«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
«La filosofia avrà coscienza del domani, prenderà partito per il futuro, solo se saprà della speranza, in caso diverso non saprà più nulla».
Ernst Bloch, Il principio speranza [1938-1947], vol. I, , Garzanti, Milano 1994, p. 10.
Bloch sostiene che la paura è il rovescio della speranza e indica nell’angoscia una paura senza oggetto, criticando in particolare le posizioni marcatamente conservatrici di M. Heidegger, che sull’angoscia e sull’essere-per-Ia-morte ha scritto pagine importanti nelle sue opere maggiori [cfr. M. Heidegger, Sein und Zeit (1927), tr. it. Essere e tempo, Utet, Torino 1978, Parte II, Capitolo I: La possibilità di essere-un-tutto da parte dell’Esserci e l’essere-per-la-morte, pp. 359-399; Was ist Methaphysik? (1929), tr. it. Che cos’è la metafìsica?, in Segnavia, Adelphi, Milano 1987, pp. 59-77].
Scrive Bloch,
« […] vuoI conglobare nel proprio fiasco ogni interesse diverso, contrapposto, e per indebolire la nuova vita, fa sembrare fondamentale, ontologica, la propria agonia. L’assenza di prospettiva dell’esistenza borghese viene dilatata ad assenza di prospettive della situazione umana in generale».
Ernst Bloch, Il principio speranza [1938-1947], vol. I, , Garzanti, Milano 1994, p. 7.
«Dobbiamo piuttosto utilizzare la fantasia come correttivo, giacché la verità delle nostre condizioni mostruose non è senz’altro percepibile, perlomeno non a occhio nudo. Il fantasticare che è oggi richiesto non consiste più in ciò che intendevamo finora con questo termine: non più nel trascendere “esageratamente” il reale, non più nel raffigurarci l’irreale o nell’immaginare esseri fiabeschi – chi continua a utilizzare tuttora un simile concetto di fantasia alla Böcklin si rende ridicolo. Al contrario, fantasticare deve significare attualmente confrontarci con la realtà davvero fantastica di oggi, interpretarla in modo adeguato. In sintesi: la fantasia, dal momento che il suo oggetto, la realtà fantastica, è esso stesso fantastico, deve funzionare come un metodo dell’empiria, come organo di percezione dell’effettivamente enorme, come uno strumento che non sia legato, al pari dell’occhio, a un organo corporeo, e “pertanto” alla sua difettività, cioè alla sua miopia. Al pari del telescopio, che non rende superflua la vista e, al contrario, solo nel momento in cui viene utilizzato consente all’osservazione e alla capacità di distinguere di esplicarsi davvero, così la fantasia non rende superflua la percezione, piuttosto è condizione della sua efficacia. Quantomeno dovremmo essere capaci di immaginare quella smisuratezza che noi stessi riusciamo a produrre e provocare. […] Non sono invece disposto a rinunciare alla visione della smisuratezza che noi stessi, vale a dire noi esseri umani, siamo in grado di provocare, che abbiamo effettivamente provocato: cioè alla visione della smisuratezza dei nostri crimini».
Günter Anders, Discesa all’Ade. Auschwitz e Breslavia, 1966, Bollati Boringhieri, Torino 2008, p. 32.
La vera essenza del denaro è il fatto che la proprietà di una cosa materiale esterna all’uomo, diventa proprietà del denaro.
La persona umana, la morale umana è diventata essa stessa articolo di commercio un materiale per l’esistenza del denaro.
Finché l’uomo non si riconosce come uomo, finché non ha organizzato umanamente il mondo, questa comunità appare sotto la forma dell’estraniazione.
La vera essenza del denaro non è il fatto che in esso viene estraniata la proprietà, ma il fatto che viene alienato il movimento o l’attività mediatrice, l’atto umano, sociale, in cui i prodotti dell’uomo si integrano scambievolmente, il fatto che la proprietà di una cosa materiale esterna all’uomo, diventa proprietà del denaro. Poiché l’uomo aliena questa attività mediatrice stessa, egli è qui solo come attività umana smarrita, disumanata; […] Attraverso questo intermediario esterno, l’uomo guarda alla sua volontà, alla sua attività, al suo rapporto con gli altri, come a una potenza indipendente da lui e dagli altri. Gli oggetti, una volta separati da questo intermediario, hanno perduto il loro valore. E dunque, soltanto in quanto la rappresentano, essi hanno valore, sebbene in origine sembrava il contrario: che esso avesse valore soltanto in quanto li rappresentava.
[…] Il credito è il giudizio dell’economia sulla moralità dell’uomo. Nel credito, al posto del metallo o della carta, l’uomo stesso è diventato l’intermediario dello scambio, non però in quanto uomo, ma in quanto esistenza di un capitale e del suo interesse. […] La persona umana, la morale umana è diventata essa stessa articolo di commercio, un materiale per l’esistenza del denaro. Non più moneta e carta, ma la mia propria personale esistenza, la mia carne e sangue, le mie virtù socievoli, il mio valore, sono la materia, il corpo dello spirito del denaro.
[…] Poiché l’essenza umana è la vera comunità degli uomini, manifestando la loro essenza gli uomini creano, producono la comunità umana, l’essenza sociale, che non è una potenza universale-astratta, contrapposta al singolo individuo, la sua propria attività, la sua propria vita, il suo proprio spirito, la sua propria ricchezza. Non dalla riflessione ha origine cioè quella vera comunità; anzi, essa appare prodotta dal bisogno e dall’egoismo degli individui, dalla immediata manifestazione della loro stessa esistenza. Non dipende dagli uomini che questa comunità sia o non sia; ma finché l’uomo non si riconosce come uomo, finché non ha organizzato umanamente il mondo, questa comunità appare sotto la forma dell’estraniazione. Perché il suo soggetto, l’uomo, è un essere estraniato a se stesso. E gli uomini sono questo essere estraniato non astrattamente, ma come individui reali, viventi, particolari».
Karl Marx, Texte zu Methode und Praxis, trad it.: Karl Marx, Scritti inediti di economia politica, Editori Riuniti, Roma 1963, pp. 6-7, pp. 11-12, pp. 13-14.
«Etica del finito significa comprendersi a partire dalla propria finitudine. Anche il cristianesimo postula un’etica del finito, ma, a differenza del paganesimo, per il cristianesimo l’uomo è finito perché è creato, mentre per il paganesimo l’uomo è finito perché è mortale. […] Per il paganesimo tutto ciò che nasce è destinato a perire, ma il fatto che tutto perisca non vuol dire che non sia degno di vivere. […] Ora, nella fine della cristianità, il paganesimo riaffiora come un possibile modello: una vita lunga, non una vita eterna. In una parola, una vita buona. Un’etica del finito nell’età della tecnica. […]
L’uomo contemporaneo non può ipotizzare per sé soluzioni utili che non siano tecnologiche e nel contempo la tecnologia non solo manca gli obiettivi, ma dà luogo a controfinalità e ad effetti perversi. In tal caso proprio ciò che offre sicurezza genera rischio e quel che dovrebbe rasserenare inquieta. In questo quadro, il progresso tecnico non è più configurabile secondo uno schema di crescita illimitata e continua, ma si presenta carico di ambiguità e di pericoli. Mai l’uomo in tutta la sua storia si era trovato di fronte a una possibilità così ampia di scelte, e nel contempo così piena di rischi».
Salvatore Natoli, Diagnosi e confutazione del nichilismo [1989], in I nuovi pagani. Neopaganesimo: una nuova etica per forzare le inerzie del tempo, il Saggiatore, Milano 1995, pp. 8-16 e p. 95.
«Il possesso di molte scienze, quando non è accompagnato dalla scienza di ciò che è meglio sempre in ogni caso, poche volte è utile e il più delle volte danneggia. [ …] E chi per altro possiede la cosiddetta erudizione enciclopedica (πολυμαθία) e politecnica (πολυτεχνία), ma sia privo di questa scienza e sia menato di volta in volta da ciascuna di queste altre conoscenze, non si troverà giustamente e senza metafora in gran tempesta come chi sia fra i flutti del mare senza pilota, col rischio di perire in ogni istante».
«Abbiamo rinunciato (o ci siamo lasciati costringere a questa rinuncia) a considerare noi stessi (o le nazioni o le classi o l’umanità) come i soggetti della storia; ci siamo detronizzati (o lasciati detronizzare) e al nostro posto abbiamo collocato altri soggetti della storia, anzi un solo altro soggetto: la tecnica, la cui storia non è, come quella dell’arte o della musica, una fra le altre, bensì la storia, o perlomeno è diventata la storia nel corso del più recente sviluppo storico; il che trova terribile conferma nel fatto che dal suo corso e dal suo impiego dipende l’essere o il non-essere dell’umanità» (p. 258).
«Cambiare il mondo non basta. Lo facciamo comunque. E, in larga misura, questo cambiamento awiene persino senza la nostra collaborazione. Nostro compito è anche interpretarlo. E ciò, precisamente, per cambiare il cambiamento. Affinché il mondo non continui a cambiare senza di noi. E alla fine, non si cambi in un mondo senza di noi» (p. 1).
Günter Anders, L’uomo è antiquato, voI. II: Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino 1992.
«È una sofferenza della mia vita, che si affatica nella ricerca della verità, il constatare che la discussione con i teologi si arresta sempre nei punti più decisivi, perché essi tacciono, enunciano qualche proposizione incomprensibile, parlano d’altro, affermano qualcosa di incondizionato, discorrono amichevolmente senza aver realmente presente ciò che prima s’era detto, e alla fine non mostrano alcun autentico interesse per la discussione. Da una parte infatti si sentono sicuri, terribilmente sicuri, nelle loro verità, dall’altra par loro che non valga la pena prendersi cura di noi, uomini duri di cuore. Ma un vero dialogo richiede che si ascolti e si risponda realmente, non tollera che si taccia o si eviti la questione, e soprattutto esige che ogni questione fideistica, in quanto enunciata nel linguaggio umano, in quanto rivolta a oggetti e appartenente al mondo, possa essere messa di nuovo in questione, non solo esteriormente e a parole, ma dal profondo di noi stessi. Chi si trova nel possesso definitivo della verità non può parlare veramente con un altro, perché interrompe la comunicazione autentica a favore del suo contenuto di fede».
Karl Jaspers, La fede filosofica, a cura di U. Galimberti, Cortina, 2005, pp. 132-133.
Gli studiosi della religione e del mito ellenici hanno prestato in genere scarsa attenzione alla figura delle Charites, che pure ritorna non di rado nelle fonti poetiche e letterarie e persino nelle testimonianze archeologiche. Ha poca consistenza una teoria di qualche tempo fa, ma di largo seguito, che le considera espressione di una religiosità agraria e ctonia, interessata ai fenomeni della vegetazione e fertilità dei campi. La stessa cosa, invero, potrebbe dirsi di un’infinità di altre divinità venerate in tempi remoti, quando quella preoccupazione assorbiva quasi per intero le energie della comunità. In realtà sfugge a detta ipotesi un’ampia gamma di funzioni e di qualità che le fonti, fin dall’età arcaica, ascrivevano a quelle dee; qualità e funzioni diverse fra loro, relative a campi di esperienza molteplici, ma che tuttavia, ad un esame attento, rivelano una nota o tratto comune, a sua volta indicativo di uno specifico ruolo assegnato alle dee. Tale ruolo specifico va individuato e riconosciuto alle Charites, come del resto ad altri gruppi divini, quali le Muse, le Horai, le Moire, sebbene essi compaiono per lo più nel corteggio di grandi divinità. Il fatto è che nel fluido pantheon della religione olimpica ogni figura divina, maggiore o minore che sia, va considerata, più che in sé e isolatamente, nell’intreccio molto ampio di nessi e relazioni che la legano ad altre divinità secondo schemi mutevoli, variamente significativi. Se dietro ogni divinità traluce un’idea del mondo sotto questo o quell’aspetto particolare, è pur vero che nell’intreccio dei rapporti fra i diversi personaggi dell’Olimpo emerge la visione d’insieme di un universo, ritmico e ordinato, quale i Greci se lo rappresentarono. Le Charites non si sottraggono a questa norma, poiché anch’esse concorrono con la loro natura specifica a definire quel cosmo, esse che lasciano il segno del loro splendore là dove liete posano lo sguardo. Circostanze di tempo e di luogo incidono, ovviamente, sulla caratterizzazione del gruppo delle Charites, mettendo in evidenza ora uno ora altro elemento della loro natura, segnalando una funzione ed altre lasciandole in ombra. Questo vale per ogni figura del pantheon greco. Non si può prescindere, perciò, dall’indagine storica per chiarire lo svolgersi di idee o intuizioni che pur si celano dietro le rappresentazioni di ciascun personaggio divino. Si tratta di idee che, da una prima intuizione mitica, a volte assai penetrante, riemergono e si chiariscono anche in altre espressioni della vita culturale. Nondimeno, scorgere nel loro svolgimento storico una linea evolutiva coerente verso la piena esplicazione razionale delle stesse, secondo l’abusato paradigma ‘dal mito al logo’, risulta oggi alquanto ingenuo, schematico o semplicistico. Pensiero mitico e pensiero logico s’intersecano più spesso di quanto comunemente si creda; e ciò, per la verità, non solo nel mondo letterario e filosofico della Grecia antica. Del resto, l’intuizione sottesa all’immagine mitica costituisce pur sempre un’operazione intellettuale. E se, da una parte, il mito utilizza schemi mentali a cui non si può negare una certa razionalità, dall’altra parte la riflessione critica muove quasi sempre da un assunto, da un dato intuitivo, da un quid non dimostrato. Con qualche prudenza metodica, è possibile ritrovare nello sviluppo di temi filosofici impostazioni e atteggiamenti mentali recepiti pure in altri ambiti culturali. Il cammino delle idee, all’interno di un’esperienza determinata di civiltà, presenta innovazioni e approfondimenti persino talvolta radicali, ma rivela anche una sua continuità di fondo, senza di cui quella civiltà non avrebbe unità e identità storica. Nella presente indagine, comunque, si è cercato di contemperare per quanto possibile e la linea analitico-sistematica e quella propriamente storica, nell’intento di evitare i rischi che entrambe comportano se utilizzate separatamente l’una dall’altra, in maniera esclusiva. Infatti, privilegiando il metodo analitico si finisce per racchiudere in un modello rigido, definito una volta per tutte, elementi che invece hanno assunto modulazioni differenti in tempi e situazioni mutate; per contro, adottando esclusivamente il metodo storico, il più delle volte si perde per strada il senso unitario di un’idea che permane al di là delle sue molteplici manifestazioni nel corso delle vicende culturali. I contributi fomiti negli ultimi decenni dalla riflessione sul mito rimangono ancora poco sfruttati dagli storici del pensiero filosofico; i quali, salvo rare eccezioni, continuano a guardare alla produzione mitica delle culture antiche come ad un fenomeno confinato nel tempo delle origini di quelle culture, rivelatore di una mentalità in sostanza prerazionale, radicalmente diversa da quella scientifica e logica espressa dalla prima filosofia . Si continua cioè a presupporre una cesura netta fra l’uno e l’altro fronte. Eppure la filosofia greca, persino nei suoi momenti più alti, si è misurata sempre con temi, immagini, categorie elaborate dalla letteratura mito-poetica e mito-teologica che l’hanno preceduta e che l’hanno accompagnata fino alla tarda antichità. In ciò sta certo una delle ragioni della sua ricchezza problematica, dell’apertura e laicità dei suoi interessi. Del resto è noto che il sapere filosofico, quando non si isola in un formalismo tecnico fine a se stesso, non può che trarre sostanziale giovamento dall’analisi delle origini e del radicamento delle rappresentazioni mentali nel fitto tessuto di esigenze, sentimenti, reazioni individuali e collettive espresse nelle concrete situazioni in cui gli uomini operano e costruiscono la loro civiltà. La storia delle idee si pone a mezza strada, come un ponte di raccordo, fra le espressioni diffuse di cultura e la pura ricerca filosofica. Il transito su tale ponte resta possibile in entrambe le direzioni. Possibilità storica, non c’è dubbio, perché di fatto verificatasi; ma anche possibilità teorica, se le manifestazioni di cultura diffusa non vogliono privarsi della luce della ragione e se la razionalità filosofica non intende perdere i contatti con la ricchezza della vita. Omero, per ricordare il caso più eclatante, è citato dai filosofi greci di ogni età; e però, lo stesso Omero in certo senso filosofa, fin già nel modo in cui organizza la materia del suo racconto. Come ben sanno i filologi, ogni analisi dell’evoluzione del linguaggio, compresi alcuni termini del vocabolario filosofico, non può che prendere le mosse dagli antichi poemi. In Omero poi (come ho cercato di mostrare in un capitolo dell’Omero filosofo dedicato alla teologia dei poemi e alle strutture del mito) troviamo applicati al mondo divino una serie di correlazioni, di schemi formali, di principi regola tori, i quali non raggiungono certo l’astrazione e la chiarezza e la sinteticità dei concetti, ma riescono tuttavia a svolgere un’importante funzione di organizzazione dell’esperienza e a riflettere una determinata visione del mondo. La successiva letteratura greca, a partire dalla Theogonia di Esiodo, continua a offrire materiali preziosi in questo campo; e le figure degli dèi, col variopinto corredo di racconti che li riguardano, restano a lungo il centro di un vasto sforzo di pensiero, una parte almeno del quale esprime una forma embrionale di categorizzazione del reale. Il presente lavoro sulle Charites s’inserisce in tale linea di ricerca, che ovviamente si avvale secondo i casi di tutte quelle testimonianze in cui si rivela la forza di un’idea, la sua prima formazione e la sua capacità di affermarsi in contesti più ampi. Perciò, oltre i documenti privilegiati costituiti da testi poetici, teologici e filosofici, anche le testimonianze relative alle forme di culto, alle espressioni artistiche, alle istituzioni sociali e politiche diventano utili nel tentativo di ricostruire quel complesso di significati e valori che, nel caso in esame, sono stati tramandati sotto il nome collettivo delle tre figlie di Zeus e di Eurynome.
Aldo Lo Schiavo, Charites. Il segno della distinzione, Bibliopolis, Napoli 1993, pp. 9-13.
INDICE
Premessa I. Le Charites nel culto II. Charis e la luce. Lo splendore delle Charites III. Elementi di uno statuto teologico. Aglala, Euphrosyne e Thalia, figlie di Zeus e di Eurynome IV. Nel segno di Apollo. La vittorza negli agoni, il canto del poeta, l’educazione degli efebi V. Nel segno di Afrodite. Amore, bellezza e grazIa VI. Nel segno di Efesto. Bellezza e ornamenti. Natura, tecnica, arte VII. Nel segno di Hermes. Le Charites degli incontri sociali, la parola eloquente, peitho e apate VIII. La charis della città democratica. Demos, Charites e la gratitudine pubblica IX. La charis della paideia filosofica e la kalokagathia X. Il contributo del pensiero mitico all’etica-estetica della distinzione
Bibliografia delle opere citate
Aldo Lo Schiavo (n. 1934) è stato ispettore centrale nel Ministero della pubblica istruzione per l’insegnamento della filosofia. È stato redattore capo e poi direttore della rivista «Annali della Pubblica Istruzione». Ha presentato un’interpretazione critica del pensiero gentiliano nel saggio La religione nel pensiero di G. Gentile («La Cultura», 1968, pp. 333-378) e nei due volumi La filosofia politica di G. Gentile (Roma 1971) e Introduzione a Gentile (Roma-Bari 1974, collana «I Filosofi»). Si è poi dedicato allo studio del pensiero greco, ed ha pubblicato a riguardo: Il contributo della tragedia attica al razionalismo antico (Roma 1979) e Omero filosofo. L‘enciclopedia omerica e le origini del razionalismo greco (Firenze 1983).
Quarta di copertina
Sebbene frequentemente richiamate da poeti e scrittori greci, le Charites sono state poco studiate dalla critica moderna nella loro natura specifica e nei nessi che le legano alle figure maggiori del pantheon olimpico. Eppure esse conferiscono a quel pantheon una luce particolare, espressiva dei valori laici della civiltà greca. Quasi dappertutto i Greci scorgevano il segno della loro presenza, delle loro splendide qualità: nel cielo illuminato dal vario splendore degli astri, sulla terra colorata di fiori a primavera, negli oggetti lavorati con maestria, nell’impresa dell’atleta vittorioso, sul viso delle giovani donne, nella parola perspicua dell’oratore, negli incontri festosi della comunità, nel buon governo della città, in tutto ciò che si fa apprezzare e ammirare per una qualche nota superiore, per un tratto di particolare distinzione. In effetti, dietro il mondo a vivi colori delle Charites s’intravede un’etica-estetica della distinzione, che tende a mettere d’accordo la natura e l’uomo, la bellezza fisica e le qualità morali, la valentìa dei singoli ed il prestigio della comunità. Un’etica-estetica a cui hanno collaborato pensiero mitico e pensiero filosofico, entrambi attenti a non sacrificare la varietà, la molteplicità, le differenze presenti nel reale, a favore di un’unità monolitica che tutto livella ed oscura.
Un tuffo …
… tra alcuni dei libri di Aldo Lo Schiavo…
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
«Non c’è più scambio simbolico al livello delle formazioni sociali moderne; non più come forme organizzatrici. Certamente, il simbolico le assilla come la loro morte; ma, proprio perché non ne regola più la forma sociale, esse non ne conoscono più che l’assillo, l’esigenza continuamente preclusa dalla legge del valore. E se, dopo Marx, una certa idea della Rivoluzione ha tentato di aprirsi un varco attraverso questa legge del valore, essa è da tempo ridiventata una Rivoluzione secondo la Legge. La psicoanalisi gira intorno a questo assillo, ma nello stesso tempo lo esclude circoscrivendolo nell’inconscio individuale».
Jean Baudrillard, L’échange symbolique et la mort (1976); tr. it., Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano 1979, p. 11.
«Il punto di vista della conoscenza pura è contraddittorio; c’è solo il punto di vista della conoscenza impegnata. [ … ] Una conoscenza pura, infatti, sarebbe conoscenza senza punto di vista, quindi conoscenza del mondo posta per principio al di fuori del mondo. [ … ] Così la conoscenza non può essere altro che un nascere implicito a un punto di vista determinato che si è. “Essere” significa per la realtà umana essere-là, cioè “là, sulla sedia”, “là, a quel tavolo”, “là, in cima alla montagna, con quelle dimensioni, quell’orientamento ecc.”».
I .-P. Sartre, L’être et le néant [1943]; tr. it. L’essere e il nulla, il Saggiatore, Milano 1968, p. 384.
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