Luigi Pirandello (1867-1936) – “Guarda le cose anche con gli occhi di quelli che non le vedono più! Ne avrai un rammarico, figlio, che te le renderà più sane e più belle”

Colloqui coi personaggi

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«Nell’ombra che veniva lenta e stanca dopo quei lunghissimi afosi pomeriggi estivi e mi invadeva a poco a poco la stanza, recando come una mestizia di frescura, un rammarico di lontane dolcezze perdute, io però da alcuni giorni non mi sentivo più solo. Qualcosa brulicava in quell’ombra, in un angolo della mia stanza. Ombre nell’ombra, che seguivano commiseranti la mia ansia, le mie smanie, i miei abbattimenti, i miei scatti, tutta la mia passione, da cui forse eran nate o cominciavano ora a nascere. Mi guardavano, mi spiavano. Mi avrebbero guardato tanto, che alla fine, per forza, mi sarei voltato verso di loro. [Pirandello continua con riflessioni sulla morte, sulla morte della madre, e sul senso lancinante di questa separazione] […] Potrei seguitare a immaginarti così con una realtà di vita che non potrebbe essere maggiore: quella stessa realtà di vita che per tanti anni, così da lontano, t’ho data sapendoti realmente seduta là in quel cantuccio. Ma io piango per altro, Mamma! Io piango perché tu, Mamma, tu non puoi più dare a me una realtà. È caduto a me, alla mia realtà, un sostegno, un conforto. Quando tu stavi seduta laggiù in quel cantuccio, io dicevo: “Se Ella da lontano mi pensa, io sono vivo per lei” – E questo mi sosteneva, mi confortava. […]».

["La morte della madre non si accompagna alla dimenticanza, all'oblio, della sua figura (della sua realtà umana) e della sua presenza che non diviene mai un'assenza; ma toglie realtà a chi continua a vivere. In queste parole bellissime e accorate che ci dicono, in particolare, come l'essere pensati da un'altra persona, anche se lontana, ci dona vita (ci fa vivere), si nasconde davvero il mistero della alterità e del dialogo (nel silenzio); ed è in questa lacerazione, in questa impossibilità esistenziale, a cui porta la morte di una persona cara, che si esprimono il dolore e la solitudine di chi resta: di chi continua a vivere ma nella separatezza e nell'abbandono. La vita non sarà mai più quella di prima dopo la morte di una madre: non sarà più animata dal suo sguardo e dalla sua presenza anche nell'assenza. Non ci sarà più reciprocità nel pensare e nell'immaginare le cose" (Eugenio Borgna, L'arcipelago delle emozioni, Feltrinelli,2001, p. 161)].

«Ora che tu sei morta, io non dico che non sei più viva per me; tu sei viva, viva com’eri, con la stessa realtà che per tanti anni t’ho data da lontano, pensandoti, senza vedere il tuo corpo, e viva sempre sarai finché io sarò vivo; ma vedi? è questo, è questo, che io, ora, non sono più vivo, e non sarò più vivo per te mai più! Perché tu non puoi pensarmi com’io ti sento. È ben per questo, Mamma, ben per questo quelli che si credono vivi credono anche di piangere i loro morti e piangono invece una loro morte, una loro realtà che non è più nel sentimento di quelli che se ne sono andati. […] Tu l’avrai sempre, sempre, nel sentimento mio: io, Mamma, invece, non l’avrò più in te. Tu sei qui; tu m’hai parlato: sei proprio viva qui, ti vedo, vedo la tua fronte, i tuoi occhi, la tua bocca, le tue mani; vedo il corrugarsi della tua fronte, il battere dei tuoi occhi, il sorriso della tua bocca, il gesto delle tue povere piccole mani offese, e ti sento parlare, parlare veramente le parole tue, perché sei qui davanti a me una realtà vera, viva, e spirante, ma che sono più io, per te? Nulla. Tu sei e sarai per sempre la mamma mia; ma io? io, figlio, fui e non sono più, non sarò più […]. L’ombra s’è fatta tenebra nella stanza. Non mi vedo e non mi sento più. Ma sento come da lontano lontano un fruscio lungo, continuo, di fronde, che per poco m’illude e mi fa pensare al sordo fragorio del mare, di quel mare presso al quale vedo ancora mia madre […]. Sento dentro, ma come da lontano, la sua voce che mi sospira: “Guarda le cose anche con gli occhi di quelli che non le vedono più! Ne avrai un rammarico, figlio, che te le renderà più sane e più belle“».

Luigi Pirandello, Colloqui coi personaggi, in Novelle per un anno, vol. III, tomo II, Mondadori, Milano, 1990, pp. 1138-1153.

 ["Hegel ci ha insegnato che nessuno possiede per se stesso la propria verità, perché nessuno può mai comprendersi totalmente: comprendersi significherebbe raggiungere la nostra origine, ma questa sempre si trascende e resta pur sempre un irraggiungibile passato. E, posto pure che si fosse all'origine, la verità della comprensione potrebbe dispiegarsi solo quando, in uno stesso sguardo, ci fosse concesso di considerare noi stessi e l'origine, noi stessi e gli spazi, le tradizioni, le storie che ci costituiscono... Ma la finitudine del nostro sguardo è anche l'insuperabile limite d'una prospettiva: ci pennette di guardare, ma non di guardarsi insieme a ciò che guardiamo. Solo uno sguardo d'altri potrebbe infine colmare questa distanza e disporre alla pari, sullo stesso piano, il nostro esserci e quello del mondo: potrebbe così riconoscere la verità o l'errore del nostro sguardo, potrebbe infine restituirci a noi stessi e persino disvelarci nell'impensato del nostro destino e della nostra possibilità" (Virgilio Melchiorre, Al di là dell'ultimo. Filosofie della morte e filosofie della vita, Vita e Pensiero, Milano, 1998)].

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