Immanuel Kant (1724-1804)  – Che cosa posso sapere? Che cosa devo fare? Che cosa mi è lecito sperare? La bilancia dell’intelletto non è pur del tutto imparziale, ed un braccio di essa, che porta la soprascritta “speranza del futuro”, ha un vantaggio meccanico che fa sì che ragioni anche leggere che cadono sul piatto retto da esso, traggano in alto dall’altra parte le speculazioni che abbian per sé peso più grande. La speranza di tempi migliori ha sempre anche avuto influsso sull’agire degli uomini retti. Il sistema della moralità è unito inseparabilmente con quello della felicità.

Immanuel Kant 032 Speranza

«Che cosa posso sapere? Che cosa devo fare? Che cosa mi è lecito sperare?»

Immanuel Kant, Critica della Ragion Pura, Cap. II, Sez. I, trad. di G. Gentile e G. Lombardo-Radice, Laterza, Roma-Bari 1991-2000-2005, pp. 490-491.

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«La bilancia dell’intelletto non è pur del tutto imparziale, ed un braccio di essa, che porta la soprascritta, speranza del futuro, ha un vantaggio meccanico che fa sì che ragioni anche leggere che cadono sul piatto retto da esso, traggano in alto dall’altra parte le speculazioni che abbian per sé peso più grande».

Immanuel Kant, Sogni di un visionario chiariti con sogni della metafisica, in Id., Scritti precritici, trad. di P. Carabellese, Laterza, Roma-Bari 1990, p. 402.

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«La speranza di tempi migliori, senza la quale un autentico desiderio di fare qualcosa di proficuo per il bene universale non avrebbe mai ravvivato i cuori umani, ha sempre anche avuto influsso sull’agire degli uomini retti».

Immanuel Kant, Sul detto comune: questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la prassi, in Id., Scritti di storia, politica e diritto, trad. it. a cura di F. Gonnelli, Laterza, Roma-Bari 2006, p. 155.

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«[…] che ognuno abbia cagion di sperare la felicità nella stessa misura, in cui egli se n’è reso degno con la sua condotta, e che quindi il sistema della moralità è unito inseparabilmente con quello della felicità».

Immanuel Kant, Critica della ragion pura, trad. di G. Gentile e G. Lombardo-Radice, Laterza, Roma-Bari 1991-2000-2005, p. 498.

 


Immanuel Kant (1724-1804)  – Nell’uomo esiste un tribunale interno: è la coscienza. Egli può magari cadere in un grado tale d’abbiezione da non prestare più alcuna attenzione a questa voce, ma non può evitare di udirla
Immanuel Kant (1724-1804) – Lo studente non deve imparare dei “pensieri”, ma a “pensare”. Non lo si deve “portare” ma “guidare”, se si vuole che in seguito sia capace di camminare da solo. Rovesciando questo metodo, lo studente acciuffa una sorta di ragione prima ancora che in lui si sia formato “l’intelletto” e s’appropria d’una “scienza” posticcia che in lui è soltanto appiccicata , non maturata.
Immanuel Kant (1724-1804) – Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me.
Immanuel Kant (1724-1804)  – Lettera di Kant a Marcus Herz. «Parlo dell’obiettivo di diffondere disposizioni d’animo buone, basate su princìpi solidi, e di salvaguardare queste disposizioni assicurandole fermamente nelle anime ricettive, indirizzando gli altri a coltivare i propri talenti solo in direzioni utili».
Immanuel Kant (1724-1804)  – Ho imparato che la scienza è inutile, se non serve a mettere in valore l’umanità. Agisci in modo da trattare l’uomo così in te come negli altri sempre anche come fine, non mai solo come mezzo. Agisci in modo che ogni tuo atto sia degno di diventare un ricordo.
Immanuel Kant (1724-1804) – Il melanconico ha dominante il sentimento del sublime.
Immanuel Kant (1724-1804)  – La persona è, al tempo stesso, fonte della legge stessa, e solo in virtù di ciò le è sottomessa. L’autonomia è, dunque, il fondamento della dignità della natura umana e di ogni natura razionale.
Immanuel Kant (1724-1804)  – Il «bene morale» (das Gute), è l’unico vero bene e non deve essere inteso come benessere (das Wohl), che non è un «bene», bensì appunto un «benessere»: non un concetto della ragione, bensì un concetto empirico d’un oggetto della sensazione.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Massimo Bontempelli (1946-2011) – L’uomo, proprio perché elevato al di sopra della vita meramente biologica da una divina capacità di conoscenza, deve mantenere tale elevazione con il distacco dall’immediatezza vitale che è costituito dalla coscienza della certezza della morte. Sapere il bene e il male e sapere la morte sono due lati indisgiungibili di una stessa realtà, che non è né animale né divina, ma specificamente umana.

Massimo Bontempelli La conoscenza del bene e del male

Massimo Bontempelli

La conoscenza del bene e del male

indicepresentazioneautoresintesi

Massimo Botempelli

Gli alberi del Giardino di Eden

«L’albero della conoscenza del bene e del male» e «L’albero della vita»


L’uomo storico è costretto, proprio perché è elevato al di sopra della vita meramente biologica da una divina capacità di conoscenza, a mantenere tale elevazione anche attraverso quel distacco dall’immediatezza vitale che è costituito dalla coscienza della certezza della morte. Sapere il bene e il male e sapere la morte sono dunque due lati indisgiungibili di una stessa realtà, che non è né animale né divina, ma specificamente umana.


«Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, ad oriente […]. Il Signore Dio vi fece germogliare ogni sorta di alberi gradevoli alla vista e pieni di frutti buoni da mangiare, tra cui l’albero della vita e l’albero della conoscenza del bene e del male […]. Il Signore Dio prese quindi l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché ne godesse e lo tenesse in custodia. Gli diede questo comando: “Saranno tuoi tutti i frutti del giardino, ma non dovrai mai mangiare quello dell’albero della conoscenza del bene e del male, perché quando lo mangiassi, ne moriresti”. […] Il serpente era la più astuta delle bestie fatte dal Signore Dio. Egli disse alla donna: “È vero che Dio non vuole che mangiate i frutti del suo giardino?”. Gli rispose la donna: “Dei frutti degli altri alberi possiamo cibarci, ma Dio ci ha detto che non dobbiamo mangiare e non dobbiamo toccare il frutto dell’albero che sta nel mezzo del giardino, altrimenti moriremo”. Replicò però il serpente: “Non morirete affatto! Al contrario, se lo mangiaste, i vostri occhi si aprirebbero, e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male”. Allora la donna, vedendo come il frutto era bello e desiderabile per acquistare la sapienza, lo prese e lo mangiò, dandone un pezzo anche al marito, che era con lei […]. Poi udirono il Signore Dio che passeggiava nel giardino, e si nascosero in mezzo agli alberi. Ma il Signore Dio chiamò l’uomo dicendogli: “Dove sei?”. Quegli rispose: “Ho udito il tuo passo, e ho avuto paura, perché sono nudo, per cui mi sono nascosto”. E Dio: “Chi ti ha fatto sapere che sei nudo? Hai dunque mangiato dall’albero dal quale ti avevo comandato di non mangiare?”. Rispose l’uomo: “La donna che mi hai posto accanto mi ha dato quel frutto, ed io l’ho mangiato”. […] Disse allora Dio: “Ecco l’uomo è diventato come uno di noi, avendo acquistato la conoscenza del bene e del male. Devo ora fare attenzione a che non stenda la mano per prendere anche il frutto dell’albero della vita, e mangiandolo viva per sempre”. Il Signore Dio scacciò perciò l’uomo dal giardino di Eden».

Questi sono, all’inizio della Bibbia, i passi salienti di un celebre e antichissimo mito, che gli Ebrei avevano ereditato, attraverso i Babilonesi, dalla più antica di tutte le civiltà conosciute, quella dei Sumeri. Il nome stesso del luogo in cui il mito è ambientato, Eden, non è originariamente ebraico, ma deriva dal termine sumerico edin, con il quale veniva indicata una pianura non irrigata. L’Eden biblico è certamente la Mesopotamia preistorica, dato che il testo menziona espressamente il Tigri e l’Eufrate come appartenenti alla regione. Nella sua zona più meridionale, dove i due fiumi si avvicinavano, creando spazi irrigui ricchi di vegetazione, i primi coloni sumeri dovettero trovare diversi angoli di terra dove pochi abitanti potevano vivere senza fatica, semplicemente raccogliendone i frutti spontanei, a cominciare dai gustosi e nutrienti datteri. Qualcuno di questi angoli di terra, particolarmente incantevole, fu certamente considerato un giardino piantato dagli dèi, e immaginato come dimora felice dell’uomo e della donna primigenio Il testo biblico conserva la memoria del politeismo sumerico, originariamente connesso con la raffigurazione del giardino di Eden, in uno dei termini che usa per designare Dio, e cioè Elhoim, che è un plurale. E Adamo è un nome tratto da una espressione della lingua sumera, ada-mu, che vuol dire “padre mio”.

I più antichi miti religiosi, oltre a contenere i relitti mnestici di remotissime esperienze storiche, condensano anche, nei loro racconti storicamente più inverosimili, grandi verità umane, sia pure espresse in forma non razionale, e nascoste sotto il velo della pura immaginazione. Ben lo sapeva Platone, quando parlava del mito come narrazione menzognera nella quale si trovava tuttavia una verità. E ben lo sapeva Hegel, quando definiva il livello più autentico e profondo della religione come comprensione dell’Assoluto nella forma della rappresentazione mitica, anziché in quella del concetto razionale.

Una maniera di cominciare a riflettere sulla natura della verità umana nella sua dimensione assiologica può dunque essere quella di interrogare il mito biblico del giardino di Eden. Ciò di cui esso essenzialmente ci parla è infatti la conoscenza del bene e del male, rappresentata dal frutto di un albero posto in mezzo al giardino paradisiaco di Dio. Tutti i momenti in cui la sua narrazione si articola riguardano questo frutto, che è oggetto prima della proibizione divina, poi del discorso tentatore del serpente, quindi della disobbedienza umana, ed è successivamente causa della paura dell’uomo, della preoccupazione di Dio, e della cacciata della coppia primigenia dal giardino di Eden. Può dunque essere interessante capire quale intreccio di significati si celi nell’immaginaria rappresentazione dell’albero del giardino di Eden.

La fondamentale questione interpretativa concerne, in proposito, il perché il frutto proibito da Dio sia proprio quello che pende dall’albero della conoscenza del bene e del male. Perché, cioè, il mito presenta il desiderio umano di comprendere la natura della distinzione tra il bene e il male come tentazione da evitare?

La risposta usuale a questa domanda è che la conoscenza del bene e del male a cui si riferisce la narrazione biblica indica in realtà il potere di stabilire cosa sia bene e cosa sia male. L’uomo che mangia il frutto proibito sarebbe dunque l’uomo che rifiuta il riconoscimento di una tavola di valori precostituita da Dio, e che pretende di farsi lui stesso creatore del suo proprio ordinamento morale. Si tratta di una risposta che emerge quasi naturalmente da una lettura moderna del testo biblico, sia perché è suggerita, in maniera magari inconsapevole, da una tradizione culturale sul peccato originale che percorre tanta parte della nostra storia, sia perché risulta per un verso tranquillizzante per la coscienza cristiana, e per un altro verso corrispondente alle inclinazioni dell’odierno pensiero post-metafisico. Il sacrificio redentore di Cristo, che è al centro della coscienza cristiana, appare infatti necessario proprio sulla base di un originario rifiuto, da parte dell’uomo, del fondamento divino dell’ordine morale. E la morte di Dio avviene, nell’orizzonte post-metafisico dei nostri tempi, proprio nella misura in cui l’uomo si pensa creatore autonomo di ogni sua norma.

L’albero del giardino di Eden racchiude davvero questi significati? Nel mito originario certamente no. Essi sono stati proiettati sul mito soltanto da una sensibilità culturale formatasi in epoche successive. Nel mito originario, infatti, la condizione umana prima della tentazione non è quella di un obbediente riconoscimento della distinzione tra il bene e il male voluta da Dio. È piuttosto uno stato anteriore ad ogni coscienza etica, tanto è vero che Dio si accorge che l’uomo ha ceduto alla tentazione proprio perché lo trova impaurito della sua nudità. La narrazione biblica non dice affatto, poi, che, mangiato il frutto proibito, l’uomo ha rifiutato il fondamento divino dell’ordine morale, ed ha preteso di stabilire lui stesso cosa sia il bene e cosa sia il male. Essa dice bensì che l’uomo si è reso simile a Dio, non però per la creazione, ma per la conoscenza dell’ordine morale. Nel mito, cioè, la distinzione tra il bene e il male sussiste senza essere creata, neppure da Dio, e Dio è divino perché ne conosce la natura, cosicché l’uomo stesso diventa divino quando arriva a conoscerla, cibandosi del frutto dell’albero del giardino di Eden. Non dimentichiamo che nella narrazione biblica Dio esclama, una volta saputo che l’uomo ha mangiato il frutto proibito: «Ecco l’uomo è diventato come uno di noi, avendo acquistato la conoscenza del bene e del male». È dunque la conoscenza del bene e del male, non la sua creazione, non la sua statuizione, che appartiene alla sfera divina.

Torna a questo punto, ancora inevasa, la questione fondamentale. Perché il frutto che pende dall’albero della conoscenza del bene e del male è proibito da Dio? Perché il desiderio umano di comprendere la natura della distinzione tra il bene e il male è quindi raccontato come una tentazione da evitare? Se la conoscenza dell’ordine etico appartiene alla sfera divina, non è forse la cosa più bella che l’uomo, potendolo, si renda divino acquisendo tale conoscenza?

Gli dèi degli antichi miti religiosi sono spesso gelosi degli uomini, perché temono le grandi potenzialità della specie umana. Essi temono, cioè, che alcuni uomini possano utilizzare tali potenzialità per usurpare il loro superiore rango divino. Perciò proibiscono agli uomini la piena utilizzazione delle facoltà umane, cosicché la mitica umanità primigenia deve confrontarsi con la tentazione proibita di rendersi divina. Se essa cede a questa tentazione, gli dèi la puniscono con una mutilazione permanente, che la allontana per un altro verso dal rango divino. Nasce così la natura umana attuale, che incorpora in se stessa un aspetto divino, acquisito seguendo la tentazione originaria, ma riequilibrato da un elemento dissolutivo di ogni perfezione, che costituisce la punizione per la colpa originaria dell’uomo di aver voluto diventare dio. La mitica vicenda della tentazione, della colpa e della punizione è quindi esplicitamente riferita ad una umanità non più esistente, e non ancora umana nel senso attuale del termine. Essa rappresenta dunque un puro giuoco dell’immaginazione, costruito come presupposto narrativo, come genesi fantastica degli elementi formativi della natura umana attuale.

Perché allora nel mito del giardino di Eden il frutto proibito da Dio è quello che pende dall’albero della conoscenza del bene e del male? Perché la comprensione della natura del bene e del male si colloca al di sopra della vita biologica, in una sfera divina. L’uomo che comprende la natura del bene e del male possiede quindi un dono divino, ovvero diventa lui stesso divino in questa sua conoscenza. Ma Dio è personificato dal mito in un essere creatore che non tollera alcuna condivisione della sua divinità da parte delle sue creature. Il mitico frutto che dona la conoscenza del bene e del male è dunque un frutto proibito per l’uomo, perché cibarsi di esso significa sfidare la gelosia di Dio, elevandosi al suo stesso piano divino, e attirando perciò la sua punizione.

L’uomo a cui il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male è proibito non è però, nel mito, l’uomo storicamente esistente, bensì l’uomo primigenio. Quando comincia la storia umana fuori dal giardino di Eden, infatti, l’uomo ha ormai mangiato quel frutto, e si è già attirato la punizione di Dio. All’uomo storicamente esistente, quindi, non è più interdetta la sfera divina della conoscenza del bene e del male, dato che essa fa ormai parte della sua natura, già irreversibilmente elevata al di sopra della vita biologica. Questa capacità divina, che era proibita all’uomo primigenio, e che invece l’uomo storico è chiamato ad esercitare, non rende tuttavia divina la persona umana, in quanto è sempre imprescindibilmente connessa ad un elemento che l’uomo è stato costretto ad incorporare nella sua natura come punizione per la colpa originaria, e che ristabilisce una distanza abissale tra la persona umana e quella divina.

L’elemento riequilibratore che fa risprofondare nella biologia animale anche l’aspetto divino acquisto dalla natura umana, vale a dire la mutilazione permanente inflitta all’essere umano come punizione per la colpa originaria, è nel mito biblico la mortalità dell’uomo. La verità che quel mito esprime e cela nella vicenda immaginaria della sua narrazione è dunque la connessione indissolubile, nella natura umana, tra il suo destino di morte e la sua possibilità di comprendere il bene e il male. La morte, cioè, si prospetta anticipatamente all’uomo come necessità ineludibile della sua esistenza perché l’uomo sa cosa sono il bene e il male.

È questo ciò che il mito del giardino di Eden essenzialmente ci dice. In tutto il corso della sua narrazione, infatti, l’albero della conoscenza del bene e del male si trova in relazione con un altro albero speciale, quello della vita. Di questo secondo albero non ci viene detto inizialmente nulla se non che si trova anch’esso nel giardino di Eden. Ma quando Dio si accorge che l’uomo ha ormai mangiato il frutto proibito, esclama: «Ecco, l’uomo è diventato come uno di noi, avendo acquistato la conoscenza del bene e del male. Devo ora fare attenzione a che non stenda la mano per prendere anche il frutto dell’albero della vita, e mangiandolo viva per sempre». Il senso è come si vede molto chiaro: l’uomo non può mangiare il frutto dell’albero della vita, cioè allontanare la morte dal suo orizzonte, perché è diventato come un dio attraverso l’acquisto della conoscenza del bene e del male. Prima di tale acquisto, ovvero in un immaginario tempo anteriore alla storia, l’uomo aveva a sua disposizione, in mezzo al suo giardino, l’albero della vita, il cui frutto non gli era stato proibito. La sua evoluzione era quindi ancora in bilico, perché avrebbe potuto, mangiando quel frutto, ricadere in una totale immedesimazione con l’immediatezza della sua vita, retrocedendo così al livello degli altri animali, che vivono al di fuori di ogni rapporto con la morte. Ma l’uomo primigenio, dice il mito, non ha avuto l’occasione di mangiare il frutto dell’albero della vita prima di essere stato spinto a mangiare quello dell’albero della conoscenza del bene e del male. Si è così avuto il salto evolutivo che lo ha portato definitivamente oltre la restante animalità. Ne è derivato l’uomo storico, elevato al di sopra della vita meramente biologica da una capacità di conoscere non più animale, bensì divina. La parte conclusiva del mito narra come proprio per questa sua capacità divina l’uomo storico sia stato condannato a percorrere la sua storia fuori dal giardino di Eden. All’ingresso di quel giardino, narra il mito, Dio ha posto due cherubini con le spade fiammeggianti, incaricati di tenere l’uomo per sempre lontano dall’albero della vita. L’uomo storico è così costretto, proprio perché è elevato al di sopra della vita meramente biologica da una divina capacità di conoscenza, a mantenere tale elevazione anche attraverso quel distacco dall’immediatezza vitale che è costituito dalla coscienza della certezza della morte. Sapere il bene e il male e sapere la morte sono dunque due lati indisgiungibili di una stessa realtà, che non è né animale né divina, ma specificamente umana. Questo ci dice il mito. Si tratta ora di vedere quanto questa verità del mito rimanga vera alla luce della ragione.

Massimo Bontempelli, La conoscenza del bene e del male, Petite Plaisance, Pistoia 1998- 2001, pp. 11-18.



Massimo Bontempelli – IL PREGIUDIZIO ANTIMETAFISICO DELLA SCIENZA CONTEMPORANEA
Massimo Bontempelli (1946-2011) – Quale asse culturale per il sistema della scuola italiana?
Massimo Bontempelli – La convergenza del centrosinistra e del centrodestra nella distruzione della scuola italiana.
Massimo Bontempelli – In cammino verso la realtà. La realtà non è la semplice esistenza, ma è l’esistenza che si inscrive nelle condizioni dell’azione reciproca tra gli esseri umani, diventando così sostanza possibile del loro mutuo riconoscimento.
Massimo Bontempelli – Il pensiero nichilista contemporaneo. Lettura critica del libro di Umberto Galimberti « Psiche e tecne».
Massimo Bontempelli (1946-2011) – L’EPILOGO DELLA RAZIONALIZZAZIONE IRRAZIONALE: demente rinuncia alla razionalità degli orizzonti di senso, e perdita della conoscenza del bene e del male. L’universalizzazione delle relazioni tecniche ha plasmato la razionalizzazione irrazionale, razionalità che non ha scopi, che è cioè irrazionale.
Massimo Bontempelli (1946-2011) – L’unico luogo in cui è possibile custodire la memoria del passato è la progettazione del futuro, così come l’unico modo per progettare un futuro ricco di essere è quello di costruirne il progetto con le memorie del passato.
Massimo Bontempelli (1946-2011) – C’è un filo teoretico nichilistico che unisce Heidegger, Galimberti e Severino: l’oscuramento del capitalismo nello scenario della tecnica. Per Galimberti non c’è varco pensabile nell’orizzonte dell’epoca presente ed offre solo una filosofia dell’impotenza e dell’adattamento.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Friedrich Heinrich Jacobi (1743-1819) – La «lettera a Johann G. Fichte». La filosofia è l’aureola dell’umano, è un viaggio intorno all’essere umano. Non può strapparmi questo cuore dal petto per mettere al suo posto il puro istinto della semplice egoità. Non permetto che mi si liberi dalla dipendenza dell’amore per conoscere la beatitudine solo con l’orgoglio.

Jacobi Friedrich Heinrich 01 Fichte

Salvatore Bravo

La lettera di Friedrich Heinrich Jacobi a Johann Gottlieb Fichte

 

Rileggere la Lettera di Friedrich Heinrich Jacobi (Düsseldorf, 25 gennaio1743 – Monaco di Baviera, 10 marzo 1819) a Fichte è un’importante esperienza filosofica per comprendere talune criticità dell’Idealismo. L’Idealismo identifica l’essere col pensiero; l’essere è posto dal pensiero (Gegenstand) per cui, la realtà storica, i significati, la qualità del vivere trova nel soggetto la sua verità. Fichte definiva l’Io come assoluto, libero. Si può ipotizzare che esso sia la metafora dell’umanità in cammino nella storia. L’Io assoluto è la verità della storia, la pone e la può trasformare (prassi), ma l’Io può anche abdicare alla sua funzione germinatrice di storia, per fatalizzare il presente, può deresponsabilizzarsi e ipostatizzare la storia. La fatalizzazione della storia non accade semplicemente, ma è l’Io responsabile del suo ritrarsi dalla storia. Fichte, dunque, coglie la verità della storia, la riporta alla responsabilità umana. L’oggettività, la realtà esistente a prescindere dal soggetto è solo dogmatismo funzionale a caratteri e gruppi sociali ed alle loro posture ideologiche. L’obiectum[1] è una necessità dei caratteri dogmatici che devono porre l’ipostasi per deresponsabilizzarsi, e scelgono volontariamente la reclusione nella caverna. Con una bella metafora Fichte paragona costoro ad un pezzo di lava sulla luna, la loro coscienza vive come congelata: ha smesso di confrontarsi con il non io, con la storia, con la prassi, per cui si sono allontanati dalla storia e dall’umano. Sono sideralmente lontani.

La bella immagine ci parla dell’attualità, del mondo digitale, in cui tutto è movimento, ma senza prassi, vige la perenne riproduzione del sistema. I meriti di Fichte sono indubitabili, eppure Jacobi coglie un rischio, un grande pericolo insito nell’Io creatore e dissolutore di mondi, ovvero ne teme il titanismo meccanico con il quale l’Io si afferma per nullificare e nullificarsi senza limiti:

«Ma lo spirito può essere creatore di se stesso esclusivamente alle condizioni generali indicate, deve annientarsi nell’essere per rinascere e possedersi solo nel concetto: nel concetto di un’origine e una fine pure, assolute, originariamente da nulla, verso nulla, per nulla, nel nulla, o nel concetto di un moto pendolare che, in quanto moto pendolare, si pone necessariamente dei limiti in generale. Tuttavia ha limiti definiti solo in quanto moto particolare, prodotto da un’inspiegabile limitazione, secondo l’analogia della forza centrifuga e centripeta della materia».[2]

 

La maglia di Jacobi
La metafora della maglia utilizzata da Jacobi è utile per esplicitare il pericolo da lui scorto. L’Io sovrano della prassi è come il ferro da uncinetto: crea la maglia, le dona i colori, le immagini, in un movimento ritmico incessante. L’incessante attività creatrice e disgregatrice prende il sopravvento, fino a diventare attività meccanica che col suo andirivieni acquisisce il senso della propria onnipotenza, diventa Dio in Terra, il padrone della storia. Il pericolo descritto da Jacobi è reale, e può concretizzarsi e degenerare nell’individualismo narcisistico di cui siamo testimoni nel tempo del capitalismo assoluto. Prevale il movimento sul fine, sulla teleologia. In questo modo l’attività trascende il fine per naufragare in un attivismo senza prassi, in un illimitato agire senza scopo:

«Per farsi un’immagine diversa da quella empirica abituale del generarsi e prodursi di una maglia fatta a mano, basta sciogliere il capo della maglia e lascia lo scorrere sul filo dell’identità di questo soggetto-oggetto. Allora si vede chiaramente come questo individuo giunga a realizzarsi per il semplice movimento di andata e ritorno del filo, ossia per l’incessante limitazione del suo movimento e l’impedimento a proseguirlo all’infinito, senza che nulla d’empirico intervenga nella trama o si mescoli e s’aggiunge qualcos’altro. In questa mia maglia faccio raggi, fiori, sole, luna e stelle, tutte le figure possibili, e riconosco che il tutto non è altro che il prodotto dell’immaginazione produttiva delle dita, oscillante tra l’Io del filo e il non-Io del ferro. Considerate dal punto di vista della verità, tutte queste figure insieme alla maglia sono soltanto semplici fili nudi».[3]

 

Nichilismo
Jacobi utilizza il termine nichilismo per denotare l’Idealismo di Fichte. Poiché l’Io diviene attività senza fondamento, manca lo scopo, è preso dalla produzione di mondi, è reso passivo, poiché l’iperattività gli impedisce di porre un limite a se stesso, di definire delle geometrie di senso. Prevale il nulla, ogni senso etico e storico collassa nell’ipertrofia dell’Io che si espande fino a perdersi. Jacobi utilizza la parola “nichilismo” per descrivere il disperdersi dell’Io nella sua espansione spaziale:

«Sinceramente caro Fichte non mi turberei se Lei o chiunque altro volesse chiamare chimerismo ciò che oppongo all’idealismo, che io accuso di nichilismo. In tutti i miei scritti ho manifestato il mio non-sapere, mi sono così vantato di essere scientemente tanto ignorante, perfettamente e minuziosamente in così alto grado, da poter disprezzare il comune scetticismo». [4]

 

L’Io lasciato a se stesso si consuma nella vacuità dell’autocontemplazione, non vede altro che se stesso, rapporta tutto a se stesso, si caratterizza per la sua voracità produttiva. Jacobi allarga lo strale non sono a Fichte, ma anche a Kant, in quanto la filosofia trascendentale di Kant è la premessa dell’Idealismo. Fichte ne completa il percorso. Il pericolo del nichilismo era già in embrione in Kant ed è esplicitato da Fichte:

«La filosofia trascendentale non può strapparmi questo cuore dal petto per mettere al suo posto il puro istinto della semplice egoità; non permetto che mi si liberi dalla dipendenza dell’amore per conoscere la beatitudine solo con l’orgoglio. Se la cosa suprema su cui riflettere e che posso contemplare è il mio vuoto, puro, nudo e semplice Io, con la suo autonomia e libertà, allora l’autocontemplazione riflessa, la razionalità, sono per me una maledizione e io maledico la mia esistenza».[5]

 

La risposta di Fichte al nichilismo
Jacobi è valutato un autore secondario nella storia della filosofia, eppure ha posto un problema “drammaticamente vero”, che ha attraversato la filosofia ed ha trovato risposta nel comunitarismo. L’Io assoluto rischia di ribaltare la prassi in attivismo, di perdersi in una dimensione priva del limite e, quindi, di etica. L’ultimo Fichte, con la teoria giovannea e la missione del dotto, già accoglie i dubbi di Jacobi, poiché l’Io del dotto trova il suo senso e il suo limite etico nella libertà interpretata come servizio alla comunità, in cui si è radicati ed all’umanità: il dotto insegna ad essere liberi. Il comunitarismo riesce a rispondere a Jacobi palesando la necessità della prassi nella comunità, ovvero l’Io esplica la propria libertà non in astratto, ma nella famiglia, nei corpi medi della democrazia, nel lavoro e nello Stato. La prassi dell’Io è un percorso, in cui si ritrova il fine, che strappa dalle spire del nichilismo, poiché la libertà non è una forma di solipsismo creatore, ma incontro, relazione nella quale non solo ci si autodefinisce, ma specialmente si scopre che si è parte vivente di una comunità, per cui il fine dell’agire umano è la libertà non competitiva, ma comunitaria.
Senza l’altro non vi è auto-riconoscimento di sé e dell’altro. Pertanto il fine della libertà è conoscere se stessi attraverso l’altro. Ogni libertà solipsistica che prolifera nell’indifferenza verso l’altro è solo negazione di sé, dell’altro e della libertà. Essa non è negazione della propria identità culturale e linguistica e dell’altrui, ma libertà di riconoscersi nell’incontro tra identità diverse.
Un concetto tanto alto ed etico della libertà necessita dell’adeguata struttura economica. Non a caso Fichte comprende che l’economico sta per prevalere sul politico, e si profila il regno dell’assoluta peccaminosità.
Jacobi e Fichte si ritrovano, alla fine. Entrambi temono il profilarsi dell’ipertrofia dell’Io, della patologia dell’Io che conosce solo i propri desideri nell’ignoranza dell’alterità.
Fichte accoglie la critica di Jacobi, e la trasforma in una possibilità di crescita critica della sua teoretica.

 

Filosofia e “critica dialogante”
La filosofia è attività corale. Il dubbio, la critica possono anche essere profonde, ma se sono svolte con l’intento di allargare l’orizzonte di comprensione divengono materiale per nuovi salti quantici creativi. La filosofia è l’aureola dell’umano, è un viaggio intorno all’essere umano. Pertanto i filosofi ci insegnano l’ascolto dei problemi teoretici ed i problemi relativi, e dunque le critiche non sono che mezzi per umanizzarsi nell’incontro con i propri limiti umani e concettuali e ritrovarsi: la filosofia conosce i concetti (Begriff) e non la chiacchiera (Gerede):

«La filosofia non è una materia di insegnamento, non è un campo del sapere che si trovi da qualche parte fuori dell’essere umano essenziale. La filosofia è intorno all’uomo giorno e notte, così come lo sono il cielo e la terra, anzi ancor più vicini di questi, allo stesso modo del chiarore che sta tra cielo e terra, ma che l’uomo quasi sempre trascura di vedere perché ha a che fare solo con ciò che gli appare nel chiarore. Talvolta, quando fa buio, l’uomo fa esplicitamente attenzione al chiarore intorno a lui. Ma proprio allora non se ne cura più, perché sa che il chiarore ritornerà». [6]

 

La filosofia è Streben (Sforzo), è tendere faticosamente al concetto, ma per condividerlo e ritrovarsi più autentici e veri.

 

Salvatore Bravo

 

 ***

 

[1] Obiectum, objicere, composto dalla preposizione ob-, davanti, e dal verbo jacere, gettare, e in particolare al suo participio perfetto objectum, da cui deriva anche oggetto.
[2] Friedrich Heinrich Jacobi, Fede e nichilismo. Lettera a Fichte, Morcelliana, Brescia 2001, pp. 41-42.
[3] Ibidem, pp. 45-46.
[4] Ibidem, pp. 59-60.
[5] Ibidem, pag. 57.
[6] Martin Heidegger, Introduzione alla filosofia. Pensare e poetare, Bompiani, Milano 2018, p. 45.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Petite Plaisance – Non delineando l’alternativa possibile al modo di produzione capitalistico, la si nega di fatto come alternativa possibile. Esattamente con il proprio “non pensarla”, o negando valore alla modellizzazione teorica della sua possibile realtà, proprio per questo non la si rende alternativa desiderabile e praticabile.

delineare

Se datiamo l’inizio consapevole del movimento comunista al 1848, ovvero al famoso Manifesto di Marx ed Engels (ma tale inizio potrebbe essere anche di molto retrodatato), è possibile verificare che in oltre 150 anni tale movimento non si è ancora messo d’accordo non solo sulle modalità sociali con cui dovrà strutturarsi il modo di produzione comunista, ma addirittura sul contenuto della stessa idea di “comunismo”.
È stata anche sostenuta,  erroneamente, la tesi che, essendo il comunismo il «movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti», non è corretto «scrivere ricette per le trattorie dell’avvenire».
Definire invece l’idea di “comunismo” è importante in quanto senza delinearla almeno nei suoi tratti generali, non si può nemmeno delineare il “modo di produzione comunista”, e senza delineare questa alternativa possibile al modo di produzione capitalistico non la si rende nemmeno una alternativa, ossia non la si rende nemmeno, con il proprio non pensarla, una alternativa praticabile e desiderabile. Infatti  non si può realizzare nella pratica ciò che non sta in piedi almeno nella teoria. In caso contrario, esso non sarà nulla, perché lo «stato di cose presenti» (capitalistico) è oggi molto più forte del «movimento reale» (comunista) che dovrebbe abolirle.
Per questo pensiamo che il comunismo debba innanzitutto essere una proposta filosofica umanistica, e dunque universalistica.
Solo partendo dall’Uomo per come è nella sua essenza, è possibile delineare il modo di produzione per come deve essere, ovvero il contesto ideale più in grado di realizzare la natura razionale e morale dell’uomo. L’Uomo infatti, inteso in senso trascendentale, è sempre il soggetto implicito di quel processo universale che è la storia. Tale storia, quando cerca di realizzare il fine della buona comunità sociale, si volge nella direzione del pieno umanesimo. Date le molte soglie che il modo di produzione capitalistico ha oltrepassato, occorre in maniera oramai urgente un processo educativo generale incentrato sulla necessaria cura dell’uomo e sul doveroso rispetto della natura.
Solo con una educazione umanistica l’uomo potrà realizzare la propria specifica “umanità”, e liberarsi da quella generica “animalità” che da secoli lo vincola ad una conflittuale sussistenza sociale.
A partire dalla Ideologia tedesca del 1845 compaiono sia il concetto generale di «modo di produzione sociale», sia il concetto di «comunismo», che Marx ed Engels in quella sede intesero, come il «movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti»; con Fulvio Papi, si può affermare che con l’Ideologia tedesca «il tema del comunismo subisce un radicale spostamento di asse teorico. Esso non viene più pensato come realizzazione della essenza dell’uomo nella sua forma sociale, ma viene considerato come un movimento oggettivo che deriva dai rapporti sociali che si sono instaurati con la diffusione del modo di produzione tipico del capitalismo». Nel Manifesto del partito comunista del 1848, il comunismo è definito come una società di uomini liberi, in cui la libertà di ognuno è la fonte della libertà di tutti. Nel Capitale (1867), che viene subito dopo i Grundrisse (in cui «il comunismo è sempre definito come un problema di liberazione dell’uomo), il comunismo viene più chiaramente pensato in opposizione contrastiva col capitalismo, ma viene sempre delineato come un modo di produzione comunitario caratterizzato dalla pianificazione e dalla trasparenza dei rapporti sociali, in opposizione alla privatezza capitalistica ed alla opacità mercificatrice che domina il modo di produzione capitalistico. Nella Critica al programma di Gotha (1875), in cui vi è l’ultimo esplicito riferimento al comunismo effettuato da Marx, egli ne descrive la fase più compiuta come quella che dovrà generalizzare la regola da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni.
Questo, in estrema sintesi, lo sviluppo concettuale del termine «comunismo» in Marx. Il tema della «pianificazione comunitaria», è ben presente nel Manifesto, nei Grundrisse, nel Capitale e nella Critica del programma di Gotha. Si tratta di un tema, non a caso, unito a doppio filo col tema dell’umanesimo marxiano, anch’esso ricorrente, in maniera più o meno esplicita, in tutte le principali opere di Marx.
L’umanesimo marxiano infatti  è un umanesimo radicale, volto cioè a realizzare i bisogni più essenziali dell’uomo, ovvero quelli connessi alla sua esistenza libera e comunitaria. Come Marx stesso scrisse in Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, infatti, la realizzazione dei bisogni più importanti dell’uomo è ciò che soltanto può far realizzare una «rivoluzione radicale» che possa attuare il «completo recupero dell’uomo».
Tutto questo implica una gerarchia di bisogni più o meno “naturali” da soddisfare; una gerarchia che, per essere realizzata in modo armonico, necessita di una pianificazione, in cui tutta l’attività produttiva e distributiva sia finalizzata principalmente alla realizzazione della buona vita comunitaria. Nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 Marx argomentò infatti che il primo bisogno realmente necessario dell’uomo è il recupero della propria essenza; questa tesi fu peraltro successivamente ripresa nei Grundrisse in cui, accanto ad una descrizione dei bisogni artificiali prodotti dalla società, Marx ribadì la priorità dei bisogni naturali, ossia di quei bisogni che l’uomo deve necessariamente soddisfare per realizzare la propria natura (tali bisogni non sono affatto unicamente quelli “materiali”, come tuttora ritiene certo marxismo, bensì soprattutto quelli spirituali, poiché l’uomo è «tanto più ricco di bisogni quanto più è ricco di qualità e relazioni»). I bisogni naturali  sono dunque non un “dato biologico”, ma un “contenuto culturale”; quando Marx, nel Capitale, fa più volte riferimento ai «bisogni sociali», egli in sostanza fa sempre riferimento ai «bisogni naturali».
All’attuale modo di produzione gli uomini, da alcuni secoli, hanno consegnato la propria dignità, la propria sussistenza, e più in generale la propria vita.
Il marxismo prevalente non concorda con la centralità dell’umanesimo e della pianificazione comunitaria come contenuti costitutivi del “comunismo marxiano”, e del comunismo in generale. Riteniamo erronea l’affermazione di Engels, condivisa anche da Marx, presente in un articolo pubblicato sulla Deutsche Brusseler Zeitung del 7/10/1847: «Il comunismo non è una dottrina, ma un movimento; non muove da princípi, ma da fatti. I comunisti non hanno come presupposto questa o quella filosofia, ma tutta la storia».
Se ben si riflette, anche un «movimento» non può essere tale se non è chiara la sua «dottrina», che sola permette di identificarlo unitariamente come «movimento». La “storia”, senza la “filosofia”, si riduce ad una mera serie di eventi; tuttavia la cosa più importante, in questi eventi, è proprio ricercarne il senso complessivo, ossia effettuarne una valutazione onto-assiologica. Il modo migliore per effettuare tale valutazione è sviluppare una filosofia che ponga, nel modo più esplicito possibile, come principio primo l’Uomo e la necessità della sua realizzazione comunitaria nelle modalità sociali.
Si tratta di una definizione sostanzialmente conforme a quella proposta da Marx, in quanto, come egli scrisse anche nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 (e tale posizione non fu mai completamente abbandonata), l’umanesimo è l’essenza del comunismo.
Riteniamo che una simile idea generale di «comunismo» possa essere accettata da molti, salvo appunto dai negatori della esistenza della natura umana (ad esempio alcuni “marxisti”), oppure dai sostenitori della tesi di una natura umana non razionale e non morale (ad esempio alcuni liberali). Poiché però la natura umana esiste ed è razionale e morale, allora deve esistere (ed è responsabilità di ciascuno di noi ricercarne la possibilità di inverarsi, acquisendo verità e concretezza) un modo di produzione ideale in cui essa possa realizzarsi, che deve essere armonico e comunitario, ossia non privatistico e non mercificato. L’unico modo di produzione funzionale che possieda queste caratteristiche deve necessariamente strutturarsi sulla base della proprietà comune dei mezzi della produzione sociale, e della pianificazione comunitaria della economia, poiché altrimenti conflitti ed antagonismi continuamente insorgenti non riuscirebbero mai a trovare soluzione condivisa.
Questo in sintesi il contenuto concreto dell’idea di «comunismo» che proponiamo, ben diverso da quello che è stato il “comunismo sovietico” e dei suoi “paesi satelliti” e di un certo “euro-comunismo” europeo nel Novecento (e agli antipodi dell’attuale mistificante falso “comunismo cinese” nella sua ideologia impregnata di totipotenza tecnologica) per la semplice considerazione che il fine del modello ideale cui aspiriamo è l’Uomo e la  pienezza della sua umanità, e non la massimizzazione della potenza del capitalismo tecnicizzato.


Carmine Fiorillo e Luca Grecchi,
Il necessario fondamento umanistico del “comunismo”
[indicepresentazioneautoresintesi]


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Davide Susanetti – La relazione con l’antico è e deve essere, ogni volta, l’accadere di un “dislocamento”, l’occasione per interrompere quel flusso che ci stordisce senza che nemmeno più se ne abbia consapevolezza. È e deve essere vera esperienza che nutre la vita, offrendole possibilità “nuove” proprio perché, paradossalmente, “antiche”.

Davide Susanetti 01

Ogni giorno siamo immersi in un flusso di parole. Le nostre e le altrui in uno scambio continuo. Ce ne serviamo spesso distrattamente o in modo frettoloso. Dobbiamo dire qualcosa o ottenere una risposta. E non ci soffermiamo troppo a riflettere sul suono che esse hanno, sulla materia di cui si sostanziano, sulla storia cui sono connesse o sui valori più riposti cui le loro radici possono rinviare. Talora, non indugiamo troppo nemmeno sulla scelta, limitandoci a un vocabolario ristretto e ai giri di frase più correnti: parliamo come fanno tutti senza alcuno scarto rispetto a ciò che siamo soliti ascoltare dagli altri e ripetere a nostra volta. In altre occasioni, all’opposto, diveniamo più astuti e accorti. Abituati a decenni di civiltà mediatica e di pubblicità, sappiamo fin troppo bene che un messaggio ben costruito può essere un mezzo per convincere e orientare, per indurre comportamenti, consensi o acquisti in un mondo costruito per consumatori di ogni specie. Tanto in un caso quanto nell’altro – nella banalità della routine o nelle strategie sofisticate della comunicazione – la parola è qualcosa che “si usa” per soddisfare bisogni o finalità pratiche: un mero e meccanico strumento, nel perimetro, sempre più angusto, di un’esistenza uni dimensionale e stereotipata. Persino quando le parole paiono veicolare un’emozione soggettiva, si tratta, frequentemente, di semplici dinamiche reattive che fanno eco, in modo pressoché irriflesso e superficiale, a una contingenza o a uno stato.

Vi sono, però, nella vita, anche istanti di grazia: momenti – casuali o ricercati deliberatamente – nei quali questo modo di vivere il linguaggio e, insieme a esso, il mondo che ci circonda, si interrompe. Momenti di un silenzio assoluto – dentro e fuori di noi – in cui qualcosa d’altro e di inaspettato affiora nella trama della cosiddetta realtà oggettiva. Si rimane spiazzati, storditi e pieni di meraviglia dinanzi a quell’inaspettato, a quel mai visto o mai percepito che ci viene incontro, svelando il volto celato dell’essere.

Abitudini percettive, schemi mentali, grumi emotivi, cristallizzazioni del linguaggio creano una cortina spessa, una barriera che impedisce di vedere e di sentire. Basta, tuttavia, sospendere lo “sguardo semplificatore dell’abitudine” – come racconta Lord Chandos nella celebre Lettera di Hofmannsthal – ed ecco che tutto può mutare, schiudendo, all’improvviso, un orizzonte di “pienezza”, di “smisurata partecipazione” e di “infinita rispondenza” con tutto ciò che esiste. Si è come rapiti in un “vortice”, presi dal “fiotto straripante di una vita più alta”, affatto diversa dall’ottundimento del quotidiano: ogni cosa dell’universo diviene “vibrazione” di energia che risuona e s’intreccia nella “grande unità” del tutto. […]

Lord Chandos compone la propria lettera per confessare quest’impossibilità a dire, rinunciando per sempre a scrivere. Ma il carattere estremo di tale decisione non fa che indicare la radicalità di un’istanza che eccede il caso specifico. È proprio dal sentire acutamente l’impotenza del proprio linguaggio – dall’insoddisfazione e dal limite di un’espressione vuota e inane – che scaturisce, ogni volta, la ricerca inesausta di una parola “altra”, di una maniera differente di abitare il linguaggio e il mistero della realtà. La poesia, il mito e il simbolo non sono null’altro che questo: tentativi di accedere e insieme di manifestare la rete delle forze invisibili che tramano l’intera realtà: “realizzazioni” di quell’intelligenza del “cuore” che non è affatto sentimentalità o emozione – come spesso purtroppo s’intende –, bensì intuizione viva e sovrarazionale dell’ anima pulsante del mondo. […]

La parola poetica è chiave di un rinnovato rapporto con l’uno e il tutto, di uno sguardo rigenerato che diviene forma superiore di coscienza. È espressione di quel vincolo che stringe fra loro le cose, legame che supera e bandisce ogni separatezza ed estraneità. Ma, proprio per questo, parole e miti non solo iscrivono gli umani nell’orizzonte dell’universo, ma provvedono anche ad avvincerli gli uni agli altri in una dimensione di comunità e di reciproca relazione. La poesia è luogo dell’essere così come è il disegno di una possibile casa comune.

Di tutto ciò offrono testimonianza le tradizioni antiche che hanno pronunciato, per la prima volta, l’origine e il fondamento della parola, dando luogo a una catena che, in modo ora più evidente ora più carsico, non si è mai, di fatto, interrotta. Per questo occorre, ancora e sempre, sprofondare il nostro sguardo nel pozzo del passato e udirne le voci. Per rigenerare il nostro stesso linguaggio e la nostra consapevolezza.

La relazione con l’antico è e deve essere, ogni volta, l’accadere di un “dislocamento”, l’occasione per interrompere quel flusso che ci stordisce senza che nemmeno più se ne abbia consapevolezza. È e deve essere vera esperienza che nutre la vita, offrendole possibilità “nuove” proprio perché, paradossalmente, “antiche”.

Per l’Europa e l’Occidente – per la natura e l’identità di chi a essi appartiene nonostante la globalizzazione postmoderna – la sapienza greca resta l’imprescindibile scaturigine di tale esperienza. Da qui il percorso che ci attende, a cominciare dalle pendici di quel monte ove le Muse hanno iniziato a far udire le loro voci, per poi proseguire in un periplo attraverso le forme, i poteri e le occasioni della poesia. […] Nella turbolenza contraddittoria del postmoderno che ci irretisce, nella pressione di istanze economiche che ci alienano, non sono le esplosioni verbali della rabbia e del disagio – ancorché umanamente comprensibili – a poter produrre cambiamento. Non sono le dinamiche sempre più violente del discorso pubblico né le contrapposizioni faziose di una politica grottesca a veicolare speranze di rigenerazione. Nulla, d’altro canto, è più menzognero e fuorviante di quelle espressioni e di quei linguaggi che sembrano far appello a evidenze condivisibili, quando, al contrario, non fanno che alimentare la consistenza disperante degli equivoci. Quei modi della parola – che ogni media ingigantisce nell’orrore di un’eco perpetua – non affrancano i soggetti, ma li fanno sempre più prigionieri di un antro buio. Occorre che si produca un radicale salto di coscienza che, come un benefico contagio, si estenda dai singoli soggetti ai piccoli gruppi per formare un’onda sempre più ampia. Ma, per far questo, bisogna liberare un’energia che solo la consapevolezza vissuta e interiorizzata della tradizione può fornire, che solo un rapporto vitale con una diversa parola può far scaturire. Ed è lì. che le Muse iniziano a far udire il loro canto, a dispensare il loro miele, ronzando come api dell’invisibile.

 

Davide Susanetti, Luce delle Muse. La sapienza greca e la magia della parola, Giunti-Bompiani, Firenze-Milano 2019, pp. 7-12.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Giovanni Reale (1931-2014) – Alcuni pensieri dei Presocratici si impongono come eterne verità. Fare filosofia nel senso più forte significa cercare ciò che sta oltre il fenomeno per spiegare i fenomeni stessi, e questo vale per ogni filosofare, alle origini così come ora, e così varrà anche per tutti i tempi.

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Alcuni pensieri dei Presocratici che si impongono come eterne verità

I pensieri dei Presocratici che mi hanno sempre colpito, e in particolare nella preparazione di questa edizione, dopo oltre mezzo secolo di studi, sono numerosi; ma mi vorrei soffermare solo su pochissimi, che sono fra più forti.

In primo luogo, faccio richiamo allo straordinario poema di Parmenide, che dal punto di vista teoretico costituisce un vero vertice. Platone (e non pochi con lui) considerava Parmenide il maggiore dei Presocratici. Gli dedicò il dialogo omonimo, e nel Teeteto lo presenta così: «Parmenide mi sembra che sia, per dirla con Omero, «venerando e insieme terribile» (28 A 5).

Le mie preferenze, tuttavia, sono piuttosto per Eraclito. Del resto, anche grandi pensatori moderni hanno espresso una notevole ammirazione per Eraclito. Hegel, per esempio, sosteneva di aver utilizzato nella sua Logica quasi tutti i frammenti eraclitei.

Nietzsche, poi, nel suo scritto Sul pathos della verità (che fa parte delle Cinque prefazioni per cinque libri non scritti) dice che i frammenti di Eraclito, scritti con lo stile dei discorsi profetici della Sibilla, profetessa del dio Apollo, contengono verità eterne, e scrive (facendo riferimento a 22 B 92): «Sebbene il dio fornisca i suoi responsi “senza sorrisi, senza ornamenti, né profumi di unguenti”, ma piuttosto “con la schiuma alla bocca”, tutto ciò dovrà penetrare nei millenni dell’avvenire. In effetti il mondo ha eternamente bisogno della verità e quindi eternamente bisogno di Eraclito, sebbene Eraclito non abbia bisogno del mondo».

Ricordo soprattutto il grande frammento 45, che ho scelto addirittura come motto epigrafico (e del quale ho già parlato sopra al § 4), in cui l’uomo riconosce per la prima volta l’infinita profondità della propria anima e della propria ragione (del proprio logos).

Non meno forte è il frammento 85: «Difficile è la lotta contro il desiderio, perché ciò che esso vuole lo compera a prezzo dell’anima», nel quale Eraclito per certi aspetti anticipa addirittura la tesi di fondo che Goethe svilupperà nel suo Faust, e che ha moltissimo da dire anche e soprattutto all’uomo di oggi.

E ai giovani di oggi, molti dei quali sono piuttosto scettici e privi di speranze, ancora Eraclito manda un messaggio straordinario: «Se uno non spera, non potrà mai trovare l’insperabile, perché esso è difficile da trovare e impervio» (B 18). Il che significa che proprio sperando – e solo sperando – si trova l’insperabile.

E per concludere faccio richiamo a un pensiero di Anassagora (B 21a), che il grande Democrito faceva suo e lodava (A 111): «Le cose che si vedono sono l’aspetto visibile di quelle che non si vedono».

I fenomeni non si risolvono in ciò che immediatamente vediamo, ma rimandano tutti a qualcosa di ulteriore che non si vede, ma dal quale derivano e del quale provano l’esistenza.

E questo esprime molto bene ciò che significa fare filosofia nel senso più forte, ossia cercare appunto ciò che sta oltre il fenomeno per spiegare i fenomeni stessi, e questo vale per ogni filosofare, alle origini così come ora, e così varrà anche per tutti i tempi.

 

Giovanni Reale, Saggio introduttivo. Il pensiero dei Presocratici alle radici del pensiero europeo, in: I Presocratici. Prima traduzione integrale e con testi originali a fronte delle testimonioanze e dei frammenti nella raccolta di Hermaann Diels e Walther Kranz, a cura di Giovanni Reale, Bompiani, Milano 2006, pp. LVII-LVIII.


Giovanni Reale (1931-2014) – Si è filosofi solo se e finché si è totalmente liberi, ossia solo se e finché si cerca il vero come tale. Conoscendo in modo disinteressato, l’uomo si accosta alla verità e in questa maniera realizza la sua natura razionale al più alto grado.
Giovanni Reale (1931-2014) – Il vero “vincere”, per Socrate consisteva nel “convincere”. Il nichilismo compiuto “insegna il piacere della distruzione”. La malvagità corre molto più veloce della morte.
Giovanni Reale (1931-2014) – «Eudaimonia». La felicità dipende da te, non dalle cose. Sei tu che scegli il tuo «daimon» e la virtù non ha padroni. Ma oggi la filosofia si sta distruggendo con una formula di autofagia.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Pavel A. Florenskij (1882-1937) – La parola è un condensatore della volontà, un condensatore dell’attenzione, un condensatore dell’intera vita dell’anima.

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«La parola è un condensatore della volontà,
un condensatore dell’attenzione,
un condensatore dell’intera vita dell’anima».

 

Pavel A. Florenskij, Il valore magico della parola, a cura di Graziano Lingua, Medusa, Milano 2001.


Pavel Florenskij (1882-1937) – «La prospettiva rovesciata». Ci sono solo due tipi di rapporto con la vita: quello interiore e quello esteriore, come ci sono due tipi di cultura: contemplativo-creativa e rapace-meccanica.
Pavel Aleksandrovič Florenskij (1882-1937) – Verità, bene e bellezza: questa triade metafisica è un unico principio. Nella vita ci sono molte cose mostruose, malvage, tristi e sporche. Tuttavia, rendendosi conto di tutto questo, bisogna avere dinanzi allo sguardo interiore l’armonia e cercare di realizzarla.
Pavel A. Florenskij (1882-1937) – Cultura è lotta consapevole contro l’appiattimento generale, è resistenza al processo di livellamento dell’universo, è l’accrescersi della diversità di potenziale in ogni campo che assurge a condizione di vita, è contrapposizione all’omologazione, sinonimo di morte. Dove regna l’intercosalità non vi è cultura, ma solo svalorizzazione dell’essere umano.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Massimo Bontempelli (1946-2011) – C’è un filo teoretico nichilistico che unisce Heidegger, Galimberti e Severino: l’oscuramento del capitalismo nello scenario della tecnica. Per Galimberti non c’è varco pensabile nell’orizzonte dell’epoca presente ed offre solo una filosofia dell’impotenza e dell’adattamento.

Umberto Galimberti - Massimo Bontempelli

Massimo Bontempelli
Un esempio di pensiero nichilista contemporaneo. Lettura critica del libro di Umberto Galimberti «Psiche e techne»

In Appendice: In cammino verso la realtà.

ISBN 978-88-7588-261-7, 2020, pp. 112, 130×200 mm., Euro 12 – Collana “Il giogo” [123]

indicepresentazioneautoresintesi

La realtà non è la semplice esistenza, ma è l’esistenza che si inscrive nelle condizioni dell’azione reciproca tra gli esseri umani, diventando così sostanza possibile del loro mutuo riconoscimento.

Quando l’epoca in cui si vive non lascia esprimere la realtà a ben definiti percorsi storico-sociali, l’imperativo, per conservare dignità umana e non lasciarsi invecchiare dalla morte, è quello di costruire esperienze di riconoscimento e di manifestazione della realtà.

Il nichilismo di cui è impregnato l’orizzonte storico nel quale siamo immersi viene qui criticato al suo alto livello di espressione, quello tematizzato dal dispositivo teorico di U. Galimberti. C’è un nichilistico filo teoretico che unisce M. Heidegger, U. Galimberti ed E. Severino: l’oscuramento del capitalismo nello scenario della tecnica. Come Heidegger, Galimberti presenta uno sviluppo della tecnica planetaria mosso esclusivamente da una sua intrinseca spinta all’autopotenziamento ininterrotto. Come Severino, egli si raffigura un capitalismo che, avendo nella tecnica la condizione indispensabile per raggiungere il proprio fine, tende a subordinarlo al potenziamento della tecnica, e tende quindi a perdere, con esso, la propria specifica natura. Severino, infatti, parla dell’attuale sistema mondiale come di un modo di produzione scientifico-tecnologico, più che capitalistico. Per Galimberti non c’è dunque varco pensabile nell’orizzonte dell’epoca presente, ed offre solo una filosofia (teoreticamente povera) dell’impotenza che adatta il pensiero al tempo storico (ecco il suo nichilismo). Il sistema capitalistico tecnicizzato non è la fine della storia. Il compito più degno della filosofia oggi è quello di tematizzare le forme ontologiche oscurate dall’orizzonte della tecnica, e mettersi in cammino verso la realtà nel criticare il nichilismo, al duplice scopo di suscitare la consapevolezza della sua valenza distruttiva delle basi stesse della convivenza umana, e di illuminare la possibilità di percorsi di vita sottratti al suo peso disumanizzante. Un compito che ha perciò risvolti e riferimenti sociologici ed esistenziali, economici e psicologici, ma la sua prospettiva è di natura teoretica. Si tratta appunto, infatti, di un discorso filosofico, e la cui base sta nel presupposto che non si possa capire il nichilismo se non sul piano trascendentale, e quindi filosofico. Ciò in quanto il nichilismo è individuabile come tale soltanto come negazione della realtà umana dell’uomo, e dunque occorre, per individuarlo, un concetto filosofico di realtà. La realtà non è la semplice esistenza, ma è l’esistenza che si inscrive nelle condizioni dell’azione reciproca tra gli esseri umani, diventando così sostanza possibile del loro mutuo riconoscimento. Quando l’epoca in cui si vive non lascia esprimere la realtà a ben definiti percorsi storico-sociali, l’imperativo, per conservare dignità umana e non lasciarsi invecchiare dalla morte, è quello di costruire esperienze di riconoscimento e di manifestazione della realtà.


Massimo Bontempelli (1946-2011), si è occupato prevalentemente di storia antica e di dialettica platonica e neoplatonica. Ha pubblicato, tra gli altri: Il senso dell’essere nelle culture occidentali (con F. Bentivoglio), 3 voll., 1992; Storia e coscienza storica, 3 voll., 1993; Antiche strutture sociali mediterranee, 2 voll., 1994; Percorsi di verità della dialettica antica (con F. Bentivoglio), 1996; Nichilismo, Verità, Storia. Un manifesto filosofico della fine del XX secolo (con C. Preve),1997; Gesù di Nazareth. Uomo nella storia. Dio nel pensiero, 1997-2017; La conoscenza del bene e del male, 1998; La disgregazione futura del capitalismo mondializzato, 1998; Tempo e memoria. La filosofia del tempo tra memoria del passato, identità del presente e progetto del futuro, 1999; L’agonia della scuola italiana; Il respiro del Novecento. Percorso di storia del XX secolo (1914-1945), Filosofia e realtà. Saggio sul concetto di realtà in Hegel e sul nichilismo contemporaneo.


Sommario

Il nichilismo contemporaneo va criticato nel suo più alto livello di espressione

Il discorso filosofico di Galimberti è prigioniero del suo presente storico avendolo pensato come assoluto

Il dispositivo teorico di Galimberti è derivato dalla filosofia heideggeriana

Nel dispositivo teorico heideggeriano non c’è varco pensabile nell’orizzonte dell’epoca presente

L’heideggerismo è una filosofia dell’impotenza che adatta il pensiero al tempo storico

Per Galimberti la tecnica è l’essenza dell’uomo

L’angustia teorica dell’impostazione filosofica heideggeriana

Il dispositivo teorico hedeggeriano è devastante delle poche risorse culturali non ancora avvelenate dal nichilismo

L’errore capitale di Hedigger appare come verità alle intelligenze di oggi

Il filo teoretico che unisce Heidegger, Galimberti e Severino

La tecnica non è il fondamento dell’attuale orizzonte storico

Il sistema capitalistico tecnicizzato  non è la fine della storia

Non è vero che non si dia essenza dell’uomo al di là del condizionamento tecnico

Il compito più degno della filosofia oggi è quello di tematizzare
le forme ontologiche oscurate dall’orizzonte della tecnica

Il principio hegeliano secondo il quale il reale è razionale rappresenta una posizione culturale
niente affatto prefigurante la razionalità tecnica, ma una posizione del tutto alternativa

La povertà filosofica di Umberto Galimberti in ordine a: conoscenza, verità, anima, cultura e valori spirituali

***

Appendice

 

In cammino verso la realtà

 

La realtà non è la semplice esistenza, ma è l’esistenza che si inscrive nelle condizioni dell’azione reciproca tra gli esseri umani, diventando così sostanza possibile del loro mutuo riconoscimento.

Quando l’epoca in cui si vive non lascia esprimere la realtà a ben definiti percorsi storico-sociali, l’imperativo, per conservare dignità umana e non lasciarsi invecchiare dalla morte, è quello di costruire esperienze di riconoscimento e di manifestazione della realtà.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Petite Plaisance – Una nuova progettualità comunitaria può essere costruita solo sulla base dell’umanesimo filosofico, mettendo in opera prove di concreta e buona utopia

Progettualità comunitaria
«Chi vuol fare una ricerca conveniente sulla Costituzione migliore,
deve precisare dapprima quale è il modo di vita più desiderabile.
Se questo rimane sconosciuto,
di necessità rimane sconosciuta anche la Costituzione migliore».
Aristotele, Politica, VII, 1,1323 a, 1-4.






«[...] quello che fin dall’inizio distingue
il peggiore architetto dalla migliore delle api,
è il fatto che egli ha costruito la celletta nella sua testa
prima di averla costruita nella cera [...].
Egli non opera soltanto un mutamento di forma dell’elemento naturale;
egli contemporaneamente realizza in questo il proprio fine, di cui ha coscienza».
K. Marx, Il Capitale

 

***

Finché vivremo in un mondo caratterizzato dalle gravi sofferenze evitabili di centinaia di milioni di persone, sofferenze dovute principalmente alla struttura privatistica e mercificata dell’attuale modo di produzione sociale, sarà una necessità pensare ad un modo di produzione sociale ideale (costruendo la “celletta” nella nostra testa – come dice Marx) conforme alla natura umana che, richiamando una nobile ed antica tradizione, riteniamo ancora appropriato definire “comunista”.
Senza una buona proposta teorica, non può esistere alcuna buona attività pratica. E le proposte teoriche attualmente in campo definite “comuniste” non sono affatto buone (il plurale è d’obbligo, dato il permanere di vari “marxismi” pietrificati, cui vengono tuttora ancorati programmi politici privi di fondamento filosofico).
In un’epoca in cui il modo di produzione capitalistico sta dando prova della sua pervasiva distruttività sociale e naturale, teorizzare la necessità di un modo di produzione alternativo in grado di strutturare rapporti armonici fra gli uomini e con la natura, forse può destare interesse e vicinanza. Ma un vero comunismo può essere costruito solo sull’umanesimo filosofico. Delineare il “fondamento umanistico” del progetto teorico del comunismo (ossia di un modo di produzione sociale complessivo idealmente conformato, per struttura e finalità, sulle principali esigenze della natura umana), è una “necessità”.
Un progetto politico che abbia come finalità la realizzazione delle più naturali modalità sociali, necessita di un fondamento filosofico, e questo fondamento non può che essere costituito dall’Uomo. L’Uomo (scritto con la maiuscola per indicare, con questo termine, ciò che vi è di universale nel genere umano, ossia l’umanità trascendentalmente intesa) è in effetti il riferimento costitutivo della totalità sociale, ed è anche il solo ente in grado di pensare l’intero, di darvi un senso e di averne cura.
L’Uomo è il fondamento della verità dell’essere, ossia di tutto ciò che è, e  questa posizione filosofica costituisce la base della progettualità politica. Dato che l’essere assume la propria compiuta verità quando consente all’Uomo una vita vera, ossia conforme alla sua natura razionale e morale, l’Uomo si pone come fondamento della verità dell’essere quando ne pensa in questo modo il senso ed il valore (fermi restando il rispetto e la cura che si devono al cosmo naturale). Il progetto comunitario cui si fa riferimento non consiste infatti in altro se non in un modo di produzione ideale conforme alla natura umana, in grado cioè di realizzare quella armonica convivenza comunitaria di cui gli uomini, per natura, hanno bisogno appunto per la loro stessa realizzazione.
Conoscendo  le tendenze filosofiche contemporanee, questa prospettiva rischierà, in alcuni epigoni di Nietzsche e Heidegger, di essere interpretata come troppo “antropocentrica”, ossia troppo incentrata sull’uomo come “dominatore” della natura. Ma tale interpretazione è da un lato errata – in quanto l’umanesimo è cosa ben diversa dall’antropocentrismo –, e dall’altro lato pretestuosa – in quanto, in un sistema in cui tutto è strumentalizzato al profitto, chi considera “l’uomo” come dominatore cerca davvero, consapevolmente o meno, solo un pretesto per non criticare il sistema capitalistico stesso.
La cultura dell’umanesimo progettuale non è affatto un pericolo per la natura. Tale pericolo è invece costituito da tutti quei modi di produzione, quale principalmente è quello capitalistico, che si pongono come fine la massimizzazione della ricchezza e della potenza degli agenti economico-sociali più forti, anziché la buona vita comunitaria degli uomini tutti.
La cultura umanistica è progettuale in quanto invita ad una possibile pedagogia narrativa, che favorisca la paziente ricostruzione dei processi storici delle soggettività e la reale comunicazione di esperienze significative. Invita altresì alla ricerca continua di nuovi orizzonti oltre la “gabbia d’acciaio” capitalistica, alla promozione di valori quali, per esempio, la partecipazione reale dei cittadini, la solidarietà per una nuova cittadinanza, in una comunità che voglia e sappia davvero educacare se stessa superando l’alienazione desertificante cui costringe il mondo delle merci, una cultura “ubiquitaria” nell’humus di questa cittadinanza attiva, senza deleghe: una “comunità educante”. Una cultura capace di rafforzare nei giovani la memoria storica come principale risorsa per la costruzione della propria identità, facendo proprio il pensiero genealogico,  per educare ed educarsi all’ascolto delle “altre memorie”, per sperimentare la produzione di materiali narrativi “altri”,  sia in forma individuale, sia in forma collettiva, con gesti, comportamenti, azioni simboliche, esercizi di cittadinanza attiva, mettendo in opera prove di concreta e buona utopia sul palcoscenico di una quotidianità condivisa.

Petite Plaisance


 

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Petite Plaisance – Pubblicazioni recenti

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Arianna Fermani – «Il concetto di limite nella filosofia antica». L’uomo non è dio, ma la sua vita può essere divina. Divina è ogni vita buona, ogni vita che sia stata ben condotta. Ogni vita umana si costruisce entro lo scenario del quotidiano, è fatta delle piccole cose di ogni giorno e di questa quotidianità si nutre.

Arianna Fermani, il concetto di limite
«La società degli individui». Quadrimestrale di Filosofia e teoria sociale. Fascicolo 23, 2005, Franco Angeli.

«Non si deve, in quanto esseri umani, limitarsi a pensare cose umane né, essendo mortali, limitarsi a pensare cose mortali, come si consiglia ma, per quanto è possibile, immortalarsi e fare di tutto per vivere secondo la parte migliore che è in noi».

Aristotele, Etica Nicomachea X, 7, 1177 b 31-34.


Arianna Fermani

Il concetto di limite nella filosofia antica

  1. Il ‘limite’ in ambito gnoseologico

  2. II. Il ‘limite’ in ambito etico

  3. III. Il ‘limite’ in ambito politico

  1. Concludendo


La filosofia nasce contrassegnata del limite. […] Il riconoscimento del ‘limite’ in ambito gnoseologico, che costituisce lo sfondo di tutto il pensiero filosofico antico, si snoda lungo un percorso di cui, in questa sede, è possibile individuare solo alcune delle tappe principali. […] L’estremizzazione che la nozione di limite riceve nell’elaborazione sofistica, e l’esito relativistico a cui tale elaborazione conduce, viene poderosamente arginata da Socrate e dal suo solido ancoraggio della verità all’anima, cioè all’essenza dell’uomo. […]

lI non-sapere socratico, dal canto suo, si configura doppiamente contrassegnato dalla negazione e dal distanziamento: dalla (vana) sapienza umana, da un lato, e dalla (autentica) sapienza divina, dall’altro. E se, nel primo caso, l’affermazione socratica assume una funzione ironica, nell’intento di smascherare le false credenze e la presunzione di sapere proprie degli uomini, nel secondo caso la reale assunzione delle limitazioni antropologiche rispetto all’onniscienza di Dio conduce all’individuazione di un ‘sapere minore’, ovvero di un sapere umano consapevolmente calibrato proprio sul senso del limite. Per queste ragioni Socrate, che riconosce che solo Dio è sapiente e che la sua sapienza, rispetto a quella divina, «ha poco o alcun valore», può essere indicato dall’oracolo di Delfi come «il più sapiente» degli uomini.

Su questa medesima linea si collocherà Platone […]. All’impossibilità di attingere pienamente l’oggetto del conoscere corrisponde l’indicazione platonica della costitutiva infinità del processo epistemologico descritto nelle pagine del Fedone e svolto all’interno del Parmenide. […] Sull’individuazione di questo duplice livello di indagine, in sé e per noi, che costituisce uno degli snodi fondamentali anche della ripresa della nozione di ‘limite’ a livello etico, come si cercherà di tratteggiare se pur a grandi linee, si innesta il costante riconoscimento aristotelico dei limiti conoscitivi propri dell’essere umano. […]

Quanto alla ricaduta della nozione di limite sul piano etico, essa costituisce innanzi tutto l’impalcatura di una lettura ‘polivoca’ dell’essere umano e di una simmetrica sfaccettatura dell’ orizzonte della prassi. Fondamentale risulta in questo senso la distinzione, insieme platonica e aristotelica, tra l’ ‘essere umano’ e la propria ‘anima’: da un lato c’è l’uomo, inteso come sinolo, come insieme di anima e di corpo, dall’altro c’è l’uomo inteso come anima o, più precisamente, come intelletto (nous). […] L’uomo non è dio […] ma la sua vita può essere divina […]. Divina è ogni vita buona […], ogni vita che sia stata ben condotta. Ogni vita umana, infatti, […] si costruisce entro lo scenario del quotidiano, è fatta delle piccole cose di ogni giorno e di questa quotidianità si nutre. La vita è questa e «le piccole cose quotidiane… non sono il contrassegno di un’esistenza minore ma diventano, al contrario, il banco di prova di un filosofare con sane radici nella vita».1

[…] Il riattraversamento della questione del ‘limite’ nella riflessione politica greca implica, innanzi tutto, un’indagine sulla valenza utopica dello stato ideale delineato da Platone. […] Non bisogna cercare solo la costituzione migliore in assoluto, ma anche quella ‘possibile’ e quella che risulta realisticamente attuabile, cioè quella «migliore entro certe condizioni date». […]

Arianna Fermani, Il concetto di limite nella filosofia antica, in «La società degli individui», Quadrimestrale di Filosofia e teoria sociale, Fascicolo 23, 2005, Franco Angeli, pp. 5-17. Per leggere l’articolo integralmente portarsi sul sito della Franco Angeli, cliccando qui.

1 F. Totaro, Misura, potenza, vita in Nietzsche, in AA.VV. Nietzsche tra eccesso e misura. La volontà di potenza a confronto, F. Totaro, a cura di, Carocci, Roma 2002, p. 59.

Arianna Fermani insegna Storia della Filosofia Antica all’Università di Macerata. Tra le sue pubblicazioni: Vita felice umana: in dialogo con Platone e Aristotele (2006); L’etica di Aristotele, il mondo della vita umana (2012); By the Sophists to Aristotle through Plato. The necessity and utility of a Multifocal Approach (2016). Ha tradotto, per Bompiani: Aristotele, Le tre Etiche (2008), Topici e Confutazioni Sofistiche (in Aristotele, Organon, 2016).

Ecco, cliccando qui, l’elenco delle sue pubblicazioni.

Arianna Fermani
«Senza la speranza è impossibile trovare l’insperato»

La speranza “antica”, tra páthos e areté

ISBN 978-88-7588-258-7, 2020

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Questo contributo intende riflettere sulla – antica e, insieme, attualissima – nozione di speranza a partire da una breve indagine etimologico-semantica (a cui si torna, chiudendo il cerchio, al termine del saggio), nella convinzione che la riflessione sulle parole e sulle loro origini possa donare alcune feconde piste al pensiero.

Il breve saggio si snoda lungo due linee direttrici fondamentali: la speranza come páthos, ovvero come passione, sentimento o desiderio, e la speranza come areté, ovvero come “virtù”, nozione che, nel senso greco e, più nello specifico, aristotelico del termine, implica la capacità di amministrare correttamente la passione. In questo secondo caso, inoltre, si assiste alla messa in campo di un “versante attivo della speranza”, che chiama in causa il soggetto agente e volente, che ha il compito di dare forma al suo desiderio. Qui il “sogno ad occhi aperti” diventa prassi, si fa progetto.

L’itinerario si interseca in molti modi ad altre fondamentali nozioni, tra cui, solo per indicarne alcune, quella di paura (che si configura come una passione che dirige il soggetto nella direzione opposta rispetto alla speranza), quella di rischio (a cui la originaria vocazione all’“apertura” prodotta dalla speranza è intimamente connesso e che richiede, a sua volta, un’opera di “saggia amministrazione”) e quella di fiducia (a cui la speranza è costitutivamente intrecciata e che chiama in causa un altro profilo della riflessione, affrontato al termine del saggio, quale quello educativo).


Arianna Fermani – L’educazione come cura e come piena fioritura dell’essere umano. Riflessioni sulla Paideia in Aristotele
Arianna Fermani – La nostra vita prende forma mediante il processo educativo, con una paideia profondamente attenta alla formazione armonica dell’intera personalità umana per renderla libera e felice.
Arianna Fermani – L’armonia è il punto in cui si incontra e si realizza la meraviglia. Da sempre armonia e bellezza vanno insieme.
Arianna Fermani – VITA FELICE UMANA. In dialogo con Platone e Aristotele. il confronto con le riflessioni etiche di Platone e Aristotele permette di dipanare i numerosi fili che costituiscono la trama di ogni esistenza umana
Arianna Fermani – Divorati dal pentimento. Sguardi sulla nozione di metameleia in Aristotele
Arianna Fermani – Mino Ianne, Quando il vino e l’olio erano doni degli dèi. La filosofia della natura nel mondo antico
Arianna Fermani – Nel coraggio, nella capacità di vincere o di contenere il proprio dolore, l’uomo riacquisisce tutta la propria potenza, la propria forza, la propria dignità di uomo. Senza coraggio l’uomo non può salvarsi, non può garantirsi un’autentica salus.
Arianna Fermani – Fare di se stessi la propria opera significa realizzarsi, dar forma a ciò che si è solo in potenza. attraverso l’energeia, e nell’energeia, l’essere umano si realizza come ergon, si fa opera. Chi ama, nutrendosi di quell’energeia incessante che è l’amore, scrive la sua storia d’amore, realizza il suo ergon, la sua opera. È solo amando che un amore può essere realizzato, esattamente come è solo vivendo bene che la vita buona prende forma
Arianna Fermani – Recensione al volume di Enrico Berti, «Nuovi studi aristotelici. III – Filosofia pratica».
Arianna Fermani – «Vita felice umana. In dialogo con Platone e Aristotele». Si è felici perché la vita ha acquisito un orientamento, si è affrancata dalla sua nudità, dalla sua esposizione alla morte, dalla semplice sussistenza. Una vita dotata di senso. Felicità come pienezza, come attingimento pieno del ‘telos’ lungo tutto il tragitto della vita.

«La felicità è la vita stessa quando viene vissuta al meglio: si è felici perché si vive bene, perché la vita ha acquisito un peso, una direzione, un orientamento, perché la vita si è affrancata dalla sua nudità, dalla sua esposizione alla morte, dalla semplice e anonima sussistenza, trasformandosi in una vita dotata di senso, in una individuale e particolarissima consistenza. […] felicità intesa come pienezza, come attingimento pieno del telos. Se il telos è interno all’energeia che lo produce, se il fine è contenuto nell’azione ed è indistinguibile da essa, allora è impossibile pensare ad una felicità che risieda escludivamente nel bersagio e non anche lungo i passi che conducono al suo raggiungimento […] lungo tutto il tragitto della vita».
                                                         Arianna Fermani, Vita felice umana, 2006.

«[…] il problema della vita nel suo complesso a qualcuno di noi può sembrare meno impellente di quanto non sembrasse a Socrate. Epure la sua domanda ci incalza ancora oggi e reclama l’impegno a riflettere sulla nostra vita nel suo complesso, e cioè nella totalità dei suoi aspetti e in tutta la sua profondità».
                                                                                                    Bernard Williams, L’etica e i limiti della filosofia, 1985.

Nel concetto della filosofia come domanda totale, problematicità pura, e perciò metafisica, risiede la classicità del pensiero antico. […] Se la filosofia rinuncia al suo carattere di domanda totale rinuncia al […] senso antico della filosofia, intesa come acquisizione perenne dello spirito, come vero κτῆμα εἰς ε [possesso pe sempre]».
                                                          Enrico Berti, Quale senso ha oggi studiare la filosofia antica, 1965.

 

«ὡς ἡδὺ καὶ μακάριον τὸ κτῆμα» [quanto soave e felice è il possesso della filosofia].
                                                                                                    Platone, Repubblica, 496 c.

«[…] il movimento nel quale è contenuto anche il fine è anche azione. […] Uno che vive bene, ad esempio, ad un tempo ha anche ben vissuto, ed uno che è felice, ad un tempo è stato anche felice».
                                                         Aristotele, Metafisica, IX, 6, 1048 b.

«κτῆμά τε ἐς αἰεὶ μᾶλλον ἢ ἀγώνισμα ἐς τὸ παραχρῆμα ἀκούειν ξύγκειται».
Tucidide, Storie, I, 22.

Note sul testo
Il saggio si propone di riflettere sul modello classico del bios teleios, cioè della felicità della vita nella sua totalità, cercando di mostrare come il dialogo con gli antichi fornisca ancora “utili” schemi concettuali. Più in particolare si cerca di mostrare come il confronto con le riflessioni etiche di Platone e Aristotele permetta di dipanare i numerosi fili che costituiscono la trama di ogni esistenza umana (come i dolori, i piaceri, l’ampia gamma di beni e di risorse che la costituiscono), e di individuare alcuni rilevanti nodi concettuali (tra cui, ad esempio, quello di “misura”) che costituiscono la semantica della nozione di eudaimonia. Il modello antico di eudaimonia come eu prattein, inoltre, cioè come capacità strategica di “giocar bene”, sembra risultare particolarmente fecondo, invitando ad interrogarsi sulle modalità di attuazione della vita felice e sulla gestione di tutto ciò che ad ogni esistenza si offre per una “prassi di felicità”.

Note sull’autore
Arianna Fermani insegna Storia della Filosofia Antica all’Università di Macerata. Tra le sue pubblicazioni: L’etica di Aristotele. Il mondo della vita umana, Brescia, Morcelliana, 2012; By the Sophists to Aristotle through Plato. The necessity and utility of a Multifocal Approach, a cura di E. Cattanei, A. Fermani, M. Migliori, Sankt Augustin, Academia Verlag, 2016; Aristotele e l’infinità del male. Patimenti, vizi e debolezze degli esseri umani, Brescia, Morcelliana, 2019. Ha tradotto integralmente le Etiche di Aristotele (Aristotele, Le tre Etiche, Milano, Bompiani, 2008; Giunti, 2018) e ha collaborato all’edizione dell’Organon (a cura di M. Migliori, Milano, Bompiani, 2016).
 
Indice
Prefazione di Salvatore Natoli
 
Introduzione
 
Parte prima. Semantica della felicità
 
Capitolo primo. La felicità come domanda originaria
1.1. Domanda “di” felicità
1.2. Domande “sulla” felicità
1.2.1. Felicità: una questione terminologica
1.2.2. Felicità e forme di vita
 
Capitolo secondo. Felicità e dolore
2.1. L’esperienza del dolore
2.1.1. Il dolore come accadimento
2.1.2. Le forme del dolore
2.2. Cicatrizzazione del dolore e cura di sé
2.2.1. Approcci al dolore
2.2.2. Cura del dolore e cura di sé
2.2.3. L’assunzione del dolore
2.3. Concludendo
 
Capitolo terzo. Felicità e piacere
3.1. L’esperienza del piacere
3.2. Fenomenologia del piacere
3.2.1. Il piacere nell’orizzonte della corporeità
3.2.2. Dinamiche piacevoli e dolorose
3.2.3. Il corpo e i desideri: la veemenza di un fiume in piena
3.2.4. Anima e corpo di fronte al piacere
3.2.5. Piaceri e criteri di scelta
3.3. Il ruolo del piacere nella vita felice
 
Capitolo quarto. Felicità e realizzazione di sé
4.1. Profili della virtù: tentativi di un recupero
4.1.1. Virtù come eccellenza
4.1.2. Virtù come forza
4.1.3. Virtù come disposizione
4.1.4. Virtù come giusto mezzo
4.2. La virtù come architettonica della felicità
4.2.1. Vita felice e accordata: la virtù come musica
4.2.2. Vita felice e ordinata: la virtù come misura
4.2.3. La virtù come arte del vivere bene
 
Capitolo quinto. Felicità e beni esteriori
5.1. Primi approcci al problema
5.2. Felicità e fortuna
5.2.1. Lampi di felicità, colpi di fortuna
5.2.2. Fortuna e virtù
5.2.3. Felicità e fortuna: osservazioni conclusive
5.3. Felicità e amministrazione dei beni
5.3.1. Il possesso e l’utilizzo di due beni supremi: la sophia e la phronesis
 
Parte seconda. Prassi di felicità
 
Capitolo primo. Felicità e valorizzazione delle proprie risorse
1.1. Vita felice e buon utilizzo dei propri talenti
1.1.1. Per una eudaimonia nell’orizzonte della physis
1.1.2. Felicità al singolare, felicità al plurale
1.2. Eudaimonia come ritrovamento e buona allocazione del proprio daimon
1.2.1. Felicità come consapevolezza
1.2.2. Percorsi esistenziali e traiettorie di felicità
1.3. Saggezza e sapienza di fronte alla felicità
 
Capitolo secondo. Felicità come conquista di pienezza
2.1. Felicità tra esperienze di pienezza e pienezza di vita
2.1.1. Tentativi di articolazione della nozione di pienezza
2.2. Per una pienezza nell’orizzonte dell’energeia
2.3. La difficoltà di far spuntare le ali: la felicità come conquista
2.3.1. Felicità pienamente consapevole e pienamente umana
2.4. Riflessioni conclusive
 
Conclusioni
1. Per concludere
2. Vita felice umana: appunti di viaggio
 
Bibliografia
1. Dizionari e lessici
2. Testi antichi
3. Testi moderni e contemporanei
4. Letteratura critica e studi generali
 
Indice degli autori antichi e moderni
 
Note
In copertina: immagine di Alessandra Mallamo ©2019
Eudaimonia

«Le ferite non scompaiono mai del tutto, soprattutto se profonde […] tuttavia, anche se non scompaiono, possono cicatrizzare. In questa cicatrice, che è, contemporaneamente, segno del patimento e sintomo di guarigione, si gioca la possibilità, per l’uomo che ha incontrato la morte e il dolore e che di fronte ad essi ha sofferto, di “ricominciare” a vivere», A. Fermani, Vita felice umana. In dialogo con Platone e Aristotele.

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Tra le molte pubblicazioni di Arianna Fermani


Arianna Fermani

L’educazione come cura e come piena fioritura dell’essere umano. Riflessioni sulla Paideia in Aristote

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 «Non è una differenza da poco il fatto che subito fin dalla nascita veniamo abituati in un modo piuttosto che in un altro ma, al contrario, è importantissimo o, meglio, è tutto» (Etica Nicomachea, II, 1, 1103 b 23-25).

Questo contributo mira a mettere a fuoco il tema dell’educazione di Aristotele, mostrando come tale riflessione risulti essere originale ed attuale. L’indagine prende avvio dall’esame delle occorrenze di alcuni lemmi all’interno del corpus del filosofo particolarmente significativi rispetto al tema della educazione, come ad esempio

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Si intende mostrare come la riflessione aristotelica sulla paideia, oltre ad un utilizzare una specifica metodologia di indagine, si muova all’interno di due fondamentali scenari educativi: nel primo (che a sua volta si articola in una serie di sotto-questioni, come ad esempio il tema dell’insegnabilità della virtù o quello dell’emotional training e dell’educazione delle passioni) l’educazione precede l’etica, mentre nel secondo l’educazione consiste nell’etica, secondo il fondamentale modello teorico dell’energeia.


Arianna Fermani è Professoressa Associata in Storia della Filosofia Antica all’Università di Macerata. Le sue ricerche vertono principalmente sull’etica antica e, più in particolare, aristotelica, e su alcuni snodi del pensiero politico e antropologico di Platone e di Aristotele. È Membro dell’Associazione Internazionale “Collegium Politicum” e dell’ “International Plato Society”. È membro del Consiglio Direttivo Nazionale della SISFA (Società Italiana di Storia della Filosofia Antica), e Direttrice della Scuola Invernale di Filosofia Roccella Scholé: Scuola di Alta Formazione in Filosofia “Mario Alcaro”. È Presidente della Sezione di Macerata della Società Filosofica Italiana. Ecco, cliccando qui, l’elenco delle sue pubblicazioni.


Vita felice umana. In dialogo con Platone e Aristotele

Arianna Fermani, Vita felice umana. In dialogo con Platone e Aristotele, Editore: eum, 2006 [prima edizione]

Il saggio si propone di riflettere sul modello classico del bios teleios, cioè della felicità della vita nella sua totalità, cercando di mostrare come il dialogo con gli antichi fornisca ancora “utili” schemi concettuali. Più in particolare si cerca di mostrare come il confronto con le riflessioni etiche di Platone e Aristotele permetta di dipanare i numerosi fili che costituiscono la trama di ogni esistenza umana (come i dolori, i piaceri, l’ampia gamma di beni e di risorse che la costituiscono), e di individuare alcuni rilevanti nodi concettuali (tra cui, ad esempio, quello di “misura”) che costituiscono la semantica della nozione di eudaimonia. Il modello antico di eudaimonia come eu prattein, inoltre, cioè come capacità strategica di “giocar bene”, sembra risultare particolarmente fecondo, invitando ad interrogarsi sulle modalità di attuazione della vita felice e sulla gestione di tutto ciò che ad ogni esistenza si offre per una “prassi di felicità”.

***

L'etica di Aristotele
 

Arianna Fermani, L’etica di Aristotele: il mondo della vita umana, Editore: Morcelliana, 2012

Utilizzando tutte e tre le Etiche aristoteliche, Arianna Fermani, con questo volume, offre un’ulteriore prova dell’attualità e utilità dell’etica dello Stagirita e di un pensiero che, esplicitamente e costitutivamente, mostra che ogni realtà “si dice in molti modi”. Gli schemi che l’intelligenza umana elabora devono essere molteplici e vanno tenuti, per quanto possibile, “aperti”. Questo determina la presenza di “figure” concettuali estremamente mobili e intrinsecamente polimorfe, figure che il Filosofo attraversa lasciando che i loro profili, pur nella loro diversità e, talvolta, persino nella loro incompatibilità, convivano.
La verifica di questa metodologia passa attraverso l’approfondimento di alcune nozioni-chiave, dando vita ad un percorso che, con proposte innovative e valorizzazioni di elementi finora sottovalutati dagli studiosi, si snoda lungo tre linee direttrici fondamentali: quelle di vizio e virtù, quella di passione e, infine, quella di vita buona.

Sommario

Ringraziamenti
Premessa
I “Pensiero occidentale” vs “pensiero orientale”: alcune precisazioni
II “Essere” e “dirsi in molti modi”
Introduzione
I. Per un “approccio unitario” ad Aristotele
II. Autenticità delle tre Etiche
III. Obiettivi e struttura del lavoro

PRIMA PARTE Percorsi di attraversamento delle figure di vizio e virtù
Capitolo primo: Giustizia e giustizie
Capitolo secondo: La fierezza
Capitolo terzo: Sui molti modi di dire “amicizia
Capitolo quarto: Lungo i sentieri della continenza e dell’incontinenza
Capitolo quinto: La philautia: tra “egoismo” e “amor proprio”
Capitolo sesto: Modulazioni della nozione di vizio

SECONDA PARTE: Percorsi di attraversamento della nozione di passione
Capitolo primo: La passione come nozione “in molti modi polivoca”
Capitolo secondo: Le metamorfosi del piacere
Capitolo terzo: Articolazioni della nozione di pudore

TERZA PARTE: Percorsi di attraversamento della nozione di vita buona
Capitolo primo: Dio, il divino e l’essere umano: sui molti modi di essere virtuosi e felici
Capitolo secondo: La questione dell’autosufficienza
Capitolo terzo: Natura/nature, virtù, felicità
Capitolo quarto: Verso la felicitàlungo le molteplici rotte della phronesis
Capitolo quinto: La felicità si dice in molti modi
Conclusioni
Bibliografia
Indice dei nomi

***

Le tre etiche

Aristotele, Le tre etiche. Testo greco a fronte, Editore: Bompiani, 2008.

In un unico volume e con testo greco a fronte le tre grandi opere morali di Aristotele: l’”Etica niconomachea”, l”Etica eudemia” e la “Grande etica”. Questi tre scritti rappresentano tutta la riflessione etica dell’Occidente, e il punto di partenza di ogni discorso filosofico sul fine della vita umana e sui mezzi per raggiungerlo, sul bene e sul male, sulla libertà e sulla scelta morale, sul significato di virtù e di vizio. La raccolta costituisce un unicum, poichè contiene la prima traduzione in italiano moderno del trattato “Sulle virtù e sui vizi”. Un ampio indice ragionato dei concetti permette di individuare le articolazioni fondamentali delle nozioni e degli snodi più significativi della riflessione etica artistotelica. Tramite la presentazione, contenuta nel seggio introduttivo, dei principali problemi storico-ermeneutici legati alla composizione e alla trasmissione delle quattro opere, e di un quadro sinottico dei contenuti delle opere stesse, è possibile visualizzare la struttura complessiva degli scritti e le loro reciproche connessioni.

***

Platone e Aristotele

Platone e Aristotele. Dialettica e logica

Curatori: M. Migliori, A. Fermani

Editore:Morcelliana, 2008

Il confronto tra Platone ed Aristotele è stato interpretato, per lo più, come una opposizione tra modelli conoscitivi: da un lato la dialettica, intesa come il culmine del sapere, dall’altro la logica, intesa come l’insieme delle tecniche per ben argomentare, al di là delle pretese platoniche di una supremazia della dialettica. Ma ha ancora un fondamento filologico e storico questa contrapposizione? Un interrogativo che – nei saggi qui raccolti di alcuni dei più autorevoli interpreti del pensiero antico – mette capo a una pluralità di scavi, storiografici e teoretici. Scavi che invitano a una lettura dei testi platonici ed aristotelici nella loro complessità: emergono inaspettati intrecci e molteplici significati dei termini stessi di dialettica e logica in entrambi i pensatori. Non solo la dialettica platonica ha un suo rigore, ma la stessa logica aristotelica ha affinità, pur nelle differenze, con le procedure argomentative della dialettica. Una prospettiva ermeneutica che interessa non solo lo storico della filosofia antica, ma chiunque abbia a cuore le radici greche delle nostra immagine di ragione.

***

Interiorità e animae
 

Maurizio Migliori, Linda M. Napolitano Valditara, Arianna Fermani, Interiorità e anima: la psychè in Platone

Vita e Pensiero, 2007

Il concetto di anima, una delle più grandi “invenzioni” del mondo greco, figura teorica che ha attraversato e segnato la storia dell’intero Occidente, trova in Platone il primo fondamentale inquadramento filosofico. Non si tratta solo di una tematica dal significato metafisico e religioso: nell’approfondire i molteplici temi che questo concetto attiva emergono naturalmente, già nel filosofo ateniese, tutte le questioni connesse alla spiritualità e allo psichismo umano, con le loro conseguenze etiche. In questo senso l’”anima” apre la strada a un infinito processo di approfondimento e di scoperta dell’interiorità del soggetto. Non a caso questo tema compare in molti testi platonici, in particolare nei dialoghi. Da questa prima elaborazione scaturirono luci e ombre, soluzioni di antichi problemi e nuove domande, di non meno difficile soluzione, anzi tanto complesse da essere ancora oggi messe a tema. Sui molteplici aspetti di queste tematiche filosofiche alcuni tra i maggiori studiosi di Platone si confrontano nel presente volume, avanzando proposte spesso assolutamente innovative, anche per quanto riguarda l’utilizzo di testi sottovalutati, o addirittura quasi ignorati dagli studi precedenti, con una dialettica che dà modo al lettore sia di verificare la capacità ermeneutica delle diverse impostazioni, sia di riscoprire la ricchezza del contributo platonico rispetto a problemi con cui lo stesso pensiero contemporaneo torna positivamente a misurarsi.

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Humanitas

Humanitas (2016). Vol. 1: L’inquietante verità nel pensiero antico.

Curatore: A. Fermani, M. Migliori

Editore: Morcelliana, 2016

Editoriale: I. BertolettI, “Humanitas” 1946-2016. Identità e trasformazioni di un’idea l’inquietante verità. La riflessione anticaa cura di Arianna Fermani e Maurizio Migliori M. Migliori, Presentazione F. Eustacchi, Vero-falso in Protagora e Gorgia. Una posizione aporetica ma non relativista M. Migliori, Platone e la dimensione umana del verol. Palpacelli, Vero e falso si apprendono insieme. Il vero e il falso filosofo nell’Eutidemo di Platonea. Fermani, Aristotele e le verità dell’etica G.A. Lucchetta, Dire il falso per conoscere il vero. Aristotele, Fisica ii 1, 193a7) F. Mié, Truth, Facts, and Demonstration in Aristotle. Revisiting Dialectical Art and Methoda. longo, I paradossi nell’Ippia minore di Platone. La critica di Aristotele, Alessandro di Afrodisia e Asclepioe. Spinelli, Sesto Empirico contro alcuni strumenti dogmatici del vero. Note e rassegne F. De Giorgi, Il dialogo nel pontificato di Paolo VI G. Cittadini, Filippo Neri. Una spiritualità per il nostro tempo.

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Il Simposio di Platone

J. Rowe, Arianna Fermani, Il ‘simposio’ di Platon

Academia Verlag, 1998

Cinque lezioni sul dialogo con un ulteriore contributo sul ‘Fedone’ e una breve discussione con Maurizio Migliori e Arianna Fermani; 27-29 marzo 1996, Università di Macerata, Dipartimento di filosofia e scienze umane, in collaborazione con l’Istituto Italiano per gli studi filosofici.

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Arianna Fermani, “Brividi di bellezza” e desiderio di verità

Arianna Fermani, “Brividi di bellezza” e desiderio di verità

“Brividi di bellezza” e desiderio di verità in Bellezza e Verità;
Brescia, Morcelliana, 2017; pp. 195 – 203

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rivista di

ARISTOTELE E I PROFILI DEL PUDORE

Arianna Fermani

Vita e Pensiero, Rivista di Filosofia Neo-Scolastica

Rivista di Filosofia Neo-Scolastica

Vol. 100, No. 2/3 (Aprile-Settembre 2008), pp. 183-202

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Studi su ellenismo e filosofia romana

Studi su ellenismo e filosofia romana

Curatori: F. Alesse, A. Fermani, S. Maso

Editore: Storia e Letteratura, 2017

In questo volume vengono raccolti cinque saggi sul pensiero filosofico greco nell’età romana. Le linee di ricerca qui proposte toccano nello specifico questioni attinenti alla filosofia stoica, a quella epicurea, a quella cinico-sofistica e all’aristotelismo di epoca imperiale.

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Thaumazein cop

Arianna Fermani,
Essere “divorati dal pentimento”.
Sguardi sulla nozione di metameleia in Aristotele

in THAUMÀZEIN; n. 2 (2014); Verona, pp. 225-246


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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