Hans Werner Henze (1926-2012) – Le ideologie non servono alla musica. Sono anzi nemiche della creazione. Gli artisti hanno il dovere di tenere gli occhi aperti sulla loro epoca.

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«Le ideologie non servono alla musica.

Sono anzi nemiche della creazione.

Gli artisti hanno il dovere

di tenere gli occhi aperti sulla loro epoca».

 Hans Werner Henze

 

 

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Hans Werner Henze

 

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Glen Gould (1932-82) – L’arte non diventerà un’ancella del processo scientifico, e sarà capace di esprimere come l’impulso estetico sia privo di età, cioè libero dalle obbedienze che i tempi gli dettano.

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L’ala del turbine intelligente

«L’arte non diventerà un’ancella del processo scientifico. Prenderà in prestito i suoi mezzi tecnici ma resterà indipendente dai suoi fini. Quel tipo di comunicazione che è l’arte rimarrà come sempre indefinibile. Tenterà ancora di parlare delle cose, di fornire immagini che nessuna misurazione scientifica può verificare. Ma la suprema ironia è forse che, prendendo a prestito dal mondo scientifico ciò di cui ha bisogno, lungi dal confermare le concezioni accumulatorie dell’informazione scientifica, l’arte sarà capace di esprimere come l’impulso estetico sia privo di età; cioè libero dalle obbedienze che i tempi gli dettano, libero dall’obbedienza che abbiamo permesso alla storia di dettarci».

Glenn Gould, scritt9 fra il 15)60 e il 1964, è stato pubblicato per la prima volta in francese
in G. Gou/d, « Ecrits», a cura di Bruno Monsaingeon, voI. II. «Contrepoint à la ligne», Fayard, Paris 1985, pp. 287-300. L’originale inglese, «Forgery and Imitation in the Creative
Process», è stato pubblicato, su iniziativa di Jean-Jacques Nattiez, in «Glenn Gou/d», II (195)6), n. I , pp . 4-9.

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No, non sono un eccentrico

 

 


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Max Pohlenz (1872-1962) – Mai i Greci avrebbero tollerato l’idea che gli uomini fossero soltanto marionette guidate da un destino cieco. Il Socrate platonico sa che l’unica cosa che importi è dar prova nella vita della propria validità. La sua natura non gli consente una soggezione fatalistica al destino.

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«L’insegnamento essenziale dell’uomo greco è l’impulso ad autodeterminarsi, lo stimolo a forgiare la vita secondo una propria misura. L’avvedersi, quindi, che se la sua volontà può subire interferenze improvvise dall’esterno, rappresenta per lui un’esperienza particolarmente viva e inquietante. Egli parla allora di una “parte” di una moira che gli viene assegnata. […] Certo i Greci possiedono una forte tendenza a universalizzare […]. Dappertutto, nel mondo come nel proprio essere, essi sentono la vita, e vi ravvisano qualcosa di divino, la contemplano in un gran numero di forme plastiche di cui l’uomo è incessantemente circondato» (p. 19).

«Anche di fronte agli dèi, come dinanzi al destino, l’uomo greco avverte la propria deficienza, ma si pone di fronte ad essi in un atteggiamento del tutto diverso da quello dell’ebreo o del cristiano dinanzi al suo Dio trascendente. Certo gli dèi possono distruggerlo, ma sono soltanto “i più forti”, vivono nel suo stesso mondo e provengono dalla medesima sorgente da cui egli proviene. […] Non vi è “prodigio”, ossia rottura delle leggi naturali da parte di una forza superiore, poiché i Greci conoscono il soprasensibile, ma per esprimere il “soprannaturale” la loro lingua non ha termini adeguati. Conoscono sì l’orrore e la reverenza dinanzi al numinoso, ma il brivido e la paura degli spiriti s’incontrano solo negli strati inferiori; così come estranea ai Greci è quella segreta irritazione dei nervi che il moderno uomo “illuminato” avverte quando abbandona la sua fede nelle forme concrete sovrasensibili, per rifugiarsi nel mondo dell’irrazionale e del “demonico”» (pp. 19-20),

«Mai i Greci avrebbero tollerato l’idea che gli uomini fossero soltanto marionette guidate da un destino cieco o da una divinità capricciosa. Seguivano il loro impulso ad autodeterminarsi; non v’era riflessione che potesse infiacchire in loro tale istinto. […] Il Socrate platonico […] sa che l’unica cosa che importi è dar prova nella vita della propria validità» (p. 21).

«La sua natura non gli consente una soggezione fatalistica al destino, l’umile accettazione di una volontà divina, ma esige l’affermazione e la libera determinazione di lui stesso. […] I Greci non erano tali da appagarsi di sensazioni istintive: la loro aspirazione a conseguire chiarezza in tutto quanto riguardava la loro vita, li condusse infine alla filosofia socratica. Ma ancor prima che questa si desse a risolvere i problemi della vita umana avvalendosi del puro intelletto, già s’era sviluppata quella forma artistica che associando mytos e logos affrontava e rappresentava la problematica della esistenza» (p. 22).

«L’anima della tragedia è il logos: interiormente come virtù spirituale che determina l’azione, ed esteriormente, come parola, idonea ad esprimere tutti i sentimenti umani, i più disparati atteggiamenti dell’animo e i pensieri profondi. Non soltanto in se stesso l’uomo greco avverte la presenza del logos. È un’esigenza radicata in lui rintracciarlo anche nel mondo che lo circonda, intende il “senso” delle cose. Ciò vale a svelarci il valore incomparabile e insostituibile del coro nella tragedia greca» (p. 31).

«Non v’è lode, che la tragedia potesse tributare, più alta di quella di possedere una mente nobile. […] Il poeta non parlava al suo ceto, ma al suo popolo. Parlava come cittadino ai cittadini, ma questi cittadini erano abbastanza lungimiranti e magnanimi per interessarsi di chi non era cittadino, e per riconoscere il valore dell’animo umano anche nella donna, nello straniero, nello schiavo. Si allargava così l’orizzonte; lo sguardo spaziava all’universale umano» (p. 42).

 

Max Pohlenz, La tragedia greca, Paideia, 1978.

 


Vedi anche:

 

Max Pohlenz (1872-1962)  – Il cammino del dell’uomo greco è illuminato da tre guide ideali: il vero, il bello, il bene. Il sentimento dell’incondizionata sudditanza gli è affatto sconosciuto. Nel suo intimo possiede la forza di resistere a tutti i rovesci del destino e plasmare la sua vita a proprio modo, nella consapevolezza di essere personalmente responsabile delle proprie azioni

Max Pohlenz (1872-1962) – La Grecia classica ci ha indicato la via verso la libertà interiore, in cui unico criterio direttivo è il vero bene comune. La libertà ha un limite solo, ma inviolabile. Esso è implicito nelle leggi stesse dello spirito, che può volere soltanto il vero e il bene.


Luca Grecchi

Perché non possiamo non dirci Greci
In Appendice: In difesa di Socrate, Platone ed Aristotele

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Luca Grecchi

La filosofia della storia nella Grecia classica

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Luca Grecchi – Quando il più non è meglio. Pochi insegnamenti, ma buoni: avere chiari i fondamenti, ovvero quei contenuti culturali cardinali che faranno dei nostri giovani degli uomini, in grado di avere rispetto e cura di se stessi e del mondo.

Luca Grecchi – A cosa non servono le “riforme” di stampo renziano e qual è la vera riforma da realizzare

Luca Grecchi – Cosa direbbe oggi Aristotele a un elettore (deluso) del PD

Luca Grecchi – Platone e il piacere: la felicità nell’era del consumismo

Luca Grecchi – Un mondo migliore è possibile. Ma per immaginarlo ci vuole filosofia

Luca Grecchi – «L’umanesimo nella cultura medioevale» (IV-XIII secolo) e «L’umanesimo nella cultura rinascimentale» (XIV-XV secolo), Diogene Multimedia.

Luca Grecchi – Il mito del “fare esperienza”: sulla alternanza scuola-lavoro.

Luca Grecchi – In filosofia parlate o scrivete, purché tocchiate l’anima.

Luca Grecchi – L’assoluto di Platone? Sostituito dal mercato e dalle sue leggi.

Luca Grecchi – L’Italia che corre di Renzi, ed il «Motore immobile» di Aristotele

Luca Grecchi – La natura politica della filosofia, tra verità e felicità

Luca Grecchi – Socrate in Tv. Quando il “sapere di non sapere” diventa un alibi per il disimpegno

Luca Grecchi – Scienza, religione (e filosofia) alle scuole elementari.

Luca Grecchi – La virtù è nell’esempio, non nelle parole. Chi ha contenuti filosofici importanti da trasmettere, che potrebbero favorire la realizzazione di buoni progetti comunitari, li rende credibili solo vivendo coerentemente in modo conforme a quei contenuti: ogni scissione tra il “detto” e il “vissuto” pregiudica l’affidabilità della comunicazione e non contribuisce in nulla alla persuasione.


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Romeo Castellucci – Scandalo è una parola abusata e perlopiù misconosciuta. In senso greco l’etimologia è «la pietra d’inciampo». E’ qualcosa che ti arresta, solo per un momento, ma che ti rende presente il tuo cammino. La provocazione è stupida, avvilisce l’intelligenza.

Romeo Castellucci
Epopea della polvere, Ubulibri, 2001

Epopea della polvere, Ubulibri, 2001

«Scandalo è una parola abusata e perlopiù misconosciuta. Lo scandalo nell’arte non solo può succedere ma direi che è il destino, l’orizzonte di ogni opera: non si dà opera d’arte senza scandalo. Scandalo però in senso greco; l’etimologia è “la pietra d’inciampo“: quando tu inciampi sei costretto a riformulare il tuo passo; è qualcosa che ti arresta, solo per un momento, ma che ti rende presente il tuo cammino. ne divieni cosciente. Lo scandalo è un interruttore.
Poi. ovviamente. c’è un uso “giornalistico” di questa parola … ma non c’entra più niente, lì diventa provocazione, rientra a far parte di un vocabolario completamente diverso.
La provocazione è stupida, avvilisce l’intelligenza non solo di chi la fa ma anche quella delle persone a cui viene rivolta; è avvilente, è una tecnica pubblicitaria: miserabile perché troppo semplice, si smaschera inunediatamente.
Lo scandalo invece è qualcosa di molto più profondo e nascosto.
Un’opera scandalosa non necessariamente ha dei toni forti. Lo scandalo può essere sepolto molto all’interno, può essere un elemento estremamente soffice, quasi invisibile.
Mi viene in mente H6lderlin, uno dei poeti. degli artisti più scandalosi della storia.
Un altro è Robert Walser, nella sua opera tutto quanto è grazioso. eppure c’è uno scandalo profondissimo. lo scandalo della vita che viene nascosto sotto una patina di borotalco.
Queste sono tra le esperienze più radicali che mi vengono in mente. Bisogna capirsi attorno alla parola “scandalo”. che comunque è molto importante».

Romeo Castellucci

Intervista a cura di Matteo Marelli, pubblicata su il manifesto, 03-03-2017, p. 12.

A te, giovane artista ignoto, Bononia University Press, 2015,

A te, giovane artista ignoto, Bononia University Press, 2015,

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Epitaph, Ubulibri, 2000

Epitaph, Ubulibri, 2000


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Federico García Lorca (1898-1936) – La poesia è qualcosa che cammina per le strade. Il teatro è sempre stato la mia vocazione. Adesso sto lavorando a una nuova commedia. Gli uomini non riusciranno mai a immaginarsi l’allegria che esploderà il giorno della Grande Rivoluzione. Non è vero che sto parlando proprio come un socialista?

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F. G. Lorca, Poeta en Nueva York

 

«La poesia è qualcosa che cammina per le strade. Che si muove, che passa accanto a noi. Tutte le cose hanno il loro mistero, e la poesia è il mistero che hanno tutte le cose. Si passa accanto a un uomo, si guarda una donna, si percepisce l’incedere obliquo di un cane, e in ciascuno di questi oggetti umani c’è la poesia».

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«Adesso sto lavorando a una nuova commedia. Non sarà più come quelle precedenti. Adesso è un’opera della quale non posso scrivere nulla, nemmeno una riga, perché si sono liberate e vagano per l’aria la verità e la menzogna, la fame e la poesia. Mi sono sfuggite dalle pagine. La verità della commedia è un problema religioso e socio-economico. Il mondo è immobile di fronte alla fame che devasta i popoli. Finché ci sarà squilibrio economico, il mondo non potrà pensare. Ne sono sicuro. Due uomini camminano sulla riva di un fiume. Uno è ricco, l’altro è povero. Uno ha la pancia piena, l’altro insozza l’aria con i suoi sbadigli. E il ricco dice: “Che bella barca si vede sull’acqua! Guardi, guardi il giglio che fiorisce sulla riva”. E il povero dice: “Ho fame, non vedo nulla. Ho fame, tanta fame”. È naturale. Il giorno in cui la fame sparirà, si produrrà nel mondo l’esplosione spirituale più grande che l’Umanità abbia mai conosciuto. Gli uomini non riusciranno mai a immaginarsi l’allegria che esploderà il giorno della Grande Rivoluzione. Non è vero che sto parlando proprio come un socialista?».

Da un’intervista realizzata da Felipe Morales,
pubblicata su La Voz di Madrid
il 7 aprile 1936.

Traduzioine di Antonio Melis.

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Marco Aurelio (121-180) – Com’è breve il tempo dalla nascita alla dissoluzione. Che cosa dunque può accompagnarci nel vivere? Una sola e unica realtà: la filosofia.

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«Com’è breve il tempo dalla nascita alla dissoluzione, abisso prima della nascita, come ugualmente infinito dopo la dissoluzione» (IX, 32) .

«Il tempo della vita umana è un punto, la sua sostanza flusso, la sensazione è oscura, l’intero composto fisico facile a corrompersi, l’anima erramento, la sorte realtà indecifrabile, la fama incerta; per dire in breve, tutto quanto attiene al corpo è fiume, quanto riguarda l’anima è sogno e vanagloria, e la vita guerra e viaggio di uno straniero, oblio la fama presso i posteri»(II, 17)

«Che cosa dunque può accompagnarci nel vivere?
Una sola e unica realtà: la filosofia
» (II, 17).

Marco Aurelio, Pensieri.


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Omero – Come è la stirpe delle foglie, così quella degli uomini.

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«Come è la stirpe delle foglie, così quella degli uomini.
Le foglie il vento le riversa per terra, e altre la selva
fiorendo ne genera, quando torna la primavera;
così le stirpi degli uomini, l’una cresce e l’altra declina».

Omero, Iliade, VI, 180-184, traduzione di Guido Paduano, Mondadori, 2007

 

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Ritratto immaginario di Omero, copia romana del II secolo d.C. di un’opera greca del II secolo a.C. Conservato al Museo del Louvre di Parigi.

 


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Robert Walser (1878-1956) – Con grande attenzione e amore colui che passeggia deve studiare e osservare ogni minima cosa vivente. Dovremmo capire, e sentire, che colui che veramente esiste è solo l’uomo interiore.

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Robert Walser, La passeggiata, traduzione di Emilio Castellani, Adelphi, 1999.

 

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«Con grande attenzione e amore colui che passeggia deve studiare e osservare ogni minima cosa vivente: sia un bambino, un cane, una zanzara, una farfalla , un passero, un verme, un fiore, un uomo, una casa, un albero, una coccola, una chiocciola, un topo, una nuvola, un monte, una foglia, come pure un misero pezzettuccio di carta gettato via, sul quale forse un bravo scolaretto ha tracciato i suoi primi malfermi caratteri.

[…]

Guardavo attento a quanto v’era di più piccolo, di più modesto, mentre il cielo pareva inarcarsi alto e scendere profondo. La terra si faceva sogno; io stesso ero divenuto interiorità e procedevo come dentro di essa  […]. lo non ero più io, ero un altro, ma appunto perciò più che mai me stesso. Nella soave luce d’amore credetti di dover capire, o di dover sentire, che colui che veramente esiste è solo l’uomo interiore».

Robert Walser, La passeggiata, traduzione di Emilio Castellani, Adelphi, 1999

 

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Risvolto di copertina

La passeggiata (1919) è uno dei testi più perfetti di Walser, il grande scrittore svizzero che ormai, soprattutto dopo la pubblicazione delle sue opere complete, viene posto accanto a Kafka, a Rilke, a Musil – ammesso cioè fra i massimi autori di lingua tedesca del nostro secolo. Ma La passeggiata ha anche un significato peculiare in rapporto a tutta l’opera di Walser: è in certo modo la metafora della sua scrittura nomade, perpetuamente dissociata e abbandonata agli incontri più incongrui, casuali e sorprendenti, come lo è appunto ogni accanito passeggiatore – e tale Walser era –, che abbraccia amorosamente ogni particolare del circostante e insieme lo osserva da una invalicabile distanza, quella del solitario, estraneo a ogni rapporto funzionale col mondo. In un décor di piccola città svizzera, e della campagna che la circonda, il passeggiatore Walser ci guida, con la sua disperata ironia, in un labirinto della mente, abitato da figure disparate, dalle più amabili alle più inquietanti. Da Eichendorff a Mahler, il vagabondaggio è stato un archetipo ricchissimo della più radicale letteratura moderna. Tutta quella grande tradizione sembra condensarsi, quasi clandestinamente, nella Passeggiata di Walser, a cui lo scrittore ci invita col suo irresistibile tono: «Lei non crederà assolutamente possibile che in una placida passeggiata del genere io m’imbatta in giganti, abbia l’onore d’incontrare professori, visiti di passata librai e funzionari di banca, discorra con cantanti e con attrici, pranzi con signore intellettuali, vada per boschi, imposti lettere pericolose e mi azzuffi fieramente con sarti perfidi e ironici. Eppure ciò può avvenire, e io credo che in realtà sia avvenuto».

 

Winfried Georg Sebald, Il passeggiatore solitario, Adelphi, 2006

Winfried Georg Sebald, Il passeggiatore solitario, Adelphi, 2006


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Pablo Neruda (1904-1973) – Amo i libri esploratori, ma odio il libro ragno in cui il pensiero ha disposto filo velenoso.

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Ode al libro

Ode al libro

«Amo i libri
esploratori,
libri con bosco o neve,
profondità o cielo,
ma
odio
il libro ragno
in cui il pensiero
ha disposto filo velenoso
perché là s’impigli
la giovanile e svolazzante mosca».

Pablo Neruda, Odi elementari.

Traduzione di Antonio Melis

 

Odi elementari

 


Pablo Neruda (1904-1973) – È cosi che nasce la poesia: viene da altezze invisibili. Canto e fecondazione è la poesia: l’ho concentrata come prodotto vitale della mia stessa esperienza, circondato dalla folla adorabile, dall’infinita e ricca moltitudine dell’uomo.

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Angelo Magliocco – Il dualismo bìos/zoè e lo stato d’eccezione in Giorgio Agamben.

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Angelo Magliocco

Il dualismo bìos/zoè e lo stato d’eccezione in Giorgio Agamben

Il testo di Giorgio Agamben, Homo sacer (Einaudi), sviluppa parallelamente due concetti, a prima vista irrelati, dimostrando successivamente un loro legame basato sulla fungibilità di uno rispetto all’altro.
Il primo è il concetto di eccezione, di cui Agamben analizza le formulazioni sociali, assieme alle radici logico-matematiche delle nozioni di esclusione/inclusione; il secondo quello di nuda vita, di zoè, vita meramente considerata sotto l’aspetto biologico, in contrapposizione alla vita di relazione e di società, bìos.
La superiorità del bìos rispetto alla zoè, nell’accezione antica, risulta chiaramente dalla figura di diritto romano dell’homo sacer, che designa un individuo punito con l’espulsione dal consesso sociale, cui è stata sottratta qualsiasi fisionomia civilis e divina, lasciando un residuo costituito da pura biologia (zoè), puro respiro del corpo. Tale soggetto diventa a quel punto inefficace a palesare in società le sue qualità civiles, come anche a santificare il divinus come soggetto passivo di sacrificio umano, risultando inadatto persino a questo compito. L’unica caratteristica che gli resta è dunque la vivibilità, curiosamente legata a filo doppio al suo contraltare, l’uccidibilità: lo si lasci pur vivere, ma chiunque, se vuole, ne provochi senz’altro la morte. Questi non sarà considerato responsabile di omicidio, in quanto una responsabilità in tal senso deriverebbe dal complesso di legami sociali (bìos), rispetto a cui una pura zoè è su un piano di antecedenza.
Tale esclusione sociale, peraltro, è integralmente contemplata a un livello pregiuridico, e come tale è inclusa nell’ordinarietà del complesso di relazioni sociali. Agamben riflette allora sul fatto che il complesso sociale è, in un certo senso, costitutivamente bipartito, o sarebbe meglio dire bipartizionante, prevedendo già in anticipo al suo interno una linea di demarcazione tra individui che, appartenendovi, sono da considerarsi inclusi in esso e di altri che, sempre e ancora appartenendovi, sono da considerarvi esclusi. Ricorrendo a nozioni di insiemistica e di logica, egli afferma che l’appartenenza logica a un insieme non coincide con l’inclusione: è naturale che tutti gli individui, anche gli esclusi, appartengano al complesso sociale, ma, appunto, da esclusi. Se non appartenessero ex ante al complesso sociale, non ci sarebbe bisogno di definirne i criteri di esclusione, e pertanto non può che affermarsi che l’esclusione abbia una funzione intra-sociale di manovra sul corpo sociale stesso.
Il termine manovra rimanda a un manovratore. È prerogativa del sovrano, se assoluto, o negli Stati democratici del potere che ne incarna la volontarietà pregiuridica (cioè di determinare la validità del diritto stesso) esercitare questa manovra, che si attua concretamente attraverso lo stato d’eccezione. È prerogativa del sovrano stabilire quando e in che modo si eccepisce alle condizioni di normalità sociale del bìos ricadendo nella mera zoè. A parere di Agamben, da un lato è molto semplice rilevare l’applicazione di questo stato di decidibilità, sia ad individuum che ad classem, sotto la reggenza di un sovrano assoluto, dall’altro tale stato permane comunque, ed è anzi più surrettizio in quanto meno palese, anche laddove la struttura sociale abbia espressamente escluso il governo di una sola persona, reimpostando l’intero paradigma sociale attorno al concetto di uguaglianza democratica. Altre forme di governo del sociale, mai dichiaratamente tali, concorrono allora ad attuare lo stato d’eccezione, con modalità rinnovate, ma analoghe a quelle che da tempo immemore la figura latina ha codificato: un esempio odierno può essere la genetica, o peggio l’eugenetica (il governo della pura zoè e della sua normalizzazione), un altro del passato recente il campo di concentramento (in cui una classe di individui è stata codificata come in-civilis).
Agamben afferma che tutti gli Stati, odierni e non, vedono una deriva che va a estendere lo stato d’eccezione, come in una sorta di entropia in costante accrescimento. Pertanto, il rapporto suddito/sovrano, quale che sia la morfologia in cui si esprima (ad es. democratica o non), deve ripartire dalla presa di coscienza di questa sua funzione inerentemente eccepente, inerentemente de-bìo-logizzante, che tende a trasformare la politica in biopolitica, e in ciò il richiamo a Foucault e alle tematiche da questi affrontate appare pieno ed evidente.

Angelo Magliocco

 

 

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Angelo Magiocco,
Il dualismo bìos:zoè e lo stato d’eccezione in Agamben

 


Quarta di copettina

Ogni tentativo di ripensare le nostre categorie politiche deve muovere dalla consapevolezza che della distinzione classica fra zoé e bios, tra vita naturale ed esistenza politica (o tra l'uomo come semplice vivente e l'uomo come soggetto politico), non ne sappiamo piú nulla. Nel diritto romano arcaico homo sacer era un uomo che chiunque poteva uccidere senza commettere omicidio e che non doveva però essere messo a morte nelle forme prescritte dal rito. È la vita uccidibile e insacrificabile dell'«uomo sacro» a fornire qui la chiave per una rilettura critica della nostra tradizione politica. Quando la vita diventa la posta in gioco della politica e questa si trasforma in biopolitica, tutte le categorie fondamentali della nostra riflessione, dai diritti dell'uomo alla democrazia alla cittadinanza, entrano in un processo di svuotamento e di dislocazione il cui risultato sta oggi davanti ai nostri occhi. Seguendo il filo del rapporto costitutivo fra nuda vita e potere sovrano, da Aristotele ad Auschwitz, dall'Habeas corpus alle Dichiarazioni dei diritti, il libro di Agamben cerca di decifrare gli enigmi - prima di tutti il fascismo e il nazismo - che il nostro secolo ha proposto alla ragione storica. Fino a vedere, nel campo di concentramento, il paradigma biopolitico nascosto della modernità in cui città e casa sono diventate indiscernibili e la possibilità di distinguere tra il nostro corpo biologico e il nostro corpo politico ci è stata tolta una volta per tutte.

 

Indice

Introduzione. – Parte prima. Logica della sovranità.Parte seconda. Homo sacer.Parte terza. Il campo come paradigma biopolitico del moderno. – Bibliografia. – Indice dei nomi.

 


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