Paolo Jedlowski – Nell’orizzonte di senso della mia generazione c’era anche il senso della critica, il non adattarsi alle cose come stanno. L’atteggiamento critico si ibridava con il pensiero utopico che è pensiero e slancio e funziona come funziona la speranza.



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo – La «SuperLega» Calcio impone i «nuovi gladiatori» come modello mercantile del capitalismo assoluto. Liberare il gioco dalla competizione distruttiva è un imperativo etico e sociale.

Superlega - Gladiatori

Salvatore Bravo

La «SuperLega» Calcio impone i «nuovi gladiatori»
come modello mercantile del capitalismo assoluto.

Liberare il gioco dalla competizione distruttiva è un imperativo etico e sociale

***


Nuovi gladiatori
Il capitalismo assoluto è in perenne azione distruttrice, divora ed assimila, non ammette perdite, deve riempire ogni spazio materiale ed immateriale con la forza del plusvalore. La logica che lo muove è intrinseca ad esso: il guadagno. Il capitalismo è ancipite: libero da ogni vincolo e nel contempo costretto la seguire la sua stessa legge, si muove per necessità, non conosce contraddizione, è forza assimilatrice che non ha altra prospettiva che la propria legge. La violenza del capitale cela la sua debolezza nella sua stessa libertà-necessità. L’assenza del senso del limite, il porsi secondo una modalità “a-dialettica”, lo conduce gradualmente a scollarsi dalla realtà, a vivere in una realtà astratta ed astorica. Il capitalismo assoluto vive in un tempo mitico, benché agisca nel solo orizzonte mondano, fino a diventarne il dio che, mentre si espande, regna nella malinconia delle passioni tristi.
Il costituirsi della Superlega sportiva con l’istituzione di un campionato europeo è un altro salto verso la competizione totale, verso il plusvalore senza limiti e confini. Lo sport diviene “realtà mitica” sganciata da ogni senso ultimo e verità per rafforzare ancor di più il proprio ruolo di oppio dei popoli con cui saccheggiare i magri guadagni dei sudditi da stordire con un nuovo torneo. La cui finalità è certo quella di compensare le perdite dovute al Covid 19. Il campionato europeo presuppone la “dequalificazione” dei campionati nazionali. Il cosmopolitismo sportivo diviene un altro tassello per “educare” all’estraneità al territorio, per formare a pensare in modo “europeo”, ovvero a competere, trasformando giocatori e squadre in gladiatori. Lo sport, il calcio i particolare – già fortemente inquinato dalle logiche crematistiche – scompare definitivamente nel suo valore ludico, sociale e comunicativo dietro i colpi dei nuovi gladiatori che – in nome della visibilità mondiale – saranno disponibili ad una lotta assai poco sportiva. Lo sport è il nuovo laboratorio dove si allenano i nuovi gladiatori: la violenza è resa istituzionale. Attraverso lo sport dei gladiatori si offre alle nuove generazioni un violento modello mercantile a cui dover far riferimento nel quotidiano, si diseduca all’agire comunitario mediante il gioco (che per sua natura è duale). Le nuove generazioni guarderanno ai nuovi gladiatori ammirandoli, e trasformando il regressivo desiderio di apparire nel narcisismo generalizzato della violenza. Ecco allora che lo sport capitalistico si concretizza nella pratica del nichilismo, in cui includere tutti. Si noti il grande successo del calcio femminile che ripete le medesime logiche dello sport azienda prodotto per il mercato, nel silenzio di ogni componente femminile.


Sport e comunità
Lo sport ha la sua verità, e solo comprendendone i fondamenti è possibile capirne la perversione cui addiviene. Lo sport non è solo tempo ludico, in cui si comunica con la corporeità vissuta, ma è anche educazione all’armonia del corpo e della mente. Nello sport vive in modo concreto la natura comunitaria umana che si forma, anche, mediante la pratica sportiva. Platone nelle Leggi ne descrive il valore educativo. Lo sport come la musica insegna a “sincronizzarsi” con l’altro, a liberarsi dall’individualismo per preparare alla condivisione ed alla collaborazione. Lo sport diviene propedeutico a vivere in comunità:

«Le lezioni possono essere divisi in due tipi: gli esercizi che riguardano il corpo, e la musica, che aggiorna l’anima. Ci sono due tipi di lezioni che riguardano il corpo: lotta e balli. Ci sono due tipi di danza: liberi e nobili, e ciò che si propone è la forma fisica, l’ agilità, e la bellezza esercitando le varie parti del corpo, quando è praticato con vigore e con una fermezza graziosa e quando la forza e la salute vengono meno, non deve essere omessa poiché questi insegnamenti sono utili per tutti gli scopi. Quando si raggiunge questo punto nella nostra legislazione dovremmo pagare sia gli alunni che i loro insegnanti perché questi ultimi dovrebbero impartire queste lezioni con delicatezza, e gli alunni riceverle con gratitudine».[1]

 

Lo sport del nostro tempo è invece divenuto esercizio all’atomocrazia. Non solo l’orizzonte dell’utile (guadagno) scaccia ogni socialità, ma specialmente rende il corpo un feticcio da esporre, e non più comunicazione vissuta. Lo sport è, così, tempo del corpo da esporre nello spettacolo dell’arena, e fonda la “società” dell’invidia e dell’ossessione per la bellezza vincente.

 

Logos motorio
Lo sport riesce ad essere di tutti e per tutti a condizione di rispettare la legge della medietà, comune alla medicina ed alla filosofia. Galeno descrive le qualità dei giochi con la palla. Il clima di gioia che sostanzia gli esercizi permettono non solo lo sviluppo armonico del corpo, ma anche rinforzano il senso critico. La tensione positiva porterà i contendenti a gioire del risultato finale, in quanto lo scontro fisico è stato un incontro che ha giovato a tutti. Lo sport diviene “logos motorio”, ovvero i partecipanti imparano con la dialettica del gioco a verificare e sviluppare la propria intelligenza e la propria socialità:

«In primo luogo è la sua convenienza. Se si pensa a quanto tempo è necessario per le attrezzature per la caccia, si sa che nessun politico o artigiano possa partecipare a tali sport, quindi c’è bisogno di un uomo ricco con un sacco di attrezzature e tempo libero. Ma anche l’uomo più povero può giocare a palla, perché non richiede reti, né armi, né cavalli, né cani da caccia, ma solo una palla. Non interferisce con altre attività di un uomo e non lo induce a trascurare nessuna di loro. E cosa c’è di più conveniente di un gioco in cui tutti, non importa la sua condizione o di carriera, può partecipare? Troverete anche che è il miglior esercizio completo. Per gli altri esercizi troverete che uno è violento, un altro dolce; uno che esercita la parte superiore del corpo, o una parte del corpo come i fianchi o la testa o le mani o petto, invece che tutto il corpo. Nessuno mantiene tutte le parti del corpo ugualmente in movimento; nessuno ha un ritmo che può essere accelerato rallentato di nuovo. Solo l’esercizio con la palla raggiunge tutto questo. Quando i giocatori si allineano su lati opposti e si esercitano per ottenere la palla, allora è un esercizio violento, infatti così la testa e il collo sono esercitati, ed i lati e il petto e lo stomaco sono esercitati dagli abbracci e spintoni rimorchiatori. In questo gioco i fianchi e le gambe sono allungate tese violentemente, poiché forniscono una base per tale sforzo. La combinazione di correre avanti, indietro, e saltando di lato non è un piccolo esercizio per le gambe; se a dire il vero, questo è l’unico esercizio che mette tutte le parti della gamba in movimento. C’è lo sforzo da un insieme di tendini e muscoli nella corsa in avanti, su un altro insieme corsa all’indietro, e su un altro nel salto. Così come il gioco con la palla è un buon esercizio per le gambe, è ancora meglio per le braccia, perché è consuetudine di prendere la palla in ogni sorta di posizione. La varietà di posizioni peserà su diversi muscoli in diversa misura, e diverso tempo. E’ importante anche l’occhio se si pensa a come il giocatore non può prendere la palla se non ha giudicato il suo volo con precisione. Il giocatore inoltre affina le sue capacità critiche attraverso la pianificazione come prendere la palla e come strappare la palla, se gli capita di essere nel mezzo. La rivalità terminerà nel piacere, promuoverà la salute del corpo e l’intelligenza nella mente. Questo è un vantaggio importante se un esercizio può aiutare il corpo e la mente verso lo spigolo che è insito in ciascuno. Si può facilmente capire che giocare a palla aiuti le due più importanti manovre che uno Stato affida ai suoi generali: attaccare al momento giusto è necessario per difendere il bottino già accumulato e la lungimiranza del piano del nemico. La maggior parte degli esercizi producono gli effetti opposti, rendendo la mente lenta, assonnata, e noioso. La vittoria in guerra non appartiene coloro che possono scappare il più veloce, ma chi è in grado di prevalere in incontri ravvicinati. Gli Spartani non erano diventati i più potenti perché potevano correre più veloce, ma perché hanno avuto il coraggio di resistere e combattere. Sono particolarmente favorevole all’esercizio fisico che promuove la salute sufficiente per il corpo, lo sviluppo armonico delle sue parti, è necessario per lo spirito. Tutti questo si ritrova nell’esercizio con la palla. Si può beneficiare la mente in ogni modo, ed esercitare tutte le parti del corpo allo stesso modo. Esso contribuisce alla salute e alla moderazione delle condizioni fisiche, perché non causa né una corpulenza eccessiva né una magrezza smodata. E ‘adatto per azioni che richiedono resistenza e anche per coloro che esigono la velocità. Così la forma più faticosa della sfera di gioco non è in alcun modo inferiore ad altri esercizi».[2]

 

La Superlega è la pratica del solipsismo, strumentalizza i nuovi gladiatori globali che offrono al mercato delle aziende sportive il loro corpo, i loro muscoli, la loro capacità di ammaliare il pubblico in nome del successo finanziario. Il pubblico è solo fonte di reddito, massa informe che passivamente assiste alla morte dello sport, mentre ne è invaso, poiché gli incontri sportivi ed i campionati si moltiplicano consentendo solo a coloro che accedono ai canali a pagamento di “partecipare” alla bulimia competitiva. Il sistema fiorisce sulla divisione, ed ogni separazione ha una irta barriera innalzata con la forza del denaro, come sempre fattosi privilegio. La verità del neoliberismo è tra di noi, non è un destino, ma una “decisione umana troppo umana” con cui ci dobbiamo confrontare per capire ed emanciparci.

 

Gioco e crescita umana
La generale regressione etica e creativa usa i suoi cingolati in ogni aspetto della vita. Un’umanità a cui si sottrae il tempo del gioco, è privata della sua capacità divergente e critica, in quanto il gioco è fonte di conoscenza ed è relazione libera da ogni finalità produttiva: in tal modo la persona si confronta con ogni aspetto della propria personalità. Il gioco contribuisce all’umanesimo integrale senza il quale si cade negli automatismi acritici:

«Punto di partenza deve essere il concetto di una quasi infantile disposizione al gioco che si esterna in tante forme ludiche; in azioni cioè legate a regole e sottratte alla vita ordinaria, azioni nelle quali si possono sviluppare bisogni innati di ritmo, di alternazione, di gradazione antitetica, e d’armonia. […] Ogni essenza mistica e magica, ogni ente eroico musico, logico e plastico cerca forma ed espressione in un nobile gioco. La cultura comincia non come gioco o da gioco ma in gioco».[3]

 

Liberare il gioco dalla competizione distruttiva è un imperativo etico, poiché il riduzionismo capitalistico – con la competizione – sottrae il gioco e lo sport al loro significato e valore educativo. I processi di distruzione fatalmente innescati travolgeranno anche i competitori, ma è necessario elaborare una nuova visione del mondo con la quale attraversare l’era dei gladiatori con le sue tragedie.

Salvatore Bravo

[1] Platone, Leggi, 794 d – 796 d ca.
[2] Galeno, On Exercise with the Small Ball, in S. G. Miller, Areté: Greek Sports from Ancient Sources, University of California Press, 2004, pp.121-124
[3] J. Huizinga, Homo Ludens, Einaudi, Torino 2002, p. 88.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Armando Petrucci (1932-2018) – Le scritture ultime. Ideologia della morte e strategie dello scrivere nella tradizione occidentale. pratiche scrittorie e prodotti scritti adoperati dagli uomini per ricordare in modo pubblico i defunti.

Armando Petrucci 01


In questo libro non si vuole prendere in esame la sconfinata letteratura dedicata dalle diverse culture umane al tema della morte. Si vuole invece designare il complesso di pratiche scrittorie e di prodotti scritti adoperati dagli uomini per ricordare in modo pubblico i defunti. La ricostruzione di questo tipo di attività e dei suoi molteplici prodotti è sembrata particolarmente adatta per capire a quali fini e per quali categorie sociali queste pratiche sono state messe in atto, in quali modi esse si sono sviluppate, come si sono alternate nel tempo, chi hanno coinvolto e interessato, quale spazio hanno occupato e quale peso hanno avuto nelle culture scritte appartenenti alla tradizione occidentale.
È ben noto quanto, nella costituzione della cultura umana, abbiano avuto importanza, sin dai tempi pio remoti, i modi, gli strumenti, le cerimonie di quella che Jean-Paul Vernant ha felicemente definito la «politica della morte che ogni gruppo sociale per affermarsi coi suoi tratti specifici, per durare nel tempo nelle sue strutture e nei suoi orientamenti, deve instaurare e gestire con continuità secondo regole che gli sono proprie.

[…]

«I cedri verdeggianti sovra le sepolture, effigiati dalla spada in simulacri d’uomo, sorgono da lontano custodi della memoria d’egregi mortali; e a’ tronchi corrosi dalle stagioni sorrentrano ruvidi marmi, ove nel busto informe dell’eroe sono scolpite imitazioni di fiere e di piante, a ciascheduna delle quali e alle loro combinazioni sono consegnate piu serie d’idee che tramandano il nome di lui, le conquiste, le leggi date alla patria, il culto istituito agli iddii, gli avvenimenti, le epoche, le sentenze e l’apoteosi che l’associò al coro de’ beati: cosi prime are degl’immortali furono i sepolcri».

Sono parole di Ugo Foscolo, che in un discorso del 1809 (tre anni dopo la composizione de I Sepolcri) cos’ raffigurava retoricamente a sé e agli altri i modi e le forme delle più antiche sepolture. Oggi il quadro che possiamo farci delle prime fasi di questa attività tipicamente umana è più preciso e più articolato.
Oggi sappiamo che molte diecine di migliaia di anni fa, fra il 70.000 e il 35.000 a.C., l’uomo di Neanderthal, spinto da pulsioni di natura religiosa e da timori reverenziali, cominciò a seppellire alcuni almeno dei suoi morti in fosse contigue, a volte aggiungendovi offerte e doni; che più tardi, nel corso del paleolitico superiore (fra il 35.000 e l’8.500 a. C.) le consuetudini funerarie si fecero più frequenti e complesse e che a volte le sepolture vennero segnalate con pietra o ocra rossa, che servì anche a colorare alcuni cadaveri.
Che tutto ciò rappresentò un avanzamento enorme delle capacità di ragionamento e di astrazione dell’uomo, che evidentemente proprio allora cominciò a munirsi di strategie di controllo e di esorcizzazione del più terribile evento che lo colpiva direttamente nella struttura familiare cui apparteneva e che minacciava la sua stessa proiezione vitale. Che in questa lontanissima epoca furono poste le basi di pratiche funerarie che poi durarono anche nei pochi millenni della nostra sroria meglio conosciuta. Che le culture dei neanderthaliani e degli «homines sapientes’ sapientes» loro succeduti ‘si erano già posti i problemi fondamentali della inviolabilità, della durabilità e del ricordo dei depositi funerari e che avevano anche trovato ad essi alcune risposte, certamente inadeguate e fragili, ma entro certi limiti tutte funzionali e razionali. Soprattutto che essi erano riusciti ad organizzare un rapporto con la morte secondo il quale i defunti continuavano una qualche forma di vita in un mondo a sé, diverso da quello dei vivi; e che ad essi andava riservato un territorio delimitato, che permettesse loro di restare separati dal mondo dei viventi, senza intrusioni destabilizzanti; e che occorreva mantenerli nel loro mondo, sia provvedendo con offerte ai loro bisogni, sia impedendo loro di uscire dai luoghi riservati con recinzioni e coperture non soltanto simboliche.
Tutto ciò fini per comportare anche pratiche di segnalazione del luogo dei morti mediante cumuli di pietre, grosse pietre singole, recinzioni visibili e cosi via; mentre l’eventuale ricordo delle singole sepolture, cioè dei singoli defunti, restava probabilmente affidato alla memoria ed alla trasmissione orale delle relative informazioni all’interno di ciascuno dei gruppi interessati.
Quando, nel corso del neolitico, si passò da un sistema di fosse più o meno organizzato a veri e propri sistemi di tombe, allora il problema della segnalazione dei depositi funerari, in funzione sia della separazione dei morti dai vivi, che delle pratiche di offerte dei vivi ai morti, si pose in modi più concreti e complessi. In questo periodo, com’è noto, si passò a un sistema di produzione basato sull’agricoltura e sull’allevamento, si formarono i primi aggregati urbani, la società si articolò in classi e in categorie differenti per rango e funzioni. Ed è proprio allora, fra neolitico ed età del bronzo, che, in civiltà fra loro diverse e in diverse regioni d’Europa, d’Asia e d’Africa, si adottarono sistemi di segnalazione di alcune tombe (non di tutte) con alti tumuli di terra e pietre, si costruirono le tombe a dolmen per interi clan familiari e utili per più generazioni, si realizzarono infine a Micene le grandi tombe circolari a tholos per i re. In questi casi la volontà di segnalare il luogo dei morti si uni alla volontà di distinguere il luogo di alcuni morti da quello di altri; e dunque il messaggio contenuto nella segnalazione divenne più complesso e rivolto alla società nella sua interezza, non più soltanto ai pochi interessati diretti, appartenenti alla medesima famiglia, al medesimo nucleo e gestori del medesimo spazio funerario.

Armando Petrucci, Le scritture ultime. Ideologia della morte e strategie dello scrivere nella tradizione occidentale, Einaudi, Torino 1995, p. XIV e pp. 4-5.



Risvolto di copertina

Una storia che corre tra le testimonianze figurative dei morti in Occidente, attraverso 1’esame delle pratiche scrittorie e di quanto è stato prodotto per ricordare in modo pubblico i defunti, nelle civiltà mediterranee, in Europa, nell’ America settentrionale. Un racconto che segue un itinerario di millenni, a partire dagli inizi, dalla preistoria, e procede tra geografie e vicende svariatissime avendo come protagonisti epigrafi, sculture, monumenti, iscrizioni, graffiti, segnali ma anche quanto è stato messo in atto, via via, per riprendere e sottolineare nel tempo il bisogno di indicare e di testimoniare la presenza dei morti. Lo aveva anticipato Viollet-Le-Duc, sintetizzando al massimo: è possibile intendere la storia dell’umanità attraverso l’esame delle tombe. È questo il filo rosso del libro di Petrucci.

Storia non già «della morte» ma «dei morti », di uomini per i quali altri uomini hanno elaborato e scritto il ricordo. Di conseguenza, storia di ciò che è stata chiamata la« politica della morte», le figure e le regole con cui ogni gruppo sociale vuole sia riconosciuto e fatto valere nel tempo quanto gli appare caratterizzare meglio i propri tratti specifici, le strutture e gli orientamenti. Petrucci tesse il suo racconto, procedendo fra diseguaglianze e discontinuità, indagando su chi di questa strategia di identità è stato autore o protagonista, sul come le svariate «politiche» si sono alternate nel tempo, chi hanno coinvolto, quale spazio hanno occupato e quale peso hanno avuto entro le culture scritte della tradizione occidentale.

Accanto a questi aspetti, che possiamo definire di organizzazione collettiva, i personaggi, i protagonisti della nostra storia. Intanto chi progetta i modi dello scritto in memoria, ne fornisce i formulari e i modelli, guida le esecuzioni formali, fonda tradizioni formali e figurative sempre più vincolanti: – per il sacerdote, l’intellettuale, il politico, – una figura decisiva quanto dai tratti incerti. Quindi il pubblico, per il quale è innalzato il monumento o redatto lo scritto: è a lui che l’uno e l’altro vogliono sia noto un ricordo o un avvenimento. Infine il corpo stesso del defunto, lontano o vicino al luogo in cui ne compare la memoria, prossimo o rimosso dal territorio dei viventi.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Renato Curcio – È tempo di ridare la fiducia e la dignità che meritano al pensiero critico e alle pratiche di conflitto indispensabili per poter ristabilire il primato dell’umano sull’artificiale, dell’intelligenza relazionale sull’intelligenza artificiale, della laicità comunista sulla religione cibernetica.

Renato Curcio - Identità cibernetiche


Quarta di copertina

Il paradigma della dissociazione identitaria, così come è stato posto da Janet sul finire dell’Ottocento e sviluppato da Hilgard, Ludwig, Lapassade e altri nel Novecento, si misura oggi con l’utilizzo dei più comuni dispositivi digitali da parte di un numero crescente di umani. La tesi sulla quale si incardina questo lavoro mette in luce una nuova forma di dissociazione adattativa, qui definita sdoppiamento digitale, indotta dal progressivo spostamento della vita di ciascuno dalle relazioni in presenza alle connessioni. Lavoro da casa, didattica a distanza, politica social-mediata, obbligando all’accesso a piattaforme e all’uso di dispositivi digitali, richiedono all’individuo di dissociarsi in una o più identità di connessione. Come queste identità siano vulnerabili a essere manipolate e, in prospettiva, comandate a distanza, riducendo progressivamente l’autonomia di pensiero e di azione, è il territorio su cui questo libro si affaccia per avviare una riflessione collettiva e un confronto con quanti si augurano che la tecnologia digitale possa un giorno essere messa al servizio degli umani, all’opposto di quanto oggi accade.


«[…] le tecno-scienze digitali fanno ormai parte della nostra vita quotidiana e, a loro modo, stanno modificando alla radice gli assetti identitari che hanno caratterizzato l’era precedente e in particolare gli anni dell’industrializzazione capitalistica. Oggi, non prendersi cura delle proprie identità di connessione, esposte all’insidia permanente della colonizzazione cibernetica, disinteressarsene – come viene fatto purtroppo da molti sotto l’effetto abbagliante della chincaglieria digitale e delle sue suggestioni – vuole dire affidare fideisticamente il proprio destino agli ingegneri e agli alchimisti digitali di aziende come Google, Amazon, Microsoft e Apple. D’altra parte, prendersi cura delle nostre identità di connessione significa dedicare a esse il tempo necessario alla loro più approfondita conoscenza e all’esplorazione delle trappole progettate e disseminate dai nuovi colonizzatori per catturarle e metterle al loro servizio. A questo compito, nelle pagine che seguono, proverò a dare il mio piccolo contributo. […]» (p. 8).

«[…] Ciò che vedremo […] non sarà altro che l’espansione abnorme di quanto già stiamo vedendo e riproducendo: l’accrescimento a dismisura della posizione dominante di un numero sempre più esiguo di gruppi capitalistici digitali multimiliardari e l’impoverimento, anzi, l’immiserimento, di una porzione maggioritaria e crescente della popolazione, la crescita esponenziale delle disuguaglianze. In ogni caso non potremo evitare una evoluzione digitalizzata della nostra configurazione identitaria poiché l’insieme delle nostre identità di connessione verrà spronato ad articolare e a rafforzare sempre più la sua posizione già oggi quasi “dominante” rispetto all’insieme delle nostre identità di relazione.
Una dialettica conflittuale e intracorporea dalla quale – come molti segni già ci hanno mostrato – usciremo tutti profondamente marchiati e trasformati. Ciò che però va qui urgentemente compreso e criticamente affrontato è il fatto che questa duplicità identitaria non si sta istituendo nella forma di “o l’una o l’altra” […] bensì in quella assai più complessa e sconosciuta nei suoi esiti di “l’una e l’altra”, ovvero nella stabilizzazione permanente di una dissociazione identitaria strutturata stabilmente, simultanea e bidimensionale. E già oggi per molti, se non ancora per tutti, di un inquietante sdoppia mento.
In questa duplicità complessa si radica forse la questione più scottante, perché dal grado di consapevolezza delle sue implicazioni dipendono la deriva distruttiva dello sdoppiamento o l’assunzione di una allerta critica e conflittuale. Nel primo caso, infatti, prevarrebbe l’obbedienza passiva agli algoritmi proprietari, nel secondo, invece, la disposizione a battersi per una Internet degli umani.
[…] Anche i dispositivi dell’obbedienza sociale in questa espansione del continente digitale si vanno radicalmente riconfigurando. […] Obbedire in presenza, obbedire a distanza. Ma in ogni caso obbedire. […] Nel continente digitale il comando diventa a tal punto istantaneo, diretto e personalizzato che a esso si può opporre solo un “sì” o un “no”; dove al “no” corrisponde l’estromissione immediata dal sistema. Intendo dire che per restare nel sistema diventa necessario “praticare il sì”. Si può forse disobbedire agli automatismi dell’intelligenza artificiale che organizza il traffico dei messaggi di una chat? Solo uscendo da essa lo si può fare. Ubbidendo, invece, si assume e si fa propria una condotta sociale standardizzata che prevede la cessione di dati all’azienda proprietaria; la rinuncia alla privacy barattando in cambio «tutte le comodità che oggi i giganti del web ci assicurano» . Non solo un comportamento, dunque, ma anche la muta sottomissione a uno sfruttamento e il coinvolgimento attivo nella propria colonizzazione.
[…] Non possiamo ignorare che, nel bene e nel male, la società digitale […] ci chiede di abbracciare la fede nella capacità delle tecno-scienze digitali e delle loro applicazioni, di sollevarci a uno stadio più maturo della convivenza sociale e di ridurre la forbice delle disuguaglianze sociali.
Certo, così non potrà essere proprio “per tutti”. D’altra parte, per il modo di produzione capitalista, gli obsoleti, gli inadeguati, gli inutili e gli indesiderabili sono sempre stati, e restano ancora, nient’altro che un costo e una disdetta.
Che il pensiero critico possa però avere la meglio su questa nuova religione cibernetica è un assunto che, per il momento, non trova conferme nella storia e nel presente. […]
Prendere atto di questo stato di cose – ovvero del fatto che il capitalismo digitale, in assenza di resistenze e altri immaginari istituenti, ci sta sospingendo nel vortice di una ulteriore e più profonda mutazione – sembra essere il presupposto elementare e necessario per riconsiderare il continente virtuale come un campo di battaglia entro cui le identità umane di connessione, per restare umane, dovranno assumere una posizione critica e un atteggiamento istituente.
A fronte dell’obbedienza vilmente barattata si dovranno disporre ad affrontare nuove domande sui fondamenti della convivenza sociale. Questo, del resto, è ciò che sta facendo quell’internazionale battagliera composta oggi da tutti coloro che in un modo o nell’altro, senza il confallo di una “appartenenza” si battono comunque per una “Internet di tutti” contro chi persegue una “Internet del tutto”.
Una Internet al servizio dei corpi viventi e non orientata al loro controllo cibernetico, alla predazione dei loro dati e, in definitiva, al loro sfruttamento e alloro dominio.
È tempo, per concludere, di ridare la fiducia e la dignità che meritano al pensiero critico e alle pratiche di conflitto indispensabili per poter ristabilire il primato dell’umano sull’artificiale, dell’intelligenza relazionale sull’intelligenza artificiale, della laicità comunista sulla religione cibernetica. È tempo di dedicarsi a pratiche reinventate di confronto in presenza e alla più ampia e approfondita ricerca collettiva di istituzioni liberate dal codice sorgente dello scambio ineguale e, soprattutto, creativamente autogestite.
Oggi più che mai tutto ciò è diventato urgente e necessario anche se soltanto un vasto e globale processo istituente riuscirà a immaginare davvero cosa comporti questa nuova sfida. Ma sappiamo che da essa dipende quantomeno la sopravvivenza della nostra personale ed elementare libertà di decidere come affrontare e vivere i piccoli e i grandi momenti della nostra vita quotidiana, territori strategici del conflitto e fondamento irrinunciabile di ogni altra libertà» (pp. 108-113).

Renato Curcio, Identità cibernetiche. Dissociazioni indotte, contesti obbliganti e comandi furtivi, Sensibili alle foglie, Roma 2020.


Indice



L’ impero virtuale. Colonizzazione dell’immaginario e controllo sociale, 2015

Alcune aziende che quindici anni fa non esistevano, come Google e Facebook, oggi costituiscono la nuova e potente oligarchia planetaria del capitalismo digitale. Internet ne rappresenta l’intelaiatura, e i suoi utenti, vale a dire circa tre miliardi di persone, la forza lavoro utilizzata. Le nuove tecnologie digitali fanno ormai parte della nostra vita quotidiana, le portiamo addosso e controllano tutti gli ambienti della vita sociale, dai luoghi di lavoro ai templi del consumo. Questo libro propone una riflessione sui dispositivi attraverso i quali questa oligarchia e queste tecnologie catturano e colonizzano il nostro immaginario a fini di profitto economico e di controllo sociale. E mette in luce il risvolto di tutto ciò, ovvero l’emergere di una nuova e impercepita sudditanza di quel popolo virtuale che, riversando ingenuamente messaggi, fotografie, selfie, e desideri su piattaforme e social-network, contribuisce con le sue stesse pratiche a rafforzare il dominio del nuovo impero. Non conosciamo ancora le conseguenze sui tempi lunghi di questo ulteriore passaggio del modo di produzione capitalistico. Chiara invece appare la necessità di immaginare pratiche di decolonizzazione.


L’ egemonia digitale. L’impatto delle nuove tecnologie nel mondo del lavoro, 2016.

Il percorso di un cantiere socioanalitico sui modi in cui l’impero virtuale cerca di costruire la sua capacità egemonica nel mondo del lavoro. Ripercorrendo la micro-fisica dei processi innescati dai dispositivi digitali che mediano l’attività lavorativa – smartphone, piattaforme, sistemi gestionali, registri elettronici – si esplorano alcune metamorfosi radicali che, mentre rovesciano il rapporto millenario tra gli umani e i loro strumenti, sconvolgono ciò che fino a ieri abbiamo chiamato “lavoro”. Alcuni territori chiave – la digitalizzazione della scuola, della professione medica, dei servizi, dei trasporti condivisi, dei grandi studi legali e delle banche assunti come analizzatori, ci raccontano l’impatto trasformativo delle nuove tecnologie e il disorientamento dei lavoratori. Ma fanno anche emergere le linee liberticide su cui questo processo procede: la cattura degli atti, la dittatura dei dati, il trionfo della quantità e le narrazioni sostitutive con cui esso si racconta. Analizzando le tendenze – l’autismo digitale, l’obesità tecnologica, l’ethos della quantità, lo smarrimento dei limiti – ci si interroga sulla differenza tra progresso sociale e progresso tecnologico.


La società artificiale. Miti e derive dell’impero virtuale, 2017.

Questo libro s’interessa delle implicazioni sociali dei nuovi strumenti digitali e del significato concreto che nella vita di relazione quotidiana, nella politica, negli stati di coscienza e nel mondo del lavoro espressioni come big data, profilazione predittiva, intelligenza artificiale, cloud, robot umanoidi, internet delle cose, vengono realmente a configurare. Più in generale questa esplorazione cerca di mostrare come “progresso sociale” e “tecnologie digitali” non siano affatto sinonimi. E anzi, come queste ultime innervino l’architettura di classe capitalistica invadendo e aggredendo dall’interno lo spazio vitale essenziale delle relazioni umane. Ben oltre la società industriale, la società dello spettacolo e la modernità liquida, la società artificiale ci mette dunque di fronte al germe accattivante e vorace di un nuovo totalitarismo. Un totalitarismo tecnologico che, a differenza di quelli ideologici del Novecento, invade e colonizza il luogo più “sacro” e fondamentale della libertà. D’altra parte, una matura consapevolezza di questa estrema deriva può essere anche il punto di partenza per un’ulteriore rimessa in discussione delle classi sociali e del destino di specie.


L’ algoritmo sovrano. Metamorfosi identitarie e rischi totalitari nella società artificiale, 2018.

Ripercorrendo le tappe salienti della colonizzazione della rete e delle identità virtuali dei suoi frequentatori, nella prima parte del libro si porta l’attenzione su alcuni dei dispositivi nascosti che stanno velocemente dissodando il terreno di una nuova e inedita deriva totalitaria. Nella seconda parte, si spinge lo sguardo sulle frontiere opache in cui gli Stati a più alta propensione digitale provano a difendere da questa sfida transumanista il loro stesso futuro, ma in una prospettiva cieca, “al rialzo”. Come in un incubo – documentato e niente affatto distopico – si profilano così i contorni di simil-democrazie dalle libertà sostanziali vacillanti in cui i cittadini, assoggettati biometricamente a un codice unico personale, si dispongono a riprodursi come cloni volontari di un algoritmo sovrano. Naturalmente, un’alternativa c’è ancora: prendere atto della nostra incompiutezza come specie e riportare la barra della nostra vita sociale anzitutto sui legami, sulle comunità istituenti e sulle relazioni faccia-a-faccia. Non “contro le tecnologie digitali” ma portando la critica direttamente alla radice del modo di produzione capitalistico che esse riproducono.


Il futuro colonizzato. Dalla virtualizzazione del futuro al presente addomesticato, 2019.

Dopo aver passato in rassegna i vari modelli di futuro che vengono avanzati dalle grandi aziende dell’oligarchia digitale, l’Autore si sofferma e s’interroga in particolare su alcuni fondamentali territori: le biotecnologie faustiane di intervento sul DNA; le ambigue previsioni sull’intelligenza artificiale; gli approcci disciplinari a cui si ispirano i nuovi paradigmi della sorveglianza; le ridefinizioni del lavoro – stretto tra l’obsolescenza di alcune sue figure novecentesche e l’emersione di nuove professioni dalla vita breve – e infine, le retoriche sulla necessità di un riallineamento dei cittadini al nuovo contesto digitale attraverso strategie di formazione lungo l’arco dell’intera vita. Nel contesto iper-capitalistico in cui viviamo, l’oligarchia digitale, assumendo nei fatti i propositi dell’ideologia transumanista, si è data l’obiettivo di colonizzare il pianeta, superando definitivamente i limiti dell’umano. A fronte di questa prospettiva, sembrerebbe urgente e necessario cominciare un percorso di decolonizzazione della rete e dell’immaginario.


Identità cibernetiche. Dissociazioni indotte, contesti obbliganti e comandi furtivi, 2020

Il paradigma della dissociazione identitaria, così come è stato posto da Janet sul finire dell’Ottocento e sviluppato da Hilgard, Ludwig, Lapassade e altri nel Novecento, si misura oggi con l’utilizzo dei più comuni dispositivi digitali da parte di un numero crescente di umani. La tesi sulla quale si incardina questo lavoro mette in luce una nuova forma di dissociazione adattativa, qui definita sdoppiamento digitale, indotta dal progressivo spostamento della vita di ciascuno dalle relazioni in presenza alle connessioni. Lavoro da casa, didattica a distanza, politica social-mediata, obbligando all’accesso a piattaforme e all’uso di dispositivi digitali, richiedono all’individuo di dissociarsi in una o più identità di connessione. Come queste identità siano vulnerabili a essere manipolate e, in prospettiva, comandate a distanza, riducendo progressivamente l’autonomia di pensiero e di azione, è il territorio su cui questo libro si affaccia per avviare una riflessione collettiva e un confronto con quanti si augurano che la tecnologia digitale possa un giorno essere messa al servizio degli umani, all’opposto di quanto oggi accade.

Renato Curcio – Introduzione al libro di Franco Del Moro, «Il dubbio necessario»: “Le persone che si adattano ad attività di pura sopravvivenza non raggiungono mai una piena realizzazione dei propri desideri, delle proprie capacità e aspirazioni: la vastità identitaria è la vera dimensione dell’esperienza umana nella creazione di nuovi mondi di senso”.
Renato Curcio – La materia più preziosa al mondo è l’anima degli umani, il loro immaginario. L’impero virtuale non è che la storia recente di una nuova e più insidiosa strategia di colonizzazione dell’immaginario.
Renato Curcio – Ben oltre la società industriale, la società dello spettacolo e la modernità liquida, la società artificiale ci mette dunque di fronte al germe accattivante e vorace di un nuovo totalitarismo. Sapremo scegliere o ci accontenteremo di essere scelti?
Renato Curcio – L’algoritmo sovrano. Metamorfosi identitarie e rischi totalitari nella società artificiale. Occorre riportare la barra della nostra vita sociale anzitutto sui legami, sulle comunità istituenti e sulle relazioni faccia-a-faccia. La critica va portata direttamente alla radice del modo di produzione capitalistico.

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M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Franco Cassano (1943-2021) – Gli uomini che hanno potere dovrebbero scendere dalle auto blindate e iniziare a passeggiare. Passeggiare è ritornare a se stessi e a quella parte di noi che è la premessa di tutto. Passeggiare non deve servire a tenersi in forma, ma a dare forma alla vita. Abbiamo cose da meditare, molte cose già poetate in precedenza, per poi ricevere quel qualcosa di più che è incomparabile: la sorpresa della pura presenza.

Franco Cassano 01

«Questo mare, questi monti, queste isole, questo cielo – che qui e soltanto qui dovesse sbocciare l’A-lètheia, e gli dèi potessero, anzi dovessero proprio qui rientrare nella sua luce salvifica, che qui l’essere dominasse come presenza e istituisse l’abitare umano, è per me oggi più degno di stupore e più impossibile che mai da pensare fino in fondo (…). Dobbiamo portare con noi in Grecia molte cose da meditare, molte cose già poetate in precedenza, per poi ricevere quel qualcosa di più che è incomparabile: la sorpresa della pura presenza».

FRANCO CASSANO, Il pensiero meridiano, Laterza, Bari, p. 36.

Franco Cassano, già ordinario di Sociologia dei processi culturali, è professore emerito presso il Dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Bari. Tra le sue pubblicazioni: Approssimazione (il Mulino 1989); Partita doppia (il Mulino 1993); Modernizzare stanca. Perdere tempo, guadagnare tempo (il Mulino 2001); Homo civicus. La ragionevole follia dei beni comuni (Dedalo 2004); Tre modi di vedere il Sud (il Mulino 2009); Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio (con Andrea Riccardi, Lindau 2013). Ha curato con Danilo Zolo L’alternativa mediterranea (Feltrinelli 2007); Tre modi di vedere il Sud (il Mulino 2009).

Franco Cassano, Modernizzare stanca. Perdere tempo, guadagnare tempo, il Mulino, 2011.
«Gli uomini che hanno potere dovrebbero scendere dalle auto blindate e iniziare a passeggiare. Una passeggiata vuol dire essere restituiti alla strada e alla nudità casuale delle persone, guardare gli alberi, i palazzi o il mare, inseguire pensieri spesso splendidamente banali. Passeggiare vuol dire avere un cane per amico, oppure un amico libero come un cane, con cui parlare di tutto, uno che ti ascolta e ha voglia di perdere tempo con te. Passeggiare è […] assaggiare l’aria […] con la pelle, d’estate cercare l’ombra e d’inverno il sole. Passeggiare è commentare i titoli dei giornali con uno che non conosci, indicare una strada a un passante, ricordarsi di comprare qualcosa prima di tornare. Passeggiare è imbattersi in chi non t’aspetti, […] è fermarsi al bar e guardare la gente che passa, parlare con chiunque dell’ultima partita, tanto per scambiarsi calore. Passeggiare è giocare dolcemente con la giornata, decidere che ne puoi perdere un pezzo perché lo vuoi guadagnare. Passeggiare è il piacere dell’anonimato e quello della compagnia, incrociare gente che non conosci e facce note, salutare o non salutare […].
Passeggiare è evadere dalla corsa feroce, da quell’assedio che chiude le porte da cui potrebbe entrare la vita, da quelle giornate murate che fanno del telefono cellulare un cellulare di polizia. Passeggiare è mettere la punteggiatura ai giorni, andare a capo, voltare pagina, creare intervalli, parentesi o punti interrogativi. Passeggiare vuol dire infiltrare un po’ di vacanza in ogni giornata, lasciare aperta una fessura nel quotidiano, sapendo che la sorpresa può entrare anche dalle porte strette. Passeggiare […] vuol dire […] mettere le virgolette a ciò che pretende di essere assoluto, resistere a tutte le militarizzazioni. […]
Passeggiare è un’arte povera, un far niente pieno di cose […]. Passeggiare è abbandonare la linea retta, […] girare a vuoto nella penombra, non aver paura di ascoltarsi. […] Passeggiare è ritornare a se stessi e a quella parte di noi che è la premessa di tutto […]. Passeggiare è il desiderio del ragazzo e dell’anziano, un’arte che l’adulto ha rimosso e sostituito con l’agonismo del jogging e della fitness. Passeggiare non serva a tenersi in forma, ma a dare forma alla vita» (Franco Cassano, Modernizzare stanca, pp. 149-150).


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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