Günter Anders (1902-1992) – La metamorfosi dell’«Apprendista stregone». Oggi viviamo in una foresta di manici di scopa che diventa sempre più fitta.

Günter Anders 01

L’apprendista stregone

[...]
Férmati! Férmati!
Poiché noi
dei tuoi doni
la misura abbiamo colma! –
Ahimè, ora è chiara la faccenda.
Ahi, ahi, ho scordato la parola!

La parola che la riduce,
alla fine, com’era una volta.
Ah, lei porta e corre veloce.
Oh, se tu fossi la vecchia scopa!
[...]

Oh tu, mostro dell’inferno,
vuoi affogare tutta la casa?
[...] Scopa scellerata,
non mi dài ascolto!
[...]
Ecco, colpita a dovere!
Guarda, in due è spaccata!
[...]
Oh, che guaio!
I due pezzi
in gran fretta, come servi,
son pronti a ogni cenno
all’impiedi ritti stanno!
Oh, aiuto forze del cielo!

[...]
Signore e maestro , ascolta il mio grido! –
Oh, il maestro arriva!
Signore, il pericolo è grande!
Gli spiriti chiamati per magia,
non riesco a liberarmene.

«In quell’angolo, presto
scope, scope!
Siate quello che foste!
Siete spiriti, per questo
vi evoca al suo scopo il vecchio
maestro, e lui soltanto».

J. W. Goethe, L’Apprendista stregone:
in J. W. Goethe, Tutte le poesie,
vol. I, tomo I, Mondadori, 1989, pp. 273-279.

206_ISBN

Alessio Cernicchiaro

Günther Anders. La Cassandra della filosofia.
Dall’uomo senza mondo al mondo senza uomo.

Prefazione di Giacomo Pezzano: Anders e noi.

indicepresentazioneautoresintesi


1. La metamorfosi dell’Apprendista stregone

Il titolo del tema, su cui mi avevano pregato di parlare, originariamente era: Sulla religione nell’èra della tecnica. Non ero ancora arrivato alla seconda parte del mio testo quando decisi di dargli come sottotitolo La metamorfosi dell’Apprendista stregone. Infine, quando tredici anni dopo ho riesaminato il testo, ho sostituito il titolo principale con quello attuale.
Ora, trattare il tema della «religione nell’èra della tecnica» era cosa che si poteva fare con facilità. Si poteva, cioè, descrivere empiricamente e forse anche statisticamente come se la cavano le religioni mondiali e le comunità religiose minori in questo mondo diventato ipertecnico, oppure come se la cavano malgrado questa ipertecnicizzazione; quale posto occupano ancora in questo mondo, se e come prendono posizione nei confronti del fenomeno «tecnica», se esistono teorie della tecnica religiose o ecclesiastiche e quali, e infine se esse si servono con o senza successo delle realizzazioni della tecnica, come ad esempio la televisione.
Su questi problemi e fatti ci sono migliaia di persone, e specialmente uomini che operano all’interno delle Chiese, che ne sanno più di me. Il mio punto di partenza è un altro. Io non interrogo le Chiese esistenti, non esamino ciò che per esse significa la tecnica: il mio modo di trattare il tema è, nonostante la mia notoria irreligiosità, incomparabilmente più diretto. Ciò che sostengo, infatti, è che le due mutazioni da prendere in esame oggi, e cioè:
1. la mutazione che l’uomo ha subìto in quanto produttore, parte e vittima di questo suo mondo tecnico;
2. la mutazione che il mondo ha subìto attraverso la propria tecnicizzazione;
sono di natura così fondamentale, che i concetti di cui dobbiamo servirci per trattare tali mutazioni possono e forse devono essere chiamati teologici.
Ma prima di arrivare a questo problema di religione, vorrei parlare del nostro rapporto con l’odierno mondo tecnicizzato.

Ciò che Goethe ha trattato nella sua famosa ballata Der Zauberlehrling (L’Apprendista stregone), non avrei neppure bisogno di rammentarlo qui. Un Famulus ha carpito al suo Maestro la formula magica che può trasformare un manico di scopa inanimato in un servo che lavora da solo. Senza preoccuparsi delle conseguenze di ciò che fa – dato ch’è interessato solo al godimento del potere e all’immediata utilizzazione di ciò che ha trasformato, non alla formula della ritrasformazione – il Famulus pronuncia la parola magica e ordina all’utensile, che adesso è a sua disposizione come un robot, di riempire d’acqua una vasca da bagno. E, guarda guarda, l’utensile trasformato obbedisce e si mette da solo al lavoro, anzi obbedisce troppo bene, alla fine obbedisce terribilmente bene: infatti, anche se può eseguire da solo il suo nuovo lavoro, non è abbastanza autonomo per rinunciare alla sua autonomia. In breve: il cammino inverso egli lo conosce altrettanto poco del suo padrone, cioè dell’Apprendista che lo ha messo in moto. Automaticamente, ciecamente, e senza minimamente curarsi degli effetti di ciò che fa, la scopa si precipita verso la fontana per riempire i suoi secchi, poi indietro per versarli, avanti e indietro, senza fine. Se i getti d’acqua si gonfiano fino a diventare una cascata, minacciando di sommergere la casa e la strada, ciò per lui fa lo stesso, di questo non si accorge neppure. A differenza del suo sedicente padrone, l’Apprendista stregone, che ora comincia ad avere un’idea di ciò che ha messo in moto: cioè, di aver evocato uno spirito senza sapere come, anzi se potrà tornare a liberarsene. Ma questo tardivo riconoscimento, e il panico nel quale egli cade, sono ormai inutili, anzi peggio: infatti, quando si butta sul suo servo così terribilmente attivo per fermarIo, ahimè! è troppo tardi; e quando tenta di renderlo innocuo tagliandolo in due metà, ottiene solo l’opposto di ciò che si era proposto: invece di por fine alla calamità, la raddoppia. Infatti subito ogni metà del servo si trasforma in un servo intero e, invece di uno, adesso sono due che si attivano a provocare l’inondazione. Prossimo ad annegare, e ormai completamente disperato, l’Apprendista chiama gridando il maestro. E che questi gli venga in aiuto all’ultimo momento e, pronunciando la formula della ritrasformazione «Sei’s gewesen» («Siate quello che foste»), riesca a fermare sempre all’ultimo momento la catastrofe, questo è un happy ending sul quale l’Apprendista non aveva più osato contare; e sul quale noi oggi – ma con ciò anticipiamo – non dobbiamo contare.
Allora, quando mezzo secolo fa, in terza ginnasiale, imparavamo a memoria Der Zauberlehrling, naturalmente non potevamo prevedere che certi testi sarebbero diventati più veri di quanto non lo fossero il giorno in cui vennero scritti; che la ballata di Goethe era già molto più realistica di quanto non lo fosse allora, e che, pressappoco nel giro di centocinquant’anni, l’intera umanità si era trasformata in un esercito di «apprendisti stregoni» e il mondo stesso in un esercito di «spiriti». Certo, sarebbe un’illusione credere che oggi ce ne rendiamo finalmente conto. Al contrario, oggi noi, apprendisti stregoni, non solo non sappiamo di non sapere la formula magica della ritrasformazione, o che non ce n’è alcuna; ma non sappiamo neppure che siamo apprendisti stregoni. E ciò per il principio dell’odierna «informazione negativa» che – incomparabilmente più ricca dell’informazione positiva – si riforma senza sosta, usando informazioni apparentemente positive e non rivelandoci il fatto che noi siamo tutti apprendisti stregoni e che gli apparecchi manipolati da noi sono tutti «spiriti». Per quanto – e questo è un passo ulteriore – una tale differenza possa ancora avere un senso. Infatti, dato che non siamo noi ad aver ordinato a noi stessi il nostro agire pazzesco, non siamo neppure più «apprendisti» ma già «spiriti». E anche questo – il fatto che apprendisti e spiriti ora coincidono e che manca solo una piccolezza, cioè un «maestro» che possa revocare ciò che sta accadendo –, anche questo, naturalmente, non ci è stato rivelato.

***

2. Irrazionalismo come morale

Ci si scandalizzerà per la mia assunzione della metafora goethiana sugli «spiriti» e mi si rimprovererà di essere ingenuo e di non riconoscere che il tempo dell’«irrazionalismo» è ormai alle nostre spalle e che viviamo nell’èra razionalistica della scienza e della tecnica. Ma di questa metafora si scandalizzeranno solo gli «spiriti» stessi; quelli cioè, del cui essere privo di essere fa parte di essere privati della loro stessa ratio. Di fatto, oggi quello che trionfa è l’irrazionalismo, e ciò proprio a causa della forma del nostro lavoro. Noi non sappiamo nemmeno di non sapere che cosa facciamo quando lavoriamo. Se questo non è irrazionalismo (e non soltanto come teoria filosofica, ma come condizione dell’umanità) allora io proprio non so che cosa significhi questa parola. Tale irrazionalismo chiaramente non è il residuo di un passato prerazionalistico. Piuttosto – cosa che accade per la prima volta nella storia – esso deve la sua esistenza allo stesso razionalismo, cioè alle scienze naturali, alla tecnica e all’organizzazione del lavoro. Dato che a causa di questi fattori noi lavoriamo senza un legame specifico e senza previdenza, e che pensiamo (e vogliamo, dobbiamo e possiamo pensare) sempre solo a ciò che ha a che fare con le esigenze momentanee del compito particolare che ci viene assegnato dalla divisione del lavoro, mentre viceversa non pensiamo mai a quello che sta «al di fuori» – «al di fuori» sia in senso spaziale che nell’ordine temporale –; e dato che non siamo consapevoli di tutto ciò e, come già detto, non sappiamo di non esserne consapevoli, il nostro irrazionalismo ha toccato una «vetta» mai raggiunta da alcun altro precedente.
O davvero ci comportiamo in modo «razionale» se diamo il nostro contributo alla produzione del prodotto A senza riflettere e neppure desiderare di sapere come si potrebbe ulteriormente sviluppare questo prodotto (semplicemente per il fatto che ormai esiste)?
E se non riflettiamo affatto su ciò ch’esso potrebbe fare a noi, o al nostro modo di vita, o ai nostri figli?
E come il mondo intero potrebbe trasformarsi a causa della esistenza di questo prodotto?
E quali altri prodotti potrebbero diventarci indispensabili a causa della sua esistenza?
E che la stessa sopravvivenza dell’umanità potrebbe essere minacciata a causa della sua esistenza?
E che questo rischio estremo magari non verrà affrontato e sarà ignorato perché il sistema dell’economia, e con esso anche quello del potere, potrebbe essere danneggiato dall’interruzione della produzione di questo prodotto?
Io chiedo ancora una volta: forse che ci comportiamo in modo razionale se noi – e per «noi» intendo il 99 per cento degli uomini oggi in attività – adempiamo i nostri «doveri» senza porci questi interrogativi? Ma chi di noi se li pone? Forse gli scienziati? Quelli che forniscono i fondamenti teorici della tecnica e della produzione e che ci tengono molto a sottolineare ch’essi praticano solo «scienza pura», il che significa che, qualsiasi uso o qualsiasi abuso possa essere fatto delle loro scoperte, per l’amor di Dio, non vogliono sporcarsi, e difendono con appassionato interesse questo disinteresse programmatico? Certo, esistono eccezioni. Un paio di migliaia di grandi scienziati si battono con questo problema di coscienza; ma questo paio di migliaia non è rappresentativo del nostro mondo odierno. O forse che gli operai si pongono questo problema? Gli operai che vengono assunti solo per fare particolari gesti manuali, che spesso non vedono neppure il prodotto finito, e non si possono davvero biasimare se non s’interessano affatto agli scopi cui il prodotto è destinato, ai suoi effetti e agli effetti degli effetti; e tanto meno possono essere rimproverati per questa indolenza, in quanto essi sanno che, se rifiutassero la loro collaborazione, ce ne sarebbero sempre altri pronti a sostituirli e a lasciarsi pagare, al loro posto, per il loro lavoro e per il loro disinteresse?
No, se noi viviamo in un mondo di totale irrazionalità, dunque, come apprendisti stregoni; se imprudenti e senza previsione conferiamo ai nostri «manici di scopa» le più avventurose funzioni da «spiriti»; se non ci rendiamo chiaramente conto che questi «spiriti», una volta evocati, non avranno mai più riguardi per noi; allora no, nonostante che viviamo in un sistema di estrema divisione e di estrema razionalizzazione del lavoro, o invece proprio per questo, perché viviamo in un sistema razionale come questo.
L’irrazionalismo, insomma, è oggi incomparabilmente peggiore di qualunque altro precedente. Mentre all’inizio del secolo si era trattato solo di una teoria alla moda, rappresentata da alcuni esaltati e incolti pseudofilosofi come Klages, della tesi che con l’aiuto della ragione noi non potremmo mai penetrare nel «nocciolo dell’essere» (cosa che peraltro i pensatori seri non hanno mai sostenuto), oggi si tratta del principio di tutti i contemporanei, perlomeno di tutti quelli (ma chi non ne fa parte?) che hanno a che fare in qualche modo con la produzione; e questi sono i padroni dei grandi trusts industriali non meno che i fisici, e questi ultimi non meno di tutti gli operai del mondo. Ciò che questo nuovo irrazionalismo asserisce (ammesso che ciò ch’esso rappresenta possa essere chiamato «asserzione»), non è la nostra incapacità di venire a capo di questo o di quello col pensiero, dunque non l’insufficienza della nostra ragione, ma piuttosto l’inopportunità del pensare. Esso consiste dunque nel postulato: «Tu non devi fare alcun uso della tua ragione»; o meglio: «Tu non devi pensare alle conseguenze del tuo fare, anche se queste sono accessibili al tuo pensiero anzi proprio se e perché esse sono accessibili alla tua ragione!». L’irrazionalismo di oggi non è più insomma una dottrina teorica (contro la teoria). Esso è piuttosto un divieto che (non importa se a Est o a Ovest) viene metodicamente prodotto e instillato dentro di noi. Non è che noi non possiamo sapere questo o quello, annuncia l’odierno irrazionalismo, piuttosto non dobbiamo saperlo. Irrazionalismo come morale.

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3. L ‘Apprendista stregone invidiabile

Parliamoci chiaro. Ciò che Goethe ha messo in poesia come un qualcosa che provoca terrore, come un evento di eccezione, degno di una ballata avventurosa, questo qualcosa a noi capita ininterrottamente, a noi accade senza tregua, per quanto si possa ancora parlare di «accadere». Parlare di «accadere», infatti, ha senso solo se ciò che accade si stacca come un fatto eccezionale dallo sfondo di una innocua e regolare quotidianità. Ma, oggigiorno, non è questo il caso. Ciò che rende il nostro tempo avventuroso è, al contrario, il fatto che lo straordinario, invece di dare nell’occhio, è proprio la regola; che i «manici di scopa» divenuti autonomi, cioè gli apparati (sia in senso amministrativo che in senso fisico-tecnico), come le centrali elettriche, i missili atomici, gli apparecchi spaziali e i grandi impianti industriali necessari per la loro produzione, formano tutti insieme il nostro mondo quotidiano. Milioni di persone vivono del fatto che la produzione di questi apparecchi è divenuta autonoma; l’economia d’interi continenti crollerebbe se la loro fabbricazione improvvisamente venisse a cessare: tutte queste cose oggi non sono eccezioni né sensazioni che si possano cantare a mo’ di ballata, come l’avvenimento sensazionale cantato da Goethe.
E allo stesso modo fa parte delle regole della quotidianità che non pensiamo neppure a ribellarci contro ciò che i nostri «spiriti» fanno e pretendono da noi. Al contrario vediamo nell’autonoma, ovvero automatica efficacia di ciò che abbiamo prodotto – che agli occhi di Goethe era parso ancora qualcosa di terrorizzante – qualcosa di normale, anzi, persino qualcosa che ci rallegra: cioè la garanzia che anche la nostra esistenza personale continuerà a funzionare in modo piano, e che il peso della responsabilità personale (che sentiamo già come qualcosa di antiquato, come una moda di avantieri) ci verrà tolto una volta per sempre.
Oltre a ciò, infine, c’è il fatto che i nostri «spiriti» hanno la mania di diffondersi e di moltiplicarsi; che essi, cioè, non solo restano indipendenti da noi, così come già erano subito dopo la loro «nascita», ma diventano sempre più indipendenti; e al contrario rendono noi, per l’accumularsi del loro potere e della loro indipendenza, sempre più dipendenti. Goethe, allorché continuò a far lavorare un robot tagliato in due metà come un doppio robot, aveva già in vista una tale accumulazione. Noi sappiamo, oggi, che gli apparati sono sempre spinti dalla tendenza a collegarsi gli uni con gli altri e unificarsi in «rete» (come si dice in elettrotecnica). E ciò vale anche per ciò che riguarda le reti, dato che anch’esse s’intrecciano di nuovo in reti di odine superiore, senza riguardo per ciò che in tal modo potrebbero provocarci. In breve: mentre in Goethe entra in scena un unico e solitario manico di scopa, divenuto autonomo in modo straordinario (e poi una coppia di manici di scopa), oggi viviamo in una foresta di manici di scopa che diventa sempre più fitta. E visto che non esiste alcuna possibilità di tagliare questo bosco o di scappare da esso, questo è il nostro mondo.
Tempi felici erano dunque quelli in cui, come Goethe, si poteva rappresentare un robot come un orripilante caso a sé e non come il quotidiano modus operandi del mondo; e nei quali ancora si aveva la possibilità di trattare un tale evento in forma di poesia, il che oggi (nel senso del detto di Adorno sulla poesia dopo Auschwitz) sarebbe già problematico, forse persino disdicevole. Tempi felici, nei quali ci si poteva permettere, senza rischiare di essere scherniti come ingenui e non realistici, di creare la figura di un maestro, cioè di un uomo che padroneggiava l’antidoto e al quale bastava aprire le labbra per rendere ancora possibile lo happy ending. Tempi felici davvero! Paragonato a noi, uomini d’oggi, persino l’Apprendista stregone, nonostante la situazione calamitosa in cui si era messo da sé, e nonostante l’acuta disperazione con la quale grida aiuto, è ancora una figura invidiabile. Ma che cosa significa qui «nonostante»? Infatti, al contrario, egli è invidiabile proprio perché, a differenza degli uomini d’oggi, percepisce con i propri occhi il pericolo da lui stesso evocato; perché ancora capisce che esiste un motivo di disperazione; e perché, per tale motivo, fa ancora il tentativo di fermare ciò che ha provocato o che è sul punto di provocare. Confrontata con la nostra situazione attuale, quella dell’Apprendista stregone di Goethe era una semplice calamità; un episodio eccitante.

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4. Teologia della situazione atomica

E ora voi chiederete: «Che cosa ha a che fare tutto questo con la religione?». La risposta che do a questa domanda sarà, come ho già annunciato all’inizio, di tipo diverso da quello che voi probabilmente vi aspettate. Anche se forse sarebbe importante chiarire l’atteggiamento che le religioni esistenti prendono nei confronti del nostro status di «apprendisti stregoni» e della trasformazione del nostro mondo in un mondo di robot, è incomparabilmente più importante, mi sembra, dire chiaramente che la situazione nella quale siamo andati a finire è di per sé un «fatto religioso». Naturalmente in bocca a un uomo notoriamente antireligioso, ciò suona alquanto sorprendente. Ciò che intendo è che la trasformazione di cui si tratta qui è talmente fondamentale che non basterebbero a caratterizzarla categorie diverse da quelle teologiche o perlomeno prese a prestito dalla teologia. Che cosa intendo, in particolare?
In primo luogo che, con l’aiuto degli apparecchi creati da noi stessi (e non solo quelli atomici), ci siamo fatti uguali agli dei, addirittura uguali a Dio. Per la verità, «uguali a Dio» soltanto in senso negativo; dato che, naturalmente, non si può parlare di una creatio ex nihilo; ma si può affermare che siamo capaci di una totale reductio ad nihil, che siamo diventati – come distruttori – davvero onnipotenti. E per «onnipotenza» intendiamo che noi (o meglio: i nostri «manici di scopa», gli apparecchi evocati) possiamo distruggere l’intera umanità, l’intero mondo degli uomini; che possiamo annichilire il nostro intero «essere stati» da Adamo in poi, il nostro passato; e che siamo capaci di superare perfino il terribile «futuro anteriore» di Salomone («noi saremo stati») con il futuro privo di futuro «noi non saremo stati». Di fatto, tutto quello che da un secolo a questa parte si è fatto passare per presunto «nichilismo», se confrontato con questa possibilità di «annichilimento», altro non è che ciancia culturale. Nietzsche e anche il serissimo Heidegger, sullo sfondo di questa possibilità, ci appaiono tutt’altro che seri. Non importa quello che crediamo o non crediamo, se crediamo a qualcosa o non crediamo a niente; sia il nostro status nel mondo che quello che il mondo stesso ha assunto per questo fatto della tecnica sono così fondamentalmente mutati che concetti diversi da quelli religiosi non sono più sufficienti per definirli.
A questa nostra onnipotenza, di tipo assolutamente nuovo, corrisponde in secondo luogo una impotenza, anch’essa di tipo assolutamente nuovo.
«Che cosa significa? – sento obiettare. – Impotenti siamo comunque e sempre stati in quanto mortali». Certo. Ma questo accenno alla nostra buona, vecchia e provata impotenza e mortalità viene, generalmente, proprio da coloro ai quali sembra opportuno nascondere la mostruosità della nostra situazione. La risposta a questa obiezione è: non tutte le impotenze sono uguali l’una all’altra; non tutte le mortalità hanno la stessa qualità e la stessa dignità. Non è mai la stessa e unica cosa se siamo impotenti, ovvero mortali, in quanto creature di un Dio, ovvero della natura; o se lo siamo per il nostro stesso agire. Con ciò intendo che oggi noi non siamo in primo luogo esseri «mortali» ma «uccidibili». Gli eventi di Auschwitz e di Hiroshima possono anche essere rimossi dalla memoria (ammesso che vi siano mai penetrati), e questo di fatto è accaduto. Ma, al contrario, non può essere rimossa la loro ripetibilità. Da questi due eventi in poi – cioè da oltre vent’anni – la cosiddetta «morte naturale» è diventata una specie di obsoleto favore speciale, mentre la possibilità dell’autoannientamento violento dell’umanità è sempre viva. Da allora, noi siamo ininterrottamente definiti da questa incombente possibilità. Definiti nel più terribile dei modi. Dato che «la possibilità del nostro annientamento definitivo è, anche se non dovesse mai avvenire, la definitiva distruzione delle nostre possibilità». Gli ultimi messaggeri di un morire degno sono stati quei prigionieri dei campi di concentramento che, per non essere sterminati definitivamente con il gas, prevenivano il gas con il suicidio.
In terzo luogo, fa parte del nuovo carattere «religioso» (o infernale) della nostra situazione attuale che, nel caso in cui venissimo uccisi, a differenza dei nostri antenati quasi mai lo saremmo direttamente da nostri simili, quasi mai cadremmo vittime di «colpevoli» (persino questa parola è già un onore immeritato) che intendessero il loro uccidere proprio come un uccidere (anzi, lo riconoscessero anche solo in actu; anzi, ci avessero veramente presi di mira; anzi, avessero anche solo saputo della nostra esistenza). «Muoio, ma mi consola il morire ucciso da mani umane» (Virgilio, Eneide, III, 604). Neanche questa consolazione minima ci è concessa. Infatti moriamo per colpa di azioni che i colpevoli effettuano in un qualche luogo, migliaia di chilometri lontano da noi, come doveroso lavoro; o addirittura per mezzo di apparecchi privi di occhi e di cervello, che già da tempo si sono emancipati dalle mani e dalle intenzioni dei loro produttori e inservienti e che ormai si sono assunti in modo del tutto autonomo l’operazione del liquidare. La presunta emancipazione dell’uomo (ammesso ch’essa sia mai avvenuta per davvero in qualche luogo) è ormai seguita dalla incontestabile emancipazione degli oggetti: dei «manici di scopa». Cadere vittime dei quali non è tragico – e non lo dico davvero per cinismo – bensì qualcosa di molto più tremendo: è stupido. Tragica è al più questa mancanza di tragicità, dunque la stupidità della morte che ci minaccia. E anche questa «stupidità» io la definirei un fatto «religioso»: dato che la totale irrilevanza della nostra esistenza, denunciata da questa parola, difficilmente possiamo concepirla in altro modo che come negazione estrema del nostro essere «a immagine e somiglianza».
In quarto luogo, infine, fa parte della nostra nuova, «religiosa», o infernale – ma anche l’infernale è un concetto teologico – conditio humana, il fatto che ora noi non siamo più mortali o uccidibili come persone singole, ma che possiamo perire tutti insieme; naturalmente solo «insieme», non «come comunità». Di fatto, da quando c’è questa grande offerta di armi nucleari, esiste ininterrottamente la possibilità (o meglio, la probabilità) che noi tutti verremo distrutti appunto di nostra stessa mano (anche se ancor sempre indirettamente). E con «noi tutti» non intendo solo noi viventi oggi, ma anche i nostri avi, giacché costoro, non ricordati più da alcuno, troverebbero una seconda e definitiva morte. E infine, anche i nostri figli non ancora nati e i figli dei figli, che sarebbero già passati – o passeranno – per la loro morte ancor prima di vivere.
Mezzo secolo fa Rilke ha pregato, in modo solennemente lacrimevole, per il dono «della propria morte»; e Heidegger, anche se in modo non supplichevole ma arrogante, ha condiviso tale desiderio. Questo appartiene già a un’epoca passata. Se oggi noi dobbiamo pregare per qualcosa, è davvero per qualcos’altro che non la nostra propria morte: e cioè per il fatto che non subiamo la morte comune a causa del nostro proprio fare. Del resto anche allora, ai tempi di Rilke, in un mondo nel quale solo a una minoranza in via di estinzione era concesso un diritto sulla propria vita, pregare per la grazia della propria morte non era cosa di buon gusto. A parte il fatto che niente può essere così poco «proprio» come il morire del singolo, che lo deruba della sua singolarità.

Non è possibile contestare che queste riflessioni, nonostante che in esse non figuri alcun dio, possano essere chiamate soltanto «teologiche». In che altro modo avrei potuto classificare l’Enorme? E con ciò arrivo a parlare del tema che mi venne proposto originariamente: La religione nell’èra della tecnica. Il fatto che io ammetta un tale tema pur essendo notoriamente areligioso, non significa che gli ecclesiastici, i teologi o semplicemente gli homines religiosi debbano sentirsi confermati da questa mia ammissione. Infatti, ciò che qui viene ammesso come religiosum non è nulla di positivo, bensì solo la terribilità che trascende ogni dimensione umana del fare umano. In tale contesto può trovare posto l’affermazione fatta da Scheler, di credere nell’esistenza del diavolo (a differenza dei cristiani liberali della sua generazione, che credevano sì all’esistenza di Dio ma non a quella del diavolo). D’altra parte, la terribilità che io ammetto qui non è neppure identica al negativo religioso classico, cioè al peccato originale. E tanto meno, in quanto l’atrocità della situazione odierna non è, comunque, colpa nostra. Non siamo neanche più colpevoli, e non dobbiamo neanche diventare più colpevoli. Tutto questo è piuttosto l’effetto della nostra storia umana, che passa sopra le nostre teste.

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5. Ciò che è veramente serio

Naturalmente, questa situazione «religiosa» in quattro sensi non si è mai verificata prima d’oggi. Il nostro tempo finale [Endzeit] si differenzia sostanzialmente da quello del cristianesimo, per il quale il giorno ultimo, benché causato dalle colpe dell’uomo, non si riteneva tuttavia prodotto da lui. A questo bisogna aggiungere – e ciò naturalmente deve suonare sacrilego – che il discorso sulla fine del mondo così come veniva fatto allora, di fronte alla minaccia reale appare ormai solo metaforico. E questo tanto più che il cristianesimo primitivo, con la sua attesa dell’«ultimo giorno», ha fatto una gran brutta figura nei confronti della realtà (chiedo di nuovo scusa, ma le cose di cui si tratta sono troppo serie perché un tabù ci possa spaventare). L’universo non ha assolutamente preso in considerazione la minaccia che gli era stata annunciata e riannunciata, la storia del mondo è andata avanti fino ad oggi. Fino ad oggi il cristianesimo non si è ancora totalmente ripreso dallo stupore che la fine del mondo, ovvero la parusia da esso attesa tremando, non si sia avverata, che non abbia voluto avverarsi neppure nell’anno mille. E sempre di nuovo, per risparmiare a questa irrinunciabile attesa della fine l’ostilità, quasi che si fosse semplicemente trattato di una prognosi sbagliata, si è sforzato in proposito di dare ai concetti di «fine», «regno», «giudizio» un significato simbolico (presunto originario) e di salvare la loro validità simbolica.
Ora, l’odierno tempo della fine è di tipo «più massiccio». Non ha bisogno di alcuna simbolizzazione. Per la sua possibilità (che poi significa, trattandosi di tecnica, ineluttabilità) esistono esempi storici: i fatti di Hiroshima e Nagasaki e le constatazioni, da nessuno tenute segrete, sulla capacità di overkill delle armi oggi esistenti negli arsenali. Nella nostra situazione, il fatto che la fine non sia ancora avvenuta non è una confutazione della realtà del pericolo, non una controprova del fatto che il nostro tempo è un tempo finale, ovvero il tempo finale.
In altre parole: l’odierno pericolo di apocalisse è, nonostante ch’esso non si presenti quasi mai con le vesti solenni di un linguaggio religioso, incomparabilmente più serio di quanto non siano mai stati i precedenti pericoli di apocalisse. Più serio proprio perché i mezzi della sua produzione sono pronti già da due decenni e si accrescono ancora quotidianamente (per quanto possa ancora avere un senso parlare di «accrescimento»).
Naturalmente, con queste due asserzioni – che il pericolo odierno è più serio di qualsiasi altro precedente e che la decisione tra essere o non-essere del mondo e del nostro futuro sta ora tutta nelle nostre mani d’uomini – non è detto che l’umanità, tutta l’umanità, desideri o progetti questa fine; e neanche che esistano singoli individui o gruppi «cosmo-erostratici», anche se certo questi potrebbero apparire ad ogni momento: la tentazione di commettere per gioco un tale «crimine» (ma la parola non è sufficiente) potrebbe certo diventare irresistibile per la noia e per la voglia di aggressione e di distruzione oggi dominanti. Ciò nondimeno, a me sembra che il pericolo, se venisse solo da individui o gruppi luciferini, non sarebbe affatto così grande come quello che oggi esiste effettivamente. E non perché questi colpevoli (il che è dubbio) saprebbero ancora ciò che farebbero se (il che pure è dubbio) fossero ancora soggetti agenti e non soltanto esseri che si fanno trascinare ciecamente dal proliferare automatico dei loro apparecchi. Se anche questo fosse il caso, potrebbe consolarci assai poco. Tuttavia sarebbe forse ancora possibile identificare e arrestare singole persone o singoli gruppi, mentre la realtà della megatecnica, che sta alla base del pericolo attuale, non è identificabile e non può essere né combattuta né arrestata.
Bei tempi erano quelli, quando il male si manifestava ancora nel malvagio o nel maligno e quando si poteva sperare di poter combattere il male lottando contro il male. Anche da questo, dal fatto che una tale cosa non possiamo più sperarla, è definito – e qui si chiude il cerchio – il nostro nuovo «stato religioso». Oggi noi non minacciamo la sopravvivenza del mondo perché saremmo divenuti peccatori per natura o per una «caduta»; ma
– perché siamo apprendisti stregoni, cioè perché, anche con la coscienza migliore, non sappiamo che cosa facciamo quando produciamo i nostri prodotti;
perché non ci è chiaro che cosa vogliono questi prodotti quando sono scivolati fuori dalle nostre mani;
– perché non immaginiamo che questi prodotti, appena hanno cominciato a funzionare (e lo fanno già con la loro semplice esistenza), vogliono continuare a funzionare, anzi devono continuare a funzionare, e si raggruppano automaticamente per raggiungere un massimo di potere anche sopra di noi che siamo i loro produttori; e che, come ogni altro prodotto, come ogni altra merce, sono avidi di essere usati e consumati per non bloccare la produzione di nuovi prodotti; in breve, che si metteranno presto in azione da se stessi, non importa se l’uno o l’altro di noi desidera espressamente questa azione o la propaganda come fine politico.
Essere apprendisti stregoni significa:
– non sapere quello che si fa;
– non sapere che produrre significa agire;
– e non immaginarsi o non temere, o non sapersi pentire in un secondo tempo, per ciò che si potrebbe provocare tramite ciò che si produce o si è prodotto.

Con queste formule – anch’esse definiscono il nostro status religioso – è segnata una frattura all’interno della nostra esistenza (e solo quella odierna), un dislivello che supera di gran lunga, anzi ci fa apparire poco serio, quello tra carne e spirito, o tra dovere e piacere, o qualsiasi altra differenza che in precedenza si potesse ritenere decisiva. Che cos’è la nostra «capacità» di rubare, o di commettere adulterio, o di bestemmiare Dio, o di assassinare in confronto alla nostra «capacità» di commettere genocidio, anzi peggio – questo termine dev’essere introdotto – di commettere «globocidio»? O che cos’è la nostra incapacità di combattere quelle tentazioni in confronto alla nostra incapacità di opporre resistenza a questa tentazione, anzi a questa coercizione (è probabile infatti che la tentazione solo assai raramente giochi un ruolo importante)?
Il diavolo si è trasferito in una nuova dimora. E anche se siamo incapaci di cacciarlo fuori durante la notte, affumicandolo – ammesso poi che vogliamo farlo – perlomeno dobbiamo sapere dove si nasconde, dove possiamo scovarlo. Per evitare di dargli la caccia in un angolo nel quale da gran tempo egli non sta più accovacciato e con ciò di essere presi in giro dalla stanza accanto.

Günter Anders, L’uomo è antiquato. La terza rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, 1992, pp. 369-382.

 


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Alberto Giovanni Biuso – Recensione al libro di Roberto Marchesini «Alterità. L’identità come relazione»

Roberto Marchesini

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La solitudine dell’Homo sapiens è un male che a partire dal Rinascimento la cultura europea difende come se fosse invece una condizione di pienezza, un privilegio, una differenza che diventa superiorità etologica. Nel suo Alterità. L’identità come relazione (STEM Mucchi Editore, Modena 2016, pagg. 189, € 16) Roberto Marchesini sostiene invece che sarebbe tutto «più semplice se finalmente accettassimo di non essere soli, di non essere universi a parte, viaggiatori nella solitudine della notte» (p. 55) ma di rappresentare uno dei tanti frutti delle relazioni e dell’intero di cui siamo parte.

Non siamo compartimenti stagni ma soglie di coniugazione. Non siamo strutture permanenti ma entità che emergono dal flusso temporale. Non siamo dispositivi autarchici ma scambi di alterità con tutto ciò che delimita i nostri corpi e che però li forma, li plasma, li nutre, li guida nell’ambiente, li significa nei simboli, li rende vivi, splendidi, mortali. Non siamo freddezze che osservano il mondo, siamo invece bisogni che lo desiderano. Siamo cura verso noi stessi e verso gli altri, siamo reciproche coniugazioni di necessità e di doni. Siamo -in una parola- Mitsein, essere-con.

Soltanto un’«ontologia relazionale» può cercare di descrivere e comprendere la natura umana dentro la natura tutta intera, l’animalità umana dentro l’animalità. Un’ontologia post-cartesiana e post-umanistica che riconosca nell’eterospecifico, nell’animale, una delle condizioni di ogni specie, compresa la nostra; un’ontologia consapevole del fatto che la differenza è la condizione di ogni identità.

Se «la visione antropocentrica, ostinatamente cieca sui processi relazionali, rappresenta oggi il più grave rischio per l’essere umano, condannato al ruolo di ‘buco nero’ del pianeta» (p. 78), se la pretesa di essere il centro del mondo sta mettendo a rischio l’intero ecosistema, se l’illusione di costituire la sintesi del cosmo e i padroni di noi stessi si sbriciola nella dipendenza ormai reale ed evidente dagli algoritmi e dalle macchine con le quali comunichiamo, ciò significa che è arrivato il momento nel quale l’emancipazione dall’animalità transiti verso l’emancipazione dell’animalità e nell’animalità, poiché è nell’animalità che riconosciamo con chiarezza il nostro essere-con.

L’animalità che siamo -calda, costitutiva, antica- ci salvaguarda dall’illusione di costruirci da soli, dal sogno autarchico pronto a trasformarsi nell’incubo della servitù verso le nostre macchine e i nostri desideri. Riconoscerci come gli animali che siamo significa accettare la carnalità dei nostri bisogni, senza la pretesa di dominarli con uno sguardo soltanto razionale. Significa convivere con i nostri dispositivi nella consapevolezza della loro autonomia dal nostro controllo. L’ontologia relazionale diventa così forma ed espressione dello sguardo filosofico, da sempre sapiente del limite.

 

Alberto Giovanni Biuso

www.biuso.eu

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[Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto del 14 marzo 2017]


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Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) – Il quieto accontentarsi del reale si trasformi nel coraggio per qualche cosa di diverso.

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«Il quieto accontentarsi del reale [das Wirkliche], la mancanza di speranze, il paziente rimettersi ad un destino troppo grande e onnipotente, si è trasformato in speranza, in attesa, nel coraggio per qualche cosa di diverso. Nelle anime degli uomini è entrata con vivacità l’immagine di epoche migliori e più giuste; una brama, un anelito verso condizioni più pure e più libere ha scosso tutti gli animi e li ha posti in discordia con la realtà. L’impulso a sfondare le barriere meschine ha collocato le sue speranze in ogni avvenimento […]. Universale e profondo è il sentimento che l’edificio dello Stato, così come ancora sussiste, non può più reggersi […]. Come sono ciechi coloro i quali si lasciano indurre a credere che istituzioni, ordinamenti politici, leggi che non corrispondono più ai costumi, ai bisogni, alle opinioni degli uomini, dai quali lo spirito è fuggito, possano continuare a sussistere, e che forme le quali lasciano indifferente la parte intellettuale e quella sensibile dell’uomo siano tanto forti da costituire ancora il vincolo che tiene unito un popolo!».

 Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Sulle più recenti vicende interne del Württemberg e in particolare sui vizi dell’ordinamento municipale ¡1798], in Id., Scritti politici, a cura di C. Cesa, Torino, 1972.

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Luce Irigaray – L’«a» è garante di due intenzionalità: la mia e la tua. In te amo ciò che può corrispondere alla mia intenzionalità e alla tua. Non basta guardare insieme nella stessa direzione, occorre farlo in un modo che non abolisca le differenze ma le renda alleate.

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Amo a te

Amo a te

 

Risvolto di copertina

Questo libro parla d'amore, amore delle donne per gli uomini e degli uomini per le donne, un amore che le donne di oggi sono invitate a rienventare: non più rivendicazioni di uguaglianza e non più separatezza, dunque, ma l'apertura a un rapporto che elimini ogni sfumatura di possesso. Non più "io ti amo", "io amo te", ma "amo a te", dove la "a" indica il riconoscimento di una differenza, di una irriducibilità e anche l'esitazione piena di rispetto di fronte al mistero dell'altro, un silenzio, una rinuncia a ogni forma di appropriazione: è il modello di una nuova forma di rapporto fra i sessi e di un nuovo modo di amare.

 

Amo a te significa «osservo nei tuoi confronti un rapporto di in-direzione». Non ti sottometto, né ti consumo. Ti rispetto (come irriducibile). Ti saluto: saluto in te. Ti lodo: lodo in te. Ti ringrazio: rendo grazie a te per … Ti benedico per. Ti parlo, non soltanto di una certa cosa, ma ti parlo a te. Ti dico, non tanto questo o quest’altro, ma ti dico a te.

L’a è il garante della in-direzione. L’a impedisce il rapporto di transitività, in cui l’altro perderebbe la sua irriducibilità, e la reciprocità non sarebbe possibile. L’a mantiene l’intransitività tra le persone, l’interpellanza, la parola o il dono interpersonali: parlo a te, domando a te, do a te (e non: ti do te a un altro).

L’a è il segno della non-immediatezza, della mediazione tra di noi. Quindi, non «ti ordino o ti comando di fare tale o talaltra cosa», il che potrebbe equivalere a «ti ordino a tali cose, ti sottometto a tali verità, a tale ordine», che possono corrispondere a un lavoro, ma anche a un godimento, umano o divino. E neppure «ti seduco a me», in cui il «tu» diventa «a me» e l’«amo a te» diventa «amo a me». E neppure «ti sposo», nel senso di «faccio di te mio marito o mia moglie» ossia «ti prendo, ti faccio mio (a)». Ma «desidero essere attenta(o) a te nel presente e nel futuro, ti chiedo di restare con te, sono fedele a te».

L’a è il luogo di non-riduzione a oggetto della persona. Ti amo, ti desidero, ti prendo, ti seduco, ti ordino, ti istruisco ecc. rischiano sempre di annientare l’alterità dell’ altro, facendolo(a) divenire un mio bene, un mio oggetto, riducendolo(a) al o nel mio, cioè a qualcosa che già fa parte del mio campo di proprietà esistenziali o materiali. L’a è anche una barriera contro l’alienazione della libertà dell’altro nella mia soggettività, nel mio mondo, nella mia parola …

Amo a te significa quindi «non ti prendo né come oggetto diretto, né come oggetto indiretto girando attorno a te». […] L’a è garante di due intenzionalità: la mia e la tua. In te amo ciò che può corrispondere alla mia intenzionalità e alla tua.

[…] Il problema del noi è il problema di un incontro che avviene secondo una sorte in qualche modo giusta (un kairos?), o, in parte, il problema di un caso di cui ci sfugge la necessità, ma è anche o soprattutto il problema della costituzione di una temporalità: insieme, con, tra. L’impegno sacramentale o giuridico, l’obbligo di riprodurre hanno troppo spesso tentato di risolvere questo problema: come costruire tra di noi una temporalità? come unire nel tempo due intenzionalità? due soggetti?

Infatti fare di te il mio bene, il mio possesso, il mio, non realizza l’alleanza tra noi. Questo gesto sacrifica una soggettività all’altra. L’a diventa un possessivo, l’indizio di un possesso, non di una proprietà esistenziale, a meno di dire che l’uomo è un possessore che trasforma in leggi i propri istinti. In questo caso, l’a del possesso non è più bilaterale. Tu appartieni a me, spesso senza reciprocità. Divenendo mio(a), tu perdi la libertà della reciprocità, oltre al fatto che il possessore è poco disponibile ad appartenere a qualcuno. L’attivo e il passivo si ripartiscono tra chi possiede e chi è posseduta(o), per esempio l’amante e l’amata. Non ci sono più due soggetti in relazione amorosa. L’a cerca di evitare di ricadere nell’orizzonte di riduzione di un soggetto all’oggetto, al bene proprio […]. Se sono attenta(o) alla tua intenzionalità, alla tua fedeltà a te stesso(a) e al suo/tuo divenire, mi è permesso immaginare se una durata può esistere fra di noi, se le nostre intenzionalità possono accordarsi.

Queste intenzionalità non possono ridursi a una. Non basta guardare insieme nella stessa direzione, secondo le parole di Saint-Exupéry, oppure occorre farlo in un modo che non abolisca le differenze ma le renda alleate. […] Tali alleanze possono dare a ciascuno(a) un sostegno nella realizzazione della sua intenzionalità.

Così: tu non mi conosci, ma sai qualcosa del mio apparire. Puoi ugualmente percepire le direzioni e le dimensioni della mia intenzionalità. Non puoi sapere chi sono, ma puoi aiutarmi a essere scorgendo quello che mi sfugge di me, la fedeltà o le infedeltà a me stessa(o). Puoi così aiutarmi a uscire dall’inerzia, dalla tautologia, dalla ripetizione, o anche dall’erranza, dall’errore. Puoi aiutarmi a divenire pur restando me stessa(o).

Questa alleanza, dunque, non ha nulla del matrimonio contrattuale che mi strappa a una famiglia per incatenarmi a un’altra; nulla che mi sottometta come discepolo(a) a un maestro(a), nulla che mi prenda la mia verginità, che blocchi il mio divenire in una sottomissione all’altro (garantita da un Altro o da uno Stato), nulla che costringa la mia natura alla riproduzione. Si tratta piuttosto di una nuova tappa della mia esistenza, quella che mi permette di realizzare il mio genere in un’identità specifica, legata alla mia storia e a un’epoca della Storia […].

 

Luce Irigaray, Amo a te, Bollati Boringhieri, 1993, pp. 114-117.

 

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Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) – La filosofia non è sonnambulismo, ma piuttosto la più vigile coscienza. Attingere il proprio fine e la propria missione non dal consacrato corso delle cose esistenti.

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Attingere il proprio fine e la propria missione non dal sistema tranquillo e ordinato, dal consacrato corso delle cose esistenti

«[Occorre attingere] il proprio fine e la propria missione non dal sistema tranquillo e ordinato, dal consacrato corso delle cose esistenti; è un’altra sorgente quella a cui attingere. È lo spirito nascosto, che batte alle porte del presente, che è tuttora sotterraneo, che non è ancora progredito a esistenza attuale ma che vuole prorompervi; lo spirito per cui il mondo presente non è che un guscio, il quale contiene in sé un nocciolo diverso da quello che converrebbe al guscio».

Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, Firenze, 1941-63.

***

La filosofia non è sonnambulismo, ma piuttosto la più vigile coscienza

«La filosofia non è sonnambulismo, ma piuttosto la più vigile coscienza; e l’opera dei filosofi consiste appunto nell’aver tratto il razionale in sé dalle profondità dello spirito, dove esso si trova dapprima solo come sostanza, come essenza interiore, e nell’averlo recato alla luce, nell’averlo sollevato alla coscienza, al sapere; consiste, insomma, in un progressivo risveglio [sukzessives Erwaehen]».

Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie, in Werke in zwanzig Bänden. Redaktion E. Moldenhauer und K.M. Michel, Frankfurt a.M., 1970, Bde. 18-20.

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Solone (638-558 a.C.) – Armonizzerò le leggi con i bisogni dei cittadini in maniera tale che tutti vedano chiaramente come meglio giovi vivere nella giustizia che trasgredire le leggi.

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Solone

«Ai greci [...] il dio ha dato di essere misurati in tutto
e per questo senso della misura siamo partecipi di una saggezza cauta [...].
Vedendo che la vita è soggetta continuamente a vicende d'ogni genere,
essa non ci permette di ingorgoglirci dei beni presenti
né di ammirare la sorte di un uomo
quando ancora ha il tempo di cambiare.
A ciascuno, infatti, vario sopravviene dall'ignoto il futuro».

Diogene Laerzio, Le Vite dei Filosofi, VIII, 51.
 °°°
«Anacarsi, avendo saputo che Solone attendeva alla stesura della sua costituzione, scoppiò a ridere dell’impresa cui si era accinto, poiché pensava di combattere l’iniquità e l’avidità degli uomini mediante parole scritte:
– Il tuo codice, – disse, – sarà come una ragnatela: come le ragnatele stringerà i deboli e i timidi che vi incapperanno, mentre i potenti e i ricchi la stracceranno.
Al che Solone gli rispose:
– Gli uomini osservano i contratti quando non gioverebbe a nessuna delle due parti violarne le clausole. lo armonizzerò le leggi con i bisogni dei cittadini in maniera tale che tutti vedano chiaramente come meglio giovi vivere nella giustizia che trasgredire le leggi».
 °°°
Plutarco, Solone, 5. Cfr., inoltre, Diogene Laerzio I, 58.
La vita di Solone

La vita di Solone


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Salvatore Antonio Bravo – Il tempo che ha la sua base nella produzione delle merci è esso stesso una merce consumabile. Ogni resistenza dev’essere svuotata della sua temporalità e colonizzata dalle immagini dello spettacolo globale.

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Il tempo consumabile dell’età moderna

La società dello spettacolo di Guy Debord tratteggia il fondamento ontologico del capitalismo assoluto: il tempo naturalizzato, il tempo ciclico del neopagenesimo prono all’idolatria delle merci. La sostanza taciuta alberga in ogni luogo, in ogni individuo reso funzione, nella ripetizione compulsiva del gesto e della scelta programmata dallo spettacolo delle immagini. La mosca è nella bottiglia e non riesce a trovare l’uscita dal collo della bottiglia, direbbe Wittgenstein. Il tempo ciclico è trasparente e tagliente come il vetro di una bottiglia: c’è, costruisce l’ordito delle alienazioni, ma si è ritirato nel silenzio religioso; l’innominabile è il sovrano delle esistenze, precarizza e porta con sé l’oblio della storia. Non più lessicalmente presente, in quanto l’asservimento alla società dello spettacolo regna, gli intellettuali servono, ormai organici alle caverne del potere del tempo ciclico e dell’assenza della storia. Debord evidenzia che il tempo ciclico della produzione, è il tempo artificiale dell’industria, tempo della tecnica, tempo del dispositivo, penetra capillarmente in ogni strato della coscienza per ridurla ad oggetto. Il tempo ciclico dell’industria ha inaugurato una nuova categoria temporale della ripetizione a ritmo di produzione, consumo, distruzione. La trinità pagana del ciclo temporale consente la sopravvivenza al neointegralismo della produzione per il consumo ed è inversamente proporzionale alla vita: il tempo ciclico sottrae vita per permettere la sua espansione illimitata: «Il tempo pseudo-ciclico è quello del consumo della sopravvivenza economica moderna. La sopravvivenza aumentata, in cui il vissuto quotidiano rimane privato di decisione e sottomesso non più all’ordine naturale, ma alla pseudo-natura sviluppata nel lavoro alienato; e questo tempo ritrova dunque del tutto naturalmente il vecchio ritmo ciclico che regolava la sopravvivenza delle società preindustriali».[1]

Il tempo ciclico delle società industriali non sfugge al destino, al fato che occhieggia dall’abisso, ovvero esso stesso fondamento dei vissuti senza decisionalità effettiva, è divorato dal ciclo artificiale del tempo. Crono è tra di noi, divora i suoi figli, ma ha fatto un passo in avanti. Non può sfuggire alla sua legge: «deve divorare se stesso», per cui il tempo ciclico artificiale è il tempo del nulla, del nichilismo realizzato, dell’impensabile che si avvera, tutto è consumo. Il tempo che fonda la ritualità del consumo è divorato dai suoi sudditi. Non vi è spazio per il tempo della decisione, del pensiero riflesso, il sistema sopravvive divorando se stesso ed annichilendo ogni possibile dissenso che vive del tempo: «Il tempo che ha la sua base nella produzione delle merci è esso stesso una merce consumabile, che raccoglie tutto ciò che si era precedentemente distinto, durante la fase di dissoluzione della vecchia società unitaria, in vita privata, vita economica, vita politica. Tutto il tempo consumabile della società moderna viene allora ad essere trattato come materia prima di nuovi prodotti diversificati, che s’impongono al mercato come forme di impiego di tempo socialmente organizzato».[2]

Il tempo globale estende la sua rete e le sue caverne su ogni parte del globo, lo spazio dev’essere asservito al tempo artificiale, in tal modo ogni differenza è divorata e sostituita dalle immagini, le reti relazionali sempre più fitte della società dello spettacolo e della comunicazione si dipana in una ripetizione di immagini sempre uguali nei contenuti, apparentemente differenti nelle forme: «La storia universale diviene una realtà, perché il mondo intero è raccolto sotto lo sviluppo di questo tempo. Ma questa storia che dappertutto simultaneamente è la stessa, non è ancora che il rifiuto intrastorico della storia».[3]

Ogni resistenza dev’essere svuotata della sua temporalità e colonizzata dalle immagini dello spettacolo globale. Il tempo irreversibile delle merci è il tempo della quantificazione a cui la coscienza non deve sfuggire. La storia chiude il suo ciclo. Il tempo ciclico vorrebbe divorare la storia e che terminasse con l’energia prometeica della produzione. Nessun delitto è perfetto, per cui la storia assassinata dal tempo artificiale ciclico ha lasciato le sue tracce, le sue contraddizioni, l’ordito per ricostruire nuovi orizzonti nella decodifica collettiva del presente vissuto. Siamo chiamati, vocati al compito di rintracciare i delitti e le categorie che non appaiono, per destrutturarle, perché la storia riprenda il suo soffio vitale, e la corrente calda ci richiami a nuova vita.

Salvatore Antonio Bravo

La Société du Spectacle

La Société du Spectacle

[1] Guy Debord, La società dello spettacolo [1967], Baldini & Castoldi, 2013, p. 142.

[2] Ibidem.

[3] Ibidem, p. 137.

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Silvia Fazzo – La concezione aristotelica dei principi trova nel libro Lambda della Metafisica la sua esposizione più completa ed esauriente. La comprensione del libro però non è un processo lineare: richiede, fra l’altro, che si faccia in qualche modo tabula rasa della tradizione esegetica.

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Il libro Lambda della Metafisica di Aristotele

 

Il libro Lambda della Metafisica di Aristotele

Il libro Lambda della Metafisica di Aristotele

 


Commento al libro Lambda della Metafisica di Aristotele

Commento al libro Lambda della Metafisica di Aristotele

Commento al libro Lambda della Metafisica di Aristotele

Bibliopolis

La concezione aristotelica dei principi trova nel libro Lambda della Metafisica la sua esposizione più completa ed esauriente. La comprensione del libro però non è un processo lineare: richiede, fra l’altro, che si faccia in qualche modo tabula rasa della tradizione esegetica. Di qui, la scelta di aderire al dettato preciso del testo, dopo averlo restituito in edizione critica nel corso del precedente volume (LXI-1, 2012). Su questa base, il commento si è svolto quanto possibile ex novo. Come esito, il libro Lambda acquista compiutezza formale, dal primo all’ultimo capitolo e si valorizza l’unità di svolgimento, Si evidenzia poi fin dall’inizio la coerenza d’intenti con altri dei libri che oggi chiamiamo Metafisica, cui Lambda si connette in una trama di continuo ripensamento: Lambda appare così, non bozza ante litteram, né percorso alternativo, ma parte integrante e compimento di uno stesso progetto scientifico, in concorrenza con le teorie accademiche e presocratiche dei principi.

 


Aporia e sistema.

La materia, la forma, il divino nelle Quaestiones di Alessandro di Afrodisia

 

Aporia e sistema. La materia, la forma, il divino nelle Quaestiones di Alessandro di Afrodisia

Aporia e sistema.

Ets

“Aporiai kai lyseis”, “aporie e soluzioni”: questo è il titolo che porta in greco la raccolta delle cosiddette “Quaestiones” di Alessandro di Afrodisia (l’Esegeta di Aristotele per eccellenza). Sono brevi opuscoli di carattere specialistico, sovente frammentari o poco rifiniti nella redazione, ma significativi dal punto di vista dottrinale, per il fatto stesso che attestano una fase travagliata e non ancora dogmatica nella storia dell’aristotelismo. Analizzati qui nel loro dettato letterale e nel loro contesto problematico, gli opuscoli lasciano emergere tendenze e tensioni intrinseche alla tradizione esegetica dei testi di Aristotele, e documentano il ruolo ed il metodo dell’attività di Alessandro nel conferire coerenza e compiutezza all’aristotelismo come sistema dottrinale. Al centro della presente ricerca sono in particolare alcuni temi cruciali: la relazione fra forma e materia, il problema della materialità e della fisicità dei corpi celesti, l’azione provvidenziale e ‘divina’ esercitata dai movimenti celesti sul mondo sublunare.

 

Alessandro di Afrodisia, placchetta del XVI secolo, Bode-Museum

Alessandro di Afrodisia, placchetta del XVI secolo, Bode-Museum


La provvidenza

Alessandro di Afrodisia, La provvidenza


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Giacomo Leopardi (1798-1837) – Come l’uomo dimostra la grandezza e la potenza dell’umano intelletto, l’altezza e nobiltà sua, l’immensa capacità della sua mente.

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«Niuna cosa maggiormente dimostra la grandezza e la potenza dell’umano intelletto, né l’altezza e nobiltà dell’uomo, che il poter l’uomo conoscere e interamente comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza.
Quando egli, considerando la pluralità de’ mondi, si sente essere infinitesima parte di un globo ch’è minima parte d’uno degli infiniti sistemi che compongono il mondo, e in questa considerazione stupisce della sua piccolezza, e profondamente sentendola e intentamente riguardandola, si confonde quasi col nulla, e perde quasi se stesso nel pensiero della immensità delle cose, e si trova come smarrito nella vastità incomprensibile dell’esistenza; allora con questo atto e con questo pensiero egli dà la maggior prova possibile della sua nobiltà, della forza e della immensa capacità della sua mente, la quale rinchiusa in sì piccolo e menomo essere, è potuta pervenire a conoscere e intender cose tanto superiori alla natura di lui, e può abbracciare e contener col pensiero questa immensità medesima della esistenza e delle cose».

Giacomo Leopardi, Zlibaldone di pensieri. a cura di Fiorenza Ceragioii e Monica Ballerini, Zanichelli, Bologna 2009. pp. 3171-3172.


Giacomo Leopardi – Cos’è la lettura per l’arte dello scrivere
Giacomo Leopardi (1798-1837) – Trista quella vita (ed è pur tale la vita comunemente) che non vede, non ode, non sente se non che oggetti semplici, quelli soli di cui gli occhi, gli orecchi e gli altri sentimenti ricevono la sensazione
Giacomo Leopardi (1798-1837) – La felicità non è che la perfezione, il compimento della vita.
Giacomo Leopardi (1798-1837) – Un sorriso e una poesia possono aggiungere un filo alla trama brevissima della vita, accrescendo la nostra vitalità.
Giacomo Leopardi (1798-1837) – La più sublime, la più nobile tra le Fisiche scienze ella è senza dubbio l’Astronomia. L’uomo s’innalza per mezzo di essa come al di sopra di se medesimo.
Giacomo Leopardi (1798-1837) – «Dialogo della Moda e della Morte». La moda appartiene perciò a quel tipo di fenomeni che tendono a un’estensione illimitata. Cara Morte, mostri di non conoscere la potenza della Moda, perché ho messo nel mondo tali ordini e tali costumi, che la vita stessa, così per rispetto del corpo come dell’animo, è più morta che viva.
Giacomo Leopardi (1798-1837) – Parlerò della miseria umana, degli assurdi della politica, dei vizi e delle infamie non degli uomini ma dell’uomo.

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Salvatore Bravo – La tolleranza è parola invocata nel quotidiano terrore dei giorni. La tolleranza nasconde il volto aggressivo della globalizzazione. È la concessione della legge del più forte, il diritto di vivere concesso dal potere.

Giovanna Borradori
Filosofia del terrore

Filosofia del terrore

«La tolleranza è parola invocata nel quotidiano terrore dei giorni. La tolleranza nasconde il volto aggressivo della globalizzazione. Essa è la concessione della legge del più forte, il diritto di vivere concesso dal potere. Tutto deve vivere purché circoli e produca col movimento la ricchezza di alcuni contro la povertà di molti. Tolleranza che si insinua nelle istituzioni: lasciar vivere le persone come i modelli culturali fin quando non intaccano il potere finanziario, il modello culturale unico che per grazia concede l’esistenza. Lo splendore della gogna è sostituita dal potere che cede la possibilità del soffio vitale: la cultura classica come la religione sopravvivono per grazia otriata nel difficile mondo della globalizzazione. Ogni potere è autoidolatra, misura la propria forza con la percezione che ha di sé, solitamente si sente onnipotente. La società della tolleranza è la società inospitale. L’ospite è accolto, riconosciuto nella sua identità nella dialettica individuale-universale. Non conosciamo l’ospitalità per le persone ed i gruppi che si discostano dalla legge della globalizzazione, della finanziarizazione del presente, come dei modelli culturali che la tradizione ci ha consegnato affinché fossero accolti e ‘sentiti vivi’ per nuove avventure creative. Al posto della integrazione e dell’accoglienza dell’ospite vige il regno della tolleranza: fenomeno da baraccone, inautentica integrazione che cela nelle sue pieghe il giudizio malevolo e strisciante contro le differenze. È evidente quanto la tolleranza sia il sintomo della violenza del modello unico, che deve far emergere le differenze per svuotarle e colonizzarle. La campagna dei cento fiori è in atto e non riconosciuta nell’occidente del libero mercato. Derrida descrive il valore della tolleranza all’epoca della globalizzazione: «La tolleranza è l’inverso dell’ospitalità o perlomeno il suo limite. Se credo di essere ospitale perché sono tollerante, voglio limitare la mia accoglienza, mantenere il potere sull’altro e controllare i limiti della mia “casa”, la mia sovranità, il mio “io posso” (il mio territorio, la mia casa, la mia cultura, la mia religione)».[1]

La tolleranza sorvegliata, dai cento occhi che si allungano per ritagliare margini di spazio a ciò che è altro o vissuto come altro. La cultura della tolleranza diventa cultura del sopportare e del sopportarsi. La mosca di Wittgenstein non trovava l’uscita dalla bottiglia perché metaforicamente incapace di giochi linguistici. La prigione che si ritaglia per gli altri diventa la propria. Molti occidentali hanno tutto ma non sono capaci di seguire se stessi, la propria indole, riducono gli interessi più vivi che li attraversano a pura presenza scenica perché il potere sibila e giudica … tollera. Ogni lasciar vivere è già una distanza, una presa di posizione in cui il giudizio verticalizzato cade e riposiziona l’altro nella distanza del calcolo economico: l’unica passione da seguire è quella mercantile, fare di sé un pezzo dell’economia, un capitale per illimitati investimenti.

Che fare?

Derrida constata la fluidità del potere globale, la sua instabilità e complessità che riportano il possibile in un mondo privato della storia e dunque può tollerare le differenze perché ha vinto il modello vigente. La storia è finita per cui si può sopportare la presenza delle differenze in quanto non cambiano la condizione della fine della storia. Per Derrida la storia non è conclusa, il ventre molle della globalizzazione pone le condizioni storiche per la lotta consapevole a livello locale, internazionale ed intellettuale: «Io credo che i nostri atti di resistenza debbono essere allo stesso tempo intellettuali e politici. Dobbiamo unire le forze per fare pressione e organizzare contrattacchi; e dobbiamo farlo su scala internazionale e secondo modalità nuove, ma sempre analizzando e discutendo i fondamenti più riposti delle nostre responsabilità, le loro basi, le loro eredità e i loro assiomi».[2]

Le contraddizioni attraversano la globalizzazione. Riportarle al centro della scena offre la possibilità di scardinare il simulacro della tolleranza per svelarne i limiti e le urgenze sulle quali ogni silenzio è già complicità, zona grigia, appunto tolleranza reazionaria e conservatrice. Piuttosto bisogna reintrodurre l’idea dell’ospitalità incondizionata, vera rivoluzione copernicana, che consente una disponibilità all’accoglienza, alla sorpresa dell’altro e del nuovo.[3] Mi accorgo bene che questo concetto della pura ospitalità non ha oggi alcuno statuto giuridico o politico. Nessuno Stato lo ha iscritto tra le sue leggi. Ma senza il pensiero progettuale di quest’ospitalità  non si dà alcun concetto di ospitalità in generale, e forse non si potrebbe neppure determinare alcuna norma dell’ospitalità condizionata (con i suoi riti, il suo statuto giuridico, le sue convenzioni nazionali e internazionali)».

Salvatore Bravo

[1] Giovanna Borradori, Filosofia del terrore. Dialoghi con Jürgen Habermas e Jacques Derrida, Laterza, 2003, p. 137.

[2] Ibidem, p. 135.

[3] Ibidem, p. 138.

 

 

 

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