Giovanni Reale (1931-2014) – «Eudaimonia». La felicità dipende da te, non dalle cose. Sei tu che scegli il tuo «daimon» e la virtù non ha padroni. Ma oggi la filosofia si sta distruggendo con una formula di autofagia.
«I primi filosofi, quando hanno usato lo scritto, lo hanno fatto con pochi fogli di papiro su cui nasceva una discussione, il dialeghein: non un ripetere cose, ma il modo di arrivare alla determinazione di un concetto. Prendiamo Socrate. Uno dava una risposta a un certo problema e lui diceva “non basta quello che dici. Non potresti esprimermelo meglio?”. E questo turbava moltissimo. Prima di allora bastava come risposta il verso di un poeta. Quando Socrate chiedeva “cos’è il bello?” e gli si rispondeva “una bella ragazza, un bell’uomo”, lui replicava: “No. Non ti ho chiesto degli esempi: ma cos’è il bello”. Per arrivare a una determinazione del concetto, il dialogo è necessario».
«All’interno delle scuole si coltivava il dialogo. E le varie scuole si confrontavano tra loro. Il caso più tipico di opposizione paradigmatica è quella fra epicurei e stoici».
«Per il filosofo greco il problema di fondo era: come essere felice? L’eudaimonia è il motivo del suo impegno. Naturalmente l’eudaimonia è qualcosa di molto più forte ci ciò oggi si intende per felicità. Niente a che vedere col benessere. Per il greco, tu puoi essere felice se capisci il cosmo, se capisci chi sei e di conseguenza ti collochi in quel cosmo. Platone e Aristotele davano più peso concettuale alla struttura. Gli altri invece puntavano prevalentemente sull’effetto. Perché? Perché fino ad Aristotele c’era la polis, che per il greco era la struttura del vivere anche morale. Con Alessandro è stata distrutta la struttura in cui l’uomo greco viveva. C’è stato un ribaltamento di valori tale per cui andava tutto ricostruito. Per la prima volta la vita del singolo diventa emergente. Per Aristotele l’uomo è un animale politico. Non sei uomo se non sei nella polis. Poi, al legame che una città stabilisce con gli uomini si sostituì il concetto di amicizia. È la dimensione soggettiva degli uomini che porta i problemi dell’individuo in primo piano. Fino ai primi del Novecento questo fatto spingeva ad avere una visione negativa di queste filosofie. Poi le cose sono cambiate. Io difendo anche Epicuro. La felicità per lui era assenza di dolore. Però diceva anche: “A colui a cui non basta ciò che è necessario, nulla mai basterà. E sarà un infelice”. Ciò indica la dinamica in cui si deve entrare per trovare la felicità».
«La felicità dipende da te, e non dalle cose. Felicità in greco si dice eudaimonia, deriva da eu-daimon, è felice colui a cui è toccato in sorte un buon demone. I presocratici rovesciano il punto di vista: il demone te lo scegli tu. Platone lo dice nella Repubblica: sei tu che scegli il tuo demone e la virtù non ha padroni».
«Oggi la filosofia si sta distruggendo con una formula di autofagia. Si ritira in una sorta di metalivello, indaga solo le caratteristiche formali facendo astrazione dal loro contesto. Invece con i greci la filosofia si chiedeva: come devi vivere per vivere bene».
«Purtroppo oggi si pensa con la categoria del particolare. Si è dimenticata la visione tipica della Grecia che era l’intero. La problematica dell’intero è quella che ti dà la cornice dei problemi. Oggi molti partono dal particolare e con il particolare colloquiano. Ma il particolare non ha la cornice dell’universale. Il problema difficile per i giovani è quello di elevarsi a questo livello. Quello che mi preoccupa nei giovani oggi è che non affrontano i problemi legati a questa dimensione più elevata. A me pare che con tutte le soddisfazioni che l’uomo di oggi ha, anziché sentirsi pieno si sente vuoto. Perché emerge ciò che manca. Molti dicono che è la scoperta della sofferenza ciò da cui si scappa di più».
«Attraverso la sofferenza cresci. Non è lei che diventa padrona, ma tu di quella e arriverai al sapere. Al sapere non si accede se non soffrendo. Non è la felicità banale o edonistica del piacere, ma quella dello spirito dell’uomo che è capace di essere sofferente anche dentro. La cultura scientifica di oggi ti insegna a fare cose, quella umanistica aveva un altro scopo. Ti insegnava a diventare uomo. Marco Aurelio diceva: “Quando al mattino ti svegli e sei stanco devi dire a te stesso: alzati per compiere il tuo mestiere di uomo”. Il messaggio della mia opera è questo: guarda che la scienza ti insegna tante cose ma non a fare il mestiere di uomo».
«Ai giovani abbiamo dato tutto tranne la capacità di affrontare i problemi. Alcuni hanno capito per intuizione che dalla scienza non viene la soluzione dei problemi. Io adoravo la matematica. Passavo le vacanze a risolvere i problemi del libro di algebra. Che la scienza sia uno degli strumenti più potenti che l’uomo ha messo in atto è fuor di dubbio. I giovani devono usarla in “giusta misura”, come i greci insegnavano. Ma la scienza non risolve tutti i problemi. Di certo non quelli ultimativi, che oggi vanno riproposti».
Giovanni Reale, Intervistato da Armando Massarenti, Domenicale de Il Sole 24 Ore, n° 329, 28-11-2004.