Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) – Il soffrire dell’uomo che non ha riflessione sul proprio destino è senza volontà, poiché egli onora il negativo, i limiti, solo nella forma della loro esistenza giuridica e autoritaria come insormontabili, e prende le proprie determinatezze e le loro contraddizioni come assolute.

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«La contraddizione sempre crescente tra l’ignoto che gli uomini inconsapevolmente cercano e la vita che ad essi è offerta e permessa e che essi hanno fatto propria, la nostalgia verso la vita di coloro che hanno elaborato in sé la natura in idea, contengono l’anelito a un reciproco avvicinamento. Il bisogno di quelli, di ricevere una consapevolezza sopra ciò che li tiene prigionieri e l’ignoto di cui sentono il desiderio, s’incontra col bisogno di questi, di trapassare dalla propria idea nella vita. Costoro non possono vivere soli, e l’uomo è sempre solo anche se si è posto dinanzi la propria natura e di questa rappresentazione ha fatto il suo compagno e in essa gode se stesso; egli deve trovare anche il rappresentato come un vivente. Lo stato dell’uomo che il tempo ha cacciato in un mondo interiore, può essere o soltanto una morte perpetua, se egli in esso si vuol mantenere, o, se la natura lo spinge alla vita, non può essere che un tendere a superare il negativo del mondo sussistente per potersi trovare e godere in esso, per poter vivere. La sua sofferenza è legata con la coscienza dei limiti, a causa dei quali egli disprezza la vita così come essa gli sarebbe permessa: egli vuole il proprio soffrire; mentre invece il soffrire dell’uomo che non ha riflessione sul proprio destino è senza volontà, poiché egli onora il negativo, i limiti, solo nella forma della loro esistenza giuridica e autoritaria come insormontabili, e prende le proprie determinatezze e le loro contraddizioni come assolute, e ad esse, anche se persino esse ledono i suoi impulsi, sacrifica se stesso e gli altri.

Il superamento di ciò che riguardo alla natura è negativo, riguardo alla volontà positivo, non viene operato mediante violenza, né una violenza che si faccia noi stessi al nostro destino, né una violenza che si sperimenti dal di fuori; in ambedue i casi il destino rimane ciò che è; la determinatezza, il limite non viene separato dalla vita con la violenza; violenza straniera è particolare contro particolare, la rapina di una proprietà, un nuovo dolore; l’entusiasmo di un legato è un momento pauroso per lui stesso nel quale egli si perde, ritrovando la propria coscienza solo nelle determinatezze dimenticate, non divenute morte.

Il sentimento della contraddizione della natura con la sussistente vita è il bisogno che la contraddizione venga tolta, ed essa lo viene, quando la sussistente vita ha perduto la propria potenza e ogni sua dignità, quando è divenuta un puro negativo.

Tutti i fenomeni di questo tempo mostrano che la soddisfazione nella vecchia vita non si trova più; essa era un limitarsi a una signoria ordinatissima sulla nostra proprietà, un considerare e un godere il proprio piccolo mondo nella sua piena sudditanza e poi anche un autoannientarsi che conciliava questa limitazione e un elevarsi nel pensiero verso il cielo. Da una parte la miseria dei tempi ha intaccato questa proprietà, dall’altra i suoi doni hanno tolto nel lusso la limitazione, ed in ambedue i casi l’uomo è stato fatto Signore e il suo potere sulla realtà effettuale elevato al sommo. Sotto questa arida vita d’intelletto, per un verso è cresciuta la cattiva coscienza, che consiste nel rendere assoluta la nostra proprietà, – cose – e con ciò, per un altro verso è cresciuto il soffrire degli uomini; e il soffio di una vita migliore ha toccato questo tempo. Il suo impulso si nutre dell’agire di grandi caratteri di singoli uomini, di movimenti di interi popoli, della rappresentazione della natura e del destino da parte dei poeti; dalla metafisica le limitazioni ricevono i propri confini e la loro necessità nella connessione dell’intero. La vita limitata può soltanto allora, come potenza, venire con potenza aggredita dalla vita migliore, quando anche quest’ultima è divenuta una potenza e abbia da temer violenza. Come particolare contro particolare la natura nella sua vita effettiva è l’unico assalto o confutazione della vita peggiore, e una tale confutazione non può essere oggetto di un’attività intenzionale. Ma il limitato può essere assalito dalla sua propria verità, che in esso risiede e condotto in contraddizione con essa: la sua signoria si fonda non sulla violenza di particolari contro particolari, bensì su universalità; questa verità, il diritto, la quale esso rivendica a sé gli deve essere tolta e attribuita a quella parte della vita che viene richiesta.

Questa dignità di una universalità, di un diritto, è quella che rende così timida, come quella che vada contro coscienza, la richiesta posta dalla sofferenza e dagli impulsi che vengono in contraddizione con la sussistente vita, vestita di quell’onore. Al positivo del sussistente, che è una negazione della natura, viene lasciata la sua verità, che un diritto deve esserci.

Nello Stato tedesco l’universalità che ha potere, come fonte di ogni diritto, è sparita perché si è isolata facendosi particolare. L’universalità è perciò presente soltanto come pensiero, non come realtà effettuale. Riguardo a quello su cui l’opinione pubblica più chiaramente o più oscuramente ha deciso con la perdita della fiducia, ci vuol poco a rendere più universale una più chiara coscienza. E tutti i diritti sussistenti hanno il loro fondamento tuttavia solo in questo nesso col tutto, il quale nesso, non essendoci più da lungo tempo, li ha fatti divenire tutti dei particolari.

Ora, o si può prendere le mosse da quella verità che anche il sussistente ammette; allora tutti i concetti parziali che sono contenuti in quello di tutto lo Stato vengono concepiti come universali nel pensiero, e la loro universalità o particolarità nella realtà effettuale posta accanto ad essi; mostrandosi una tale unità-parte come particolare, salta allora agli occhi la contraddizione fra ciò che essa vuol essere, e soltanto per essa vien richiesta, e ciò che essa è».

Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Scritti politici, a cura di Claudio Cesa, Einaudi,1972, pp. 9-11.


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Alceo (630 a.C.– 560 a.C.) – Da terra conviene progettare la rotta, se si riesce a farlo in modo corretto. Ma quando si è per mare, si deve andare con il vento che c’è.

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Lirici greci

«Da terra conviene progettare la rotta

se si riesce a farlo in modo corretto.

Ma quando si è per mare,

si deve andare con il vento che c’è».

 

 

Alceo, Canti conviviali [Συμποσιακά μέλη, symposiakà mèle], fr. 249, ed. Voigt.

 

Saffo e Alceo a Mitilene, Lawrence Alma-Tadema (1881).

Saffo e Alceo a Mitilene, Lawrence Alma-Tadema (1881).

 

Alceo

Alceo


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Mario Vegetti – Il lettore viene introdotto a una sorta di visita guidata in uno dei più straordinari laboratori di pensiero politico nella storia d’Occidente.

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«Ci sono parecchie cose che il letrore non troverà in queste pagine. Non troverà un commento analitico dei testi antichi condotto secondo le intenzioni d’aurore e l’ordine delle argomentazioni: un lavoro questo imprescindibile, ma che va compiuto in altra sede. Non troverà neppure una storia delle idee politiche sviluppata secondo le sequenze cronologiche di autori e di testi, per la quale si può rinviare a ottimi strumenti di consultazione. Di conseguenza, non troverà una bibliografia disciplinare organica: le indicazioni  contenute nelle note sono suggerimenti di lettura senza alcuna pretesa sistematica.
Mi sono proposto invece di introdurre il lettore a una sorta di visita guidata in uno dei più straordinari laboratori di pensiero politico nella storia d’Occidente, che fu attivo in Atene nel secolo che va all’incirca dal 430 al 330 a.c. Utilizzando le idee e i testi via via prodotti in questo laboratorio, si è allestita la messa in scena di un dibattito a più voci, che coinvolge filosofi, srorici, poeti, politici, intorno alle domande decisive su che cosa sia il potere e come possa venire legittimato o giustificato. Nella rappresentazione che ne viene offerta, questo dibattito è stato articolato intorno a cinque assi tematici principali (la maggioranza, la legge, la forza, la virtù, il sapere) che, com’è naturale, si intrecciano e interagiscono reciprocamente. Per il senso comune politologico, il confronto tra le idee politiche prodotte in questo laboratorio riserva qualche sorpresa: persino un regime rassicurante come la democrazia maggioritaria viene messo radicalmente in discussione, e d’altra parte un potere esecrabile come quello tirannico riscuote talvolta consensi significativi. D’altra parte, testi noti possono acquistare un rilievo e un significato inattesi per la vulgata storiografica. Ma non ho affatto inteso mostrare chi ha ragione e chi ha torto, oppure chi vince e chi perde.
Gli aspetti che davvero interessano sono la forza teorica, la spregiudicatezza intellettuale, la radicalità di approccio che caratterizzano la discussione qui rivisitata. Vi troviamo, da un lato, un modello insuperato di come la riflessione politica possa andare al fondo dei problemi, magari non per risolverli ma per renderli almeno più chiari nei loro presupposti e nelle loro implicazioni; dall’altro, una strumentazione concettuale che certo appartiene a un mondo lontano, ma che forse non ha del tutto esaurito la sua capacità di offrire stimoli e prospettive che ancora oggi sarebbe sbagliato ignorare».

Mario Vegetti, Chi comanda nella città. I Greci e il potere, Carocci editore, 2017, pp.7-8.

Risvolto di copertina

Il libro introduce il lettore  a una sorta di visita guidata  in uno dei più straordinari laboratori  di pensiero politico nella storia  d’Occidente, che fu attivo in Atene  nel secolo che va all’incirca  dal 430 al 330 a.C.  Si è allestita la messa in scena  di un dibattito a più voci,  che coinvolge filosofi, storici,  poeti, politici, intorno  alle domande decisive su che cosa  sia il potere e come possa venire  legittimato o giustificato.  Si confrontano così le ragioni  della maggioranza, della legge,  della forza, del capo carismatico,  della competenza scientifica,  su temi che ancor oggi risultano  attuali quando ci si interroga  sulla crisi della democrazia  e sulle sue alternative decisioniste.  Il testo si rivolge tanto agli studiosi  del pensiero antico quanto a chiunque  sia interessato ai problemi  della politica contemporanea.


 

Mario Vegetti – La filosofia e la città: processi e assoluzioni .

Mario Vegetti e Francesco Ademollo – Incontro con Aristotele: la potenza del suo pensiero è ancora in grado di parlarci.

 


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Koinè – Quale progettualità? Cerchiamo di percorrere, in maniera umanisticamente fondata, l’orizzonte progettuale per delineare le strutture di base di un futuro modo di produzione comunitario non più incentrato sulla privatezza e sulla mercificazione dei rapporti umani.

Quale progettualità invito

Lorenzo Dorato, Antonio Fiocco, Luca Grecchi,  Claudio Lucchini, Alessandro Monchietto,
Alessandro Pallassini, Giacomo Pezzano


Ci rivolgiamo a lettori che vogliano imparare qualcosa di nuovo,
che dunque vogliano pure pensare da sé.
Karl Marx

 

Quale progettualità

Quale progettualità?

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Koiné, Periodico culturale, Anno XXIII – NN° 1-4 Gennaio-Dicembre 2016, Reg. Trib. di Pistoia n° 2/93 del 16/2/93. Direttore responsabile: Carmine Fiorillo. Direttore: Luca Grecchi.


Hanno contribuito e reso possibile la pubblicazione di questo numero di Koiné:

Olivia Campana, Francisco Canepa, Stella Maria Congiu, Lorenzo Dorato, Antonio Fiocco, Carmine Fiorillo, Luca Grecchi, Claudio Lucchini, Alessandro Monchietto, Alessandro Pallassini, Giacomo Pezzano, Giancarlo Paciello, Ilaria Rabatti, Emilia Savi


Intenzioni

Questo numero della rivista Koinè si occupa di affrontare il tema oggi più importante sul piano filosofico politico: il tema della progettualità. Da oltre un secolo a questa parte la critica all’attuale modo di produzione sociale, pur nelle sue molteplici e mutevoli modalità, è stata nella sostanza effettuata. Ciò che resta ancora da fare è cercare di percorrere, in maniera umanisticamente fondata (ossia basandosi sulla natura umana), l’orizzonte progettuale, ossia delineare le strutture di base di un futuro modo di produzione comunitario finalizzato alla buona vita di tutti, non più incentrato sulla privatezza e sulla mercificazione dei rapporti umani. Senza uno sguardo realistico su come il nostro mondo può essere, difficilmente, infatti, si potranno condividere modifiche radicali delle nostre modalità di vita. Ciò richiede, oltre a competenze specifiche, educazione filosofica e capacità dialettica: quanto questo numero della rivista vorrebbe contribuire a formare.

Koinè


Indice

 

Luca Grecchi, Sulla progettualità

Alessandro Monchietto, Quale progettualità? A partire da alcune considerazioni di Luca Grecchi

Claudio Lucchini, La progettualità comunista tra utopia concreta e necessità di funzionamento quotidiano

Antonio Fiocco, Difendere in tutti i modi la progettualità

Alessandro Pallassini, Note marginali per la progettazione di un comunismo della finitezza a partire da Spinoza

Luca Grecchi,, Perché la progettualità

Claudio Lucchini, Annotazioni sulla progettabilità del bene etico-sociale e sulla determinatezza materiale-naturale dell’uomo

Lorenzo Dorato,, La progettualità come necessaria riflessione

sui destini collettivi e sociali

Giacomo Pezzano,, Commento all’articolo di Luca Grecchi “Sulla progettualità”

Commento all’articolo di Luca Grecchi “Perché la progettualità?”

Luca Grecchi, Nel merito dei commenti di Giacomo Pezzano

Giacomo Pezzano, Il vero punto filosofico da scavare è che cosa si voglia intendere con “progettualità”

Luca Grecchi, Una prima conclusione sulla progettualità


Una rivista ha bisogno di tempo per nascere e per crescere

Ha bisogno soprattutto di un particolare complesso di elementi spirituali, culturali, sociali nel cui seno l’idea stessa possa germinare e trovare alimento per il suo sviluppo. Occore poi uno stimolo, un impulso capace di attivare sensibilità intelletuali, offrendo prospettive culturali capaci di intercettare le autentiche domande di senso e di tentare risposte originali e pertinenti. Per cercare di costruire nuovi orizzonti di senso occorre in primo luogo non accettare quanto sostengono i profeti dell’avvento di un mondo senza Spirito, un mondo cioè di individui non più formati dalla memoria di tradizioni e culture anteriori, e perciò in totale balìa dell’immediatezza degli eventi, senza un’identità etica e sociale ed una struttura morale a cui riferirli. Mentre lavoriamo intorno alla definizione di ogni numero di Koinè, impariamo abbastanza da trovarla insufficiente. Impariamo quanto sia inadeguato oggi anche il più vasto sapere se rimane esclusivamente specialistico. In ogni libro è racchiusa una scommessa contro l’oblio, una sfida contro il silenzio.


Il bisogno di progettare, nell’uomo,

non è un fatto accidentale, ma essenziale,

in quanto corrisponde alla sua originaria natura

«Il bisogno di progettare, nell’uomo, non è un fatto accidentale, ma essenziale, in quanto corrisponde alla sua originaria natura. Il progettare è possibile ed ha senso solo in presenza e in vista del futuro. La “fame di futuro” è fame di progettualità […] L’uomo è un essere progettuale. Il progetto spinge a impegnarsi per cambiare lo stato di cose presente. La carenza di progettazione sociale è segno di fuga dalla vita, perché realizzare il fine richiede impegno, dedizione, pazienza, sofferenza, sacrificio. […] Non può costruirsi una società comunitaria senza un’azione parallela mirante a trasformare contemporaneamente le condizioni esterne e le coscienze. Perché vi sia autentica comunità occorre sviluppare una coscienza comunitaria. Il principio fondamentale che regge l’intero edificio comunitario […] è proprio l’humanitas, ossia la coscienza del valore e della dignità degli uomini, di tutti gli uomini, e del loro comune destino».

Cosimo Quarta

 


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Salvatore Antonio Bravo – L’epoca del PILinguaggio. Il depotenziamento del linguaggio è attuato dalla globalizzazione capitalistica, nel suo allontanamento dalla persona e dalla comunità.

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271 ISBN

L’epoca del PILinguaggio

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Salvatore Antonio Bravo, L’epoca del PILinguaggio.

ISBN 978-88-7588-191-7, 2017, pp. 96, formato 130×200 mm., Euro 12 – Collana “Divergenze” [59]. In copertina: Kumi Yamashita, Light and Shadow.

Il depotenziamento del linguaggio è attuato dalla globalizzazione capitalistica, nel suo allontanamento dalla persona e dalla comunità. L’epoca attuale destina ricchezza materiale ai pochi e povertà linguistica ai molti: povertà lessicale, manomissione dei significati delle parole, riduzione della parola a funzione calcolante, aggressione culturale imperialistica alle lingue nazionali. La povertà lessicale non è semplicemente una forma di regressione culturale legittimata dalla cultura del fare, della didattica breve, del problem solving, ma trova la sua ragion d’essere nel liberismo globale, per il quale ogni riflessione eccedente i bisogni dell’economia è già un limite per le logiche mercantili. La lingua deve tracciare il suo senso nella sola produttività, nell’immediatezza della sua spendibilità, dev’essere funzione dell’illimitatezza della valorizzazione. Ogni linguaggio non immediatamente spendibile è stigmatizzato come inutile. Diviene così funzione, calcolo per previsioni consumistiche, diventa la pietra di confine conficcata nella terra dei consumi oltre la quale vi è il nulla. Novello Crono, il capitale divora – con i figli – le parole, al fine di colonizzare ogni comunità e renderle atomizzate e dominabili. La comunità politica è sostituita dal modello azienda, ed ha il suo centro nella competizione.

La neolingua si struttura nell’atomizzazione dei pensieri, delle frasi, che si articolano in modo da perdersi nell’emozione dell’immediato della compravendita delle pseudo relazioni virtuali. Il nichilismo di massa è alimentato e vive attraverso l’incompetenza linguistica che derealizza la realtà in monconi fonetici. Il riduzionismo politico filosofico si sostanzializza attraverso un linguaggio la cui articolazione logica arretra per lasciare spazio unicamente alla naturalizzazione del solo presente.



Salvatore Antonio Bravo

Potere e alienazione in Foucault

238 ISBN

indicepresentazioneautoresintesi

Gli scritti di Foucault testimoniano un’attenzione rara alla vita che scorre ai margini: folli, mendicanti, prostitute, omosessuali, oziosi popolano molti dei suoi saggi, in particolare Storia della follia e Sorvegliare e punire.

Vi è uno spostamento della prospettiva attraverso cui leggere il potere; tradizionalmente il potere risiede in una figura (ad es. il sovrano), una classe, un’istituzione. L’analisi tradizionale del potere individua il soggetto attivo depositario del potere, si pensi al Principe di Macchiavelli, ed un soggetto che ne subisce l’azione: il suddito.

Il potere è studiato mediante la ‘posizione della rana’, affermazione del filosofo. Il potere è analizzato da Foucault nel suo costituirsi, non dal vertice ma dalle forze interagenti dal basso il cui effetto è il potere.

 


Salvatore Antonio Bravo

Foucault e la razionalità debole

 

250 ISBN

indicepresentazioneautoresintesi

 

Il modello di razionalità è parte integrante della prassi di una comunità, la riflessione su di esso è necessaria per un’operazione “archeologica” di consapevolezza, ovvero le strutture cognitive sono segnate nella lingua come nei modelli di comprensione. La pastorale dell’incontro, tanto in voga riesce solo parzialmente a portare nuova vita nell’atto del pensare, tale operazione dev’essere completata con un’analisi-riflessione dei fondamenti del pensiero. L’interrogativo a cui dovremmo rispondere è il perché tanto sapere critico abbia prodotto risultati tanto parziali, finanche a volte reazionari.


 

 

Salvatore Antonio Bravo

L’ultimo uomo

 

257 ISBN

indicepresentazioneautoresintesi

 

L’opera di Nietzsche è spesso associata al superuomo dannunziano o all’oltreuomo di Vattimo, letture che rischiano d’essere limitate e strumentali. Col presente saggio si vuole riattualizzare una figura lasciata di sfondo e che poco è stata evocata nella storia della filosofia: l’ultimo uomo. La produzione filosofica su Nietzsche è stata sterminata, ma titoli che trattino specificatamente dell’uomo più inquietante sono pressochè assenti.

La consapevolezza dell’importanza dell’ultimo uomo per decodificare un pensatore così complesso è stata rilevata da Costanzo Preve, che ha spostato l’asse interpretativo dell’opera nietzscheana dal superuomo all’ultimo uomo. Nella letteratura come nella filosofia il superuomo ha trovato una facile spendibilità ed accoglienza in un secolo segnato da un autentico delirio di grandezza imperialistico e genetico.  Ne è conseguito il dibattito sull’identità del superuomo ed il suo successo mediatico è stato rafforzato dal facile accostamento al nazionalsocialismo ed ai fascismi in generale.

Inoltre l’operazione per ‘ritrovare’ il Nietzsche autentico è stata complessa (vedasi traduzione e la ricostruzione filologica di Colli e Montinari); pertanto, nel tentativo di dare autenticità interpretativa al superuomo, notevole ne è stata la fama ed il successo che ne è conseguito. Quest’operazione ha comportato un ridimensionamento di molti e più interessanti aspetti del filosofo.

L’ultimo uomo, come rileva Costanzo Preve, con la sua forza simbolica critica e dirompente verso il sistema ne è una testimonianza.

Si è cercato quindi di focalizzare l’azione di ricerca su questa figura inquietante al fine di coglierne la validità interpretativa rispetto all’attualità. L’ultimo uomo ci proietta nella mediocre quotidianità dell’integralismo capitalistico esprimibile con le parole di Musil («il vuoto dinamismo dei giorni»). Il vuoto produttivo e calcolante è la forma e la sostanza dell’ultimo uomo. La sostanza che per sua natura è pienezza ontologica si alligna nel vuoto del nichilismo disperato e ripetitivo.


Salvatore Antonio Bravo – Una morale per M. Foucault?
Salvatore Bravo – Aldo Capitini e la omnicrazia. L’apertura è sentire la compresenza dell’altro, sentire la propria vita fluire nell’altro, lasciarlo essere, amarlo per quello che è, liberarlo dalla paura del potere, della mercificazione.
Salvatore Bravo – L’abitudine alla mera sopravvivenza diviene abitudine a subire. Ma possiamo scoprire, con il pensiero filosofico, che “oltre”, defatalizzando l’esistente, c’è la buona vita.
Salvatore Bravo – La filosofia è nella domanda di chi ha deciso di guardare il dolore del mondo. Responsabilità della filosofia è il riposizionarsi epistemico per mostrare la realtà della caverna e rimettere in azione la storia.

 

 


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Max Pohlenz (1872-1962) – Mai i Greci avrebbero tollerato l’idea che gli uomini fossero soltanto marionette guidate da un destino cieco. Il Socrate platonico sa che l’unica cosa che importi è dar prova nella vita della propria validità. La sua natura non gli consente una soggezione fatalistica al destino.

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«L’insegnamento essenziale dell’uomo greco è l’impulso ad autodeterminarsi, lo stimolo a forgiare la vita secondo una propria misura. L’avvedersi, quindi, che se la sua volontà può subire interferenze improvvise dall’esterno, rappresenta per lui un’esperienza particolarmente viva e inquietante. Egli parla allora di una “parte” di una moira che gli viene assegnata. […] Certo i Greci possiedono una forte tendenza a universalizzare […]. Dappertutto, nel mondo come nel proprio essere, essi sentono la vita, e vi ravvisano qualcosa di divino, la contemplano in un gran numero di forme plastiche di cui l’uomo è incessantemente circondato» (p. 19).

«Anche di fronte agli dèi, come dinanzi al destino, l’uomo greco avverte la propria deficienza, ma si pone di fronte ad essi in un atteggiamento del tutto diverso da quello dell’ebreo o del cristiano dinanzi al suo Dio trascendente. Certo gli dèi possono distruggerlo, ma sono soltanto “i più forti”, vivono nel suo stesso mondo e provengono dalla medesima sorgente da cui egli proviene. […] Non vi è “prodigio”, ossia rottura delle leggi naturali da parte di una forza superiore, poiché i Greci conoscono il soprasensibile, ma per esprimere il “soprannaturale” la loro lingua non ha termini adeguati. Conoscono sì l’orrore e la reverenza dinanzi al numinoso, ma il brivido e la paura degli spiriti s’incontrano solo negli strati inferiori; così come estranea ai Greci è quella segreta irritazione dei nervi che il moderno uomo “illuminato” avverte quando abbandona la sua fede nelle forme concrete sovrasensibili, per rifugiarsi nel mondo dell’irrazionale e del “demonico”» (pp. 19-20),

«Mai i Greci avrebbero tollerato l’idea che gli uomini fossero soltanto marionette guidate da un destino cieco o da una divinità capricciosa. Seguivano il loro impulso ad autodeterminarsi; non v’era riflessione che potesse infiacchire in loro tale istinto. […] Il Socrate platonico […] sa che l’unica cosa che importi è dar prova nella vita della propria validità» (p. 21).

«La sua natura non gli consente una soggezione fatalistica al destino, l’umile accettazione di una volontà divina, ma esige l’affermazione e la libera determinazione di lui stesso. […] I Greci non erano tali da appagarsi di sensazioni istintive: la loro aspirazione a conseguire chiarezza in tutto quanto riguardava la loro vita, li condusse infine alla filosofia socratica. Ma ancor prima che questa si desse a risolvere i problemi della vita umana avvalendosi del puro intelletto, già s’era sviluppata quella forma artistica che associando mytos e logos affrontava e rappresentava la problematica della esistenza» (p. 22).

«L’anima della tragedia è il logos: interiormente come virtù spirituale che determina l’azione, ed esteriormente, come parola, idonea ad esprimere tutti i sentimenti umani, i più disparati atteggiamenti dell’animo e i pensieri profondi. Non soltanto in se stesso l’uomo greco avverte la presenza del logos. È un’esigenza radicata in lui rintracciarlo anche nel mondo che lo circonda, intende il “senso” delle cose. Ciò vale a svelarci il valore incomparabile e insostituibile del coro nella tragedia greca» (p. 31).

«Non v’è lode, che la tragedia potesse tributare, più alta di quella di possedere una mente nobile. […] Il poeta non parlava al suo ceto, ma al suo popolo. Parlava come cittadino ai cittadini, ma questi cittadini erano abbastanza lungimiranti e magnanimi per interessarsi di chi non era cittadino, e per riconoscere il valore dell’animo umano anche nella donna, nello straniero, nello schiavo. Si allargava così l’orizzonte; lo sguardo spaziava all’universale umano» (p. 42).

 

Max Pohlenz, La tragedia greca, Paideia, 1978.

 


Vedi anche:

 

Max Pohlenz (1872-1962)  – Il cammino del dell’uomo greco è illuminato da tre guide ideali: il vero, il bello, il bene. Il sentimento dell’incondizionata sudditanza gli è affatto sconosciuto. Nel suo intimo possiede la forza di resistere a tutti i rovesci del destino e plasmare la sua vita a proprio modo, nella consapevolezza di essere personalmente responsabile delle proprie azioni

Max Pohlenz (1872-1962) – La Grecia classica ci ha indicato la via verso la libertà interiore, in cui unico criterio direttivo è il vero bene comune. La libertà ha un limite solo, ma inviolabile. Esso è implicito nelle leggi stesse dello spirito, che può volere soltanto il vero e il bene.


Luca Grecchi

Perché non possiamo non dirci Greci
In Appendice: In difesa di Socrate, Platone ed Aristotele

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Luca Grecchi

La filosofia della storia nella Grecia classica

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Luca Grecchi – Quando il più non è meglio. Pochi insegnamenti, ma buoni: avere chiari i fondamenti, ovvero quei contenuti culturali cardinali che faranno dei nostri giovani degli uomini, in grado di avere rispetto e cura di se stessi e del mondo.

Luca Grecchi – A cosa non servono le “riforme” di stampo renziano e qual è la vera riforma da realizzare

Luca Grecchi – Cosa direbbe oggi Aristotele a un elettore (deluso) del PD

Luca Grecchi – Platone e il piacere: la felicità nell’era del consumismo

Luca Grecchi – Un mondo migliore è possibile. Ma per immaginarlo ci vuole filosofia

Luca Grecchi – «L’umanesimo nella cultura medioevale» (IV-XIII secolo) e «L’umanesimo nella cultura rinascimentale» (XIV-XV secolo), Diogene Multimedia.

Luca Grecchi – Il mito del “fare esperienza”: sulla alternanza scuola-lavoro.

Luca Grecchi – In filosofia parlate o scrivete, purché tocchiate l’anima.

Luca Grecchi – L’assoluto di Platone? Sostituito dal mercato e dalle sue leggi.

Luca Grecchi – L’Italia che corre di Renzi, ed il «Motore immobile» di Aristotele

Luca Grecchi – La natura politica della filosofia, tra verità e felicità

Luca Grecchi – Socrate in Tv. Quando il “sapere di non sapere” diventa un alibi per il disimpegno

Luca Grecchi – Scienza, religione (e filosofia) alle scuole elementari.

Luca Grecchi – La virtù è nell’esempio, non nelle parole. Chi ha contenuti filosofici importanti da trasmettere, che potrebbero favorire la realizzazione di buoni progetti comunitari, li rende credibili solo vivendo coerentemente in modo conforme a quei contenuti: ogni scissione tra il “detto” e il “vissuto” pregiudica l’affidabilità della comunicazione e non contribuisce in nulla alla persuasione.


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Salvatore Bravo – La filosofia è nella domanda di chi ha deciso di guardare il dolore del mondo. Responsabilità della filosofia è il riposizionarsi epistemico per mostrare la realtà della caverna e rimettere in azione la storia.

Giorgio Agamben 02
Quel che resta di Auschwitz. L'archivio e il testimone

Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone

 

 

Quel che resta di Auschwitz

Giorgio Agamben, in Quel che resta di Auschwitz, mette in pratica la virtù filosofica dell’eterotopia. Il termine, coniato da M. Foucault per indicare un processo di destrutturazione dei linguaggi consolidati, consente di analizzare secondo una nuova prospettiva il significato dei campi di sterminio. Pone al centro un problema che si tende ad eludere, a non osservare, perché parla di noi, dell’occidente e della sua storia. La Gorgone è ciò che non si può guardare, è il fondo a cui ci trascina la visione dell’impossibile che diventa possibile, dopo Auschwitz l’impossibile diverrà possibilità realizzata. L’impossibile può accadere. La filosofia è nella domanda di chi ha deciso di guardare il dolore del mondo.[1] Che nel “fondo” dell’umano non vi sia altro che una impossibilità di vedere – questa è la Gorgona, la cui visione ha trasformato l’uomo in non-uomo. Ma che proprio questa non umana impossibilità di vedere sia ciò che chiama e interpella l’umano, l’apostrofe da cui l’uomo non può distrarsi – questo, e non altro è la testimonianza. La Gorgona e colui che l’ha vista, il musulmano e colui che testimonia per lui, sono un unico sguardo, una sola impossibilità di vedere.

Il movimento della domanda, l’eterotopia, inquieta ed invita a nuove domande, a nuovi livelli di coscienza a cui non ci si può sottrarre. La domanda che pone Agamben è nell’orizzonte del “nerbo” di Auschwitz; lo sguardo posato sull’impossibile vorremmo respingerlo, ma, come l’Angelus novus di Benjamin, solo se lo sguardo regge la prospettiva della Gorgone la speranza potrà dimorare tra noi. Il nerbo di Auschwitz non ha testimoni, non ci sono le parole di coloro che furono oggetto di un esperimento antropologico. In assenza di una natura umana razionalmente condivisa, il nulla, il nichilismo realizza la sua opera. Uomini senza storia, senza nomi, ridotti a pura vita biologica, sono la testimonianza priva di parole del campo di sterminio. Tra l’umano e l’inumano, vi sono uomini che non appartengono all’umanità, ma non sono cose, sono enti indefiniti ed indefinibili. Sono in una linea nella quale si dipana e compare la violenza del nichilismo. Il musulmano descritto da Levi nei suoi testi, è un uomo ripiegato su se stesso, non ha relazione con se stesso e con gli altri, è solo carne esposta alla violenza della storia. Il campo di sterminio è la realizzazione assoluta della razionalità senza logos. Per cui, sottratto il logos, non resta che un uomo minimo, un sottouomo, riconoscibile nella sua umanità dalla solo forma biologica: il musulmano. Il motivo per cui si decise di chiamarli in tal modo non è chiaro, probabilmente per la posizione che assumevano, somigliante ad un musulmano in preghiera.

Il campo di concentramento svela un’altra verità: l’abitudine allo stato di eccezione. L’intera realtà del campo era stata capace di trasformare l’eccezionale in quotidiano. La linea di confine tra diritto e stato di eccezione si era estinta nella quotidiana tragedia del nichilismo, nella irrisione ad ogni limite[2]. Auschwitz è precisamente il luogo in cui lo stato di eccezione coincide perfettamente con la regola e la situazione estrema diventa il paradigma stesso del quotidiano. Ma è proprio questa paradossale tendenza a ribaltarsi nel suo opposto che rende interessante la situazione-limite. Finché lo stato di eccezione e la situazione normale vengono, come avviene di solito, mantenuti separati nello spazio e nel tempo, allora essi, pur fondandosi segretamente a vicenda, restano opachi. Ma non appena mostrano apertamente la loro connivenza, come oggi avviene sempre più spesso, essi si illuminano l’un l’altro per così dire dall’interno. Ciò implica, tuttavia, che la situazione estrema non può più fungere, come in Bettelheim, da discrimine, ma che la sua lezione è piuttosto quella dell’immanenza assoluta, dell’essere “tutto in tutto”. In questo senso, la filosofia può essere definita come il mondo visto in una situazione estrema che è diventata la regola (il nome di questa situazione estrema è, secondo alcuni filosofi, Dio).

Lo stato di eccezione a cui tanto pericolosamente oggi ci stiamo abituando, assottiglia la differenza tra normale stato di diritto e sospensione degli stessi da parte di un non identificabile potere sovrano. L’economia con i suoi provvedimenti eccezionali continui, metafisica presenza, sottrae, con i diritti sociali, il logos, per restituirci un’umanità da “io minimo” sempre più china sul biologico. Il testo di Agamben si presta ad un’ulteriore eterotopia: i musulmani sono finiti con i campi, o nuove forme si stanno materializzando nell’omologazione delle voglie che sostituiscono i desideri. Generazioni schiacciate sull’utile da sistema rischiano di perdere il loro sentire consapevole che consente la relazione tra il dentro ed il fuori. L’autismo emotivo caratterizza i nuovi musulmani. La nuova caverna del capitalismo assoluto ha i suoi musulmani che non vogliamo vedere per non scoprirci uomini della zona grigia. Responsabilità della filosofia è il riposizionarsi epistemico per mostrare la realtà della caverna e rimettere in azione la storia.

Salvatore Bravo

[1] Giorgio Agamben, Quel che resta di Auschwitz, Bollati Boringhieri, Torino 1998, p. 30.

[2] Ibidem, p. 28

 

 


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Marco Aurelio (121-180) – Com’è breve il tempo dalla nascita alla dissoluzione. Che cosa dunque può accompagnarci nel vivere? Una sola e unica realtà: la filosofia.

Marco Aurelio 02

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«Com’è breve il tempo dalla nascita alla dissoluzione, abisso prima della nascita, come ugualmente infinito dopo la dissoluzione» (IX, 32) .

«Il tempo della vita umana è un punto, la sua sostanza flusso, la sensazione è oscura, l’intero composto fisico facile a corrompersi, l’anima erramento, la sorte realtà indecifrabile, la fama incerta; per dire in breve, tutto quanto attiene al corpo è fiume, quanto riguarda l’anima è sogno e vanagloria, e la vita guerra e viaggio di uno straniero, oblio la fama presso i posteri»(II, 17)

«Che cosa dunque può accompagnarci nel vivere?
Una sola e unica realtà: la filosofia
» (II, 17).

Marco Aurelio, Pensieri.


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Angelo Magliocco – Il dualismo bìos/zoè e lo stato d’eccezione in Giorgio Agamben.

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Angelo Magliocco

Il dualismo bìos/zoè e lo stato d’eccezione in Giorgio Agamben

Il testo di Giorgio Agamben, Homo sacer (Einaudi), sviluppa parallelamente due concetti, a prima vista irrelati, dimostrando successivamente un loro legame basato sulla fungibilità di uno rispetto all’altro.
Il primo è il concetto di eccezione, di cui Agamben analizza le formulazioni sociali, assieme alle radici logico-matematiche delle nozioni di esclusione/inclusione; il secondo quello di nuda vita, di zoè, vita meramente considerata sotto l’aspetto biologico, in contrapposizione alla vita di relazione e di società, bìos.
La superiorità del bìos rispetto alla zoè, nell’accezione antica, risulta chiaramente dalla figura di diritto romano dell’homo sacer, che designa un individuo punito con l’espulsione dal consesso sociale, cui è stata sottratta qualsiasi fisionomia civilis e divina, lasciando un residuo costituito da pura biologia (zoè), puro respiro del corpo. Tale soggetto diventa a quel punto inefficace a palesare in società le sue qualità civiles, come anche a santificare il divinus come soggetto passivo di sacrificio umano, risultando inadatto persino a questo compito. L’unica caratteristica che gli resta è dunque la vivibilità, curiosamente legata a filo doppio al suo contraltare, l’uccidibilità: lo si lasci pur vivere, ma chiunque, se vuole, ne provochi senz’altro la morte. Questi non sarà considerato responsabile di omicidio, in quanto una responsabilità in tal senso deriverebbe dal complesso di legami sociali (bìos), rispetto a cui una pura zoè è su un piano di antecedenza.
Tale esclusione sociale, peraltro, è integralmente contemplata a un livello pregiuridico, e come tale è inclusa nell’ordinarietà del complesso di relazioni sociali. Agamben riflette allora sul fatto che il complesso sociale è, in un certo senso, costitutivamente bipartito, o sarebbe meglio dire bipartizionante, prevedendo già in anticipo al suo interno una linea di demarcazione tra individui che, appartenendovi, sono da considerarsi inclusi in esso e di altri che, sempre e ancora appartenendovi, sono da considerarvi esclusi. Ricorrendo a nozioni di insiemistica e di logica, egli afferma che l’appartenenza logica a un insieme non coincide con l’inclusione: è naturale che tutti gli individui, anche gli esclusi, appartengano al complesso sociale, ma, appunto, da esclusi. Se non appartenessero ex ante al complesso sociale, non ci sarebbe bisogno di definirne i criteri di esclusione, e pertanto non può che affermarsi che l’esclusione abbia una funzione intra-sociale di manovra sul corpo sociale stesso.
Il termine manovra rimanda a un manovratore. È prerogativa del sovrano, se assoluto, o negli Stati democratici del potere che ne incarna la volontarietà pregiuridica (cioè di determinare la validità del diritto stesso) esercitare questa manovra, che si attua concretamente attraverso lo stato d’eccezione. È prerogativa del sovrano stabilire quando e in che modo si eccepisce alle condizioni di normalità sociale del bìos ricadendo nella mera zoè. A parere di Agamben, da un lato è molto semplice rilevare l’applicazione di questo stato di decidibilità, sia ad individuum che ad classem, sotto la reggenza di un sovrano assoluto, dall’altro tale stato permane comunque, ed è anzi più surrettizio in quanto meno palese, anche laddove la struttura sociale abbia espressamente escluso il governo di una sola persona, reimpostando l’intero paradigma sociale attorno al concetto di uguaglianza democratica. Altre forme di governo del sociale, mai dichiaratamente tali, concorrono allora ad attuare lo stato d’eccezione, con modalità rinnovate, ma analoghe a quelle che da tempo immemore la figura latina ha codificato: un esempio odierno può essere la genetica, o peggio l’eugenetica (il governo della pura zoè e della sua normalizzazione), un altro del passato recente il campo di concentramento (in cui una classe di individui è stata codificata come in-civilis).
Agamben afferma che tutti gli Stati, odierni e non, vedono una deriva che va a estendere lo stato d’eccezione, come in una sorta di entropia in costante accrescimento. Pertanto, il rapporto suddito/sovrano, quale che sia la morfologia in cui si esprima (ad es. democratica o non), deve ripartire dalla presa di coscienza di questa sua funzione inerentemente eccepente, inerentemente de-bìo-logizzante, che tende a trasformare la politica in biopolitica, e in ciò il richiamo a Foucault e alle tematiche da questi affrontate appare pieno ed evidente.

Angelo Magliocco

 

 

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Angelo Magiocco,
Il dualismo bìos:zoè e lo stato d’eccezione in Agamben

 


Quarta di copettina

Ogni tentativo di ripensare le nostre categorie politiche deve muovere dalla consapevolezza che della distinzione classica fra zoé e bios, tra vita naturale ed esistenza politica (o tra l'uomo come semplice vivente e l'uomo come soggetto politico), non ne sappiamo piú nulla. Nel diritto romano arcaico homo sacer era un uomo che chiunque poteva uccidere senza commettere omicidio e che non doveva però essere messo a morte nelle forme prescritte dal rito. È la vita uccidibile e insacrificabile dell'«uomo sacro» a fornire qui la chiave per una rilettura critica della nostra tradizione politica. Quando la vita diventa la posta in gioco della politica e questa si trasforma in biopolitica, tutte le categorie fondamentali della nostra riflessione, dai diritti dell'uomo alla democrazia alla cittadinanza, entrano in un processo di svuotamento e di dislocazione il cui risultato sta oggi davanti ai nostri occhi. Seguendo il filo del rapporto costitutivo fra nuda vita e potere sovrano, da Aristotele ad Auschwitz, dall'Habeas corpus alle Dichiarazioni dei diritti, il libro di Agamben cerca di decifrare gli enigmi - prima di tutti il fascismo e il nazismo - che il nostro secolo ha proposto alla ragione storica. Fino a vedere, nel campo di concentramento, il paradigma biopolitico nascosto della modernità in cui città e casa sono diventate indiscernibili e la possibilità di distinguere tra il nostro corpo biologico e il nostro corpo politico ci è stata tolta una volta per tutte.

 

Indice

Introduzione. – Parte prima. Logica della sovranità.Parte seconda. Homo sacer.Parte terza. Il campo come paradigma biopolitico del moderno. – Bibliografia. – Indice dei nomi.

 


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Friedrich Hölderlin (1770-1843) – Che cosa sono i secoli di fronte all’istante in cui due esseri si presagiscono e si accostano? Ancor prima che uno sapesse dell’altra, noi ci appartenevamo

Friedrich Hölderlin 01

«Che tutto cambi radicalmente!
Dalle radici dell'umanità germogli il nuovo mondo!».
 Iperione

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«Che cosa sono i secoli
di fronte all’istante
in cui due esseri si presagiscono e si accostano?».

***

E più oltre, parlando del suo rapporto con Diotima:

«Ancor prima che uno sapesse dell’altra, noi ci appartenevamo».

Friedrich Hölderlin, Iperione o l’eremita in Grecia, Bompiani, 2015.


Friedrich Hölderlin (1770-1843) – L’uomo che pensa deve agire, deve dispiegarsi. Egli può molto, stupenda è la sua parola che strasforma il mondo. Un potente anelito, con radici profonde, lo spinge verso l’alto.
Friedrich Hölderlin (1770-1843)– Dall’intelletto soltanto non può scaturire la filosofia, perché la filosofia è più della conoscenza limitata di ciò che esiste. Dalla ragione soltanto non può scaturire la filosofia, perché la filosofia è più della cieca pretesa di un progresso senza fine. Senza la bellezza dello spirito e del cuore, la ragione è soltanto come un supervisore.
Friedrich Hölderlin (1770-1843) – Quando un popolo ama il bello l’egoismo si scioglie. Se così non è, sempre più aridi e più desolati divengono gli uomini, cresce la sottomissione e con essa l’arroganza, l’opulenza cresce insieme alla fame e all’ansia per il cibo. Così il mondo intorno a noi diviene un deserto e il passato si sfigura in un cattivo auspicio per un futuro senza speranza.
Friedrich Hölderlin (1770-1843) – Dobbiamo uscire dalla pigra rassegnazione, dove non si vuole nulla, non ci sicura di nulla. L’originalità è intensità, profondità del cuore e dello spirito.

Pietro Canonica, L’abisso, 1909, Museo Canonica, Roma

Immagine in evidenza: Pietro Canonica, L’abisso, 1909, Museo Canonica, Roma.


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