Fernanda Mazzoli – Per una seria cultura generale comune: una proposta di Lucio Russo.

Lucio Russo 004
Coppa di Duride

Coppa di Duride

 

Particolare della coppa di Duride, lato alto.

Particolare della coppa di Duride, lato alto.

 

Particolare della coppa di Duride, lato basso

Particolare della coppa di Duride, lato basso

 

La coppa (kúlix) del ceramografo Duride (inizi del V a.C.)
Vi si rappresenta il tridium delle discipline che costituiscono il fondamento della paideia: all’esterno l’insegnamento della lettura e della scrittura, la lettura e memorizzazione di prosa e poesia, la lezione di musica e danza, e all’interno l’attività sportiva. In alto, un maestro di musica suona il doppio flauto davanti ad un ragazzo; in basso, dinanzi al maestro barbuto con la lyra in mano, siede un ragazzo che pizzica le corde di un uguale strumento. Nelle scene dell’insegnamento letterario vi è, in alto, il maestro seduto con tavoletta scrittoria e stilo in mano che controlla l’esercizio di scrittura dell’allievo; in basso un uomo che ha in mano un rotolo aperto sul quale il pittore ha scritto un verso.


Perché la cultura classica


Lucio Russo, Perché la cultura classica. La risposta di un non classicista,

Mondadori, Milano 2018.


Per una seria cultura generale comune:

una proposta di Lucio Russo

 

di Fernanda Mazzoli

 

  Logo-Adobe-Acrobat-300x293    Fernanda Mazzoli. Per una seria cultura generale comune.
Una proposta di Lucio Russo

 

 

Con il suo ultimo libro, Perché la cultura classica. La risposta di un non classicista, Lucio Russo, fisico, docente di Calcolo delle probabilità e storico della scienza, affronta con rigore argomentativo e nitida scrittura una serie di temi che dovrebbero figurare al centro del dibattito pubblico, troppo attento, invece, a seguire le chimere imposte dalle mode del momento e dagli imperativi del sistema mediatico di produzione e diffusione delle idee.

Sono temi di grande rilevanza sia per una migliore comprensione della cultura europea, esaminata sotto il rapporto del suo inestinguibile debito con la civiltà classica, sia per una quanto mai opportuna riflessione sugli attuali percorsi formativi ed una loro possibile ridefinizione, capace di rovesciare il paradigma dominante del gretto utilitarismo della “scuola delle competenze”.

L’autore, avvalendosi di una solida documentazione capace di coinvolgere e collegare ambiti disciplinari diversi, dimostra che le civiltà greca e romana hanno contribuito in modo determinante a dare forma e linfa vitale a tutte le declinazioni della cultura – scienze naturali , matematica, filosofia, pensiero politico, diritto, storiografia, linguistica, arte, letteratura – e hanno giocato un ruolo chiave nell’elaborarazione di concetti fondamentali (come quello di “democrazia”) per la storia e il pensiero dell’Occidente, almeno fino a tutto il XIX secolo.

Questo sguardo complessivo ed unitario ha il grande merito di fare giustizia di alcuni luoghi comuni, primo fra tutti quello che istituisce un’artificiosa separazione tra studi scientifici ed umanistici che – proprio nel loro rapportarsi alle fonti classiche – rivelano più punti di contatto di quanto la vulgata, anche pedagogica, riconosca.

Ancora: Lucio Russo respinge come generica ed inadeguata quella diretta filiazione tra cultura classica e civiltà europea che viene esplicitata nell’immagine piuttosto diffusa delle «radici» che non riesce a dare conto di un dato fondamentale: i moderni non si sono limitati a fare del mondo classico la base del proprio mondo, ma hanno continuato ad attingere in modo significativo «al serbatoio di idee fornito dalle antiche fonti». Il concetto di «radici» trascura, inoltre, la discontinuità di un divenire storico che procede spesso per balzi od arresti improvvisi e che ha reso necessario il recupero, anche dopo secoli ( il Rinascimento ne è l’esempio più noto), di molte conquiste intellettuali. Dunque, il debito della civiltà occidentale verso il mondo classico è passato attraverso mediazioni diverse e selezioni talora discutibili e si configura come una scelta operata da studiosi che a quelle fonti hanno dovuto fare riferimento per affrontare con efficacia le questioni intellettuali, politiche, artistiche che via via si ponevano.

A riprova di questa sua tesi, Lucio Russo cita il «collasso culturale» rappresentato dalla conquista romana della Grecia e dei regni ellenistici ed invita il lettore ad andare oltre la sin troppo celebre frase di Orazio (Graecia capta ferum victorem cepit) e a considerare che i Romani non disponevano, all’epoca, di una cultura che consentisse loro di assimilare veramente quella greca. Si può dunque ragionevolmente ritenere che la storia del pensiero moderno avrebbe preso altre direzioni, se fosse stato possibile attingere direttamente alle opere filosofiche contemporanee all’affermazione della conoscenza scientifica, senza dovere passare per la selezione operata dagli intellettuali romani. In particolare, si erano andati progressivamente perdendo elementi essenziali del metodo scientifico.

Stabilito, attraverso un’ampia gamma di esempi relativi a campi diversi del sapere, il corretto rapporto tra le fonti classiche e la cultura europea in termini di scelte consapevoli e non di derivazione naturale od etnica, il problema di fondo che il saggio affronta è quello di una possibile riproposizione della cultura classica come cardine di una nuova sintesi «in grado di unificare la cultura». È in questa esigenza di ricostruzione di una seria cultura generale condivisa che faccia del rapporto con la classicità, sostanzialmente interrotto negli ultimi decenni, il proprio perno che il viaggio dell’autore alla ricerca dei fondamenti della civiltà occidentale coinvolge direttamente il tema educativo.

Il problema posto da Lucio Russo è di primaria importanza: afferisce, infatti, alla necessità di individuare un asse portante nei percorsi formativi. Nell’epoca in cui la cultura «si presenta come un magazzino di beni concepiti per il consumo, tutti in competizione per accaparrarsi l’attenzione insopportabilmente fugace e distratta dei potenziali clienti»,[1] la scuola non poteva sfuggire alla frammentazione e disgregazione del sapere che favorisce la sua riconfigurazione in «supermercato della formazione», attento ad allettare lo studente-consumatore. Lucio Russo – che a tale trasformazione ha dedicato, già una ventina d’anni fa, un testo notevole che ha perso ben poco della sua attualità –[2] sottolinea il legame profondo fra mutamento della scuola e «sviluppo impetuoso dell’industria dell’intrattenimento» e riconduce questa singolare relazione ai radicali cambiamenti indotti da un nuovo sistema economico e dalla ridefinizione di alcuni paradigmi sociali che hanno generato da un lato la riduzione delle competenze richieste ai lavoratori e, dall’altro, un aumento del loro tempo libero e delle loro possibilità economiche. Ben lontano dal vagheggiare i tempi in cui un’alta formazione era prerogativa delle classi elevate, con corollaria recriminazione sul decadimento connaturato alla “scuola di massa”, Russo individua lucidamente l’occasione mancata, costituita dall’ingresso nell’istruzione pubblica delle classi popolari. Sulla scia delle politiche attuate negli USA, si è teso anche in Europa a trasformare le scuole secondarie in luoghi generici di intrattenimento e socializzazione, trasferendo i percorsi di livello prima alle Università, poi alle scuole di dottorato, con la grave conseguenza di privilegiare le singole specializzazioni a spese dell’acquisizione di una buona cultura generale comune. Molto correttamente, l’autore coglie uno dei punti nodali di questo slittamento nell’atteggiamento assunto dalle forze politiche orbitanti nell’area della sinistra che hanno dato corpo teorico e condizioni concrete ad un tragico equivoco, sostanziatosi nel nostro Paese in riforme sciagurate che, da Berlinguer a Renzi, hanno inferto un colpo mortale ad una scuola pubblica di qualità. Tali partiti, come sottolinea puntualmente Lucio Russo, «associando il tradizionale asse culturale riservato alle classi privilegiate al privilegio stesso, si sono infatti paradossalmente posti l’obiettivo non di fare accedere le classi popolari ai livelli più alti d’istruzione (eventualmente da ridefinire nei metodi e nei contenuti), ma di eliminare tali livelli dalla scuola pubblica», in perfetta sintonia – quando non anticipazione – rispetto alle politiche neoliberiste. Inoltre, un’impostazione riduttivamente sociologica non ha permesso di vedere le grandi trasformazioni sociali e antropologiche dei nostri tempi in cui non vale più la corrispondenza immediata tra appartenenza socio-economica privilegiata e monopolio culturale. Nota con una certa ironia Russo che, oggi, chi ambisce ad acquisire i più raffinati strumenti intellettuali si situa ben lontano dalle élites economiche e politiche.

Che la questione sia centrale e vada ben oltre le attuali congiunture ed il precipitare della crisi educativa, lo attesta il peso che essa occupa nella riflessione di Antonio Gramsci,[3] consapevole che la partecipazione di larghe masse popolari alla scuola media avrebbe favorito una pericolosa – in quanto illusoriamente democratica, ma funzionale, in realtà, alla cristallizzazione delle differenze sociali – tendenza alle facilitazioni e al rallentamento della disciplina negli studi e consapevole altresì delle «inaudite difficoltà» da superare per creare un nuovo strato di intellettuali.

La tesi principale sviluppata da Russo in questo libro – la possibilità che la cultura classica possa rivestire di nuovo, anche se con modalità diverse, il ruolo unificante svolto in passato – si incontra ancora una volta con le considerazioni del pensatore e militante politico sardo che nello studio del latino e del greco, congiunto a quello delle rispettive storie e letterature, aveva individuato un principio educativo, in quanto l’ideale umanistico, diffuso in tutta la società, era elemento essenziale della vita e della cultura nazionali. Attraverso queste lingue, viveva, anche al di fuori della scuola, tutta una tradizione culturale, una specifica concezione della vita e dell’uomo, entrata in crisi la quale lo studio delle lingue classiche e la scuola stessa erano entrate in crisi. Dunque, già negli anni in cui Gramsci, rinchiuso nel carcere fascista, sviluppava le sue note sulla scuola e la cultura, le intelligenze più vigili si ponevano il problema di individuare un fulcro formativo che fosse all’altezza di quello rappresentato in passato dal greco e dal latino. Quanto a lui, riteneva che questi non potessero più svolgere tale ruolo, ma era altrettanto conscio che sarebbe stato compito arduo trovare un sostituto che desse equivalenti risultati di educazione e formazione generale della personalità in quel periodo – dalla fanciullezza al momento della scelta professionale – in cui lo studio deve essere svincolato da scopi pratici immediati per potere assolvere al suo compito formativo.

Chiunque si sia interessato seriamente di scuola, avendo ben presente la necessità di inquadrare la questione in una più ampia dimensione educativa, nonché culturale, senza subire il ricatto di orientamenti politici od ideologici tendenti a fare della scuola una delle istituzioni cardine della riproduzione sociale, ha sempre posto al centro della propria ricerca l’individuazione di un asse culturale capace di dare quell’orizzonte unitario senza il quale i singoli saperi non rinviano che a se stessi, venendo meno, così, alla loro funzione educativa. La definizione di tale asse presuppone una ricognizione dei bisogni educativi che non può prescindere dalla comprensione delle attuali dinamiche sociali e non certo per allinearsi ad esse, perché la nozione stessa di educazione porta in sé l’idea di un’uscita, di un distacco dalla situazione data. In tempi recenti, il filosofo e docente liceale Massimo Bontempelli ha individuato, per la nostra società dominata da un meccanismo economico mondiale autoreferenziale che appoggia su logiche di utilitarismo e competitività, la necessità di «un’educazione al disinteresse e alla cooperazione», e «alla memoria delle possibilità antropologiche cancellate», sacrificate sull’altare del mercato e della tecnica.[4]

Benché Bontempelli attribuisca agli studi storici, insegnati in ogni indirizzo scolastico, il ruolo di asse culturale di una nuova scuola, la sua proposta non mi sembra affatto in contrasto con quella di Russo, tanto più che entrambe muovono dalla medesima urgenza di individuare un modello di riferimento comune radicato in una solida tradizione culturale che, sottraendo l’apprendimento alla parcellizzazione delle conoscenze irrelate e alla fluidità dei contenuti, educhi allo spirito critico e fornisca un orizzonte di senso. Non è certamente casuale che Bontempelli, per illustrare la propria tesi della storia come efficace termine di confronto unitario per i vari ambiti disciplinari, ricorra ad esempi tratti dalla civiltà classica. Saperi diversi come la geometria di Euclide, la statica di Archimede, l’astronomia di Aristarco e la filosofia di Epicuro possono trovare, infatti, una collocazione concettuale unitaria all’interno del mondo storico ellenistico.[5]

Non solo: la storia come possibile asse culturale mi pare possa integrare un aspetto non secondario che il lavoro di Russo si limita ad accennare e del quale egli per primo, interrogandosi su un principio unificante per una cultura condivisa, riconosce la criticità. La cultura classica sembra, infatti, potere aspirare ad un ruolo chiave solo nei percorsi liceali ed in particolare nel Liceo Classico, l’unico che procuri gli strumenti linguistici per leggere direttamente le opere greche. Ora, è più che mai necessario fornire a tutti non tanto conoscenze specialistiche rapidamente superate dagli ininterrotti mutamenti tecnologici e lavorativi, quanto «una formazione generale e polivalente», i cui contenuti devono scaturire da scelte culturali e non dalle richieste del mercato del lavoro. È proprio questo assunto a riportare al centro di una opportuna riprogettazione dei fondamenti e delle finalità cognitive ed educative dei diversi curricola scolastici il legame con la civiltà classica. Innanzitutto, per il saldo ancoraggio ad una grande tradizione culturale e ad una dimensione “disinteressata” dello studio che essi garantiscono e per la loro capacità di aprire agli studenti orizzonti che la società dominata dall’economia autoreferenziale rimuove: la prospettiva storica di lungo periodo invece del consumistico appiattimento sul presente, l’educazione alla razionalità scientifica in luogo della dilagante suggestione di teorie prive di riscontri sperimentali, l’attenzione verso la condizione umana piuttosto che per le richieste dei mercati.

Lucio Russo è ben consapevole che per dare corpo a questa proposta controcorrente, la cultura classica richiede di essere profondamente rivisitata: si aprono qui alcune pagine veramente preziose per i docenti, ricche di indicazioni metodologiche e di spunti interessanti per l’attività in classe, tali da confermare definitivamente che innovazione didattica non rima necessariamente con digitalizzazione. Indicazioni e spunti da ripensare e rielaborare per i diversi indirizzi delle scuole superiori, nella doverosa prospettiva di superare gli odierni specialismi tecnicistici e la banalizzazione e semplificazione dei contenuti. Di validità generale (dovrebbe, anzi, essere il fondamento dell’insegnamento delle discipline linguistiche), è l’invito a dare priorità alla lettura delle opere, rispetto alla quale lo studio grammaticale non può che rivestire carattere strumentale, modalità necessaria di accesso ai testi piuttosto che valore in sé. Se gli studenti del Classico (e, per il latino, dello Scientifico) possono accedere direttamente agli scritti letterari, scientifici e filosofici dell’antichità, non c’è ragione per cui l’Antigone di Sofocle, naturalmente tradotta e opportunamente contestualizzata e presentata dall’insegnante, non possa riguardare, con il suo grande tema etico del conflitto tra l’obbedienza ai legami del sangue e il rispetto dovuto alla legge dello Stato, anche i ragazzi del Professionale, suscitando riflessioni capaci di ampliare il loro sguardo sul mondo e su se stessi e di sollecitare interrogativi sul senso dell’esistenza. Per non parlare della necessità di invertire il rapporto tra scienza e fantascienza, di stabilire un corretto confine tra le due che l’industria dell’intrattenimento e certa divulgazione pseudo-scientifica hanno forzato fino a confuse, quando non preoccupanti, contaminazioni. Quale miglior antidoto, se non l’acquisizione del metodo dimostrativo e sperimentale messo a punto da Euclide, sempre più trascurato nell’insegnamento della matematica e al quale la scienza europea deve i suoi fondamenti epistemologici? Osserva giustamente Lucio Russo che l’abbandono di tali metodi non ha solo ricadute immediate sulla didattica, ma si accompagna ad un più generale declino della capacità di condurre ragionamenti astratti, vale a dire ad un pericoloso impoverimento di capacità intellettuali e linguistiche.

Non solo: l’autore stabilisce un’avvincente relazione tra metodo dimostrativo ed elaborazione del concetto di democrazia che proprio la didattica illustra in modo significativo. Infatti, trasmettere un risultato non dimostrato è operazione necessariamente autoritaria, mentre lo studio dei teoremi pone maestro ed allievo sullo stesso piano, in quanto quest’ultimo è tenuto ad accettare solo le affermazioni delle cui dimostrazioni può controllare l’esattezza. Come non ricordare la tesi della filosofa americana Marta Nussambaun, secondo la quale lo svilimento della cultura umanistica può essere disastroso per il futuro stesso della democrazia?[6] Il libro di Lucio Russo ci invita, d’altronde, ad allargare il significato di “umanistico”, sottolineando a più riprese quanto sia artificiosa l’opposizione tra discipline “classiche” e scientifiche, distinzione che un intellettuale dell’antica Grecia non avrebbe proprio capito. Il superamento di questa infondata contrapposizione è condizione necessaria, d’altra parte, per la messa a punto di un principio educativo comune a tutti gli indirizzi scolastici. Invece di abolire il Liceo classico, come qualche “rottamatore” puntualmente e demagogicamente suggerisce, sarebbe il caso di cominciare a progettare una licealizzazione di tutti i percorsi formativi…

Fernanda Mazzoli

[1]      Z. Bauman, Per tutti i gusti. La cultura nell’età dei consumi,Laterza, Roma-Bari, 2016, p.19.

[2]      L.Russo, Segmenti e bastoncini, Feltrinelli, Milano, 1998.

[3]      Vedi sopra, p. 28 . Sull’argomento, il contributo gramsciano intorno alla ricerca del principio educativo resta il fondamento imprescindibile con cui continuare , oggi, a confrontarsi: cfr. A Gramsci, Quaderni dal carcere. Gli intellettuali, Ed.Riuniti, Roma,1971, pp. 138-148.

[4]      M . Bontempelli, Quale asse culturale per il sistema della scuola italiana?, Petite Plaisance, Pistoia, 2001 ,p.10.

[5]      Ivi, p.12

[6]      M. Nussbaum, Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, Il Mulino, Bologna, 2013.

 


Lucio Russo – Cosa sta accadendo alla scienza?
Lucio Russo – Sfatare alcuni miti della storia della scienza. Da «La Rivoluzione dimenticata» … a «La bottega dello scienziato», passando per «Stelle, atomi e velieri» con il forte riferimento a «Euclide».
Lucio Russo, Un esempio di trasmissione parziale delle conoscenze: la sfericità della terra

 

I LIBRI DI LUCIO RUSSO
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La rivoluzione dimenticata, Feltrinelli, 1996.

La scienza moderna non nasce con Galileo e Newton. Le sue origini vanno retrodatate di almeno 2000 anni, alla fine del IV sec. a.C. La Rivoluzione scientifica del XVIII sec. riscopre la Rivoluzione ellenistica di figure come Euclide, Archimede, Erarstotene, Aristarco di Samo e di tanti altri raffinati scienziati. Lo studio della “rivoluzione scientifica”, cioè della nascita dello sviluppo scientifico, è indispensabile per la comprensione della “civiltà classica”. Inoltre, l’esame del ruolo svolto dalla scienza nella civiltà ellenistica è essenziale per la valutazione di alcune questioni di capitale importanza per la storiografia, dal ruolo di Roma alla decadenza tecnologica medievale alla “rinascita scientifica” moderna.

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Segmenti e bastoncini, Feltrinelli, 1998, 2000.

Agli insegnanti che sentono il loro ruolo fondamentale per la formazione di futuri cittadini liberi, ai genitori che sperano che i propri figli acquisiscano delle competenze nel lavoro scolastico, va detto chiaro e netto che la scuola come continua a essere immaginata nella riforma scolastica oggi in corso va in tutt’altra direzione. La riforma, secondo Lucio Russo, allinea la scuola italiana agli standard americani, abbassa i livelli di competenza reale, esclude la trasmissione degli strumenti essenziali alla creazione di nuovo sapere, rende l’insegnamento sempre più generico. Segmenti e bastoncini ha suscitato polemiche, consensi e condanne, ma soprattutto un largo dibattito che dalla stampa si è esteso nella scuola, ed è destinato a continuare.

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Scienza, cultura, filosofia, CRT, 2002.

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Flussi e riflussi: indagine sull’origine di una teoria scientifica, Feltrinelli, 2003.

Questo piccolo libro ricostruisce per la prima volta nella sua interezza la storia della scoperta della teoria astronomica delle maree. Si tratta di un caso esemplare di mancata trasmissione delle conoscenze, dovuto in gran parte a una comunità scientifica – quella romana e medievale – che, sotto l’influsso di una cultura dominante avversa, aveva finito col perdere le capacità di padroneggiare certi risultati scientifici. Oggi nei manuali standard la prima formulazione della teoria viene attribuita a Newton, il quale ne diede la versione completa nei Principia mathematica, unitamente alle leggi sulla gravitazione universale. Questa attribuzione però è errata, come dimostra Lucio Russo, non solo perché a essa avevano contribuito molti altri studiosi, che avevano preceduto Newton, ma soprattutto perché, già nella Grecia ellenistica, Eratostene e Seleuco, basandosi su una serie di osservazioni rese possibili dall’espandersi delle esplorazioni navali, ne avevano dato una descrizione completa e “moderna”. Ci troviamo dunque in presenza di una vicenda ricca di spunti di riflessione. Paradigmatico è il modo in cui la teoria greca era caduta nell’oblio, sopravvivendo in maniera frammentaria e dispersa. Paradigmatico il modo in cui da questi frammenti sparsi fu poi possibile rigenerarla. Paradigmatico il modo in cui più personalità vi lavorarono, aggiungendo tassello a tassello fino ad arrivare a quell’uno – Newton appunto – che poté apporre la sua firma alla scoperta. La ricostruzione di Russo è condotta attraverso l’esame di documenti originali e indiziari, incrociando testimonianze provenienti da ambiti diversi, con un metodo quasi “poliziesco” che partendo dal diciassettesimo secolo ripercorre a ritroso la vicenda fino alle sue lontante origini nel secondo e terzo secolo a.C.

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La cultura componibile. Dalla frammentazione alla disgregazione del sapere, Liguori, 2008.

l libretto contiene una riflessione, basata anche su ricordi personali relativi a un complesso itinerario culturale, sulla necessità di superare lo specialismo per tentare di costruire un generalismo che eviti la superficialità e, allo stesso tempo, sulle difficoltà incontrate da chi si pone oggi un tale obiettivo. Il superamento dei confini disciplinari, che è spesso essenziale anche per risolvere problemi sorti all’interno di singoli settori ed è inevitabile da parte di chi svolge un lavoro intellettuale con passione, richiede infatti non solo l’impiego di molte energie intellettuali, ma anche il superamento di ostacoli, oggettivi e soggettivi, creati dalle attuali strutture teoriche e organizzative del mondo della conoscenza. Il problema è illustrato descrivendo i rapporti, essenziali ma difficili, tra fisici e matematici, matematici puri e matematici applicati, storici della scienza e scienziati, filologi classici e storici della scienza antica. Ci si sofferma in particolare sui danni prodotti dalla crescente divaricazione tra scienza pura e applicata e dall’indebolimento della memoria storica degli scienziati. Si argomenta contro la pseudo-soluzione, sempre riproposta, di creare nuove specializzazioni negli interstizi di quelle esistenti. Il superamento di un angusto specialismo è reso sempre più arduo non solo dalla crescita esponenziale delle informazioni disponibili non accompagnata da una crescita altrettanto veloce di nuove sintesi, ma anche dall’evoluzione del sistema educativo occidentale che, spostando la serietà degli studi a livelli sempre più elevati di età e di specializzazione, ha prodotto un continuo indebolimento della cultura generale condivisa. I problemi precedenti assumono particolari connotazioni (per lo più, ma non esclusivamente, negative) nella situazione italiana.

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Archimede. Massimo genio dell’umanità, Canguro, 2009.

 La collana “Gli iniziatori” è stata ideata per presentare i principali protagonisti della scienza a un pubblico di giovani lettori attraverso un appassionante racconto, nel quale s’intrecciano aspetti biografici, storici, letterari e autentici contenuti scientifici. Un modo semplice e accessibile a tutti per ripercorrere le principali tappe del progresso scientifico e comprendere la genesi di teorie innovative, destinate a cambiare per sempre la storia dell’umanità. Protagonista di questo volume è il genio poliedrico di Archimede, scienziato e inventore siracusano. Età di lettura: da 6 anni.

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Ingegni minuti. Una storia della scienza in Italia, con E. Santoni, Feltrinelli, 2010.

Una sintesi dello sviluppo scientifico in Italia dal 1200 a oggi che propone tesi interpretative di carattere generale. La tradizione che a lungo ha emarginato la scienza da importanti settori della cultura italiana è bene esemplificata dall’epiteto “ingegni minuti”, attribuito ai cultori della scienza esatta da Giambattista Vico in un brano fatto proprio da Benedetto Croce. Quali sono le radici di questa tradizione e quali sono state le realtà culturali di diverso segno presenti nel paese? Qual è stato il contributo del Rinascimento italiano al sorgere della scienza europea? Perché, dopo i successi della scuola galileiana, la ricerca italiana entrò rapidamente in una profonda crisi? L’esame dei risultati degli scienziati risorgimentali può modificare, e come, il giudizio storico sul Risorgimento? Quali sono le cause della crisi in cui versa la ricerca scientifica italiana dagli anni ’70 del secolo scorso? La globalizzazione lascia spazio a politiche scientifiche nazionali o europee? Ecco alcune delle domande cui questo libro tenta di rispondere, intrecciando gli sviluppi scientifici con la storia economica e politica, oltre che culturale. È infatti convinzione degli autori non solo che la storia della scienza possa essere compresa solo esaminando i contesti che forniscono alle comunità scientifiche i problemi concreti da affrontare e le risorse, culturali e materiali, per risolverli, ma anche che la storia di un paese non possa prescindere dalla storia della sua ricerca scientifica.

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L’America dimenticata. I rapporti tra le civiltà e un errore di Tolomeo, Mondadori, 2013.

La quasi totalità degli studiosi ha finora negato l’esistenza di antichi contatti tra l’America e il Vecchio Mondo, ma in questo libro, indagando su una questione apparentemente secondaria di storia della geografia (l’origine di un grossolano errore di Tolomeo), si dimostra che le fonti ellenistiche dell’antico geografo conoscevano latitudini e longitudini di località dell’America centrale. Questa scoperta costringe a rivedere sotto una nuova luce molti aspetti della storia. Da una parte mostra come il crollo delle conoscenze che investì il mondo mediterraneo all’atto della conquista romana sia stato ben più profondo di quanto in genere si creda. Dall’altra apre nuovi possibili scenari di lungo periodo, lasciando intravedere la possibilità di sostituire all’idea oggi dominante dell’evoluzione indipendente e parallela delle civiltà un’unica storia, connessa sin dalla remota antichità.

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Stelle, atomi e velieri. Percorsi di storia della scienza, Mondadori, 2015.

La scienza è spesso vista come un metodo di indagine dei fenomeni naturali sviluppato per puri fini conoscitivi e tipico della modernità. In questo libro, ricostruendo la storia di lungo periodo di alcune idee scientifiche, si mostra come la storia della scienza sia comprensibile solo mettendo a fuoco la continuità tra scienza antica e moderna, e indagando il rapporto, spesso indiretto ma quasi sempre determinante, tra la ricerca “teorica” e l’esigenza di risolvere problemi concreti. Lo studio delle storie parallele di idee scientifiche di varia origine mostra non solo connessioni profonde e spesso sorprendenti, ma anche la ricorrenza di fenomeni tipici, come la periodica perdita di conoscenze e il sorgere di “miti di fondazione” che attribuiscono a singoli geni l’esito di complessi percorsi collettivi.

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La bottega dello scienziato. Introduzione al metodo scientifico, con A. Della Corte, il Mulino, 2016.

Nel senso comune i risultati delle scoperte scientifiche suscitano stupore e meraviglia non meno che incomprensione, mentre verso gli scienziati che li hanno ottenuti si nutre una sorta di ammirata reverenza. Fuori dal mito, come lavorano gli scienziati? Qual è il loro metodo? È quanto ci fa capire il libro che, dopo aver introdotto il concetto di teoria scientifica attraverso pochi semplici esempi (uno fra tutti: la teoria eliocentrica), ci accompagna nella bottega dello scienziato, descrivendo non il suo prodotto finito, ma alcuni degli strumenti usati per costruirlo.

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Euclide: il I libro degli Elementi, con E. Salciccia, G. Pirro, Carocci Editore 2017.

Gli Elementi di Euclide hanno costituito per più di due millenni il testo base dell’insegnamento scientifico. Già il titolo mostra come l’autore intendesse esporre conoscenze basilari, fornendo gli strumenti utili per raggiungere risultati più avanzati. La geometria – il principale argomento dell’opera – era infatti la base di tutta la scienza esatta dell’epoca e i problemi di astronomia, ottica, meccanica, idrostatica, geografia matematica, topografia e così via venivano risolti disegnandone la soluzione. Il i libro degli Elementi è qui ricostruito eliminandone alcuni brani, individuati come spuri per la loro incongruenza logica/con il contesto. Ne è risultato un teéto più coerente e didatticamente efficace di quello trasmesso dalla tradizione manoscritta, il cui studio può fornire ancora oggi una preziosa guida metodologica.

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LE COPERTINE

La rivoluzione dimenticata 00

La rivoluzione dimenticata

La rivoluzione dimenticata 03

La rivoluzione dimenticata

La rivoluzione dimenticata 02

La rivoluzione dimenticata

Segmenti e bastoncini 02

Segmenti e bastoncini

Segmenti e bastoncini 05

Segmenti e bastoncini

Segmenti e bastoncini04

Segmenti e bastoncini

Fluissi e riflussi

Flussi e riflussi

La cultura componibile, dalla frammentazione alla disgregazione del sapere

La cultura componibile

Archimede. Massimo genio dell'umanità,

Archimede

Ingegni minuti. Una storia della scienza in Italia

Ingegni minuti. Una storia della scienza in Italia

L'America dimenticata

L’America dimenticata

Stelle, atomi e velieri

Stelle, atomi e velieri

La bottega dello scienziato

La bottega dello scienziato

Euclide, il primo libro degli Elementi

Euclide, il I libro degli Elementi

 


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Stelle, atomi e velieri, intervista al prof. Lucio Russo [parte 2] | Math is …
Intervista telematica al prof. Lucio Russo – Edscuola
Incontro con Lucio Russo al dipartimento di Filosofia
Cosa sta accadendo alla scienza? Un articolo di Lucio Russo

 


 Vedi anche:

Lucio Russo – Cosa sta accadendo alla scienza?

 

 

Lucio Russo
Alcune osservazioni sui contenuti dell’insegnamento
[Pubblicato su Koinè (Metamorfosi della scuola italiana), Anno VII, NN° 1-2 – Gennaio/Giugno 2000], pp. 20.
indicepresentazioneautoresintesi

«Se esiste un’idea guida nell’attuale processo di riforma della scuola italiana essa sembra consistere nella tendenza ad “alleggerire”, se non eliminare, i contenuti dell’insegnamento, riducendo le funzioni delle istituzioni scolastiche a quelle di accogliere i giovani, favorirne la socializzazione e guidarli nelle scelte di consumo. Una scuola ridotta a luogo di socializzazione e di assuefazione all’uso di prodotti rischia di produrre cittadini di seconda classe, privi di qualsiasi strumento critico verso il mondo che li circonda. Anche se forze potenti, cui sembra difficile opporsi, spingono in questa direzione, credo che sia essenziale salvare almeno spazi di riflessione e discussione critica che, se ben difficilmente possono sperare oggi di invertire la tendenza, potrebbero divenire essenziali domani. La situazione in cui ci troviamo oggi è infatti in larga misura conseguenza di un grave deficit culturale accumulato nell’arco di molti decenni. Non voglio certo negare le responsabilità dell’attuale governo nel perseguire l’obiettivo della distruzione di una scuola pubblica di qualità (anche se sono propenso a credere che si tratti di un obiettivo in larga misura inconsapevole), ma si sbaglierebbe individuando nell’attuale classe politica italiana l’origine, o anche solo un fattore rilevante, della crisi dell’istituzione scolastica e in particolare dei suoi contenuti disciplinari. Si tratta in realtà di una tendenza molto forte in tutto il mondo occidentale, anche se in Italia si presenta con varie aggravanti, tra le quali è certamente presente il provincialismo e l’insipienza. Credo che all’origine della crisi della scuola pubblica europea vi sia la convergenza di fattori di diversa natura, che comprendono fenomeni economici e politici, come la concentrazione produttiva e la globalizzazione, e allo stesso tempo importanti processi culturali che hanno posto in crisi i contenuti disciplinari tradizionali. Questo articolo contiene soprattutto alcune osservazioni su quest’ultimo punto. Una prima osservazione, completamente ovvia, è quella che l’attuale parcellizzazione del sapere è all’origine di due tendenze didattiche apparentemente opposte, ma in realtà convergenti. Da una parte si rivendica l’esigenza di un insegnamento che, variamente definito come “interdisciplinare”, “multidisciplinare” o in altri modi simili, è caratterizzato dall’evitare l’acquisizione di efficaci strumenti concettuali, privilegiando quel continuo vagare da un argomento all’altro a un livello di costante superficialità, che ha nella “navigazione” casuale e senza meta in Internet il suo principale strumento e il suo modello. Dall’altra si moltiplicano le proposte di inserire nella scuola discipline nuove: dall’ecologia alla psicologia, dall’economia alla storia del cinema, dall’antropologia alla sociologia. Entrambe le tendenze, insieme a una serie di fenomeni che riguardano le singole discipline, alcuni dei quali saranno accennati nel séguito, favoriscono l’abbandono di qualsiasi obiettivo formativo (necessariamente basato sull’individuazione di alcune discipline cardine), sostituendo allo studio la raccolta casuale di informazioni sparse (o, preferibilmente, qualche altra attività più gratificante)».

Lucio Russo


 

 

 


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Francisco G. de Quevedo y Villegas (1580-1645) – Un’anima che ha avuto un dio per carcere, vene che a tanto fuoco han dato umore, midollo che è gloriosamente arso, il corpo lasceranno, non l’ardore; anche in cenere, avranno un sentimento; saran cenere, ma cenere innamorata.

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Sonetti amorosi e morali

Amore costante al di là della morte

Gli occhi miei potrà chiudere l’estrema
ombra che a me verrà col bianco giorno;
e l’anima slegar dal suo soggiorno
un’ora, dei miei affanni più sollecita;
ma non da questa parte della sponda
lascerà la memoria dove ardeva:
nuotar sa la mia fiamma in gelida onda
e andar contro la legge più severa.
Un’anima che ha avuto un dio per carcere,
vene che a tanto fuoco han dato umore,
midollo che è gloriosamente arso,
il corpo lasceranno, non l’ardore;
anche in cenere, avranno un sentimento;
saran cenere, ma cenere innamorata.
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Amor constante más allá de la muerte
Cerrar podrá mis ojos la postrera
Sobra que me llevare el blanco día,
y podrá desatar esta alma mía hora
a su afán ansioso lisonjera;
mas no, de esotra parte, en la ribera,
dejará la memoria, en donde ardía:
nadar sabe mi llama la agua fría,
y perder el respeto a ley severa.
Alma a quien todo un dios prisíon ha sido,
venas que humor a tanto fuego han dado,
medullas que han gloriosamente ardito,
su cuerpo dejarán, no su cuidado;
serán ceniza, mas tendrá sentido;
polvo serán, mas polvo enamorado.
                                                  Francisco De Quevedo

 

Francisco De Quevedo, Sonetti amorosi e morali, Einaudi, Torino 1971.

 


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Nikolaj Vasil’evič Gogol’ (1809-1852) – Beato colui che s’è scelto, fra tutte, la passione più elevata: s’amplierà e si moltiplicherà d’ora in ora e di minuto in minuto la illimitata sua beatitudine, ed egli penetrerà sempre più e più profondamente nell’infinito paradiso della propria anima.

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Prima edizione di Le anime morte

Prima edizione di Le anime morte.

Le anime morte

N. Gogol, Le anime morte, Einaudi, 1998.

 

«Felice lo scrittore che, lasciando in disparte i caratteri noiosi, ripugnanti, quelli che colpiscono per la loro triste realtà, affronta i caratteri in cui si rivelano le più alte qualità dell’uomo; lo scrittore che dal profondo gorgo delle mulinanti figure quotidiane sceglie alcune rare eccezioni, e non abbandona un istante il tono elevato della sua lira, non si abbassa dalla sua altezza alle miserie, alle nullità dei suoi confratelli, e senza toccar terra, s’abbandona alle sue aeree, sublimate figure.

Marc Chagall, Donne simpatiche da tutti i punti di vista, da Le anime morte

Marc Chagall, Donne simpatiche da tutti i punti di vista, da Le anime morte.

[…] Egli vela d’un fumo inebriante gli occhi degli uomini; egli è un meraviglioso lusingatore, che nasconde loro il triste della vita, e mostra l’uomo nella luce più bella. Tutto il mondo, plaudendo, lo segue e si slancia dietro la sua traccia trionfale. Eccelso, universale poeta lo acclamano, librato ben alto su tutti gli altri geni del mondo, come si libra l’aquila sugli altri altovolanti.

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[…] Ma non questa è la sorte, e ben altro è il destino dello scrittore, che osa evocare alla luce tutto quello che abbiam sempre sott’occhi, e che gli occhi indifferenti non percepiscono: tutto il tremendo, irritante sedimento delle piccole cose che impastoiano la nostra vita, tutta la profondità dei gelidi, frammentari, banali caratteri di cui ribolle, amaro a tratti e tedioso, il nostro viaggio terreno; e colla salda forza dell’implacabile cesello osa prospettarli ben in rilievo e in limpida luce agli occhi del mondo!
Non a lui è riserbato raccogliere gli applausi delle folle, non a lui scorgere le lacrime di riconoscenza e il concorde entusiasmo degli spiriti da lui commossi; […] non lui, infine, sfuggirà al giudizio del proprio tempo, all’ipocritamente insensibile giudizio del proprio tempo, che proclamerà insignificanti e grette le creazioni da lui accarezzate, gli assegnerà un cantuccio vile fra gli scrittori che offendono l’umanità, gli attribuirà il carattere dei personaggi da lui stesso raffigurati, gli negherà cuore, e anima, e la divina fiamma del genio: giacché non riconosce, il giudizio contemporaneo, che sono allo stesso titolo mirabili le lenti che contemplano i soli, e quelli che rendono i movimenti degl’invisibili microrganismi; non riconosce, il giudizio contemporaneo, che grande profondità di spirito occorre a illuminare una scena tolta dalla vita vile, ed elevarla a perla della creazione; non riconosce, il giudizio contemporaneo, che l’alto, ispirato riso è degno di stare a paro coll’alto impeto lirico, e che un abisso lo divide dalle smorfie del pagliaccio da fiera! Non riconosce questo, il giudizio contemporaneo, e tutto inscrive a carico e a rampogna del misconosciuto scrittore: senza consensi, senza echi, senza simpatie, egli, come il viaggiatore senza famiglia, si ritrova solo lungo la strada. Aspro è il corso della sua vita, e amaramente egli sente la sua solitudine» (pp. 131-132).

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Marc Chagall, Manilov, da Le anime morte.

«Ai lettori riesce facile trinciar giudizi guardando dal loro angolo tranquillo, da una sommità da cui è tutta aperta la visuale su tutto quanto avviene in basso, dove l’uomo scorge soltanto gli oggetti vicini. Anche negli annali universali dell’umanità vi sono addirittura molti secoli, che, si direbbe, andrebbero cancellati e annullati, come superflui. Molti errori si sono compiuti a questo mondo, tali che, si direbbe, ora non li farebbe neppure un bambino.
Che strade tortuose, cieche, anguste, impraticabili, lontane dal giusto orientamento, ha scelto l’umanità nel suo conato di pervenire alla verità eterna, mentre pure aveva innanzi tutta aperta la retta via, simile a quella che conduce alle splendide stanze, destinate all’imperatore in una reggia! Più larga di tutte l’altre vie, più fastosa era questa, rischiarata dal sole e illuminata tutta notte dai fuochi: ma fuori di essa, nella fitta oscurità, ha proceduto il flusso degli uomini.

Marc Chagall, Nozdriòv, da Le anime morte

Marc Chagall, Nozdriòv, da Le anime morte.

E quante volte, già guidati da un pensiero che scendeva dai cieli, essi hanno ancora saputo deviare e smarrirsi, hanno saputo nel pieno fulgore del giorno cacciarsi un’altra volta nei fondi impraticabili, hanno saputo un’altra volta spandersi l’un l’altro negli occhi una cieca nebbia, e vagando dietro ai fuochi fatui, hanno pur saputo spingersi fin sull’orlo dell’abisso, per poi, inorridendo, domandarsi l’un l’altro: – Dov’è l’uscita? dov’è la via? – Ora tutto appare chiaro alla generazione che passa, e si meraviglia degli errori, ride della semplicità dei suoi antenati, e non vede che un fuoco celeste irradia tutti questi annali, che grida da essi ogni lettera, e che di là, penetrante, un dito s’appunta proprio su essa, su essa, la generazione che passa. Ma ride la generazione che passa, e sicura di sé, orgogliosa, dà inizio a una nuova serie di errori, sui quali a loro volta rideranno i posteri» (pp. 210-211).

Marc Chagall, Tappo Stepàn, carpentiere, da Le anime morte

Marc Chagall, Tappo Stepàn, carpentiere, da Le anime morte.

«Oh, perché, un briccone? Perché essere così severi cogli altri? Ora, da noi, bricconi non ce ne sono: ci sono, questo sì, persone bennate, simpatiche; ma di quelle che a scandalo universale espongano la propria fisionomia allo schiaffo del pubblico, se ne troveranno sì e no due o tre, e anche queste discorrono ormai di virtù.
Più giusto di tutto sarebbe chiamarlo capitalista, accumulatore. L’accumulare, ecco la colpa di tutto: di qui derivano quelle azioni, a cui il mondo dà nome di non troppo pulite.

Marc Chagall, Le anime morte01

Marc Chagall, Le anime morte.

E vero, in un carattere simile c’è già qualche cosa che ripugna, e quello stesso lettore che nella sua vita quotidiana sarà amico d’un uomo cosiffatto e lo tratterà come un ospite gradito e ci passerà piacevolmente il tempo insieme, subito lo guarderà di traverso se lo ritrova eroe d’un dramma o d’un poema. Ma saggio è colui che non aborre da nessun carattere, e, spingendoci ben a fondo lo sguardo scrutatore, viene a sondarlo fino ai moventi originari. Rapidamente tutto muta nell’uomo: in men che non si dica, s’è già sviluppato nel suo intimo un orribile verme, che prepotentemente assorbe in sé tutti i succhi vitali. E di frequente, non soltanto una passione grandiosa, ma una miserabile passioncella per qualcosa di minuscolo giganteggia in qualcuno ch’era nato per imprese migliori, lo rende dimentico degli alti e sacri doveri, e nei gingilli da nulla gli fa scorgere l’alto e il sacro.
Innumerevoli, come i granelli di sabbia del mare, sono le passioni umane, e tutte diverse l’una dall’altra, e tutte quante, meschine e nobili, da principio stanno soggette all’uomo, e divengono poi le sue terribili tiranne. Beato colui che s’è scelto, fra tutte, la passione più elevata: s’amplierà e si moltiplicherà d’ora in ora e di minuto in minuto la illimitata sua beatitudine, ed egli penetrerà sempre più e più profondamente nell’infinito paradiso della propria anima» (pp. 242-243).

Nikolaj Vasil’evič Gogol’, Le anime morte, Einaudi tascabili, 1994.


 

Marc Chagall incise le prime lastre del ciclo completo delle 96 acqueforti e acquetinte che illustravano il romanzo Le anime morte di Gogol nel 1924, concludendole verso la fine del 1925, e stampandole nel 1927 presso la calcografia Fort per l’editore Ambroise Vollard. Fu però Stratis Eleftheriades detto Tériade, editore di origine greca, a terminare il monumentale progetto, il 28 ottobre 1948, a Parigi.


 

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Dietrich Bonhoeffer (1905-1945) – La qualità è il nemico più potente di ogni massificazione. La liberazione interiore dell’uomo per una vita responsabile è l’unico reale superamento della stupidità. La stupidità può essere superata soltanto con un atto di liberazione.

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«Il rischio implicito in ogni grande amore è quello di smarrire la polifonia dell’esistenza. Voglio dire che Dio e la sua eternità pretendono di essere amati dal profondo del cuore, senza però che l’amore terrestre ne venga danneggiato o indebolito; qualcosa come un cantus firmus, attorno al quale le altre voci della vita cantino in contrappunto […]. Dove il cantus firmus è chiaro e distinto, il contrappunto può dispiegarsi col massimo vigore […]. Solo se si fa risuonare con tutta chiarezza il cantus firmus, il suono è pieno e perfetto e il contrappunto sa dove andare. Non può scivolare né staccarsi e resta se stesso nel tutto. Quando si realizza questa polifonia, la vita è completa, e finché il cantus firmus è mantenuto, nulla di funesto può verificarsi».

Dietrich Bonhoeffer, Lettera a Renata ed Eberhard Bethge, in Id., Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere, San Paolo Edizioni, Cinisello Balsamo 2015, p. 374).

 

***

 

Resistenza e resa02

«La qualità è il nemico più potente di ogni massificazione».

«Contro il male è possibile protestare, ci si può compromettere, in caso di necessità è possibile opporsi con la forza; il male porta sempre con sé il germe dell’autodistruzione, perché dietro di sé nell’uomo lascia almeno un senso di malessere. Ma contro la stupidità non abbiamo difese».

«Ogni forte manifestazione di potenza esteriore, sia di carattere politico sia di carattere religioso, investe sulla stupidità di una gran parte degli uomini. Sembra quasi si tratti di una legge socio-psicologica. La potenza dell’uno ha bisogno della stupidità degli altri. Il processo attraverso cui ciò avviene non è quello dell’improvvisa atrofizzazione o sparizione di determinate doti dell’uomo – nel caso specifico, di carattere intellettuale – ma di una privazione dell’indipendenza interiore dell’individuo, sopraffatto dall’impressione che su di lui esercita la manifestazione di potenza. Divenuto in tal modo uno strumento privo di volontà, lo stupido è capace di commettere qualsiasi male e di non riconoscerlo come tale. Qui sta il pericolo di un diabolico abuso, con il quale certi uomini possono venir rovinati per sempre. La stupidità può essere superata soltanto con un atto di liberazione e non con un atto d’indottrinamento. E qui bisognerà rassegnarsi a dire che un’autentica liberazione interiore, nella maggioranza dei casi, diventa possibile solo se preceduta da una liberazione esteriore […]. La liberazione interiore dell’uomo per una vita responsabile di fronte a dio è l’unico reale superamento della stupidità».

Dietrich Bonhoeffer, Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere, Bompiani, Milano 1969, p. 62, 63-64.


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Renato Curcio – L’algoritmo sovrano. Metamorfosi identitarie e rischi totalitari nella società artificiale. Occorre riportare la barra della nostra vita sociale anzitutto sui legami, sulle comunità istituenti e sulle relazioni faccia-a-faccia. La critica va portata direttamente alla radice del modo di produzione capitalistico.

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   Logo-Adobe-Acrobat-300x293     Locandina di presentazione

Domenica 30 Settembre 2018 – ore 18

Horti Lamiani – Via Giolitti 163, Roma

Presentazione del libro
L'algoritmo sovrano
Renato Curcio

L’algoritmo sovrano

Metamorfosi identitarie e rischi totalitari nella società artificiale

ISBN 978-88-32043-01-3 – formato 14×21 cm – p. 128

Potremmo immaginare quella parte di Internet che ci è permesso frequentare come un giovane continente – non ha più di trent’anni – già ampiamente colonizzato. In esso, i coloni che si sono aggiudicati le posizioni migliori, pur continuando a essere in conflitto tra loro, come nelle migliori tradizioni capitalistiche, innalzano i vessilli dei marchi più noti dell’oligarchia digitale planetaria. In questo continente, algoritmi “intelligenti” col volto nascosto ma con grandi ambizioni classificatorie, predittive e giudicanti, si mimetizzano dentro i più diversi strumenti e negli immancabili smartphone, al servizio di piattaforme variamente specializzate nella costruzione di nuove dipendenze in molti campi: dalle comunicazioni, ai consumi, alle competizioni online, non disdegnando affatto esperimenti psico-sociali o politici di ampia portata.

Ripercorrendo le tappe salienti della colonizzazione della rete e delle identità virtuali dei suoi frequentatori, nella prima parte del libro si porta l’attenzione su alcuni dei dispositivi nascosti che stanno velocemente dissodando il terreno di una nuova e inedita deriva totalitaria. Nella seconda parte, si spinge lo sguardo sulle frontiere opache in cui gli Stati a più alta propensione digitale, provano a difendere da questa sfida transumanista il loro stesso futuro, ma in una prospettiva cieca, “al rialzo”. Come in un incubo – documentato e niente affatto distopico – si profilano così i contorni di simil-democrazie dalle libertà sostanziali vacillanti in cui i cittadini, assoggettati biometricamente a un codice unico personale, si dispongono a riprodursi come cloni volontari di un algoritmo sovrano. Naturalmente, un’alternativa c’è ancora: prendere atto della nostra incompiutezza come specie e riportare la barra della nostra vita sociale anzitutto sui legami, sulle comunità istituenti e sulle relazioni faccia-a-faccia. Non “contro le tecnologie digitali” ma portando la critica direttamente alla radice del modo di produzione capitalistico che esse riproducono. L’homo sapiens dopotutto può e sa fare di meglio che lasciarsi guidare da un algoritmo.

Renato Curcio, socio fondatore di Sensibili alle foglie e socioanalista, ha pubblicato per queste edizioni numerosi titoli. Su questo tema, ricordiamo: L’impero virtuale, 2015; L’egemonia digitale, 2016;La società artificiale, 2017.


 

La società artificiale

 

RENATO CURCIO

LA SOCIETÀ ARTIFICIALE

MITI E DERIVE DELL’IMPERO VIRTUALE

È esperienza comune che le nostre relazioni di qualsiasi tipo vengano sempre più frequentemente intermediate da dispositivi digitali. I legami interumani diretti lasciano il posto a mille forme di connessioni indirette e artificiali. Il marketing delle ‘internet company’ accompagna questa mutazione tecno-sociale con nuovi miti. La potenza degli smartphone, le meraviglie dell’intelligenza artificiale, la panacea dei robot per alleviare le fatiche del lavoro, la rivoluzione dei big data e il paradiso terrestre dell’internet delle cose. Un’assuefazione acritica maschera la nostra ignoranza sulle reali implicazioni di questa ulteriore evoluzione del capitalismo. Facendo leva su narrazioni d’esperienza che non indulgono all’anestetizzazione del malessere, questo libro s’interessa delle implicazioni sociali dei nuovi strumenti digitali e del significato concreto che nella vita di relazione quotidiana, nella politica, negli stati di coscienza e nel mondo del lavoro espressioni come big data, profilazione predittiva, intelligenza artificiale, cloud, robot umanoidi, internet delle cose, vengono realmente a configurare. Più in generale questa esplorazione cerca di mostrare come “progresso sociale” e “tecnologie digitali” non siano affatto sinonimi. E anzi, come queste ultime innervino l’architettura di classe capitalistica invadendo e aggredendo dall’interno lo spazio vitale essenziale delle relazioni umane.

Ben oltre la società industriale, la società dello spettacolo e la modernità liquida, la società artificiale ci mette dunque di fronte al germe accattivante e vorace di un nuovo totalitarismo. Un totalitarismo tecnologico che, a differenza di quelli ideologici del Novecento, invade e colonizza il luogo più “sacro” e fondamentale della libertà. D’altra parte, una matura consapevolezza di questa estrema deriva può essere anche il punto di partenza per un’ulteriore rimessa in discussione delle classi sociali e del destino di specie. Sapremo scegliere o ci accontenteremo di essere scelti?


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Renato Curcio (a cura di)

L’EGEMONIA DIGITALE. 
L’impatto delle nuove tecnologie nel mondo del lavoro

Sensibili alle foglie, Roma 2016

 

Due cantieri di socioanalisi narrativa svolti a Milano e a Roma hanno permesso di saggiare le tesi espresse con grande chiarezza in L’impero virtuale. Colonizzazione dell’immaginario e controllo sociale (Sensibili alle foglie, Roma 2015) dentro gli ambiti professionali e di vita costituiti dal lavoro subordinato; dagli studi professionali; dalle banche -dove i venditori finanziari devono «dire al cliente solo una mezza verità, imparare a tacere ciò che può insospettirlo» (p. 42)-; dalle scuole -nelle quali registri elettronici e altri strumenti non hanno in realtà una funzione didattica ma trasformano «l’istituto scolastico in un dispositivo panottico digitale. Da quando si entra a quando si esce, tutto, lì dentro, viene messo sotto controllo. Monitorato, registrato, tracciato, ripreso, trasmesso e memorizzato» (52); da ospedali e studi medici ormai al servizio di un «processo che vede sempre più la salute ridotta a pacchetti di prestazioni che sono vendibili, quindi ridotta a merce» (84); ai trasporti pubblici e privati.
Lo squilibrio tra tecnologie di controllo dallo sviluppo velocissimo e la consapevolezza sociale del loro significato e dei loro effetti, che procede invece molto lentamente, genera relazioni e strutture collettive caratterizzate da un dominio della quantità di marca fortemente riduzionistica e ossessionato da parametri numerici, che «non sa che farsene del pensiero critico, della soggettività inventiva, dell’epistemologia indisciplinata e dell’immaginario creativo, beni assai più rilevanti per la nostra specie di quello in realtà più modesto, anche se attualmente idolatrato, dell’innovazione capitalistica» (125). Si tratta di un vero e proprio Dataismo, come lo ha chiamato Byung-Chul Han, per il quale «tutto deve diventare dato e informazione» (136), una vera e propria ideologia della misurabilità.
La dissoluzione del non misurabile, della qualità, delle sfumature, delle relazioni, induce chi insegna a diventare voce narrante di supporti audiovisivi e conduce l’intero corpo sociale alla distanziazione tra gli individui anche quando essi sono fisicamente vicini, al «chiacchiericcio informe e anaffettivo di WhatsApp o di Facebook» (60), alla «sterilizzazione anaffettiva, ben rappresentata dai ‘Mi piace’ di Facebook e raccontata dal successo delle emoticon, alle quali non può corrispondere, come tutti sappiamo, alcun reale piacere corporeo ed emozionale», smarrito in una «algida indifferenza» data dalla «maledizione degli algoritmi» che chiude le persone in un infinito e compulsivo smanettamento nel quale i gesti corporei perdono ogni calore, non provando più «alcun piacere, come nessun dolore, né per ciò che fanno, né per le implicazioni ‘esterne’ all’ambito operazionale del loro agire», esattamente come se si fosse degli algoritmi (127).
L’obesità tecnologica sprofonda nella hybris, nello smarrimento della «scelta umana condivisa» che fonda il limite (131), nella schiavitù trasparente generata in Italia dal cosiddetto Jobs Act che cancellando l’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori ha invaso ogni attività professionale di «strumenti mobili o fissi (bracciali, cellulari, badge, smartphone aziendali, tom tom traccianti, etc.)» (14), talmente onnipresenti da imporre un dominio sulle persone che mai è stato «più invasivo e pervasivo; mai come negli attuali luoghi di lavoro la sfera personale dei lavoratori è stata assoggettata a una trasparenza ‘quasi totale’» (15).
La colonizzazione dell’immaginario scandisce «un progresso tecnologico inesorabilmente avverso ad ogni anelito di progresso sociale» (122), confermando in questo modo l’ambiguità originaria di ogni progressismo, che sin dal XIX secolo ha accomunato padroni e lavoratori nell’illusione di un avvenire inevitabilmente migliore di ogni passato.
La complessità di tali dinamiche rende insufficiente ogni tecnofobia o tecnofilia, ogni uso buono o cattivo delle tecnologie digitali poiché, ancora una volta, «non sono le ‘tecnologie’ in quanto tali a costituire la minaccia bensì la loro determinazione proprietaria» (122).
Come ogni forma di dominio, anche l’algocrazia – il dominio degli algoritmi che osservano, controllano, determinano le vite – non è una questione in primo luogo tecnologica ma sempre e profondamente politica.

Alberto Giovanni Biuso

www.biuso.eu

Una versione leggermente più sintetica della recensione è stata pubblicata su il manifesto del 14 aprile 2017.


Colonizzazione dell’immaginario e controllo sociale, l’intervento di Renato Curcio


Renato Curcio lo scorso aprile ha incontrato la Comunità di base delle Piagge per ragionare sui temi del suo ultimo libro “L’impero virtuale, colonizzazione dell’immaginario e controllo sociale” (Edizioni Sensibili alle Foglie). Sullo stesso tema è intervenuto sulla rivista Pagina Uno. Bimestrale di cultura, politica e letteratura.


«[È emersa] una nuova oligarchia economica esperta nell’esercizio del potere digitale […] Uno sviluppo del capitalismo globale, una tecnologia innovatrice, un nuovo panottico di sorveglianza, una possibilità di controllo a distanza dei lavoratori, una produzione di identità virtuali, un’opportunità per mille operazioni di hackeraggio benefiche e malefiche, una possibilità di velocizzare e ampliare le nostre comunicazioni orizzontali e tante, tantissime altre cose ancora» (pp. 8-9).

«L’iperconnessione, la schiavitù mentale, l’app-dipendenza, l’alienazione della memoria, il furto dell’oblio, e il deterioramento della sensibilità relazionale» (p. 10).

«La materia più preziosa al mondo non è il petrolio, né l’oro e neppure l’energia. No, più prezioso di ogni altra cosa, come aveva già intuito il Papato ai tempi delle prime Crociate, è l’anima degli umani, il loro immaginario. L’impero virtuale non è che la storia recente di questa appropriazione, di una nuova e più insidiosa strategia di colonizzazione dell’immaginario» (p. 16).

«[Dobbiamo] raffigurarci l’utilizzatore della piattaforma come un lavoratore-consumatore che opera volontariamente per un’azienda produttiva senza percepire alcun salario; che produce con il suo lavoro valore, ma lo fa gratuitamente, volontariamente, e nella maggior parte dei casi senza esserne neppure consapevole; e che, infine, riceve nei suoi strumenti digitali inviti mirati all’acquisto di prodotti ai quali in qualche modo si è interessato (un volo, un libro, un tablet, un’auto, un appartamento). Ricordando che il popolo irretito nell’impero virtuale raggiunge attualmente circa tre miliardi di persone non stupisce che il gruzzolo finale raggiunga cifre astronomiche» (p. 36).

«Mentre i legami in presenza si generano, si consolidano e si sciolgono attraverso parole e messaggi non verbali che i corpi si scambiano reciprocamente, le connessioni elettroniche si affidano alle immagini morte, ai filmati, ai simboli e alla scrittura, vale a dire ai tipici sistemi di segni ai quali, da sempre, ricorrono i linguaggi dell’assenza» (pp. 63-64).

«Un ‘tweet’ qui e un ‘mi piace’ là. Un messaggino e uno scambio di fotografie. Esorcismi contro la solitudine, ma anche angoscianti domande. […] Il numero e non la qualità. Questo è lo specchio di qualunque Narciso virtuale. […] Nell’ordine di realtà virtuale a cui Narciso si consegna, la sua gloria e il suo destino dipendono dall’aritmetica» (70).

«Affidando i nostri ricordi alle implacabili memorie esterne, queste memorie ricorderanno di noi anche quello che noi non ricordiamo più o di cui ci siamo liberati. Figlie del pensiero quantitativo esse ignorano l’arte sottile e benefica dello scarto e dell’abbandono: esse ricorderanno per sempre anche quanto noi non vorremmo più ricordare. Ricorderanno nonostante noi e la nostra volontà, e saranno soltanto esse, infine, a costruire, giudicare e decidere quale debba essere il significato dei nostri trascorsi dimenticati.
Va detto ancora che la memoria senza oblio è anche una memoria senza storia, una memoria ‘morta’, rigida come un cadavere e patologicamente dissociata. È una memoria ‘cattiva’ che genera malessere. Tutto ciò che essa conserva ‘dorme’ fino a che l’oligarchia non ritenga di doverlo risvegliare per una sua qualsiasi ragione; dimora in un obitorio dell’impero in attesa di essere un giorno oscenamente scrutata da algoritmi curiosi in cerca di sempre nuove e imprevedibili associazioni» (77).

«[…] parole finte, contatti virtuali spacciati per legami amicali, maschere intercambiabili e ologrammi in marcia nelle piazze vuote» (99).

Si tratta della «schiavitù mentale» della quale parla Chomsky, «la schiavitù di cui sono vittime gli entusiastici abitanti dell’impero» (68), il quale si presenta «come una società della trasparenza identitaria; una società degli alias digitali accreditati e domiciliati in account, con-vinti e attivi, ma sempre trasversalmente monitorati senza alcuna pausa» (pp. 100-101).

«[Internet è] dentro il mondo, ma il mondo non si riduce a Internet. Il futuro passa anche dall’esterno di questa ragnatela e fuori dalle sue ossessioni» (p. 98).

«Stando all’evidenza storica tutti gli imperi esistiti sono anche crollati. Non vedo perché proprio questo dovrebbe fare eccezione» (p. 101).

Quarta di copertina

Alcune aziende che quindici anni fa non esistevano, come Google e Facebook, oggi costituiscono la nuova e potente oligarchia planetaria del capitalismo digitale. Internet ne rappresenta l’intelaiatura, e i suoi utenti, vale a dire circa tre miliardi di persone, la forza lavoro utilizzata. Le nuove tecnologie digitali fanno ormai parte della nostra vita quotidiana, le portiamo addosso e controllano tutti gli ambienti della vita sociale, dai luoghi di lavoro ai templi del consumo. Questo libro propone una riflessione sui dispositivi attraverso i quali questa oligarchia e queste tecnologie catturano e colonizzano il nostro immaginario a fini di profitto economico e di controllo sociale. E mette in luce il risvolto di tutto ciò, ovvero l’emergere di una nuova e impercepita sudditanza di quel popolo virtuale che, riversando ingenuamente messaggi, fotografie, selfie, ansie e desideri su piattaforme e social-network, contribuisce con le sue stesse pratiche a rafforzare il dominio del nuovo impero. Non conosciamo ancora le conseguenze sui tempi lunghi di questo ulteriore passaggio del modo di produzione capitalistico. Chiara invece appare la necessità di immaginare pratiche di decolonizzazione personale e collettiva per istituire nei luoghi ordinari della vita varchi di liberazione.

 

 

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Vedi:

L’IMPERO VIRTUALE
LA SOCIETA’ ARTIFICIALE
L’EGEMONIA DIGITALE

Renato Curcio – Introduzione al libro di Franco Del Moro, «Il dubbio necessario»: “Le persone che si adattano ad attività di pura sopravvivenza non raggiungono mai una piena realizzazione dei propri desideri, delle proprie capacità e aspirazioni: la vastità identitaria è la vera dimensione dell’esperienza umana nella creazione di nuovi mondi di senso”.
Renato Curcio – La materia più preziosa al mondo è l’anima degli umani, il loro immaginario. L’impero virtuale non è che la storia recente di una nuova e più insidiosa strategia di colonizzazione dell’immaginario.
Renato Curcio – Ben oltre la società industriale, la società dello spettacolo e la modernità liquida, la società artificiale ci mette dunque di fronte al germe accattivante e vorace di un nuovo totalitarismo. Sapremo scegliere o ci accontenteremo di essere scelti?

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Plotino (203-270 d.C.) – Cominciamo col fare del bello e del bene un solo e identico principio. Togli il superfluo, raddrizza ciò che è storto, lucida ciò che è opaco perché sia brillante, e non cessare mai di scolpire la tua statua, finché alla tua vista interiore appaia la temperanza.

Plotino 001
Enneadi

Enneadi

«Che cosa vedono dunque questi occhi interiori? […]
Bisogna abituare l’anima pian piano a osservare […] le belle abitudini di vita […].
Coraggio, ritorna in te stesso e osservati: se non vedi ancora la bellezza nella tua interiorità, fa come lo scultore di una statua che deve diventare bella. Egli scalpella il blocco di marmo, togliendone delle parti, leviga, affina il marmo finché non avrà ottenuto una statua dalle belle linee. Anche tu, allora, togli il superfluo, raddrizza ciò che è storto, lucida ciò che è opaco perché sia brillante, e non cessare mai di scolpire la tua statua, finché in essa non splenda il divino splendore della virtù e alla tua vista interiore appaia la temperanza assisa sul suo sacro trono.
La tua anima si è così trasformata? Ti vedi in questo modo? Hai tu con te stesso un rapporto puro, senza che alcun ostacolo si frapponga fra te e te, senza che nulla di estraneo abbia inquinato la tua purezza interiore?
Sei tu, interamente, divenuto splendente di pura luce?
Non una luce – dico – che si può misurare per forma o dimensione, che può diminuire o aumentare indefinitamente per grandezza, ma una luce assolutamente al di là di ogni misura, perché essa è superiore a ogni grandezza e a ogni quantità?
[…] Fissa il tuo sguardo e osserva. Il tuo occhio interiore ha dinnanzi a sé una grande bellezza.
Ma se cerchi di contemplarla con occhio ammalato, o non pulito, o debole, avrai troppo poca energia per vedere gli oggetti più brillanti e non vedrai nulla, anche se sei dinnanzi a un oggetto che può essere visto.
Bisogna che i tuoi occhi si rendano simili all’oggetto da vedere, e gli siano pari, perché solo così potranno fermarsi a contemplarlo.
Mai un occhio vedrà il Sole senza essere divenuto simile al Sole, né un’anima contemplerà la bellezza senza essere divenuta bella.
[…] Innalzandosi verso la luce, giungerà dapprima presso l’intelligenza, e qui potrà osservare che tutte le idee sono belle e si accorgerà che è lì la bellezza, proprio nelle idee. Per esse, infatti, che sono i prodotti e l’essenza stessa dell’intelligenza, esiste ogni realtà bella.
Ciò che è al di là della bellezza, noi lo identifichiamo come la natura del bene, e il bello le è dinnanzi. Anzi, per usare una formula d’insieme, si dirà che il primo principio è il bello, ma – per fare una distinzione tra ciò che è intellegibile – bisognerà distinguere il bello, che è il luogo delle idee, dal Bene che è al di là del bello e che ne è la sorgente e il principio. Ovvero si comincerà col fare del bello e del bene un solo e identico principio.
Ma, in ogni caso, il bello è nel regno delle cose che possono essere colte con la mente».

Plotino, Enneadi, I, 6, 9. Cfr., Plotino, Enneadi. Testo greco a fronte, a cura di G. Faggin e R. Radice, Bompiani, Milano 2002.


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Henri Bergson (1859-1941) – La memoria non è la facoltà di disporre dei ricordi in un cassetto. E cos’è la coscienza? Coscienza significa in primo luogo memoria. Ogni coscienza è anticipazione del futuro, è il tramite tra ciò che è stato e ciò che sarà, un ponte gettato fra il passato e il futuro.

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L'energia spirituale

L’energia spirituale

«Cos’è la coscienza? Voi pensate di certo che non definirò una cosa così concreta, così costantemente presente all’esperienza di ognuno di noi. Ma senza dare della coscienza una definizione che sarebbe meno chiara di essa, posso caratterizzarla con il suo tratto più evidente: coscienza significa in primo luogo memoria. La memoria può mancare di ampiezza, può abbracciare solo una piccola parte del passato, può trattenere solo quello che è appena accaduto. Ma deve esserci memoria, altrimenti non ci sarebbe coscienza.

Ogni coscienza è anticipazione del futuro. Considerate la direzione del vostro spirito in un momento qualsiasi: vedrete che esso si occupa di ciò che è, ma in vista soprattutto di quello che sta per essere. L’attenzione è un’attesa, e non c’è coscienza senza una certa attenzione alla vita. Il futuro è già qui; ci chiama o, piuttosto, ci trae a sé. Questa trazione ininterrotta che ci fa andare avanti sulla strada del tempo, è a causa anche del nostro agire di continuo. Ogni azione è uno sconfinamento nel futuro.

Trattenere ciò che non è più, anticipare ciò che non è ancora; ecco dunque la prima funzione della coscienza. […]

Dunque possiamo dire che la coscienza è il tramite tra ciò che è stato e ciò che sarà, un ponte gettato fra il passato e il futuro».

Henri Bergson, L’energia spirituale [1919], Raffaello Cortina, Milano 2008.

 

 

L'evoluzione creatrice

L’evoluzione creatrice

«La memoria […] non è la facoltà di disporre dei ricordi in un cassetto o di iscriverli in un registro. Non esiste registro né cassetto e nemmeno potremmo dire che esista una facoltà, poiché una facoltà agisce in maniera discontinua, quando vuole o quando può, mente lo stratificarsi del passato sul passato procede ininterrottamente. Non v’è dubbio: esso ci segue, intero, istante per istante; tutto ciò che abbiamo sentito, pensato, voluto fin dalla nostra prima infanzia è qui proteso sul presente che sta per integrarvisi, e urge contro la porta della coscienza».

Henri Bergson, L’evoluzione creatrice [1907], Raffaello Cortina, Milano 2002.

 

 


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Roland Barthes (1915-1980) – A cosa serve l’utopia? A produrre del senso. Un tempo si spiegava la letteratura attraverso il suo passato; oggi attraverso la sua utopia. Il senso è fondato come valore e l’utopia permette questa nuova semantica.

Roland Barthes001

Barthes di Roland Barthes

 

A COSA SERVE L’UTOPIA

A cosa serve l’utopia? A produrre del senso. Di fronte al presente, al mio presente, l’utopia è un termine secondo che permette di azionare il dispositivo di scatto del segno: il discorso sul reale diventa possibile, esco dall’afasia in cui mi getta lo smarrimento per tutto ciò che non va in me, in questo mondo che è il mio. L’utopia è familiare allo scrittore, perché lo scrittore è un donatore di senso: il suo compito (il suo godimento) è di dare dei sensi, dei nomi, e non può farlo se non c’è paradigma, dispositivo di scatto del sì/no, alternanza di due valori: per lui il mondo è una medaglia, una moneta, una doppia superficie di lettura, di cui la sua realtà occupa il rovescio. Il Testo, per esempio, è un’utopia; la sua funzione – semantica – è di far significare la letteratura, l’arte, i linguaggi presenti, proprio in quanto questi vengono dichiarati impossibili; un tempo si spiegava la letteratura attraverso il suo passato; oggi attraverso la sua utopia: il senso è fondato come valore: l’utopia permette questa nuova semantica.

Roland Barthes, Barthes di Roland Barthes, Einaudi, Torino 1980, p. 89.

 


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G. W. F. Hegel (1770-1831) – Riconoscere la ragione come la rosa nella croce del presente. Tale riconoscimento razionale è la riconciliazione con la realtà che la filosofia consente a coloro che hanno avvertito l’interna esigenza di comprendere e di mantenere la libertà soggettiva in ciò che è sostanziale.

Hegel 010

cop, Lineamenti di filosofia del diritto 1

«Riconoscere la ragione come la rosa, nella croce del presente, e quindi godere di questa – tale riconoscimento razionale è la riconciliazione con la realtà, che la filosofia consente a quelli, i quali hanno avvertito, una volta, l’interna esigenza di comprendere e di mantenere, appunto, la libertà soggettiva in ciò che è sostanziale, e al modo stesso, di stare nella libertà soggettiva, non come in qualcosa di individuale e di accidentale, ma in qualcosa che è in sè e per sé. Questo, anche, costituisce il significato concreto di quel che sopra è stato designato astrattamente come unità di forma e di contenuto: poiché la forma, nella sua più concreta significazione, è la ragione, quale conoscenza che intende, e il contenuto è la ragione, quale essenza sostanziale della realtà etica, come della realtà naturale; l’identità cosciente delle due è l’idea filosofica».

Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Prefazione a Lineamenti di filosofia del diritto. Diritto naturale e scienza dello Stato in compendio, Laterza, Bari-Roma 1979, p. 19.


Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) – Nulla di grande si realizza nel mondo senza passione
Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) – Il soffrire dell’uomo che non ha riflessione sul proprio destino è senza volontà, poiché egli onora il negativo, i limiti, solo nella forma della loro esistenza giuridica e autoritaria come insormontabili, e prende le proprie determinatezze e le loro contraddizioni come assolute.
Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) – L’amore esclude ogni opposizione, non è nulla di limitante, nulla di limitato, nulla di finito. Nell’amore si trova la vita stessa. Negli amanti non vi è materia, essi sono un tutto vivente. L’amore si sdegna di ciò che è ancora separato. Un animo puro non si vergogna dell’amore, ma si vergogna che esso sia incompleto. L’amore è più forte della paura. L’amore acquista questa ricchezza di vita nello scambiare tutti i pensieri.
Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) – La filosofia non è sonnambulismo, ma piuttosto la più vigile coscienza. Attingere il proprio fine e la propria missione non dal consacrato corso delle cose esistenti.
Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) – Il quieto accontentarsi del reale si trasformi nel coraggio per qualche cosa di diverso.

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Georges Sorel (1847-1922) – La filosofia non è che un riconoscimento degli abissi entro i quali si svolge il sentiero che la gente volgare segue con la serenità dei sonnambuli. Nell’anima di ogni uomo vi è un fuoco metafisico che riposa nascosto sotto la cenere. L’evocatore è colui che rimuove le ceneri e fa sprigionare la fiamma.

Georges Sorel 001
Sorel_Scritti politici

Scritti politici

«[…] la filosofia non è che un riconoscimento degli abissi entro i quali si svolge il sentiero che la gente volgare segue con la serenità dei sonnambuli. La mia ambizione è di poter qualche volta risvegliare delle vocazioni. C’è probabilmente nell’anima di ogni uomo un fuoco metafisico che riposa nascosto sotto la cenere e che tanto più minaccia di estinguersi quanto più lo spirito ha ciecamente ricevuto una dose maggiore di dottrine bell’e fatte; l’evocatore è colui che rimuove le ceneri e fa sprigionare la fiamma. Non credo di vantarmi senza ragione dicendo che qualche volta sono riuscito a provocare presso i miei lettori lo spirito d’invenzione; ora, è soprattutto lo spirito d’invenzione che bisognerebbe suscitare nel mondo. Ottenere un tale risultato vale assai più che accogliere l’approvazione banale di coloro che sono ripetitori di formule o che riducono il loro pensiero al servizio delle dispute di scuola».

Georges Sorel, Lettera a Daniel Halévy, del 15 luglio 1907: in Georges Sorel, Scritti politici. Riflessioni sulla violenza. Le illusioni del progresso. La decomposizione del marxismo, Utet, Torino 2006.



Copertina Da Capo senza fine

Alessandro Monchietto

Da capo senza fine. Il marxismo anomalo di Georges Sorel

Presentazione di Vittorio Morfino

indicepresentazioneautoresintesi

La funzione fondamentale di un’immagine del mondo è quella di costituire l’orizzonte ultimo – irraggiungibile, ma allo stesso tempo inaggirabile – rispetto al quale si definisce ogni condotta pratica. È l’immaginario di volta in volta adottato a definire i limiti e i confini di ciò che rientra nel nostro potere d’azione, di ciò che si può modificare e di ciò che, invece, è percepito come semplicemente fatale.

Uno dei filosofi che più fecondamente seppe dedicare il proprio itinerario intellettuale all’analisi di tale plesso tematico fu Georges Sorel. Elaborando la nozione di mito, Sorel intendeva creare uno strumento in grado di «legare» una comunità, per quanto minoritaria, fornendo a essa identità e coesione. A suo dire la macchina mitologica doveva produrre un «senso comune» – quel sentire che non deve essere identificato con la capacità che tutti gli uomini possiedono, ma con il senso che fonda la comunità – il quale fosse in grado di orientare (in modo quasi irriflesso) la prassi politica delle classi dominate.

Sorel fu uno dei pochissimi pensatori marxisti che cercarono di disgiungere il principio del progresso da quello dell’emancipazione; a partire da tali suggestioni soreliane il saggio mira a sviluppare la tesi secondo cui il principio ideologico del progresso e il principio filosofico dell’emancipazione debbano essere non solo distinti, ma separati, evidenziando la necessità di abbandonare il primo senza rinunciare a una prospettiva emancipativa.

 

 

Presentazione

                                        di   Vittorio Morfino

In un passaggio del Quaderno 4 Gramsci scrive a proposito di Sorel:

occorre ristudiare Sorel, per cogliere, al di sotto delle incrostazioni parassitarie deposte sul suo pensiero dagli ammiratori dilettanti e intellettuali, ciò che vi è di più essenziale e permanente1.

Gramsci scrive queste righe agli inizi degli anni Trenta. Tra le incrostazioni parassitarie che sono state ‘deposte’ sul pensiero di Sorel forse la più importante è quella di Mussolini che ne ha fatto un pensatore proto-fascista, mossa che deve aver pesato come una pietra tombale se Althusser in una lettera scritta a Franca Madonia a metà degli anni Sessanta può aver scritto che «chez nous on connait seulement de Sorel qu’il a inspiré Mussolini»2.

Di un tipo di lettura di questo genere è di nuovo Gramsci a fornirci una critica estremamente chiara:

Nella «Critica Fascista» del 15 settembre 1933 Gustavo Glaesser riassume il recente libro di Michael Freund (Georges Sorel. Der revolutionäre Konservatismus, Klostermann Verlag, Francoforte am Main, 1932) che mostra quale scempio possa fare un ideologo tedesco di un uomo come Sorel. È da notare che, se pure Sorel possa, per la varietà e incoerenza dei suoi punti di vista, essere impiegato a giustificare i più disparati atteggiamenti pratici, tuttavia è innegabile nel Sorel un punto fondamentale e costante, il suo radicale «liberalismo» (o teoria della spontaneità) che impedisce ogni conseguenza conservatrice delle sue opinioni3.

Dello spontaneismo di Sorel Gramsci fece una precisa e misurata critica4, nulla a che vedere con le condanne generiche e senza appello di Lukács nella Distruzione della ragione e di Sartre nella prefazione ai Dannati della terra di Frantz Fanon: irrazionalismo e apologia della violenza, di nuovo: protofascismo!

Il libro di Alessandro Monchietto ci permette di andare al di là di questi pregiudizi, fornendoci una chiara e dettagliata ricostruzione del pensiero di questo autore la cui importanza è innegabile per la storia del marxismo a cavallo del Novecento. Tuttavia, la ricostruzione storica del contesto e delle relazioni culturali e politiche è accompagnata dallo sforzo teorico di mettere in luce gli elementi fondamentali che conferiscono coerenza ad un pensiero che si presenta ad un primo sguardo come frammentario e ondivago.

Monchietto ci propone la seguente periodizzazione:

il periodo del socialismo ortodosso che va dal 1893 al 1897;

il periodo del revisionismo dal 1898 al 1903;

quello più conosciuto, il cui centro sonole Riflessioni sulla violenza, dal 1904 al 1919;

infine gli ultimi anni, 1919-1922.

Questo percorso, osservato da lontano, presenta continuità e discontinuità: il merito di Monchietto è quello di andare oltre questi piatti schematismi per mostrarci la complessità del pensiero di Sorel, mettendo in rilievo come alcuni centri di interesse acquistino peso e colorazione differente nei diversi periodi. Così il rilievo dato ai fattori sovrastrutturali, l’interesse per il cristianesimo primitivo come modello di una rivoluzione totale, la separazione tra le classi ed il proletariato concepito come forza giuridica e morale nuova, la fondazione psicologica degli eventi sociali, costituiscono, come suggerisce Monchietto, temi che accompagnano l’intero percorso di Sorel, e tuttavia entrano ogni volta in modo originale nella sua strategia. Stesso discorso può essere fatto per le fonti, Marx fra tutte, ma anche Vico e Bergson, verso cui Sorel evidenzia un rapporto di estrema libertà: esse sono usate, giocate l’una sull’altra, talvolta l’una contro l’altra, tuttavia sempre al servizio del proprio cammino di pensiero e mai come autorità o garanzia.

Monchietto sottolinea come il primo periodo sia dominato da un interesse scientifico per il marxismo in cui ha un ruolo fondamentale la polemica antipositivistica: Sorel rifiuta ogni piatto determinismo che traduca in schemi puramente meccanicistici la realtà storico-sociale, per pensare il materialismo storico come una teoria materialista della sociologia. La realtà sociale non deve essere concepita come sistema impersonale, ma come ambiente artificiale trasformato dall’homo faber in quanto lavoratore sociale. Se Durkheim pensa l’ambiente come persona nazionale pietrificandone di fatto la realtà, il marxismo, attraverso il concetto di lotta di classe, introduce nell’ambiente il movimento.

Il marxismo diviene allora scienza di un cambiamento sociale non governato da un telos, da un fatale progresso determinato dalla struttura economica, ma scienza del campo d’azione di uno scontro di classe che non si svolge solo sul terreno economico, ma, certo a partire da esso, su quello giuridico: la lotta di classe è lotta di diritto contro diritto, lotta per la conquista di diritti della classe operaia, conquista a cui è legata la questione fondamentale dell’educazione delle masse come preparazione di un ordine nuovo in cui il proletariato sappia ergere il proprio interesse a interesse pubblico: questa educazione non nasce da idee astratte imposte alle masse, ma deve avere per base le stesse abitudini di fabbrica, dando luogo ad associazioni operaie che si sottraggono ad una mera finalità materiale o di resistenza. Si tratta, attraverso i sindacati, di creare una nuova visione del mondo radicalmente separata da quella borghese, coltivando i sentimenti di giustizia nelle masse operaie.

Dentro questo quadro Sorel pensa il socialismo in termini gradualistici, come sostituzione progressiva di una forma giuridica ad un’altra, e, attraverso questa, di un mondo di valori ad un altro: la rivoluzione sociale è pensata in questo periodo come lenta e profonda trasformazione dei costumi dal basso, in antitesi tanto con il determinismo socialista che la pensa in termini meccanici, quanto con l’astratto utopismo che la vuole imporre dall’alto, quanto con il giacobinismo che vuole imporre l’astratta virtù contro i costumi storici. Le istituzioni proletarie agiscono dal basso, lo sciopero crea una libera solidarietà che crea un nuovo diritto, una nuova morale e, con ciò, nuovi rapporti di produzione. Da qui nasce il rifiuto soreliano di ogni gerarchia, l’affermazione della superiorità delle istituzioni proletarie su quelle borghesi, la preferenza accordata alle Trade unions inglesi, che subordinano la politica alle istituzioni del proletariato, rispetto alla socialdemocrazia tedesca, in cui invece il socialismo avanza attraverso l’istituzione parlamentare. È in questo quadro che emerge nel pensiero di Sorel il concetto di scissione accompagnato dal riferimento storico al cristianesimo primitivo e al suo atteggiamento catacombale.

Su questi temi e problemi si inserisce l’interesse per Vico da cui Sorel trae gli strumenti concettuali per leggere in modo nuovo Marx. Si tratta di un Vico pensato in modo estremamente libero, un Vico di cui è lasciato cadere l’aspetto provvidenzialistico, la storia ideale eterna, per accentuare, nel quadro del materialismo storico, le determinazioni culturali delle classi sociali: il socialismo non può nascere dall’esclusiva evoluzione delle forze produttive, ma dall’evoluzione psicologica delle classi lavoratrici. E qui Sorel sottolinea un limite della riflessione vichiana che ha pensato l’evoluzione della coscienza secondo un piano unico, mentre in realtà le evoluzioni si producono in tutte le epoche e sono mescolate nella società nel modo più confuso, cosicché questa non è pensabile come blocco omogeneo, ma come ‘viluppo’ e ‘incrocio’: su questi complessi intrecci agiscono le condizioni economiche e i rapporti sociali, favorendo certi sviluppi piuttosto che altri. Ma in Vico Sorel trova anche altri temi che rafforzano e arricchiscono il percorso precedente: la valorizzazione della consuetudine (che viene dal basso) contro la legge (imposta dall’alto), la riconduzione delle leggi di evoluzione del diritto a quelle di evoluzione del linguaggio, l’importanza dell’aspetto prelogico, emozionale, fantastico nell’organizzazione sociale. Con questi nuovi strumenti Sorel si scaglia contro l’ortodossia marxista e il suo fatalismo economico-rivoluzionario, nel tentativo di separare da questo l’autentico pensiero di Marx: il marxismo infatti non può essere una filosofia della storia, non può predire il corso della storia deducendolo logicamente.

Tuttavia, questo tentativo di salvare Marx dal marxismo ortodosso, lascia spazio, nella periodizzazione di Monchietto, ad una revisione del pensiero di Marx operata sulla scorta di Bernstein. Si tratta di rinunciare allora ad ogni determinismo economico, dominante nel marxismo francese e non solo, che conduce ad una concezione catastrofista della storia. Il fatalismo marxista nasce secondo Sorel da una falsa ipotesi di carattere scientifico, da una storia pensata per stadi di sviluppo: la necessità del futuro non è per Sorel che la falsa veste scientifica dell’utopia. Da qui l’attacco al materialismo dialettico come falsificazione in senso deterministico del marxismo, e da qui la critica a Engels, Kautsky e Plekhanov i quali hanno trasformato in leggi storiche quelle che in Marx erano indicazioni per l’azione: il rifiuto della rivoluzione come colpo di mano di pochi. La storia per Sorel non può essere dedotta logicamente perché essa è il campo d’azione della libertà e del caso (hazard), perché le rivoluzioni, le accumulazioni di fatti decisivi, i grandi uomini, si sottraggono ad ogni visione deterministica, perché l’emergenza di fasi nuove non si può prevedere, perché, ancora, «il concatenarsi di potenti fattori produce risultati di nuovo genere»5.

In questa fase è interessante il rapporto che Sorel instaura con Hegel: da una parte egli rifiuta in modo radicale l’idea di Weltgeschichte come giudizio universale intramondano, le cui epoche non sono che tappe preparatorie al fine ultimo, al regno della libertà (di cui Marx non avrebbe fatto altro che fornire la versione materialista), dall’altro riprende il concetto di società civile come intreccio dell’elemento economico, giuridico e politico, in cui le contraddizioni non sono semplici antagonismi passivi, ma condizioni attive (spirituali, giuridiche, politiche), attraverso cui è possibile costruire una concezione del socialismo come ‘integrale visione della storia’ non guidata da forze impersonali, ma da forze collettive operanti.

Attraverso la ricostruzione di questo percorso Monchietto giunge all’esposizione del Sorel più noto, quello delle Riflessioni sulla violenza. Il rifiuto della concezione unilineare del tempo storico e dell’idea di progresso, il rifiuto delle leggi della storia conseguono dalla singolare mossa soreliana di giocare Vico (il suo Vico) contro Hegel (e il marxismo che da Hegel non ha saputo liberarsi): la storia è il campo d’azione del caso, della contingenza e dei conflitti, la storia è rinascita e decadenza, la dialettica che l’attraversa deve comprendere il movimento, ma anche l’arresto. Di qui il recupero del concetto di catastrofe non come verità ultima dello sviluppo economico, ma come mito sociale; di qui tutta una serie di coppie concettuali che risentono profondamente dell’influsso bergsoniano (e delle coppie linguaggio/intuizione e tempo spazializzato/durata): utopia/mito, giacobinismo/sciopero generale, socialdemocrazia/sindacalismo, e ovviamente, quella più celebre forza/violenza. E di nuovo il cristianesimo primitivo diviene un importante termine di paragone: così come per il cristianesimo nascente l’evento fondamentale è stata la credenza nella risurrezione, l’evento fondamentale dei tempi moderni è il mito della catastrofe rivoluzionaria che Marx ha fornito al proletariato.

Di questo percorso tracciato da Sorel attraverso i suoi scritti Monchietto ci restituisce con sensibilità storica e teorica la complessità e la profondità. Ma non di semplice ricostruzione si tratta: in realtà non è difficile percepire in tutto lo scritto il tentativo di riattivare un passato rimosso o sconfitto, un passato che possa ridivenire presente, certo, in una forma nuova. E se in questo testo ciò appare tra le righe e ai margini, lasciando il centro alla bella ricostruzione storica del pensiero di Sorel, in un altro testo dell’autore è detto in modo più aperto ed esplicito: tentare di pensare oltre la critica postmoderna di ogni filosofia del tempo unico e del progresso, che Sorel ha anticipato con grande acutezza, una filosofia della storia altra,

costruita non per ‘telos’, non per ‘compimento’, ma costruita per ‘alternative’, succedersi di alternative, succedersi di opportunità e di occasioni che al tempo stesso aprono e chiudono nuove opportunità. Una Geschichtesphilosophie senza una trazione anteriore, senza un’attrazione del fine, ma una filosofia della storia dove ci sia spazio per la contingenza e per un orizzonte di possibilità6.

1 A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 1975, p. 470.

2 L. Althusser, Lettres a Franca, édité par Y. Moulier et F. Matheron, Paris, Stock/Imec, 1998, p. 623.

3 A. Gramsci, Quaderni del carcere, cit., p. 1923.

4 Ivi, pp. 330-332. Altrettanto acuta del resto è la critica dell’antispontaneismo astratto: «Trascurare e peggio disprezzare i movimenti così detti ‘spontanei’, cioè rinunziare a dar loro una direzione consapevole, ad elevarli ad un piano superiore inserendoli nella politica, può avere spesso conseguenze molto serie e gravi. Avviene quasi sempre che a un movimento ‘spontaneo’ delle classi subalterne si accompagna un movimento reazionario della destra della classe dominante, per motivi concomitanti: una crisi economica, per esempio, determina malcontento nelle classi subalterne e movimenti spontanei di massa da una parte, e dall’altra determina complotti dei gruppi reazionari che approfittano dell’indebolimento obbiettivo del governo per tentare dei colpi di Stato. Tra le cause efficienti di questi colpi di Stato è da porre la rinunzia dei gruppi responsabili a dare una direzione consapevole ai moti spontanei e a farli diventare quindi un fattore politico positivo. […] La concezione storico-politica scolastica e accademica, per cui è reale e degno solo quel moto che è consapevole al cento per cento e che anzi è determinato da un piano minutamente tracciato in antecedenza o che corrisponde (ciò che è lo stesso) alla teoria astratta. Ma la realtà è ricca delle combinazioni più bizzarre ed è il teorico che deve in questa bizzarria rintracciare la riprova della sua teoria, «tradurre» in linguaggio teorico gli elementi della vita storica, e non viceversa la realtà presentarsi secondo lo schema astratto. Questo non avverrà mai e quindi questa concezione non è che una espressione di passività» (Ivi, pp. 331-332).

5 Infra, p. 96.

6 A. Monchietto, Per una filosofia della potenzialità ontologica, Pistoia, Petite Plaisance, 2011, p. 45.

INDICE

Presentazione

di Vittorio Morfino

 

Introduzione

Tradizione e rivoluzione

 

Capitolo I

La crisi del codice deterministico

e la genesi psicologica dei fenomeni sociali

1. L’iniziale interesse sociologico

2. Le idee giuridiche nel marxismo

3. La scoperta delle istituzioni proletarie

 

Capitolo II

Fra ortodossia ed eresia marxista

1. Vico e la «dimensione condivisa dell’immaginazione»

2. Necessità e fatalismo nel marxismo

3. «Crisi del marxismo» e revisionismo soreliano

 

Capitolo III

Il lavoro del mito: per una nuova semantica collettiva

1. Progresso e deresponsabilizzazione

2. Il ruolo catartico dell’azione e la moralità della violenza

3. Immaginari sociali e immagini motrici

 

 

Conclusione

Bibliografia

Opere di Sorel

Raccolte di testi e Antologie

Carteggio

Opere su Sorel

Altre opere consultate

 

 

Indice dei nomi e delle opere
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Alessandro Monchietto

Per una filosofia della potenzialità ontologica

indicepresentazioneautoresintesi

1. Ghostbuster
2.  La veste scientifica della speranza
3. L’“infuturamento” della filosofia hegeliana
4. Una fenomenologia della schiavitù:
l’eterno ritorno dell’uguale
5. Una storia spogliata dalla propria forma storica
6. Metamorfosi della storia in destino
7. Marx pensatore della libera individualità?
8. L’«auto-soppressione» del capitalismo
9. Un Marx disinnescato
10. Il rabdomante
11. Ritirarsi nella sfera del lasciar stare
12. Avvenire rinviato per scarsa affluenza di pubblico
13. Una filosofia dell’impotenza
14. Combattere la morta positività del mondo
15. Le illusioni del progresso
16. Variare il coefficiente di inevitabilità:
una filosofia della potenzialità ontologica
17. Conclusione

http://www.petiteplaisance.it/libri/151-200/180/int180.html


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