione di Petri resta indubitabilmente la passione[10]: la stessa che lo lega alla politica. E in tal senso, un primo motivo per cui la critica fece del regista il bersaglio privilegiato di un’accesa battaglia ideologica, stilando nei suoi riguardi innumerevoli capi d’accusa, può forse essere rintracciato nella traumatica interruzione della sua militanza nel «partito dell’infanzia e dell’adolescenza», successiva a quell’evento epocale che fu la rivoluzione ungherese del 1956.
La sollevazione anti-sovietica nell’allora Ungheria socialista originata da una dimostrazione di intellettuali e operai che il 23 ottobre incoraggiarono il ritorno al potere in Polonia di Wladyslaw Gomulka, vittima dello stalinismo, venne, infatti, duramente repressa dall’intervento dei soldati dell’Armata Rossa (il 10 novembre i Consigli di lavoratori, studenti e intellettuali ungheresi chiesero il cessate il fuoco), provocando in Italia una profonda lacerazione tra la militanza dissidente[11] e la posizione ufficiale del PCI. I quadri dirigenziali con Togliatti in testa (e ad eccezione di personaggi come il sindacalista Giuseppe Di Vittorio e l’allora direttore della sezione milanese de «l’Unità» Davide Lajolo), giudicarono l’intervento sovietico «una dolorosa necessità» per arginare la “controrivoluzione” orchestrata da gruppi armati ostili alla democrazia popolare[12]. Mentre Petri e altri centouno intellettuali e artisti comunisti come Alberto Asor Rosa, Carlo Muscetta, Natalino Sapegno, Renzo Vespignani, Delio Cantimori, Mario Socrate, Dario Puccini, Alberto Caracciolo, Renzo De Felice e Lucio Colletti, sconvolti dalle notizie provenienti da Budapest e cercando di smarcarsi dalla linea togliattiana, si riunirono per stilare un documento assai critico, pieno di dolore e di delusione nei confronti dell’operato sovietico in Ungheria. Il “Manifesto dei 101” suscitò polemiche di fuoco, ma Togliatti non cedette e la dura reazione della direzione del partito creò un vero e proprio “caso di coscienza” in quei firmatari che volevano utilizzare il documento per stimolare un dibattito inerente all’organizzazione interna del PCI. Proprio per sgombrare il campo dalle accuse di arrivismo, Petri, Paolo Spriano, Mario Socrate, Renzo Vespignani e altri inviarono a «l’Unità» una lettera nella quale si parlava di critiche pretestuose, di buona fede carpita, visto che anche la mobilitazione pressoché contemporanea di intellettuali francesi come Marguerite Duras, Albert Camus, Edgar Morin e Jean Paul Sartre (che a proposito dell’accaduto parlò di errori dello stalinismo corretti «a colpi di cannone»), per domandare il ritiro dei soldati sovietici dal suolo ungherese, evidenziava la portata politica dell’avvenimento e la necessità di una chiara presa di posizione da parte di tutti gli uomini di buona volontà.
Così, se la rottura verificatasi in seno al PCI tra intellettuali, artisti e classe dirigente da un lato favorì l’amaro abbandono di personaggi come Italo Calvino, dall’altro rafforzò la contestazione di alcuni degli attivisti sopraccitati, i quali, non volendo rinunciare al libero confronto sulle idee, si raccolsero attorno alla rivista «Città aperta». Finanziata dall’industriale Gian Fabrizio Sacripante e diretta da Tommaso Chiaretti, nella redazione della medesima si ritrovarono i letterati Dario Puccini e Mario Socrate, il filosofo classico Luca Canali, l’architetto Pietro Moroni, i pittori Ugo Attardi, Marcello Muccini, Renzo Vespignani e di nuovo Elio Petri. La rivista ospitava articoli di letteratura, pittura, architettura e cinema, nonché diversi contributi riguardanti il dibattito sull’ideologia marxista. Intervennero sulle sue pagine Calvino, Callisto Cosulich, Ugo Pirro, Giuseppe Campos Venuti e altri. La copertina del primo numero (25 agosto 1957), un’acquaforte di Vespignani (fraterno amico di Petri che fornirà numerose altre illustrazioni alla pubblicazione), presentava una prostituta intenta a sollevare la gonna per mostrare un religioso, un generale e un uomo politico infilati nelle sue mutandine. Quel disegno satirico era una esplicita dichiarazione politica dei dissidenti, i quali, deploravano l’invasione sovietica dell’Ungheria e riaffermavano contemporaneamente il loro rifiuto nei confronti della realtà politica italiana. La vicenda di questo eteroclito gruppo che incalzava la verità al di fuori di ogni vizio intellettuale[13], si concluse però come spesso si concludono le storie nelle quali ai protagonisti risultano sinceramente inconsapevoli i confini tra l’utopia e la realtà. Alla fine, il militante e critico d’arte Antonello Trombadori e il responsabile culturale del PCI Mario Alicata (che all’inizio tentò di convogliare i nostri nella redazione de «Il Contemporaneo» e poi, resosi conto dell’impossibilità di fermare l’iniziativa, cercò di contenerla proponendo in successione Enzo Modica e Chiaretti come direttori), riuscirono, infatti, ad avere la meglio su quei comunisti così indocili. Come ci racconta lo stesso Vespignani

«Con quella rivista volevamo misurare la febbre del partito, la sua capacità di resistenza alla nostra opposizione. Provocavamo. […] Venivamo convocati da Alicata, alle Botteghe Oscure, in una stanzetta monacale, spartana, e trovavamo il fascicolo, riga per riga, annotato da lui, […] ogni nota era una domanda per noi, ed esigeva una risposta, una correzione, che restavano lettera morta. […] In mezzo a tutto c’era Trombadori […] Aveva tutte le qualità per essere la nostra coscienza critica: è finito con lo scrivere ventimila articoli sugli sbandamenti della casualità […] Una volta, nel pieno di una lite, li da Alicata, esco dalla stanza per andare al cesso, e al cesso incontro Togliatti. […] Lui non disse niente: uscì senza filarmi, ma con la faccia nera. [Invece] Antonello, mi si butta al collo, piange, sento le lacrime sulla pelle, e dice, “Ma che state facendo, che state facendo…”. Gli dico: “Una rivista, Antonello, solo una rivista”. Con Antonello eravamo amici […]; ma poi c’era in lui il funzionario di partito, la smorfia di un uomo d’ordine.[…] Espulsero Tommaso Chiaretti: ce ne andammo anche noi, Petri, io, tutti»[14].

E in effetti, dopo una prima sospensione delle pubblicazioni (anche in virtù delle polemiche relative alla ferma condanna espressa dai redattori per l’esecuzione dell’ex premier ungherese Imre Nägy), col numero del giugno-luglio 1958, «Città aperta» cessò di uscire. Nel frattempo gli “eretici” (da Petri a Canali, da Socrate a Puccini, da Vespignani ad Attardi), avevano omesso di rinnovare la tessera del partito. Il futuro regista de L’assassino, quindi, smettendo di essere un comunista “ortodosso” (pur restando ancora affettivamente vicino al PCI), divenne uno di quegli intellettuali non tradizionali «che caratterizzano l’ambiente cinematografico romano»[15]. Uno scomodo “compagno di strada” destinato però a perdere sempre più contatto con il suo vecchio partito, visti anche i feroci e ingiustificati attacchi che negli anni settanta il regista ricevette dal PCI per la sua vicinanza al collettivo del giornale «Il Manifesto»[16]. Ma soprattutto, Petri venne gradualmente travolto dall’aggressività polemica di una critica che, pur prendendo di mira l’intero fenomeno del cinema politico italiano, scelse proprio l’opera del regista romano come oggetto su cui riversare un’ostilità a volte persino isterica[17]. Negli anni sessanta, infatti, il cinema si era ritrovato di nuovo ben saldo al centro di quella “battaglia delle idee” che animava il dibattito culturale italiano. Tale realtà, quindi, stimolò la nascita di numerose e articolate pubblicazioni che trattavano in modo combattivo e variamente engagé le tematiche e la funzione della settima arte nella società dell’epoca[18]. Questo fermento stilcritico[19] non riuscì però a coagularsi in un fenomeno omogeneo, dato che la critica cinematografica del periodo appariva come un orbe costituito da oggetti testuali contemporaneamente molto diversi e molto simili tra loro. All’interno di questa nebulosa è infatti possibile riconoscere le cosiddette correnti di opinione (la critica dei quotidiani legata ad intellettuali e pubblicisti non direttamente riconducibili alla politica), le correnti di tendenza (la critica delle pubblicazioni legate ai partiti) e infine l’esperienza della “critica militante” (simboleggiata da riviste come «Cinema & Film», «Ombre rosse» e «Filmcritica»), la quale, portando i germi dell’elaborazione teorica e della passione politica in armonia con le tesi del Movimento e della Nuova Sinistra, riuscì a improntare di sé tutto il decennio. Centrale per questi “attivisti della celluloide” era la questione dell’opera autenticamente rivoluzionaria, per cui non bastava trattare tematiche di denuncia, ma occorreva anche veicolarle con strategie comunicative lontane tanto dalle consuetudini produttive (negazione del circuito commerciale), quanto dalle abitudini narrative ed espressive del cinema tradizionale (rivoluzione del linguaggio). Ne conseguiva che il cinema politico italiano (compreso quello “a sinistra”), aderendo in massima parte alle convenzioni industriali e linguistiche del film di buona fattura, fosse in odore di conservatorismo. Questo tipo di impostazione influenzò anche il resto della critica, la quale, quando non assisteva da pigra spettatrice alla controversia, inseguiva l’onda della contestazione aderendo in maniera conformistica alle ipotesi più radicali.
Così, proprio mentre alcune riviste cercavano di definire in maniera quasi scientifica le basi del mestiere dello studioso di cinema, la critica tutta mancava clamorosamente il bersaglio del cinema politico, creando una frattura tra gli autori “impegnati” coinvolti nelle strutture dell’industria cinematografica nostrana e una generazione di censori che si rappresentava in termini di “bisogni” spesso deliranti. E di tale frattura, il caso Petri costituisce senza dubbio il culmine, il sintomo più evidente. L’immagine del cineasta romano che, infatti, si può estrapolare dai testi, dalle recensioni, dalle analisi della critica del periodo è quella di una figura alterata e a suo modo monotona; con tratti ritornanti che la rendono simile ad una caricatura. E sappiamo benissimo che, pur essendo di natura effimera, in stretta analogia col motto di spirito e lo scherzo[20], la caricatura è storicamente un espediente per ritrarre una persona della quale si vogliono amplificare alcuni difetti nella prospettiva ludica e talvolta pure satirica[21]. Una specie di doppio grottesco che mantenendo con l’immagine originale una naturale relazione di identità, attraverso i suoi caratteri così eccessivi, stravolti, ci vuole comunicare qualcosa di preciso. Come sostiene, infatti, l’illustre storico dell’arte viennese Ernst Kris, i segni della deformazione solitamente suggeriscono «l’esistenza di altre idee […] sono gli elementi che svelano la tendenza»[22]. Così, in modo paradossale, le annotazioni più aspre e ritornanti della “burrasca militante”, favoriscono oggi la possibilità di mettere a fuoco un inedito ritratto dell’opera dell’autore romano. Sono i tratti che ci rivelano come il cinema di Petri, proprio perché al di fuori delle coordinate dell’universo stilcritico, sia forse stato in grado di far emergere una ragione e una sensibilità che rappresentavano una sfida alla razionalità e alla sensibilità incorporate nelle istituzioni sociali e culturali dominanti, di attuare quel sovvertimento della coscienza che rientra nelle qualità rivoluzionarie dell’arte. Pertanto, quello stesso atteggiamento censorio, quella maschera grottesca messa dalla critica all’autore romano, gettano anche un fascio di luce sul cinema politico italiano inteso come fenomeno culturale, consentendoci di ripiegare sulle sue tracce per raccoglierne i frammenti e provare a ripristinare l’oggetto perduto.
Se è vero, infatti, che le caricature, le immagini satiriche diffondono impulsi ostili[23], allora tutto fa pensare che le pellicole di Petri, del regista simbolo di quella tendenza, possano essere l’ideale oggetto perturbante per una fruttuosa analisi delle produzioni politicamente impegnate, del cinema definito in modo sprezzante del compromesso linguistico[24]. Il senso di questa formula ci porta a riflettere su quanto fosse inattuabile per la critica dell’epoca l’ipotesi di un discorso politico rivoluzionario incentrato sulle forme espressive e sugli schemi del racconto tradizionale. Il “peccato originale” di Petri, riguardava appunto la sua scelta di inserirsi nel cinema dell’esistente per creare prodotti che alla critica apparivano come buone confezioni, merci perfettamente funzionali all’industria culturale e alle sue esigenze commerciali[25] (addirittura la volontà del regista di instaurare un legame con il pubblico, veniva interpretata nei termini di una conquista di spettatori-clienti). Il tratto distintivo di tale filone, infatti, veniva indicato come un racconto piano, senza sussulti, facilmente “digeribile” dallo spettatore; assai lontano dallo svolgere un discorso articolato e “rivoluzionario”[26]. Prerogative, queste, che non corrispondono minimamente all’opera del cineasta romano, visto che il suo stile è in realtà mai banale o lineare, ma piuttosto straripante, teso a porsi spettacolarmente in primo piano. Il linguaggio di Petri non spicca certo per essere essenziale o per una povertà di soluzioni, giacché a prevalere sono una sovrabbondanza (a volte greve), una frenetica mobilità dello sguardo[27], un suggestivo intento straniante[28], un’accattivante didascalismo, i quali, tramite un repentino e ardito cambiamento di fronte, portarono le sue pellicole ad essere (anche) etichettate come prodotti “griffati” e quindi nuovamente impolitici[29]. Questi repentini mutamenti di opinione, sempre intrisi di ironia (quando non di aggressività), questa incontenibile volontà di marchiare l’opera di Petri per la sua incapacità di far coincidere linguaggio poetico ed enunciato politico, riportano alla mente la proverbiale storiella della volpe e dell’uva, con la critica nel ruolo della prima e la sfuggente identificazione del controverso genere cinematografico in quello della seconda. Troppo intenti a rimarcare i vizi della forma e dei contenuti in rapporto alle nuove virtù dell’ideologia (annullando così ogni considerazione pertinente rispetto al linguaggio e dimostrando che il periodo della contestazione si palesava come un momento di radicalizzazione, piuttosto che di rifondazione di metodologie e pratiche critiche)[30], gli “appunti corsari” dell’epoca, infatti, non hanno, in realtà, colto appieno l’ambiziosa portata della riflessione artistica petriana: mestare nel torbido del discorso politico e collocarsi al suo centro.
Incapace (o non ancora pronta) a superare il limbo formalizzato della politica della rappresentazione, la critica non si è resa conto che il cineasta romano, puntava, invece, alla rappresentazione del politico: ossia alla rappresentazione di quella realtà che concerne la dimensione della vita pubblica nelle sue relazioni con il potere («politico non è tanto ciò che riguarda la società; quanto la configurazione dei rapporti di potere nella vita pubblica…»)[31]. Il cinema petriano, il cui espressionismo risente sia della “scuola desantiana” (come abbiamo visto prima), che di quella esuberanza della scrittura[32], la quale dall’inizio degli anni sessanta si andava affermando in Italia come un codice comune, prende forma, infatti, soprattutto grazie ad un proprio stile figurativo, ad una scelta consapevole di un linguaggio volutamente artefatto. Le basi della sua identità d’autore biasimati come cattivo gusto, kitsch o midcult dalla critica, derivano per l’appunto dall’inclinazione a “teatralizzare” a “spettacolarizzare” il reale del nostro sociale con la chiara intenzione di amplificare i fantasmi del potere che vi si agitano. Da attento studioso dei meccanismi repressivi che tutti portiamo dentro (sia quelli che il potere lo esercitano che i sudditi, dato che ognuno ha la sua fetta di potere e tende ad esercitarla autoritariamente) e che si legano alla richiesta di una continua presenza paterna, carismatica, facendo di noi degli immaturi (o dei bambini in cerca di modelli di comportamento)[33] e in considerazione dell’influenza della figura dell’attore nella nostra cultura, il cineasta ha affermato:

«Se parti dal principio che la società è un teatro, un principio molto elementare, così elementare da sembrar banale, ma che è vero. Allora ti spieghi il perché dei ruoli sociali, e come alcuni ruoli siano più significativi di altri e come la massa si identifichi nei ruoli del potere e così via»[34]

Petri, conscio che il mondo infinito delle forme e delle manifestazioni comiche del teatro popolare, della cultura popolare, si è sempre opposto alla cultura ufficiale e al suo tono serioso e ossequiente, tramite il suo cinema dell’eccesso, all’esibizione del posticcio («mi piace Stroheim molto più di Flaherty. Non mi piacciono i documentari […] C’è il massimo della manipolazione, perché fingono di documentare ciò che non è documentabile se non attraverso un’interpretazione […] Mi piace il barocco e tutto quello che è spettacolo»)[35], è stato l’autore italiano che meglio di altri ha approfondito e delineato la scissione che è presente in ciascuno di noi accostandola alle dinamiche dei rapporti di forza che condizionano la società, suggerendo al contempo a coloro che si trovavano (e si trovano) dall’altro lato dello schermo che, essendo l’attore una proiezione di noi stessi ed il pubblico una proiezione dell’attore, riconoscere l’importanza del ruolo della recitazione, della maschera, nell’ambito della vita quotidiana, significa, forse, riconoscere e accettare la propria condizione umana.

Giancarlo Chiariglione

Consulta il sito uffciale di Elio Petri

Note

[1] I libri dedicati all’autore romano sono oggettivamente pochi e al di là di alcune eccezioni, tendono a proporre un ritratto tutto sommato stereotipo. Tra i contributi italiani che si segnalano per una certa originalità abbiamo la monografia di Rossi (Alfredo Rossi, Elio Petri, La Nuova Italia, 1979), il volume relativo alla retrospettiva organizzata dalla Mostra del cinema di Venezia nel 1983 (a un anno dalla morte del cineasta), curato da Ugo Pirro, il numero monografico de “I quaderni Del Lumière” (Di Martino Anna e Morini Andrea, Elio Petri, Edizioni Ente Mostra Internazionale Del Cinema Libero, Bologna, 11 febbraio 1995), il saggio sulla science-fiction petriana La decima vittima (Lucia Cardone, Elio Petri, Impolitico. La decima vittima (1965), Edizioni ETS, Pisa, 2005), il “DVD + Libro” della Feltrinelli (Stefano Leone, Nicola Guarnieri e Federico Bacci, Elio Petri. Appunti su un autore, Feltrinelli, Milano, 2006) e la raccolta di scritti cinematografici e non, edita recentemente da Bulzoni e curata da Jean A. Gili, Elio Petri, Scritti di cinema e di vita, Bulzoni, Collana Cinema/Studio, Roma, 2007. L’interesse nei confronti dell’autore romano è invece storicamente consolidato in Francia, dato che proprio il famoso critico J. A. Gili, dedicatosi in prevalenza all’analisi del cinema italiano, ha realizzato alcune opere di un certo spessore sul regista romano basate soprattutto su lunghe e articolate interviste (si pensi per esempio a Elio Petri, Facultè des Lettres et Sciences Humanites section d’Histoire, Nice, 1974 ed Elio Petri et le cinéma italien, Editions Les Rencontres d’Annecy, 1996)

[2] Alberto Barbera in Paola Pegoraro Petri (a cura di ), Lucidità inquieta. Il cinema di Elio Petri, Museo Nazionale del Cinema di Torino, Torino, 2007, p.6.

[3] Alfredo Rossi, Elio Petri, La Nuova Italia, 1979, p. 3.

[4] Già nel 1945 il giovane autore segue con attenzione tutti i film proiettati al festival organizzato al cinema romano “Quirino”, rimanendo indelebilmente segnato da Roma città aperta di Roberto Rossellini. A proposito della passione per la settima arte che lo colse in quegli anni, Petri dice «Allora il cinema mi interessava già molto: vedevo anche tre film al giorno; faccio parte della prima generazione veramente cinematografica. In fondo, noi non abbiamo avuto bisogno di scuole tecniche: la grammatica e la sintassi le conoscevamo istintivamente a forza di essere spettatori». Intervista, in Jean A. Gili (sous la direction de), Elio Petri, Université de Nice, 1972, p. 22.

[5] Le candidate, giunte di prima mattina per le prove di selezione, si ritrovarono pigiate come in un tram sulla scala condominiale che conduceva allo studio di un noto avvocato. Le ragazze si spingevano, lottavano tra di loro per non essere sopraffatte dalle più intraprendenti, mentre la ringhiera cedette di schianto facendo precipitare rovinosamente le stesse nella tromba delle scale. Le conseguenze furono settantasette feriti e un decesso. Petri aveva il compito di indagare le motivazioni sociali, psicologiche ed economiche che portarono al disastro, ricostruendo le biografie e le aspettative di vita di ciascuna candidata. E ciò che emerse dai colloqui con le protagoniste e le loro famiglie, più che i sogni e le aspirazioni delle giovani e dei loro congiunti, fu “l’incombenza del reale”, sotto forma della necessità di quattrini. Anche l’avvenimento appariva in tutti lontano (logorato persino nel ricordo); il perché dell’accaduto, le responsabilità, le relazioni tra le ragazze non erano che accidenti, variabili di una storia con un unico, specifico attante: il denaro. La “realtà sociale” aveva determinato la tragedia. Con il titolo Roma ore 11, tale materiale venne pubblicato nel 1956 con una prefazione di Giuseppe De Santis nella collezione “Il gallo”, collana Omnibus, n° 27, per le Edizioni Avanti! (Milano-Roma) e più di recente (2004) da Sellerio.

[6] Con De Santis lavoravano già aspiranti cineasti come Carlo Lizzani e Gillo Pontecorvo.

[7] Un marito per Anna Zaccheo (1953), Giorni d’amore (1954), Uomini e lupi (1956), La strada lunga un anno (1957) e La garçonnière (1960).

[8] Nel 1954 Petri gira un cortometraggio ambientato nel mondo del ciclismo di chiaro impianto documentaristico, intitolato Nasce un campione. L’opera è prodotta da Arturo Zavattini, Pasquale De Santis e dallo stesso autore romano che a tal proposito dice «A quell’epoca girare cortometraggi era una tappa obbligatoria sulla strada dell’apprendistato tecnico-professionale». Nel 1957, lo stesso cineasta realizza invece I sette contadini, un progetto sviluppatosi nell’ambito dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia dedicato alla drammatica vicenda dei fratelli Cervi e sceneggiato da Cesare Zavattini, Luigi Chiarini e Renato Nicolai. Per un approfondimento di questo documentario si leggano gli scritti di Gianni Rondolino e Oreste Del Buono nel saggio di Lino Miccichè, Studi su dodici sguardi d’autore in cortometraggio (Lindau, Torino, 1995).

[9] Alta infedeltà è un film a episodi del 1964 diretto dai registi Franco Rossi (Scandalosa), Luciano Salce (La Sospirosa), Mario Monicelli (Gente moderna) e, appunto, Petri.

[10] Paola Pegoraro, la compagna di Petri, in relazione a questo aspetto racconta «Elio lo conobbi negli anni sessanta e di lui mi colpirono la passione politica, la passione per il cinema, la passione per l’arte moderna, la passione per il jazz, in una parola la passione», Paola Pegoraro Petri (a cura di ), op. cit., p. 9

[11] Ugo Pirro ricorda il dramma di quei momenti «Fu un anno memorabile e triste il 1956, l’invasione sovietica dell’Ungheria colpì al cuore una generazione di militanti comunisti, cambiò profondamente anche Elio che si ritrovò, per così dire, dietro i carri armati sovietici e, nello stesso tempo, davanti alle barricate, accanto ai rivoltosi. […] Tagliato in due dalla passione politica, trafitto, per così dire dalle sue stesse convinzioni, si rosicchiava con ostinazione le unghie fino a farle sanguinare. Parlava, parlava, polemizzava con se stesso e con tutti per vincere la delusione, salvare la passione politica, lavandola dal settarismo cui un po‘ tutti ci eravamo abbandonati in quel dopoguerra straordinario». Ugo Pirro, Il cinema della nostra vita, Lindau, Torino, 2001, p. 19.

[12] «L’Unità» del 25 ottobre 1956 uscì con il titolo «Da una parte della barricata a difesa del socialismo», indicando la rivoluzione del paese magiaro come un «putsch controrivoluzionario» della vecchia Ungheria fascista e reazionaria.

[13] «Città aperta», di fatto un coraggioso esperimento in equilibrio tra ortodossia formale e concreto dissenso, era impegnata nel rinnovamento sociale, morale e culturale dell’Italia. Mossi dall’ideale socialista non inquinato da compromessi riformistici e decisi a contrastare l’arretratezza della società capitalistica italiana, le nebbie del clericalismo e le varie manifestazioni del conformismo borghese, gli autori del periodico esprimevano in sostanza «il desiderio di discutere di tutto, tra comunisti, senza reticenze […]». Nello Ajello, Intellettuali e PCI. 1944-1958, Laterza, Bari, 1979, p. 440.

[14] Enzo Siciliano, falce e pennello, «Corriere della Sera», 21 febbraio 1993.

[15] Callisto Cosulich, Germi, Petri e l’impero del male in «Bianco e nero», LIX, 1 gennaio 1998.

[16] Ugo Pirro, op. cit., p. 109.

[17] Sostiene Gian Piero Brunetta che all’inizio degli anni settanta, vi è uno specifico momento in cui «su Petri tirano tutti la loro palla, come ai baracconi del Luna park. L’esercizio appare facile […] anche se, in non pochi casi, ha un che di canagliesco e maramaldesco», G. P. Brunetta, Storia del cinema italiano dal 1945 agli anni ottanta, Editori Riuniti, Roma, 1982, p. 696.

[18] Riviste già attive da tempo come «Filmcritica», a partire da 1960 diedero vita ad un nuovo corso ingaggiando collaboratori come Adriano Aprà, Maurizio Ponzi, Stefano Roncoroni e Luigi Faccini. Nel corso di quello stesso decennio nacquero numerose altre testate tra cui «Cinema 60», «Cineforum», «Film Selezione», «Centrofilm», «Cinema & Film» e «Ombre rosse», le quali, pur essendo sovente legate a situazioni locali, fugaci, come afferma Alberto Boschi, attestavano con la loro presenza «la vitalità del dibattito sul cinema», Alberto Boschi, Le nuove riviste, in Giorgio De Vincenti (a cura di), Storia del cinema italiano 1960/1964, vol. X, Marsilio Edizioni Bianco e Nero, Roma, 2001.

[19] La riflessione sul cinema si arricchiva grazie anche alla creazione di manifestazioni come la Mostra del Cinema Libero di Porretta Terme (1960) e la Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro (1965), le quali, con il loro taglio vivace e innovativo, ambivano a contrapporsi a festival storici come la kermesse veneziana. Sui quotidiani, invece, alcuni rubrichisti, pur non appartenendo in senso stretto al circuito degli addetti ai lavori, riuscivano spesso con la loro competenza a dare alle recensioni una dimensione di piccolo e documentato saggio…

[20] Attilio Brilli, Dalla satira alla caricatura. Storia, tecniche e ideologie della rappresentazione, Dedalo, Bari, 1985, p. 194.

[21] Come affermava in merito lo storico dell’arte e politico seicentesco fiorentino Filippo Baldinucci «E caricare dicesi anche da’ pittori o scultori, un modo tenuto da essi in fare ritratti, quanto più somiglianti al tutto alla persone ritratta, ma per giuoco, e talora per ischerno, aggravando e crescendo i difetti delle parti imitate sproporzionatamente. Talmente che nel tutto appariscano essere essi e nelle parti variati», Filippo Baldinucci, Vocabolario toscano dell’arte e del disegno, Firenze, 1681, p. 29.

[22] Ernst Kris, Psychoanalytic Explorations in Art, International University Press, 1952, trad. It. Ricerche psicoanilitiche sull’arte, Torino, Einaudi, 1967, p. 181.

[23] Richard Woodwfield (a cura di), Sentieri verso l’arte. I testi chiave di Ernst H. Gombrich, Leonardo Arte, Milano, 2003, p. 336.

[24] Alfredo Rossi, op. cit. p. 9.

[25] Petri, in realtà, realizzò, anche un film militante, totalmente alternativo, che ebbe una diffusione modesta e sotterranea. Si tratta di Ipotesi su Giuseppe Pinelli, capitolo del lungometraggio Documenti su Pinelli (conosciuto anche come Dedicato a Pinelli), realizzato in reazione alla morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, deceduto in circostanze misteriose presso la Questura di Milano il 15 dicembre 1969. Il progetto nacque dopo Piazza Fontana, quando cioè si formò il “Comitato cineasti contro la repressione”. Anche se aderirono al Comitato molti autori appartenenti alle associazioni di categoria ANAC e AACI (che si riunirono in cinque gruppi di lavoro), solo Petri e Nelo Risi portarono a termine il loro film. L’episodio realizzato dal regista romano con l’aiuto di Ugo Pirro, dell’operatore Luigi Kuveiller, e con la partecipazione di Volonté, Di Berti e Renzo Montagnani, ironizza sulle diverse versioni date dalla Questura per giustificare la morte dell’anarchico Pinelli (e avvalorare così la tesi del suicidio). A chi giudica tale opera un caso isolato nella filmografia dell’autore, è d’uopo ricordare che la messa in scena e la scelta della ricostruzione ironica, si inseriscono perfettamente nell’unità poetica del suo percorso artistico. Su tale opera si vedano i testi di Ugo Pirro, op. cit., 1983, p. 70 e op. cit., 2001, p.81.

[26] Recensendo Il maestro di Vigevano, Gian Luigi Rondi disse «i sogni, le proiezioni dei pensieri e dei desideri dei personaggi, per voler restare troppo fedeli alla qualità umana degli stessi personaggi, sono di gusto troppo facile, troppo ingenuo, privi di un vero sapore critico e finiscono per farsi appesantire dagli stessi difetti che vorrebbero mettere alla berlina», G. L. Rondi, Il maestro di Vigevano, «Il Tempo», 27 dicembre 1963.

[27] A tal riguardo, recensendo A ciascuno il suo, Maurizio Ponzi censurò l’uso dello zoom, definito come un obiettivo che dovrebbe «essere controllato dalle autorità, come uno stupefacente. Esso amplifica, sottolinea, schiaccia, deforma, isola […] altera, nel senso letterale della parola, la realtà […] Ciò non è grave […] in un film fantastico […] ma lo è in un film che ispira, al fondo, ad essere di denuncia». Maurizio Ponzi, A ciascuno il suo, «Cinema e film», I,2, primavera, 1967.

[28] Giovanna Grignaffini affermò che Petri aveva messo «comode pantofole al buon Brecht», “Petri e Rosi: timeo Danaos et dona ferentes”, in «Cinema & cinema», III, 7-8, aprile-settembre.

[29] Parlando de La decima vittima, Lino Miccichè sottolinea che la «perizia linguistica e la stessa vivacità stilistica del regista finiscono per trasformarsi in puro ricamo virtuosistico dando […] al film gli orpelli esterni e le effimere eleganze di un prodotto “firmato”», Lino Miccichè in Il cinema italiano degli anni ’60, Venezia, Marsilio, 1975, p. 175.

[30] Adelio Ferrero (coautori Giovanna Grignaffini e Leonardo Quaresima), Il cinema italiano degli anni ’60, Guaraldi, Rimini; Firenze, 1977, p. 5.

[31] Maurizio Grande, Eros e politica. Sul cinema di Bellocchio Ferreri, Petri Bertolucci, P. e V. Taviani, Protagon, Siena, 1995, p. 18.

[32] Barbara Grespi “Modi e mode della rappresentazione”, in Gianni Canova (a cura di), Storia del cinema italiano, 1965/1969, vol. XI, Bianco & Nero-Marsilio, Roma-Venezia, 2002, p. 233 e passim.

[33] Paola Pegoraro Petri, op. cit., 99.

[34] Ellen Cunamo, L’impazienza della macchina da presa, in Ugo Pirro, 1983.

[35] Ibidem

1 227 228 229 230 231 251