«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
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Ogni parola si offre nei suoi multipli significati, simili alle faglie di una colonna geologica e abitata: ciascuna diversamente abitata, ciascuna riservata al grado di attenzione di chi la dovrà accogliere e decifrare. Ma per tutti, quando sia pura, ha un colmo dono, che è totale e parziale insieme: bellezza e significato, indipendenti e tuttavia inseparabili, come in una comunIone.
Cristina Campo, Gli imperdonabili, Adelphi, Milano 1987.
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[in lui erano] le basi di quella conoscenza della natura umana che insegna a riconoscere e ad apprezzare un’altra persona – fino ad anticiparne l’individualità spirituale – dalla cadenza della voce, dal modo di prendere un oggetto, perfino dal timbro del suo silenzio e dall’espressione dell’atteggiamento con cui si inserisce in uno spazio, in breve da quella maniera nobile, quasi non tangibile e tuttavia essenziale e completa, di essere uomo e spirito: la quale racchiude il nocciolo nel suo aspetto palpabile e vagliabile come la carne racchiude lo scheletro.
Robert Musil, I turbamenti del giovane Törless, in Id., Racconti e teatro, trad. it. di Anita Rho, Torino, Einaudi, 1964.
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Licika, solicello! Oggi è l’1 febbraio. E da un mese che ho deciso di cominciare a scrivere questa lettera. Sono traseorsi 35 giorni. Per lo meno 500 ore d’ininterrotta meditazione! Scrivo perché non sono più nella condizione di pensare a queste cose (mi si confonde la testa, se non parlo), perché penso: «Tutto è chiaro», tanto adesso (relativamente, s’intende) che in passato; perché ho semplicemente paura di provare troppa gioia al momento del nostro incontro e che tu possa ricevere, o più precisamente che io ti possa affibbiare il mio solito stracciume di sempre condito con un po’ di gioia e d’arguzia. Scrivo questa lettera con estrema serietà. La scriverò soltanto di mattina, quando la mente è fresca e non sono ancora comparse le mie stanchezze, le mie cattiverie e irritazioni serali. In ogni caso lascerò dei margini, di modo che, se mi viene in mente qualcos’altro, mi sia possibile annotarlo. In questa lettera farò ogni sforzo per sfuggire a qualsiasi «emozione» o «condizione». Questa lettera parlerà soltanto di quello che avrò verificato con sicurezza, di ciò che ho pensato in questi mesi, parlerà solo di fatti (1 febbraio). […] Tu dovrai assolutamente leggere questa lettera, e pensare a me per un attimo almeno. Io sono così infinitamente lieto che tu esista, di tutto quelle che è tuo, anche se non è in diretta relazione con me, che non voglio credere che non t’importi nulla di me. […] La mia decisione di non recar danno alla tua esistenza con nulla, nemmeno con un soffio, è sostanziale. […] E adesso parliamo di quello che ho creato:
Ti amo? (5/II 23)
Io ti amo, ti amo nonostante tutto e grazie a tutto, ti ho amato, ti amo e ti amerò, sia tu dura con me o gentile, mia o di un altro. Comunque ti amero. Amen. […] Di nuovo parliamo del mio amore. Della famigerata attività. Per me nell’amore si esaurisce forse tutto? Tutto, solo in un altro modo. L’amore è la vita, è la cosa principale. Dall’amore si dispiegano i versi, e le azioni, e tutto il resto. L’amore è il cuore di tutte le cose. Se il cuore interrompe il suo lavoro, anche tutto il resto si atrofizza, diventa superfluo, inutile. Ma se funziona, non può non manifestarsi in ogni cosa. Senza di te (non senza di te «nella lontananza», interiormente senza di te) io cesso di agire. È stato sempre così, lo è anche adesso. […].
Vladimir V. Majakovskij, Lettera a Lili Brik del 1-27 febbraio 1923, in V.V. Majakovskij – L. Lu. Brik, L’amore è il cuore di tutte le cose. Lettere 1915-1930, a cura di Bengt Jangfeldt. Trad. di Serena Prima, Mondadori, Milano 1985, pp. 159-167.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Prezioso recupero, nell’anno in cui ricorre il centenario della nascita, Lato di ponente raccoglie pensieri e riflessioni di Margherita Guidacci, quasi tutti inediti fino ad oggi. Un libro difficile da definire per la stessa autrice, con il ritmo della poesia e la concretezza della prosa, intessuto di citazioni che sono per lei voci dialoganti: Qohélet, Agostino, Pascal, Donne, Dickinson, Leopardi, Rilke, Kafka, Valéry, Eliot. Una miniera nascosta, un diario-taccuino di lavoro in cui sono registrati i segni di una profonda crisi. La scrittura resta comunque limpida e ferma, e, come sempre nei libri della Guidacci, ha il dono grande della semplicità sia che si rapprenda in una forma essenziale da frammento presocratico (o da quartetto eliotiano), sia che si distenda in composizioni di più ampio respiro meditativo. Assemblato di fretta – presentendo ormai vicina la fine del proprio viaggio umano – senza il consueto lavoro di revisione e montaggio dei testi, Lato di ponente rivela una evidente natura composita, che viene ad attenuarsi però sul piano tematico, nella costante ripresa e indagine di alcuni motivi-chiave (primo, tra tutti, il tema del tempo) che legano i pensieri in una totalità profondamente coerente, aprendo nuove, interessanti prospettive d’indagine anche sulla sua opera poetica.
Ti si rompe lo specchio e dell’universo che conteneva non rimane che una macchia nera, frastagliata sul muro. M. Guidacci
Il primo atto di coraggio che si può chiedere a se stessi è di vedere onestamente, fino in fondo, senza chiudere gli occhi, fino a qual punto si ha paura. M. Guidacci
… il problema di ritrovarsi è più profondo e infinitamente più generale di quello (analogo) che si presenta nella relatività fisica. P. Valéry
«Nel vano d’una finestra», dentro una stanza silente, immagino Margherita che in un labirinto d’angoscia cerca di ritrovare i tratti del suo volto riflessi nell’opacità di un vetro. Se fra tutti i suoi libri dovessi sceglierne uno, forse sceglierei proprio questo, il libro-fantasma con lucida pena tenuto dentro per tutta la vita. Una miniera nascosta, vibrante di umana inquietudine, un diario-taccuino di lavoro in cui è registrato di tutto: intuizioni, smarrimenti, lacerti poetici, sogni, meditazioni, severe autoanalisi e disarmanti confessioni. «Certamente un libro del nadir», difficile da definire anche per l’autrice, che introduce e conduce a quella che Margherita Pieracci Harwell chiama la «trilogia dell’amarezza»:2Un cammino incerto (1970), Neurosuite (1970) e Terra senza orologi (1973).
Con il ritmo della poesia e la concretezza della prosa, Lato di ponente è anche un libro filosofico, intessuto di citazioni che sono per lei voci dialoganti; continua a leggere ….
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Il velo di fango che gli aveva avvolto lo spirito e l’anima quella notte si dissipava lentamente, cedendo al soffio del giorno appena spuntato, pieno di profumi dolci e rianimanti. La riva era indorata dai primi raggi del sole, e l’acqua, un po’ torbida per effetto della pioggia, rifletteva malamente il verde degli alberi. […] Ippolito camminava lungo la riva capricciosa, che formava piccoli seni verdeggianti, e scopriva ad ogni passo nuove meraviglie di bellezza. Camminava leggero, sfiorando l’acqua, sicuro di scorgere sempre qualcosa di nuovo. Esaminava attentamente tutto quanto vedeva, si fermava ad ogni piccolo seno formato dalla riva per avere il colpo d’occhio degli alberi che lo circondavano, come se cercasse la ragione della diversità tra il dettaglio dell’assieme degli alberi e quello del piccolo seno. Ad un tratto si fermò, abbagliato. Il fàscino di una visione. … la fanciulla era immersa nell’acqua sino a mezzo busto, era davanti a lui, la testa reclinata in avanti, intenta ad intrecciare i capelli che si erano sciolti. Sulle carni rosee brillavano al sole gocce di acqua come scheggie di diamanti che carezzavano le spalle, il petto e, prima di scendere nel fiume, tremolavano al sole lungamente, come se non volessero lasciare il corpo che le aveva accolte. Osservava quell’immagine come qualcosa di sacro, tanto era pura e armoniosa la bellezza di quella fanciulla nel fiore della gioventù. Si sentiva lieto e non provava altro desiderio che quello di contemplarla. […] Ma, purtroppo, quaggiù come il buono dura poco, il bello è raro … e Ippolito fu lieto solo per pochi istanti. La fanciulla alzò la testa e, mandando un grido di collera, si immerse nell’acqua fino al collo. Quel grido echeggiò nel cuore di Polkanov, che si sentì tuffato come in un mare di ghiaccio.
Maksim Gor’kij, Fàscino, Casa Editrice F. Bideri, Napoli 1915, pp. 101 ss.
H. Matisse, Nudo blu.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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«[…] Nel crepuscolo invernale i cortili dell’Università di Pavia diventano spazio deserto e se un uomo si muove fra le colonne viene fatto di chiedersi: ma chi è che si muove fra le colonne? I passeri planano per l’ultima volta dalla quercia alle due magnolie. Il silenzio avanza come un’alta marea sugli otto cortili, soprattutto acquista potere sull’ultimo, il cortile sforzesco, che risale al Quattrocento e dove si trovano le sale del «Fondo Manoscritti di autori moderni e contemporanei»; vuoto di frequentatori la sera il Fondo si trasforma in un cimitero. […] Un cimitero è un luogo di silenziosi fantasmi; più raramente di sonori musicisti. È Calvino a dirci che nella città di Ipazia i suonatori si nascondono nelle tombe e da una tomba all’altra si danno la voce con flauti e arpe. Ma più spesso vi dimorano ombre. […] Benché non sia possibile descrivere l’aspetto fisico delle ombre, si può dire che esse pur nella nuova condizione di esseri senza peso hanno le stesse facce di quando avevano un corpo, dato che la faccia conserva per sempre tracce di quello che le è capitato. Si accostano furtive agli armadi-cassaforte dove qualcosa d’altro, che le riguarda, ma cosa?, occupa la loro attenzione. È allora che se uno per caso si trova nel Fondo è invaso dalla sensazione di un’immensa, insuperabile distanza: al tempo in cui le ombre avevano un corpo lui magari non era ancora nato o, se era nato, si trovava in un luogo diverso dello spazio. In questi casi si può fare ben poco l’uno per l’altro, come succede ai ricevimenti pubblici o ai funerali, dove ci si trova tutti insieme da estranei. Senza dubbio tali Presenze, invisibili ai più, sembrano sorgere da una categoria nuova della realtà, da uno stato proprio del reale e non da noi. Come se l’altro reale, quello a cui di solito si fa capo, tacesse, avesse perso qualsiasi virtù di evidenza. Adesso sappiamo che è possibile avere per qualche momento la sensazione che ombre si muovano implacabili nelle sale. Non si ha nessun dato sul preciso momento in cui la mente si arrende a tale visione e le ombre, scaturite da ignota sorgente, si emancipano, hanno causa vinta. Esse desiderano raccontare di sé tutt’altro genere di vicende e di cose, atte a colmare lacune dei biografi e dei critici. Mica sono personaggi della fantasia. Loro hanno dovuto portare in giro sul serio un corpo palpabile. Non si tratta qui di restare nella logica di un racconto, ma di entrare in un’altra logica, in altre regole del gioco, quelle in cui uomini e donne hanno dovuto vivere materialmente ogni istante dell’esistenza, provare la difficoltà di sbrogliarsela con se stessi, vita natural durante, quando per esempio hanno preso in mano la penna per la prima volta, con una felicità poi perduta, andata a finire in uno scritto fatto a pezzi, e quando presto o tardi è venuto il momento in cui hanno cominciato a dubitare di quello che facevano. Le ombre passano inquiete da una sala all’altra: allora uno, seduto al tavolo di lavoro, prova voglie inconsuete, quali voglie?, metti quella di dare alla foto di uno scrittore appesa alla parete o a un venerato busto di marmo, situato in un angolo della sala, i freschi movimenti dell’uomo. Impossibile? Ma già abitare tale desiderio è qualcosa. Forse le ombre notano il turbamento di chi le trova un po’ dentro e un po’ fuori dei ritratti noti. Se potessero sorriderebbero, ma le ombre non sorridono, sono al di là del tempo della vita in cui si sorride. Ma sono davvero uscite dal tempo? Bisogna distinguere. C’è il tempo a cui sono appartenute e c’è l’altro tempo, quello che ora le avvolge nel Fondo, nel mondo dei viventi. Il primo i greci lo chiamavano aion e segnava una fatale chiusura; il secondo chronos e segnava un’apertura verso il futuro, per cui venne anche detto immagine dell’eternità. Ecco dunque perché loro sono qui, nel Fondo, sono venute a farci visita, si sono immerse nel chronos. In questo mondo in cui ogni cosa si consuma in un mese o in un anno, e viene subito sostituita con un’ altra più perfezionata, che pare insostituibile ed eterna, ma si consuma essa pure in un mese o in un anno e così via, loro non prendono parte a questo consumio generale. Persistono, premono su di noi, attendono di essere riconosciute, se pure da un numero limitatissimo di viventi. In modo ora ludico ora drammatico comunicano, anche se non sempre attraverso la voce. Chi frequenta d’abitudine il Fondo sa che la comunicazione dura magari, come accade nei sogni, pochi intensissimi minuti dopo di che tutto si perde in quartieri sconosciuti. Non esiste una mappa del mondo sotterraneo, di quell’ignoto da cui tutti i fantasmi provengono, profondo come un abisso, che esercita su di essi un’attrazione cosmica diversa da quella a cui sono soggetti i viventi. Per questo i fantasmi sono instabili, erranti, fuggitivi. Fanno fatica ormai a riabituarsi al mondo in cui vissero coi piedi per terra nel loro aiòn, il loro tempo passato.
Ma le Presenze invisibili sono attratte nel Fondo da una terza idea di tempo, che è soltanto loro e dà segni di sé soltanto qui, fra i manoscritti. Un’idea di tempo che diventa cosa, oggetto fatto di parole scritte. Fogli ingialliti, stesure successive, un tutto che segnala l’ordine temporale della composizione di un’opera. Come dire che c’è una realtà temporale che appartiene alla logica dell’opera. Le vere competenti sono loro, le ombre. Quello che Filone d’Alessandria nel De opificio chiama il “giorno uno” dell’inizio del mondo c’è in ogni testo letterario; solo loro, e nemmeno sempre, saprebbero rintracciarlo. Quello che di sicuro conoscono è il ciclo dei giorni e delle notti dell’opera, anch’esso proprio di questa terza idea di tempo, che non è né aiòn né chronos, ma è ritmo e articolazione dell’energia creativa, crescita segreta e quasi biologica delle forme. Naturalmente ci sono ombre e ombre, come uomini e uomini. Alcune, particolarmente inquiete, considerano sbagliata la vita trascorsa coi piedi per terra: avrebbero potuto realizzare grandi cose e invece queste grandi cose non ci sono state, tanto che il mondo continua a sentirne la mancanza. Il modo difatti con cui le cose terrene sono come sono è del tutto parziale, cioè nessuno esclude che se fossero diverse potrebbero essere meglio e tutti sulla terra hanno l’aria di aspettare che questo succeda. Loro, le inquiete, hanno perso l’occasione e un’invisibile tramezza le separa dalle altre, quelle il cui destino è stato in direzione del più e non del meno o addirittura è stato un destino trionfale. Si leva nel silenzio la voce di Italo Calvino:
“Si dispiegavano tutte le forme che il mondo avrebbe potuto prendere nelle sue trasformazioni e invece non aveva preso, per un qualche motivo occasionale o per una incompatibilità di fondo: le forme scartate, irrecuperabili, perdute”.
Ogni ombra si muove in cerca dei suoi feti, delle sue incompiute, che arrischiano invano di emergere tra il disordine delle varianti a penna all’interno degli armadi-cassaforte, simili a spirali di insetti sulle foglie. C’è della bellezza in queste creature abortite, in questi personaggi non ancora condotti a compimento e abbandonati ai margini del niente. […] Siamo sempre lì, una bellezza prigioniera di ciò che avrebbe potuto essere e non è stato; una distanza non sempre ipotizzabile fra prime stesure e opere giunte alla luce della stampa. Di qua ombre inquiete che vagano nelle sale del Fondo, di là embrioni, feti, aborti della scrittura sporchi di inchiostro, uccisi dalle cancellature. Allora il Fondo è un universo in miniatura, che abbraccia in un solo insieme le cose che ci sono e quelle fluttuanti tra il possibile e l’improbabile. Cosi cessa di essere un semplice Fondo, dove tutto il dentro è deposito e il fuori è vita. Diventa anzi specchio del mondo, dove quasi niente di quanto ha inizio giunge del tutto a compimento. Si muovono da padrone perché solo loro sanno che cosa veramente sia il passato, mentre la via d’uscita dei pensieri dei viventi è quasi sempre una via che segue la freccia diretta al dopo, non al prima. Per i viventi dentro l’unione di passato e futuro è il futuro che soverchia. Tutto sommato anche il Fondo con le sue quotidiane pulsazioni, con il ramificarsi per cui ogni ramo ne genererà altri sembra provare non esserci bene che non si proietti nel dopopresente […]»(pp. 5-9).
***
«[…] Si sa, ci sono cose che si presentano come segni di altre. Guai se ci si incaponisce a non vederli questi segni, anche se possono a prima vista apparire privi di senso. La vita quotidiana contiene un mucchio di avvertimenti che appaiono assolutamente privi di senso e carenti di realtà, ma che esistono tuttavia, è solo la ragione del loro esistere che rimane nell’ombra. Per questo non sempre ci si sente in grado di distinguere se un evento del passato che ricordiamo c’è stato o lo abbiamo sognato e trasformato in conformità dell’architettura interna del nostro io» (p. 111).
Maria Corti, Ombre dal Fondo, Einaudi, Torino 1997.
Quarta di copertina
Esiste a Pavia un luogo singolare, popolato da ombre immerse in una temporalità diversa da quella dei viventi. Quel luogo ha un nome e una storia: si chiama «Fondo Manoscritti di autori moderni e contemporanei» ed è nato e cresciuto grazie ai sogni e alla tenacia di Maria Corti. Lì si conservano e si studiano i testi autografi dei maggiori scrittori dell’Otto e del Novecento, lì i viventi intrecciano le loro storie con quelle di chi non è più al mondo ma vi ha lasciato una traccia. In questo testo creativo Maria Corti, nella sua doppia veste di narratrice e di studiosa, evoca vicende del Fondo, divenuto nel corso degli anni una delle più vive realtà culturali italiane. Ed evocando dispensa testimonianze e aneddoti di prima mano su famosi scrittori, vedove votate alla gloria letteraria dei propri mariti, banchieri generosi, personaggi maggiori e minori che si incrociano come in un testo sinfonico, con tempi, ritmi e movimenti musicali di volta in volta diversi. Ombre dal Fondo è esempio di un raro genere letterario, una sorta di sinfonia evocativa. Coagula con originalità riflessioni sulla letteratura e sulla «materia» di cui la letteratura è fatta: il manoscritto d’autore, con i tratti a penna che definiscono una grafia, le correzioni, a volte i disegni che lo corredano, diventa la chiave d’accesso per sondare quello che Maria Corti chiama «avantesto», cioè la scaturigine, esistenziale oltreché letteraria, dell’invenzione creativa. Perché «al tocco giusto dello sguardo, gli occhi guardano il visibile, le Carte, e allo stesso posto vedono l’invisibile». Ombre dal Fondo, infine, è anche una rassegna di interventi critici su una serie di scrittori fra i più amati dall’autrice, da Montale a Bilenchi, ad Amelia Rosselli. Una critica, quella disseminata in questo libro, che non ha mai nulla di astratto ma si nutre della presenza fantasmatica degli scrittori e delle loro Carte, come in un concretissimo colloquio che tocca nel profondo le ragioni della letteratura.
Maria Corti ha insegnato per molti anni Storia della lingua italiana e ha creato e diretto il «Fondo Manoscritti di autori moderni e contemporanei». Ha ideato riviste culturali come «Strumenti critici», «Alfabeta», «Autografo». Tra i suoi studi filologico-letterari ricordiamo Metodi e fantasmi (Feltrinelli 1969), Il viaggio testuale (Einaudi 1978), La felicità mentale (Einaudi 1983), I percorsi dell’invenzione (Einaudi 1993), a cui si aggiunge il volume teorico I principi della comunicazione letteraria (Bompiani 1976) . Ha diretto l’edizione critica delle Opere di Fenoglio (Einaudi 1978). Ha pubblicato alcuni libri di narrativa: L ‘ora di tutti (Bompiani 1996, 15a ed.), Il ballo dei sapienti (Mondadori 1966), Voci dal Nord Est (Bompiani 1986), Il canto delle sirene (Bompiani 1989), Cantare nel buio (Bompiani 1991). Nel 1995 è uscito il libro-intervista Dialogo in pubblico (Rizzoli).
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È indubbio che ogni epoca finisce per esercitare, se non una censura basata su codici tassativi e più o meno espliciti, almeno una deformazione congiunturale del testo. Un tempo si era soliti dire che il primo passo per una lettura adeguata di un’opera consisteva nel definirne il circolo ermeneutico: compito di un critico o di un lettore (suggeriva Leo Spitzer)[1] era quello di partire dalla periferia e di compiere in senso inverso, risalendo verso il centro, il percorso che era stato originariamente compiuto dal creatore. Una volta raggiunto il centro, si poteva ragionevolmente pensare di avere conquistato la verità dell’opera perché quella «verità», certa e rassicurante, esisteva e perché si riteneva che una strategia adeguata avrebbe permesso di conquistarne la chiave.
La fragilità del modello è risultata evidente appena si è messo in dubbio il postulato che l’opera in sé possedesse un significato unico, accertabile e metastorico, definito una volta per tutte dal suo creatore. Ci si è accorti allora che, nel corso della loro vita secolare, i testi sono stati sottoposti a una serie di deformazioni talvolta volontarie (come nel caso della censura), ma molto più spesso preterintenzionali e in nessun modo imputabili alla responsabilità del lettore. Il quale, anche quando si muove secondo i dettami della più rigorosa filologia, e – alle prese con un testo antico – utilizza con la massima attenzione e precisione il codice linguistico del tempo, non può elidersi, non può fare in modo che quel codice abolisca il suo codice. Ci sarà sempre, come ha detto Bachtin,[2] un inevitabile scarto linguistico che finirà col produrre deformazioni. C’è una coscienza di lettore, una coscienza ermeneutica che si misura con un’altra coscienza, «con la coscienza di un testo», e la tensione tra queste due coscienze porta inevitabilmente a disegnare un modello irriducibile al cerchio, ma che fa piuttosto pensare a un’ellisse.[3]
Mario Lavaggetto, Oltre le usate leggi. Una lettura del Decameron, Einaudi, Torino 2019, p. 26.
***
[1] L. Spitzer, Critica linguistica e storia del linguaggio, Laterza, Bari 1954, pp. 12 ss.
[2] M. Bachtin, Il problema del testo nella linguistica, nella filologia e nelle altre scienze umane, in Id., L’autore e l’eroe, Einaudi, Torino 1988, pp. 291 ss.
[3] M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare, Einaudi, Torino 1979, p. 24.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
Tanti incontri della nostra vita, tanti rapporti umani sono basati semplicemente sul fatto che si dà una moneta o una banconota a qualcuno in cambio di un francobollo o di un giornale, sanza sapere niente di quella persona.
Marguerite Yourcenar, Ad occhi aperti.
Avevo subodorato l’atmosfera di viltà, compromesso o di prudenti silenzi da una parte, di rudi abusi di forza, di una smania di arrivismo, di quella piatta demagogia accostata alle realtà dell’arbitrario dall’altra, che è, o finisce per essere, l’aria irrespirabile di tutte le dittature»
Marguerite Yourcenar, Ad occhi aperti.
Postfazione
di Marguerite Yourcenar
Una prima versione di Moneta del sogno, appena più breve, è apparsa nel 1934. L’opera attuale è ben più di una semplice ristampa o anche di una seconda edizione rivista e ampliata con brani inediti. Alcuni capitoli sono stati quasi interamente riscritti e a volte notevolmente sviluppati; in certi punti, i ritocchi, i tagli, le trasposizioni non hanno risparmiato quasi nessuna riga del vecchio libro; in altri, al contrario, grandi blocchi della versione del 1934 sono rimasti invariati. Per come si presenta oggi, il romanzo è quasi per metà una ricostruzione degli anni 1958-1959, ma una ricostruzione in cui il nuovo e il vecchio s’intrecciano a tal punto che è pressoché impossibile, persino per l’autore, distinguere in quale momento cominci l’uno e finisca l’altro.
Non solo i personaggi, i loro nomi, i loro caratteri, i rapporti reciproci, e lo sfondo in cui agiscono sono gli stessi, ma anche i temi principali e secondari del libro, la struttura, il punto di partenza degli episodi e il più delle volte il loro punto d’arrivo permangono immutati. Al centro del romanzo vi è sempre il racconto, per metà realistico, per metà simbolico, di un attentato antifascista a Roma nell’anno XI della dittatura. Come in precedenza, alcune figure tragicomiche più o meno legate al dramma o a volte affatto estranee a esso, ma quasi tutte più o meno consapevolmente in balia dei conflitti e degli slogan dell’epoca, si concentrano attorno a tre o quattro personaggi dell’episodio centrale. Al primo Moneta del sogno apparteneva anche l’intento di scegliere dei personaggi che a prima vista potrebbero sembrare sfuggiti da una Commedia, o meglio, da una Tragedia dell’Arte moderna, ciò al solo fine di porre subito in evidenza quanto ognuno di essi ha di più specifico, di più irriducibilmente singolare, e di lasciare quindi intuire quel quid divinum più essenziale della loro stessa persona. Lo slittamento verso il mito o l’allegoria era pressoché simile nelle due versioni, e ambiva ugualmente a confondere in un tutto unico la Roma dell’anno XI dalla nascita del fascismo e la Città in cui s’intreccia e si disfa in eterno l’avventura umana. Infine, la scelta di un mezzo volutamente stereotipato, quello della moneta che passa di mano in mano, per collegare tra loro episodi già imparentati dalla riapparizione degli stessi personaggi e dei medesimi temi, o dall’introduzione di temi complementari, esisteva già nella prima versione del libro, e la moneta da dieci lire rappresentava come qui il simbolo del contatto tra esseri umani sprofondati, ognuno alla propria maniera, nelle passioni e nella propria intrinseca solitudine. Quasi sempre, riscrivendo in parte Moneta del sogno, mi è capitato di dire, in termini a volte molto diversi, quasi esattamente la stessa cosa.
Ma, se è così, perché imporsi una ricostruzione tanto considerevole? La risposta è molto semplice. Nel corso della rilettura, alcuni brani mi erano parsi troppo deliberatamente ellittici, troppo vaghi, a volte troppo ornati, troppo contratti o troppo diluiti o anche, a volte, soltanto mal riusciti. Gli interventi che rendono il libro del 1959 un’opera diversa da quella del 1934 tendono tutti alla presentazione più completa, e dunque più minuziosa, di alcuni episodi, allo sviluppo psicologico più accentuato, a semplificare e a chiarire certi aspetti e, per quanto possibile, ad approfondirne e ad arricchirne altri. In diversi punti ho cercato di rafforzare la componente realistica, in altri quella poetica, il che alla fine è o dovrebbe essere la stessa cosa. I passaggi da un piano all’altro, le brusche transizioni dal dramma alla commedia o alla satira, frequenti nella prima versione, oggi lo sono ancora di più. Ai procedimenti già impiegati, narrazione diretta e indiretta, dialogo drammatico, e persino aria lirica, è andato ad aggiungersi in rarissime occasioni un monologo interiore che, lungi dal voler mostrare, come quasi sempre avviene nel romanzo contemporaneo, un cervello-specchio che riflette passivamente il flusso delle immagini e delle impressioni che scorrono, qui si riduce ai soli elementi basilari della persona, e pressoché alla semplice alternanza del sì e del no.
Potrei moltiplicare questi esempi, destinati a interessare chi scrive romanzi più di chi li legge. Mi sia almeno consentito di smentire l’opinione corrente secondo la quale riprendere in mano una vecchia opera, ritoccarla, a maggior ragione riscriverla in parte, è un’impresa inutile se non nefasta, inevitabilmente priva di slancio e di ardore. Al contrario, ho goduto dell’esperienza diretta e del privilegio di vedere questa sostanza fissata in una forma da così tanto tempo ridiventare duttile, di rivivere un’avventura da me immaginata in circostanze che neanche ricordo più, infine di ritrovarmi in presenza di certe vicende romanzesche come dinanzi a situazioni vissute in passato che, per quanto si possano esplorare ulteriormente, interpretare meglio o spiegare più diffusamente, non ci è più consentito cambiare. La possibilità di apportare all’espressione di idee o di emozioni che non hanno mai smesso di abitarci il beneficio di una più lunga esperienza umana, e soprattutto artigianale, mi è parsa un’occasione troppo preziosa per non essere accolta con gioia, e anche con una sorta di umiltà.
È soprattutto l’atmosfera politica del libro a non variare da una versione all’altra e così doveva essere, affinché questo romanzo ambientato nella Roma dell’anno XI restasse esattamente datato. Quei pochi fatti immaginari, la deportazione e la morte di Carlo Stevo, l’attentato di Marcella Ardeati, si collocano nel 1933, vale a dire in un’epoca in cui le leggi speciali contro i nemici del regime infierivano da alcuni anni, e molti attentati dello stesso genere contro il dittatore erano già avvenuti. Tutto ciò, d’altra parte, accade prima della spedizione in Etiopia, prima della partecipazione del regime alla guerra civile spagnola, prima dell’avvicinamento e del repentino asservimento a Hitler, prima della promulgazione delle leggi razziali e, beninteso, prima degli anni di confusione, di disastri, ma anche di eroica resistenza partigiana della seconda grande guerra del secolo. Era dunque importante non mescolare all’immagine del 1933 quella, ancora più cupa, degli anni che videro il compimento di ciò che il decennio 1922-1933 conteneva già in embrione. Conveniva lasciare al gesto di Marcella il suo aspetto di protesta pressoché individuale, tragicamente isolata, e alla sua ideologia quella traccia dell’influenza di dottrine anarchiche che, sino a tempi ancora recenti, hanno così profondamente segnato la dissidenza italiana; bisognava lasciare a Carlo Stevo il suo idealismo politico in apparenza superato e in apparenza futile, e al regime stesso quel presunto aspetto positivo e trionfante che a lungo ha costituito l’illusione non tanto, forse, del popolo italiano quanto dell’opinione pubblica straniera. Una delle ragioni per le quali Moneta del sogno è parso degno di una nuova edizione è che fu a suo tempo uno dei primi romanzi francesi (il primo, forse) a guardare in faccia la vacua realtà che si celava dietro la tronfia apparenza del fascismo nel preciso momento in cui tanti scrittori in visita nella penisola si compiacevano nell’incantarsi ancora una volta dinanzi al tradizionale pittoresco italiano o nel guardare ammirati ai treni che partivano in orario (almeno in teoria), senza degnarsi di conoscerne la destinazione.
Come tutti gli altri temi del libro, e forse anche di più, il tema politico si ritrova rafforzato e sviluppato nella versione attuale. L’avventura di Carlo Stevo occupa un maggior numero di pagine, ma tutte le circostanze indicate sono quelle che figuravano già brevemente o implicitamente nella prima edizione. Le ripercussioni del dramma politico sui personaggi secondari sono più marcate: l’attentato e la morte di Marcella sono commentati en passant (cosa che non accadeva in precedenza) non solo da Dida, la vecchia fioraia del quartiere, e da Clément Roux, il viaggiatore straniero, ma anche dalle due sole nuove comparse introdotte nell’economia del libro: la proprietaria del caffè e il dittatore stesso, che qui d’altronde permane essenzialmente qual era nel vecchio romanzo, un’ombra enorme proiettata sul contesto; ora la politica inebria l’alcolista Marinunzi quasi quanto la bottiglia. Infine, Alessandro e Massimo, ognuno alla propria maniera, si sono rinsaldati nella loro veste di testimoni.
Forse nessuno si stupirà che nella versione attuale la nozione del male politico giochi un ruolo più considerevole rispetto alla precedente, né che Moneta del sogno del 1959 sia più amaro o più ironico di quello del 1934, che già lo era. Ma, nel rileggere le nuove parti del libro come se si trattasse dell’opera di un altro, mi colpisce particolarmente che il contenuto attuale sia al tempo stesso un po’ più aspro e un po’ meno cupo, che alcuni giudizi sul destino umano siano forse un po’ meno categorici e tuttavia più definiti, e che i due principali elementi del libro, il sogno e la realtà, cessino di essere due entità distinte, pressoché inconciliabili, per fondersi maggiormente in quel tutto che è la vita. Le correzioni di pura forma non esistono. La sensazione che l’avventura umana sia ancora più tragica, se mai è possibile, di quanto già sospettassimo venticinque anni or sono, ma anche più complessa, più ricca, a volte più semplice, e soprattutto più strana di quanto avessi già tentato di dipingerla un quarto di secolo prima, è stata forse la ragione che più di ogni altra mi ha indotta a riscrivere questo libro.
Mount Desert Island, 1959
Marguerite Yourcenar, Moneta del sogno, Bompiani, 2017, pp. 191-196.
Quarta di copertina
Roma, 1933. Il romanzo italiano di una grande scrittrice
Considerato il romanzo italiano di Marguerite Yourcenar, “Moneta del sogno” è il racconto, in parte realistico e in parte simbolico, di un attentato antifascista nella Roma dell’anno XI della dittatura, in una giornata di primavera. Scritto nel 1933 e rielaborato interamente nel 1959, il romanzo si snoda in nove episodi intrecciati l’uno all’altro da una moneta d’argento da dieci lire che passa di mano in mano da un personaggio all’altro come in una messinscena teatrale o cinematografica. Iniziato durante una visita in Italia, durante la quale l’autrice fu spettatrice della Marcia su Roma e delle tensioni che seguirono il delitto Matteotti, “Moneta del sogno” si distinse fra tutte le opere letterarie dell’epoca per la forte presa di posizione contro l’immagine che la propaganda ufficiale dava del nostro paese e per l’intuizione dei fatti gravi e irrimediabili che incombevano sull’Europa. Un romanzo importante da un punto di vista letterario e politico, da scoprire o riscoprire oggi in una nuova traduzione che ne restituisce per intero tutta la potenza.
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