Mario Lavaggetto (1939-2020) – C’è una coscienza di lettore, una coscienza ermeneutica che si misura con un’altra coscienza, «con la coscienza di un testo», e la tensione tra queste due coscienze porta inevitabilmente a disegnare un modello irriducibile al cerchio, ma che fa piuttosto pensare a un’ellisse.

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È indubbio che ogni epoca finisce per esercitare, se non una censura basata su codici tassativi e più o meno espliciti, almeno una deformazione congiunturale del testo. Un tempo si era soliti dire che il primo passo per una lettura adeguata di un’opera consisteva nel definirne il circolo ermeneutico: compito di un critico o di un lettore (suggeriva Leo Spitzer)[1] era quello di partire dalla periferia e di compiere in senso inverso, risalendo verso il centro, il percorso che era stato originariamente compiuto dal creatore. Una volta raggiunto il centro, si poteva ragionevolmente pensare di avere conquistato la verità dell’opera perché quella «verità», certa e rassicurante, esisteva e perché si riteneva che una strategia adeguata avrebbe permesso di conquistarne la chiave.

La fragilità del modello è risultata evidente appena si è messo in dubbio il postulato che l’opera in sé possedesse un significato unico, accertabile e metastorico, definito una volta per tutte dal suo creatore. Ci si è accorti allora che, nel corso della loro vita secolare, i testi sono stati sottoposti a una serie di deformazioni talvolta volontarie (come nel caso della censura), ma molto più spesso preterintenzionali e in nessun modo imputabili alla responsabilità del lettore. Il quale, anche quando si muove secondo i dettami della più rigorosa filologia, e – alle prese con un testo antico – utilizza con la massima attenzione e precisione il codice linguistico del tempo, non può elidersi, non può fare in modo che quel codice abolisca il suo codice. Ci sarà sempre, come ha detto Bachtin,[2] un inevitabile scarto linguistico che finirà col produrre deformazioni. C’è una coscienza di lettore, una coscienza ermeneutica che si misura con un’altra coscienza, «con la coscienza di un testo», e la tensione tra queste due coscienze porta inevitabilmente a disegnare un modello irriducibile al cerchio, ma che fa piuttosto pensare a un’ellisse.[3]

Mario Lavaggetto, Oltre le usate leggi. Una lettura del Decameron, Einaudi, Torino 2019, p. 26.

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[1] L. Spitzer, Critica linguistica e storia del linguaggio, Laterza, Bari 1954, pp. 12 ss.

[2] M. Bachtin, Il problema del testo nella linguistica, nella filologia e nelle altre scienze umane, in Id., L’autore e l’eroe, Einaudi, Torino 1988, pp. 291 ss.

[3] M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare, Einaudi, Torino 1979, p. 24.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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